GAETANO PORCASI:QUADRI SU PORTELLA
DI GIUSEPPE CASARRUBEA*
PORTELLA DELLA GINESTRA
II 1° maggio 1947 alcuni banditi, appostatisi sui roccioni del Pelavet (Portella della Ginestra), aprirono il fuoco su un’immensa folla di contadini, donne e bambini che si apprestavano a celebrare la festa dei lavoratori. 11 furono i morti e 27 i feriti.
L’opinione pubblica nazionale e internazionale rimase sgomenta e perplessa. Com’era stato possibile che un gruppo di pastori analfabeti avesse potuto concepire una strage senza precedenti? Il processo di Viterbo prima e quello svoltosi presso la seconda Corte di Appello di Roma dopo, confermarono le posizioni assunte subito da Mario Scelba, allora ministro degli Interni: operarono un ritaglio che inchiodava soltanto il “re di Montelepre” e la sua banda, ma non poterono fare a meno di rilevare la funzione assolta dalla mafia in tutta quella vicenda che si dimostrava, per Cosa Nostra e per certi personaggi politici, un vero e proprio affare.
L’autore, in questo libro, ci offre un’analisi scientifica e penetrante della perversa dialettica che venne a stabilirsi tra potere politico-mafioso e banditismo, apparati dello Stato e criminali incalliti, tutti interessati, in vario modo e con vari scopi, a bloccare l’avanzata delle forze progressiste in Italia, e quel processo di riforme che puntava alla rottura del sistema feudale e del blocco agrario che lo sorreggeva. Emergono dati inediti e di estrema gravita che potrebbero consentire la celebrazione di un processo contro i mandanti di quella strage, mai celebratosi.
Introduzione
La strage di Portella della Ginestra ha sempre suscitato, nell’opinione pubblica, un interesse notevole. Se ne capiscono le ragioni. Si trattò, infatti, di una vicenda che lasciò sgomenti e perplessi, ebbe un’eccezionale risonanza sulla stampa nazionale e internazionale, animò i dibattiti parlamentari e fu oggetto di vive attenzioni persino in seno all’Assemblea Costituente. Questa, nella seduta del 2 maggio 1947, discusse diverse interrogazioni e votò, persino, un ordine del giorno col quale si chiedeva alle autorità e al civismo dei cittadini, una energica azione per individuare i mandanti. Ma tutto congiurò proprio contro l’auspicio di quelli che erano i padri fondatori della Repubblica italiana. Il carattere torbido di quell’evento provocò anche una proposta di inchiesta parlamentare sul comportamento delle pubbliche autorità e, in particolar modo, delle forze dell’ordine in Sicilia, nel periodo compreso tra il 1943 e il 1951. L’iniziativa, firmata da Lelio Basso e numerosi altri deputati promotori (una cinquantina), si sorreggeva sui vuoti che persino coloro che avrebbero dovuto provvedere a fare chiarezza e giustizia sembrava contribuissero, al contrario, ad estendere ed approfondire, come se un patto scellerato si fosse stabilito dentro lo Stato, per rendere la verità meno evidente e più lontana. Essa si riconduceva a tre livelli di fruibilità: dei ‘fatti provati’; di quelli ‘affermati’; delle denunce della pubblica voce, non ancora ribadite dinanzi al magistrato. La proposta metteva in risalto circostanze abbastanza gravi: alti funzio-nari che lasciavano il Viminale per recarsi in Sicilia a incontrare Giuliano, ispettori e ufficiali delle forze dell’ordine che, anziché arrestare i banditi, li armavano e li facevano circolare liberamente, con appositi falsi documenti e con un corredo di servizi fotografici, giornalistici e, persino, produzioni cinematografiche che venivano realizzati, a maggior onore e gloria di criminali incalliti e di mafiosi che erano entrati in inconfessabili relazioni con precisi apparati dello Stato. Come se tra di loro si fosse stabilita una congiura, inespressa, ma visibile agli occhi di tutti. “Nella sostanza – scrivevano i parlamentari – si è avuta l’impressione che l’onorevole Scelba volesse coprire per fas et nefas i suoi funzionari”. E, a scanso di equivoci, rispetto al processo che si stava celebrando, aggiungevano: “…come la Magistratura non è tenuta a ritenere vero ai propri fini un fatto affermato tale dagli organi del potere esecutivo o dal Parlamento in una sua relazione, così il Parlamento non è tenuto a ritenere che la verità sia rinchiusa entro i limiti della ‘verità giudiziale'”.
Si erano capiti ormai gli orientamenti e i ritagli operati dai giudici di Viterbo ma, per tutti gli italiani di buon senso, valeva l’opinione espressa, in quel tempo, da Giuliano Vassalli, ordinario nell’Università di Genova. L’eminente cultore di diritto penale aveva scritto:
È ancora presto, troppo presto, perché seriamente si possa formulare un giudizio definitivo sui fatti che tra il 1945 e il 1950 si svolsero in alcune zone della Sicilia e la cui realtà appena comincia ad intravedersi attraverso il processo che da più di cento udienze si celebra nella Corte di Assise di Viterbo […]. Ciò che indigna l’opinione pubblica in questo affare è che lo Stato italiano stesso, nel suo potere esecutivo, nei suoi organi di polizia, ta-lora sinanco in altri organi ancor più responsabili della tutela della giustizia e della legge, sia sceso a patti e a sistemi tali da far sì che tutti gli italiani ne debbano portare avvilimento e rossore1.( Cfr. Camera dei deputati, Proposta di Inchiesta parlamentare d’iniziativa dei deputati Basso, ecc, in Atti parlamentari, Documenti, Disegni di Legge e Relazioni, proposta n. 2274, 30 ottobre 1951. La proposta e la relazione illustrativa furono acquisite agli Atti della Corte di Assise di Viterbo (da ora Cav), processo 13/50, e inserite nella cartella 5, voi. V, n. 10, ai ff. 1245-1249.)
Questo libro ha un’ambizione, semplice nella sua ispirazione di fondo: dare un fondamento scientifico a un’ipotesi – per altro sostenuta da alcune sedi autorevoli e, persino, dalla stessa opinione pubblica – in base alla quale la strage di Portella della Ginestra è stata opera non tanto, e non solo, di un gruppo di pastori analfabeti (versione ufficiale, ancora alla data odierna), quanto, in realtà, della mafia territorialmente competente, di gruppi politici ben precisi, e di apparati istituzionali interessati, a diversi livelli convergenti, a una particolare gestione dello Stato. Questo assunto, contraddetto dalle sedi giurisdizionali, sarà ampiamente sviluppato, a partire da un ritaglio che non è, naturalmente, né poteva essere, giudiziario, bensì storico, perché è compito della ricerca in questo campo, non solo formulare ipotesi, ma suffragarle sulla base dei documenti disponibili. Nel nostro caso, la loro imponenza obbliga a un parallelo e contrapposto ritaglio, perché, se dalla composizione di vari frammenti di verità, emerge un quadro coerente e leggibile dei fatti, allora si deve considerare – come è giusto che sia – Portella uno dei più gravi atti di terrorismo politico nella storia della nostra Repubblica, certamente il primo, tragicamente significativo, col quale lo Stato, nato dalla Resistenza e dalle ceneri del fascismo, ebbe a che fare. O, meglio, non lo Stato in quanto tale, ma certi uomini che volevano costruirlo, e specialmente coloro che, pur dalla opposizione al fascismo, trassero una lezione speciosa per la democrazia nel nostro Paese, un insegnamento che sembrò ricondursi non tanto all’unità delle forze che quel fenomeno avevano osteggiato, quanto alle preoccupate pressioni di coloro che ritenevano che un nuovo pericolo minava le basi della rinata società, e che ad esso occorreva fare fronte per vie eccezionali. Quelle, appunto, che l’età dello scelbismo seppe mettere in opera. Portella ne segnò l’avvio, fu il segnale della provocazione. Con tutto ciò che rappresenta come fenomeno macroscopico di una più generale strategia corredata da una molteplicità di microesempi, che connotano una precisa direzionalità di quella scelta, contrassegnando di emblematicità un caso certo non isolato. Per l’analisi, si è dovuta operare una selezione nella mole dei processi (in tutto 465) cui fu sottoposto Giuliano in relazione alle attività della sua banda: tutti utili a ricostruire la complessa personalità criminale del bandito, ma certamente non tutti significativi per la comprensione della sua più tragica manifestazione, quella del connubio col mondo politico e mafioso.
Valutazione, questa, che, allora, la magistratura si guardò bene dal concepire, avendo preferito ridurre il banditismo a fenomeno astratto dalle più generali strutture della criminalità nella Sicilia della seconda metà degli anni ’40.
Portella è l’atto di nascita della mafia nella nuova Repubblica. È anche luogo-simbolo della volontà di riscatto del mondo contadino, e, al contempo, di una ragion di Stato cinica e perversa, frutto di una volontà criminale capace di intrecciare assieme interessi di alcuni ceti privilegiati, settori del mondo istituzionale, politica regionale e nazionale. Rappresenta anche una serie di complicità senza precedenti, che hanno consentito non solo che un crimine tanto efferato potesse realizzarsi, ma anche che esso fosse protetto, nel tempo, a diversi livelli: da quello parlamentare, a quello dei palazzi di giustizia, dai testimoni che sapevano e hanno preferito tacere, alla distorsione della verità, negli atti e nei comportamenti di quanti, forze dell’ordine ed esponenti delle istituzioni o comuni cittadini, hanno preferito salvare se stessi, tacendo o mentendo.
A distanza di cinquant’anni, perciò, è doveroso sgombrare, attorno alla strage, quell’alone di mistero che molti hanno voluto costruire, perché la ricerca della verità risultasse ancora difficile, anche se i fatti e i dati della storia, il contesto nel quale Portella si verifica come evento, rappresentano un ritaglio specifico, una sorta di continuità territoriale, di violenza strutturata e connaturata geograficamente e politicamente.
Appunto per questo, chi prende in mano le carte processuali della Corte di Assise di Viterbo si stupisce, intanto, di come nel processo siano confluiti documenti riguardanti diversi personaggi implicati in altre vicende, atti che non hanno fatto altro che ostacolare ancora di più la ricerca della verità, fino a rendere il percorso giudiziario assai lontano dai necessari accertamenti sulle cause e sugli scopi di quegli efferati delitti. Il problema riguarda sia gli anni che precedono il ’47 (esiste una lunga sequenza di crimini che vengono presi in esame dalla sezione istruttoria della Corte di Assise di Palermo)2,( Cfr. Città Giudiziaria di Roma, Archivio Generale della Corte di Appello (da ora Agca). Processo 13/50 della Cav, cartella 7, voli. VIII-IX.)
sia quelli successivi, quando alle carte processuali si aggiungono quelle riguardanti crimini commessi autonomamente, e in epoche diverse, da Antonino Terranova, Frank Mannino, Francesco Gaglio ed altri. In tal modo, si sono determinati appesantimenti e lungaggini e lo stesso smarrimento dello scopo finale delle indagini: individuare e punire mandanti ed esecutori. Stupisce, soprattutto, il fatto che, pur in presenza di insistenti prove che denunciavano politici e mafiosi, quali corresponsabili di quell’evento, nessun tribunale abbia mai preso in considerazione l’opportunità di avviare un processo sui mandanti. Gli atti si sono fermati a una fase istruttoria, frettolosamente chiusa dopo la sentenza di Viterbo.
Portella è, perciò, anche la storia di un processo che non si è mai fatto. Congiurarono contro i singoli atti istituzionali, e ciò, nonostante la tesi dell’esistenza di mandanti fosse stata decisamente avanzata dalle stesse forze dell’ordine che avevano avviato le prime indagini, ad un certo punto bloccate da ragioni di competenza. Alla prima pista, seguì subito, nel volgere di qualche mese, quella più decisiva; si scaricò il peso penale, morale e politico di quelle vicende,
su un gruppo di persone che non avevano, per la loro condizione di classe e per la loro formazione culturale, alcun interesse contrario a quello dei lavoratori e delle loro organizzazioni politiche e sindacali. Molte non c’entravano con la strage, altre erano state sì manovalanza armata, ma non mandanti.
Dirà Salvatore Pisciotta, il padre di Gaspare, luogotenente di Giuliano:
All’eccidio di Portella Ginestra io non partecipai affatto e, a dire il vero, anche quando fossi stato invitato a concorrervi, avrei preferito opporre reciso rifiuto anche al Giuliano Salvatore, rischiando, naturalmente, tutte le conseguenze: perché non mi sarei mai macchiato le mani del sangue dei lavoratori, soprattutto perché sono sempre stato e sono tuttora di sentimenti comunisti. A comprova di quanto affermo, preciso che sono iscritto al partito comunista dal 1944, epoca in cui era segretario della sezione di Montelepre certo Pietro Speciale da Partinico e fino allo scorso anno ho pagato regolarmente i prescritti contributi ricevendo annualmente le relative tessere3. (Cfr. ivi, Ispettorato generale di PS per la Sicilia, Nucleo mobile Carabinieri, Palermo (da ora Igps-Nmc), Rapporto giudiziario circa le ulteriori indagini in merito alla strage di contrada Portella Ginestra ed alle aggressioni, seguite pure da strage, alle sedi dei partiti socialcomunisti in provincia di Palermo. Denunzia del bandito Giuliano Salvatore ed altri 44 suoi affiliati di cui 16 arrestati, 14 latitanti, 11 irreperibili e 3 uccisi, tutti responsabili, in concorso tra loro, di tali delitti, nonché di partecipazione a banda armata e detenzione abusiva di armi e munizioni da guerra, rapporto n. 37 del 4 settembre 1947, con 29 allegati, cartella 3, voi. L. Il rapporto risulta dagli interrogatori dei seguenti banditi o vicini alla banda, fermati nelle settimane o nei mesi immediatamente successivi alla strage del 22 giugno ’47: Francesco Gaglio, Giuseppe Sapienza, Antonino Gaglio, Francesco Tinervia, Vincenzo Sapienza, Domenico Pretti, Giuseppe Tinervia, Giovanni Russo, Antonino Terranova, inteso ‘U figghi du miricanu’, Antonino e Vincenzo Buffa, Gioacchino Musso, Giuseppe Cristiano, Vincenzo Pisciotta di Francesco, Giuseppe Di Lorenzo, Salvatore Pisciotta fu Gaspare.)
Pietro Speciale veniva dalla lotta partigiana, come Pasquale Sciortino; e un’esperienza di prigionia in Germania era stata vissuta anche da Gaspare Pisciotta. Ma l’assunzione di un progetto di liberazione da antiche e nuove servitù, non si traduceva, relativamente a determinati elementi, in una visione chiara ed omogenea della politica generale. Anzi, a contatto con le tendenze separatiste, assumeva caratteri eversivi, nello stesso tempo in cui venivano respinti i partiti nazionali, e l’esperienza della guerra diveniva potenziale esplosivo contro lo Stato. Non era il caso di Speciale che aveva aderito al partito di Li Causi; ma di altri, le cui scelte erano state dipendenti dallo sbandamento politico generale, dalla lontananza dello Stato, dal suo
essere presente solo col servizio di leva e con i carabinieri, dalla propaganda separatista, dagli interessi dei latifondisti alla ricerca delle vie per affrancarsi dalla situazione nazionale. Comunque, l’affermazione di Salvatore Pisciotta non è fortuita, segna uno snodo centrale che va preso in considerazione ai fini della comprensione delle molteplici e drastiche divaricazioni che si misero in atto nei gruppi più in vista dell’entroterra palermitano. È certo, tuttavia, che il separatismo, dopo Canepa, cooptò interamente il banditismo, trasformandolo in una punta avanzata del proprio esercito.
Ma questioni simili, come quelle riguardanti le forme di continuità tra terrorismo indipendentista e banditismo, o tra famiglie ma-fiose e il resto della criminalità organizzata, in sede giudiziaria, vengono appena sfiorate. Soprattutto nella fase istruttoria, che è quella che determina l’evoluzione processuale, secondo certe caratteristiche già date, non sarebbero mancati gli elementi per orientare le indagini stesse in una certa direzione, sulla base di rapporti di polizia e carabinieri, operanti a livello periferico, territoriale, e del fatto che su Portella si registrava il primo grande atto collettivo di rottura della tradizionale omertà, con decine di testimoni che si presentavano per deporre davanti all’ufficio istruzione di Palermo4. ( Cfr. ivi, cartella 1, voi. D.)
Ma su questo terreno i giudici negarono persino l’evidenza dei fatti, e si trincerarono dietro il paravento di una omertà diffusa che, al contrario, era prerogativa di alcuni mafiosi, ad esempio, i fratelli Calcedonio e Ignazio Miceli e il nipote di quest’ultimo, Nino, o Domenico Albano, rispettivamente capi delle famiglie mafiose di Monreale e Borgetto. Essi, nelle loro deposizioni, parlarono fino ad un certo punto, oltre il quale non dissero più una sola parola. Di contro mai, come a Viterbo, ‘grandi’ e ‘picciotti’ di una banda agguerrita raccontarono quanto era nella loro tragica esperienza. E ancora di più e meglio precisarono contesti e personaggi, i rappresentanti del mondo contadino, che dei fatti di Portella erano stati diretti testimoni oculari. La barbarie produsse l’effetto di rompere la tradizionale omertà dei siciliani, di spingerli, e non era la prima volta, contro i mafiosi. Questi ultimi -scrivono i giudici – “…nascosero alla Corte molte delle circostanze di cui erano a conoscenza, e, se altrimenti si fossero comportati, sarebbero venuti meno alla omertà, che per essi è principio vincolante più di una norma giuridica vera e propria”5.( Cfr. Agca, Sentenza della Cav, 3 febbraio 1952, cartella n. 9, f. 90. Da ora ci si riferirà anche agli Atti interni del Senato della Repubblica, V legislatura, Documenti. Disegni di legge e relazioni, voi. LVIII, n. XXIII-2 sexies, Roma, tipografia del Senato, 1972, allegato 4.)
Pertanto, piuttosto che essere accusati di reticenza, non vennero presi in considerazione.
Analogamente, la delimitazione di tutto l’iter processuale riguardò la negazione del carattere politico delle stragi, e dei mandanti, il dato di una supposta inesistenza di documenti probanti circa la connessione tra politici e criminali. Così i giudici di Viterbo agirono in perfetta sintonia con i loro colleghi palermitani.
Chiarisce Di Lello che “ciò che rende tragicamente particolari i palazzi di giustizia” di queste, come di molte altre città, è “la natura della borghesia tutelata”, una sorta di complicità di classe sorreggente l’intero assetto del potere nazionale6. E, di fatto, è lungo il percorso di costruzione del nuovo Stato che vengono ad inserirsi, nella specificità della condizione siciliana, la vicenda di Giuliano e le stragi di Portella, e del 22 giugno 1947.
Non è fuori luogo, in ultimo, considerare due caratteristiche strutturali e ineliminabili della mafia, e cioè la sua territorialità e la sua unicità. È vero che – come vuole il grande pentito Antonino Calderone7 – la commissione regionale di Cosa Nostra fu creata nel 1975, ma è altrettanto vero che le famiglie mafiose locali, sul finire degli anni quaranta, erano perfettamente insediate sul territorio, e capaci di notevoli collegamenti economici e politici, oltre che squisitamente criminali, come dimostrava il modello corleonese allora facente capo a Michele Navarra8. Cioè a dire, la rinascita di Cosa Nostra, con l’occupazione alleata, non solo vedeva ristrutturarsi e consolidarsi le famiglie locali, ma le stesse, adesso, potevano avvalersi della notevole esperienza criminale acquisita negli Stati Uniti, grazie alle costanti ondate immigratone di ritorno di quanti, piccoli o grandi delinquenti che fossero, avevano dovuto lasciare l’isola, col prefetto Mori.
(G.C.)
6. Cfr. Giuseppe Di Lello, Giudici, Palermo, Sellerio, 1994, pp. 31 e sgg.
7. Cfr. Pino Arlacchi, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Milano, Mondadori, 1992, p. 124.
8. Cfr. Carlo Alberto Dalla Chiesa, Michele Navarra e la mafia del corleonese, Palermo, La Zisa, 1990. Mi permetto, per tali riferimenti, rinviare anche a Giuseppe Casarrubea, Placido Rizzotto e la mafia corleonese, in «Segno», n. 151, gennaio 1994; e idem, Alle origini della mafia di Stato, ivi, nn. 153-154, marzo-aprile 1994.
*Giuseppe Casarrubea (Partinico, 1946) storico ricercatore, vive e opera a Partinico(Pa) già preside della Scuola Media Statale “G.B. Grassi Privitera” a Partinico (Palermo). A parte i suoi studi di sociologia dell’educazione (tra di essi L’Educazione mafiosa, Palermo, Sellerie 1991; Nella testa del serpente, Molfetta, La Meridiana, 1993), ha pubblicato: / fasci contadini e le origini delle sezioni socialiste della provincia di Palermo, Palermo, Flaccovio, 1978, 2 voli.; Società e follia in Sicilia, Udine, Casamassima, 1988; Intellettuali e potere in Sicilia, Palermo, Sellerie 1983 e, con la stessa Casa Editrice, Gabbie strette. L’educazione in terre di mafia (1996). Collabora con la rivista “Segno”.
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