Diocesi di Padova:festival biblico.

festivalbiblico2014_padova_programma

Sorprendersi dell’Uomo.Domande radicali ed ermeneutica cristiana della letteratura.

naro_copertina [al vivo] (1)

Don Massimo Naro,giovane teologo della chiesa nissena,direttore del Centro Studi “A.Cammarata” di San Cataldo e docente presso la Facoltà Teologica di Sicilia di Palermo,si propone con un nuovo ed interessante lavoro dal titolo:”Sorprendersi dell’Uomo. Domande radicali ed ermeneutica cristiana della letteratura”,edito dalla Cittadella editrice. I saggi raccolti in questo nuovo volume si propongono di attenzionare,in chiave teologica e ateologica,le domande radicali della letteratura contemporanea in relazione al senso dell’esistenza umana. Il libro raduna saggi dedicati a poeti e narratori che hanno cercato delle risposte alle cosi dette domande radicali. Nella presentazione al testo il Prof.Giulio Ferroni, docente alla Sapienza di Roma,dice che la “radicalità di queste domande è data proprio dal loro essere semplici,dal loro chiamare in causa l’esperienza di tutti quelli che vivono”.Interrogativi semplici, ma al contempo ultimativi, che vertono su questioni forti quali il perché “del vivere e del morire,sulla sete umana di verità e di giustizia,sulla meschine debolezze del potere,sul confronto tra Dio e il dolore innocente,sulla destinazione ultima e vera dell’uomo”.La tesi di fondo sostenuta dall’Autore è la seguente:”la letteratura,sia quella che parteggia per Dio sia quella che grida contro Dio,la letteratura esplicitamente religiosa ma anche quella ateologica,mostra di non poter rimanere senza Dio. Diventa, insomma, un discorso in cui Dio non è nominato esplicitamente e però rimane altrimenti invocato. Così la letteratura e le sue parole rinviano ad un orizzonte-altro, a cui l’uomo non può smettere di anelare”.Per dimostrare ciò,Naro interpella autori noti e meno noti della letteratura dell’otto-novecento che possono essere iscritti,a vario titolo,in ciò che l’autore definisce letteratura “meridiana”:ossia ciò che altrove è stato fatto da filosofi,soprattutto in Sicilia,è stato fatto da letterati.La lettura che Divo Barsotti fa di Leopardi  e quest’ultimo come testimone  della crisi spirituale moderna. La natura poetica della verità,ossia le questioni radicali nella scrittura letteraria dell’inglese John Henry Newman, probabilmente la vetta assoluta del pensiero cattolico post rivoluzione francese. Nato anglicano e convertitosi al cattolicesimo sino a diventare cardinale,Newman è un singolare miscuglio di teologia e letteratura. Per l’autore inglese,Don Massimo parla di autentica “poesia del pensiero” capace di esprimere nelle sue opere “un orizzonte misterioso sorprendentemente presagito oltre che acutamente interpretato,suggestivamente immaginato,ma anche lucidamente interpretato”.A fare da apri pista per gli autori siciliani è Pirandello con le sue  lanterninosofie,facendo reagire le dichiarazioni di fede dello scrittore isolano (“sento e penso Dio in tutto ciò che penso e sento”)con il suo pensiero scettico o di conclamato agnosticismo,lambendo in certi casi l’azzeramento di ogni fede. Prosegue con la  scrittrice, mistica palermitana, Angelina Lanza Damiani,prendendo in considerazione “la terza interpretazione della vita”.Le tematiche della tanatofilia e della tanatofobia,per dirla con Bufalino, attraversano il pensiero poetico siciliano e l’opera dello scrittore ateologo  Sebastiano Addamo e la verità insultante di Pippo Fava,ucciso da Cosa Nostra. L’Italia umile di Carlo Levi  e la poetica profetica di Mario Pomilio. Le domande radicali non si limitano alla sfera esistenziale e religiosa ma sfidano la stessa modernità facendo i conti con il “disinganno cosmico e religioso”,scrive Naro,che l’epoca moderna impone con prepotenza. Due interessanti capitoli conclusivi sono dedicati alla Bibbia come codice della cultura occidentale  e alla Bibbia musiva presente nei mosaici del duomo di Monreale riletta dal poeta Davide Maria Turoldo e dal teologo Romano Guardini.Scrive Naro “Per Turoldo il duomo di Monreale è un «Eden dell’Arte» e i suoi mosaici sono un «mirabile tesoro» che il popolo di Sicilia ha la responsabilità di «custodire» in forza di una vocazione consegnatagli attraverso una storia ormai plurisecolare e nonostante le ombre negative che smorzano lo splendore di questa stessa lunga e grandiosa storia. Si tratta certamente di una vocazione culturale. Ma non solo: il popolo di cui parla il poeta ha, in questi versi, un profilo ecclesiale e perciò la sua vocazione ha anche una ineliminabile qualità cristiana, dipendente proprio dal suo rapporto con il duomo e, nel duomo, con la Parola di Dio che riecheggia figurativamente nei mosaici. La «grazia» e la «virtù» di questo popolo, la sua nobiltà regale più forte di ogni pur suo infamante «crimine», consistono nel suo stare dentro la reggia – che è appunto la basilica costruita nel XII secolo da re Guglielmo II – e nel leggere, dentro la reggia, dentro la basilica, «le storie di Dio» che vi sono raffigurate su uno sfondo immenso di «pietruzze d’oro».

Guardini,scrive Naro, giunse a Monreale nel pomeriggio del giovedì santo del 1929, mentre vi si stava svolgendo la celebrazione liturgica in coena Domini, e vi ritornò il sabato santo, per la messa pasquale. E perciò ebbe la provvidenziale opportunità di vederne lo splendore artistico non nella sua immobilità e intangibilità museale – come di solito accade al turista che vi si reca semplicemente come tale – bensì rivitalizzato dall’azione liturgica alla quale, sin dalla sua costruzione, era stato destinato. Guardini, dunque, non si limitò a visitare il duomo di Monreale. Più radicalmente: lo visse, ne fece esperienza. Percependolo non come cornice materiale ma come parte integrante di un mistero vivente, in cui – per il suo carattere metastorico – ugualmente sono coinvolti gli uomini di oggi insieme a quelli che li hanno preceduti ieri e che hanno loro tramandato il testimone della fede. I profeti biblici e i santi raffigurati negli immensi mosaici monrealesi sembrarono animarsi agli occhi di Guardini, risvegliati dal fruscio dei paramenti sacri e dai canti dell’assemblea, coinvolti nei ritmi della celebrazione, aggregati alla preghiera del vescovo e dei suoi assistenti. Ma, soprattutto, interpellati dallo sguardo dei fedeli, sguardo di contemplazione attraverso cui il mistero si lasciava raggiungere e si rendeva di nuovo presente. Ciò che colpì maggiormente Guardini, secondo la sua stessa testimonianza, fu appunto lo sguardo orante della gente riunita dentro il duomo. «Tutti vivevano nello sguardo» (Alle lebten im Blick), tutti erano protesi a contemplare, scrive affascinato Guardini, intuendo il valore metafisico di quel contemplare: quegli uomini e quelle donne, vivono – più assolutamente: sono – in quanto guardano, vivono e sono perché spalancano i loro occhi sul mistero.

Infine,l’immagine messa in copertina è tratta da una rivista tedesca, negli anni trenta, i terribili anni del nazismo, diretta da Romano Guardini (la rivista si intitolava “Die Schildgenossen”, che significa “gli scudieri”, i portatori di scudo…). L’immagine fu disegnata da Desiderius Lenz, e vuole indicare il modello dell’uomo nuovo, secondo una visione cristianamente ispirata, che la rivista si proponeva di propugnare tra i suoi lettori, docenti e studenti universitari anti-nazisti. Difatti il titolo dell’immagine è “Kanon des menschlichen Kopfes” (Canone del Capo umano, o del Volto umano).

M.Naro,Sorprendersi dell’Uomo. Domande radicali ed ermeneutica cristiana della letteratura,Cittadella Editrice,pp.392,euro 22,80.

Per Crucem ad Lucem:buona Settimana Santa.

La Croce

Invito alla lettura della Bibbia.


L’Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI (30 settembre 2010) invita autorevolmente a riflettere sulla Parola di Dio nella Chiesa, a riscoprire la grandezza, la straordinarietà del fatto che Dio si rivela agli uomini: «Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi. Il Verbo, che dal principio è presso Dio ed è Dio, ci rivela Dio stesso nel dialogo di amore tra le Persone divine e ci invita a partecipare ad esso». La conversazione dell’uomo con Dio si realizza anche attraverso le pagine della Sacra Scrittura.
«Umberto De Martino», scrive Michele Dolz nella Prefazione, «offre pagine semplici, per facilitare una lettura intelligibile della Scrittura. Scopo principale del libro, infatti, è invitare alla lettura della sacra pagina, fornendo elementi storici e dottrinali per un’efficace comprensione del testo. Qui non si tratta dell’analisi dei singoli testi biblici quanto del metodo per affrontare positivamente la Bibbia: l’inquadramento storico dei libri, le necessarie precisazioni filologiche e, soprattutto, il rapporto tra i due Testamenti, perché l’Antico Testamento aiuta a comprendere meglio il Nuovo che, a sua volta, illumina l’Antico».
Il volume si compone di tre parti. Nella prima vengono svolte alcune agili considerazioni metodologiche; la seconda parte contiene rapide introduzioni ai libri dell’Antico Testamento; nella terza parte vengono commentati alcuni passi scritturistici, come suggestiva esemplificazione del metodo interpretativo.

La Prefazione di Michele Dolz
Tutti oggi leggono – o possono leggere – la Bibbia. La rivoluzione di Lutero, che la voleva in mano a tutti i fedeli, è diventata realtà ordinaria anche tra i cattolici, specialmente dopo gli incoraggiamenti del Concilio Vaticano II. È cambiata radicalmente l’accessibilità al testo sacro: basti pensare che, solo poche generazioni fa, liturgicamente la Parola di Dio veniva proclamata in latino e senza amplificazione, e al popolo si fornivano prediche o riassunti narrativi della storia sacra. La Bibbia – o almeno il Nuovo Testamento – è oggi il libro più venduto e più economico. Ci sono libretti usa e getta, c’è la sconfinata risorsa della rete, abbondano film e strumenti didattici di ogni specie.
Ma questa nuova accessibilità pone subito il problema interpretativo. Lutero lo risolse non risolvendolo: ciascuno si dia la propria interpretazione. Ma la Bibbia è facile e difficile allo stesso tempo. Facile perché Dio è semplice e non si nasconde al cuore umano. Difficile perché i numerosi libri che la compongono sono stati scritti in epoche diverse, da autori diversi, in contesti culturali e linguistici anche molto lontani da noi. Serve pertanto un corredo scientifico che aiuti a inquadrare bene i fatti e gli insegnamenti per meglio comprenderne il significato.
È accaduto, però, che – dietro la spinti dei biblisti protestanti – gli studiosi si siano concentrati sugli aspetti filologici, analizzando con precisione le parole originali, gli stili letterari, la struttura dei libri… con la conseguenza che al normale fedele che legge o ascolta tali maestri, la nuova accessibilità della Bibbia diventa paradossalmente impenetrabilità, dal momento che non può disporre di così raffinati strumenti. «Possibile che la rivelazione di Dio sia raggiungibile soltanto dagli esperti?», si può domandare il lettore. E se per caso gli venisse in mente di leggere i commenti scritturistici dei Padri, si renderebbe conto che essi cercavano di distillare la teologia dei testi, il contenuto salvifico della rivelazione, con i chiarimenti di contorno che erano a loro disposizione.
L’Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI (30 settembre 2010) invita autorevolmente a riflettere sulla Parola di Dio nel suo uso nella Chiesa, per riscoprire la grandezza, la straordinarietà del fatto principale: Dio che si rivela agli uomini. «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi. Il Verbo, che dal principio è presso Dio ed è Dio, ci rivela Dio stesso nel dialogo di amore tra le Persone divine e ci invita a partecipare ad esso». La conversazione dell’uomo con Dio si realizza anche attraverso le pagine della Sacra Scrittura.
Umberto De Martino offre pagine semplici, per facilitare una lettura intelligibile della Scrittura. Scopo principale del libro, infatti, è invitare alla lettura della sacra pagina, fornendo elementi storici e dottrinali per un’efficace comprensione del testo. Qui non si tratta dell’analisi dei singoli testi biblici quanto del metodo per affrontare positivamente la Bibbia: l’inquadramento storico dei libri, le necessarie precisazioni filologiche e, soprattutto, il rapporto tra i due Testamenti, perché l’Antico Testamento aiuta a comprendere meglio il Nuovo che, a sua volta, illumina l’Antico.
Michele Dolz
Capitolo I
«Lettura biblica & vita cristiana»
di Umberto De Martino
La vita umana si specifica in tante modalità intellettuali e operative; i giorni trascorrono tra il lavoro, la famiglia, lo sport, la distensione, le relazioni sociali, l’interesse politico: ognuno ha le sue attività e i suoi impegni. Tutte le operazioni hanno un valore intrinseco, possono essere opportune o inopportune, buone o meno buone; ogni azione ha una sua finalità materiale o spirituale e molte operazioni possono essere elevate a un piano superiore mediante l’applicazione personale e la grazia divina. La vita cristiana è arricchita dall’incontro personale con Dio, che talvolta è spontaneo e immediato, ma spesso richiede lo sforzo di elevazione dell’anima: una possibilità basilare di tale incontro è offerta dalla lettura biblica. Alcuni conoscono la sacra Bibbia, altri ne hanno solo sentito parlare: a tutti viene suggerito di acquistare dimestichezza con il libro sacro, elemento essenziale per la conoscenza della verità rivelata, della natura di Dio e dei princìpi morali.
La sacra Bibbia ha molte caratteristiche peculiari; in particolare, può essere considerata come la lettera di un padre ai suoi figli. I Padri della Chiesa e il Magistero ecclesiastico frequentemente considerano la sacra Bibbia come una lettera scritta da Dio Padre ai suoi figli, che vivono sulla terra e camminano verso il Cielo. «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi» (Benedetto XVI, Es. ap. Verbum Domini. 30.9.2010, n. 6).
La lettera è lunga e articolata, densa e profonda, scritta nell’arco di molti secoli, dichiarativa delle grandezze di Dio e orientativa dell’agire morale. La missiva è per tutti, ma non è una lettera circolare: si tratta di una lettera personale, che bisogna leggere per proprio conto. La lettura richiede le opportune precauzioni, affinché il contenuto risulti intellegibile e utilizzabile. La missiva è insolita, perché scritta nel corso dei secoli, con le prime pagine che vedono la luce nella profondità di circa 1.500 anni prima di Cristo e le ultime completate nel primo secolo dopo Cristo.
Inoltre, la lettera risulta pensata e trasmessa in lingue lontane dalla conoscenza comune della mentalità moderna e del tempo attuale: la stesura originale è in ebraico, aramaico e greco antico. Sono considerazioni elementari, che invitano a una lettura prudente, cauta, umile. La distanza culturale, però, non si oppone alla lettura personale, anche nel caso di coloro che non hanno una dotazione scientifica appropriata per cogliere tutta la ricchezza e tutte le sfumature del libro sacro. Chi non conosce le lingue originali o non è addentro alla storia e all’antropologia dei semiti percepirà qualcosa in meno, ma riuscirà a valorizzare il messaggio personale che la rivelazione trasmette a ciascuno.
Lo strumento essenziale per entrare in contatto con le verità divine della sacra Scrittura è la fede, che è la dotazione più comune dei cristiani. Anche quelli che, pur battezzati, dicono di non avere fede, sono pienamente idonei alla lettura efficace della Bibbia se accettano la condizione più semplice di chi ha bisogno di una lettura guidata.
La vita cristiana invita tutti all’incontro personale con Dio, e questo si realizza mediante la preghiera, i sacramenti e la partecipazione diretta alla rivelazione divina contenuta nella sacra Bibbia. La figura veterotestamentaria di Dio creatore talvolta risulta un po’ lontana per l’uomo moderno, ma la figura di Gesù Cristo è vicinissima all’uomo del nostro tempo. Anzi, «in Cristo la religione non è più un “cercare Dio come a tentoni” (cfr At 17, 27), ma risposta di fede a Dio che si rivela: risposta nella quale l’uomo parla a Dio come al suo Creatore e Padre; risposta resa possibile da quell’Uomo unico che è al tempo stesso il Verbo consustanziale al Padre, nel quale Dio parla a ogni uomo e ogni uomo è reso capace di rispondere a Dio» (Giovanni Paolo II, Let. ap. Tertio millennio adveniente, 10.XI.1994, n. 6).
La religione è la virtù che consente all’uomo di dare a Dio qualcosa, con la gratitudine di chi ha ricevuto e riceve tutto dal Creatore. La religione è l’insieme delle operazioni che costituiscono la risposta umana alla rivelazione divina. L’uomo ha la possibilità di incontrare il Signore personalmente e questo si verifica nel dialogo con Gesù; la vita cristiana non è esclusivamente un insieme di regole di comportamento, ma è un progressivo incontro con Dio. La conversazione di Dio con ogni donna e con ogni uomo ha la sua premessa nella divina rivelazione, la risposta dell’uomo si snoda a partire da ciò che Dio ha manifestato di sé stesso. La Bibbia porge la manifestazione di Dio e l’uomo, quando desidera conversare con Dio, non può fare a meno di conoscere quanto Dio ha voluto trasmettere nella sua lettera.
La stesura della Bibbia si realizza poco a poco: Dio si manifesta e scrittori determinati (agiografi) mettono per iscritto quanto Dio trasmette. Dio ha parlato nel corso della storia ebraica e uomini concreti hanno ricevuto il messaggio divino; alcuni hanno scritto quello che veniva manifestato a loro o ad altri. Così, è stata registrata la cronaca degli avvenimenti dell’Esodo e sono stati riportati gli eventi principali della vita di Abramo, Isacco e Giacobbe. Il profeta Isaia ha vissuto la sua esperienza personale dell’incontro con Dio e ha lasciato una relazione ampia di tutta la sua attività profetica. E tanti altri agiografi hanno fissato nei loro libri la parola di Dio dalle origini fino alla venuta di Cristo.
La Scrittura offre questo dato: Dio ha parlato nei tempi antichi mediante i profeti e, nei tempi della Redenzione, il messaggio divino è stato completato e concluso da Gesù Cristo. Il libro unico della Bibbia è l’insieme di tanti libri, che contengono sempre la parola di Dio e, nella rispettiva specificità, manifestano l’impronta dell’agiografo, del tempo e del luogo di composizione.
Il Magistero docente, nei secoli della vita della Chiesa, ha sempre raccomandato un ampio utilizzo della sacra Bibbia e, in modo specifico, l’ultimo Concilio si è espresso così: «Il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3, 8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo” (san Girolamo). Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l’approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo; poiché, “quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini” (sant’Ambrogio)» (Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Dei verbum, 18.XI.1965, n. 25).
Umberto De Martino

I Satanisti. Storia, Riti e Miti del Satanismo.


Recensione di Luigi Berzano (Religioni e Società. Rivista di scienze sociali della religione, anno XXV, n. 67, maggio-agosto 2010, pp. 109-110)

Di satanismo e di satanisti tutti ne parlano, anche in quest’epoca post-secolare. I giornali, i tribunali, gli uomini di chiesa … tutti sanno, dichiarano, spiegano, ripudiano. Ma la tendenza colta è oggi totalmente antisatanista, negazionista, esorcista. Tutti ne parlano, ma per negarne la presenza. In più, non si trova nessuna simpatia per la letteratura quale quella di Bernanos, che tratta della presenza e delle azioni dei demoni invisibili e delle loro possessioni. E così pure per gli inferni pittorici di Bosch e i suoi affreschi saturi di demoni in libertà. Ancor meno attuali sono i capitoli della Vida di Teresa di Gesù e le sue minuziose descrizioni dei luoghi infernali. Insomma, è lontana la stessa filosofia di Aristotele che considerava demoniaca la Natura. La demonologia contemporanea è oggi la scienza che tratta della non esistenza del diavolo e, spesso, che non prende sul serio lo stesso oggetto delle sue ricerche.
Davvero, non si può dire che Massimo Introvigne non “prenda sul serio” il fenomeno del satanismo e che tratti del diavolo senza erudizione demonologica. Questa espressione “prendere sul serio” fa ricordare una delle ultime uscite in pubblico del filosofo Ernst Bloch. In una delle periodiche riunioni delle facoltà teologiche di Tubinga il relatore era stato Herbert Haag che presentava la sua opera di demonologia Abschied vom Teuftel (1969) (La credenza nel diavolo, Mondadori, 1976). Di fronte alle attenuazioni, demitizzazioni e secolarizzazioni che riducevano quasi a nulla la portata biblica e dogmatica sul diavolo, Bloch si sentì tradito nell’animazione profonda del suo filosofare, tanto che, spazientito, si alzò e uscì apostrofando l’oratore con queste parole: “Qui il demonio non è preso sul serio”.
Introvigne, direttore del CESNUR e tra gli studiosi più noti a livello internazionale sul tema del satanismo e, più in generale, dei nuovi movimenti religiosi, ritorna ora su un tema che aveva già affrontato in passato con altri due enciclopedici volumi: nel 1990 Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo (Milano, SugarCo, 1990) e nel 1994 Indagine sul satanismo. Satanisti e anti-satanisti dal Settecento ai giorni nostri (Milano, Mondadori, 1994).
Il nuovo volume si presenta molto documentato, con oltre un migliaio di note di approfondimento, una nota bibliografica finale e indici di nomi che danno conto di tutta la letteratura esistente. Il tutto si riferisce al fenomeno del satanismo che l’Autore individua con una definizione storico-sociologica particolarmente esclusiva. “Il satanismo può essere definito come l’adorazione o la venerazione, da parte di gruppi organizzati in forma di movimento, tramite pratiche ripetute di tipo cultuale o liturgico, del personaggio chiamato Satana o Diavolo nella Bibbia, sia questo inteso come una persona o un mero simbolo” (p. 13). Così definito il satanismo nasce solo con l’età moderna. Il volume di Introvigne ne ricostruisce la storia, i miti e i riti attraverso tre periodi storici successivi.
Il Seicento e il Settecento rappresentano le origini del satanismo moderno, allorché compaiono i primi rituali satanici collettivi. Il primo vero episodio di satanismo – alla corte di Luigi XIV – è parallelo alle prime autentiche inquietudini della modernità. Il satanismo classico si estende dal 1821 al 1952, da quando cioè il fenomeno si concretizza quale vero e proprio movimento sociale, seppur esiguo, fino alla scomparsa della figura carismatica e scandalosa di Jack Parsons (1883-1952) e alla fine del suo “culto dell’Anticristo” in California. Il terzo periodo è quello del satanismo contemporaneo, dopo il 1952. In questa fase il fenomeno si intreccia con una branca ‘nera’ della controcultura e produce forme quali quelle del satanismo di LaVey ufficialmente disapprovate, ma in realtà tollerate dalla cultura dominante.
È nella terza fase del satanismo contemporaneo che l’autore presenta una tipologia di sei satanismi stravaganti, ma di attualità: scismatico, comunista, incendiario, goliardo, ‘alla bolognese’, assassino. Dietro a ognuno di questi satanismi si ritrovano vicende ben note, quali i Satanic Reds, le ondate del black metal, le città di Satana, i Bambini di Satana, le Bestie di Satana.
Nella ricostruzione di queste tre fasi, Introvigne dimostra una conoscenza sorprendente dei dati oggettivi del fenomeno, delle sue fonti e dei modelli interpretativi che si sono susseguiti tra gli studiosi. Si tratta di un metodo che si potrebbe definire storico-sistematico: storico perché ricostruisce le forme che il satanismo ha assunto in contesti temporali e sociali diversi; sistematico perché per ogni fase l’autore individua teorie, modelli interpretativi e ricerche che possono rappresentare ancora oggi categorie euristiche ed interpretative utili per le attuali ricerche.
Nelle conclusioni ci si chiede se ci saranno ancora satanisti nel 2050 e se il satanismo finirà con l’epoca post-moderna o con la globalizzazione. L’Autore propende a formulare ipotesi secondo le quali in tutte le epoche di crisi, fino a quella finanziaria del 2008, riemergono miti e riti attorno a Satana. Ma l’impostazione scientifica dell’opera di Introvigne non prevedeva tale approfondimento. Siamo infatti qui al problema più difficile, quello dell’ermeneutica dei dati, cioè dell’interpretazione dei fatti storici dietro ai quali individuare le forme post-moderne dei miti e dei riti del satanismo.
Introvigne termina con una domanda che pare rappresentare l’inizio di una nuova ricerca di sociologia del diavolo. La stessa domanda che si poneva già Agostino nelle Confessioni: Quarebam unde malum, et non erat exitus. Si tratterebbe di una classica ricerca di sociologia della conoscenza sulle dottrine, i saperi e le mitologie attraverso le quali l’intera vita individuale e collettiva ha fatto i conti con il malum. Tale ricerca potrebbe anche inserire la teoria dei Vangeli cristiani sulla radicale tolleranza del male. Si tratta della teoria già contenuta nella tradizione orale ebraica, che un antico midrash illustra così. Un rabbino incontra un demonio e lo rimprovera di tutte le sue azioni cattive, fino a che il demonio si rattrista e chiede che gli siano date delle regole. Il rabbino gli consente di proseguire le sue cattive azioni, ma solo due volte alla settimana, il martedì e il giovedì, e solo dalla sera all’alba.
L’uomo che vuole salvarsi dagli artigli demoniaci, sa quando deve restare a casa. È il fatalismo temperato ebraico e dei Vangeli sulla presenza del male. È pure la misura greca del “niente di troppo”.

Massimo Introvigne, I satanisti. Storia, riti e miti del satanismo, Sugarco, Milano 2010

Quello di cui abbiamo bisogno è una giustizia a noi impossibile.

di Julián Carrón

Caro direttore,
mai come davanti alla dolorosissima vicenda della pedofilia tutti abbiamo sentito tanto sgomento.
Sgomento dovuto alla nostra incapacità di rispondere all’esigenza di giustizia che veniva fuori dal profondo del cuore.

La richiesta di responsabilità, il riconoscimento del male fatto, il rimprovero degli errori commessi nella conduzione della vicenda, tutto ci sembra totalmente insufficiente di fronte a questo mare di male. Niente sembra bastare. Si capiscono, così, le reazioni irritate che abbiamo potuto vedere in questi giorni.

Tutto questo è servito per mettere davanti ai nostri occhi la natura della nostra esigenza di giustizia. È senza confini. Senza fondo. Tanto quanto la profondità della ferita. Incapace di essere esaurita, tanto è infinita. Per questo è comprensibile l’insofferenza, perfino la delusione delle vittime, anche dopo il riconoscimento degli errori: nulla basta per soddisfare la loro sete di giustizia. È come se toccassimo un dramma senza fondo.
Da questo punto di vista, gli autori degli abusi si trovano paradossalmente davanti a una sfida simile a quella delle vittime: niente è sufficiente per riparare il male fatto. Questo non vuol dire scaricarli della responsabilità, tanto meno della condanna che la giustizia potrà imporre loro. Non basterà neanche scontare tutta la pena.

Se questa è la situazione, la questione più bruciante – che nessuno può evitare – è così semplice quanto inesorabile: «Quid animo satis?». Che cosa può saziare la nostra sete di giustizia? Qui arriviamo a toccare con mano tutta la nostra incapacità, genialmente espressa nel Brand di Ibsen: «Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?». O, detto con altre parole: può tutta la volontà dell’uomo riuscire a realizzare la giustizia a cui tanto aneliamo?

Per questo anche quelli più esigenti, più accaniti nel pretendere giustizia, non saranno leali fino al fondo di se stessi con la loro esigenza di giustizia, se non affrontano questa loro incapacità, che è quella di tutti. Se questo non accadesse, soccomberemmo a una ingiustizia ancora più grave, a un vero “assassinio” dell’umano, perché per poter continuare a gridare giustizia secondo la nostra misura dovremmo far tacere la voce del nostro cuore. Dimenticando le vittime e abbandonandole nel loro dramma.

Nella sua audacia disarmante è stato il Papa, paradossalmente, a non soccombere a questa riduzione della giustizia a una misura qualunque. Da una parte, ha riconosciuto senza tentennamenti la gravità del male commesso da preti e religiosi, li ha esortati ad assumersi le loro responsabilità, ha condannato il modo sbagliato con cui è stata gestita la vicenda per paura dello scandalo da parte di alcuni vescovi, esprimendo tutto lo sgomento che provava per i fatti accaduti e prendendo dei provvedimenti per evitare che si ripetano.
Ma, dall’altra parte, Benedetto XVI è ben consapevole che questo non è sufficiente per rispondere alle esigenze di giustizia per il danno inferto: «So che nulla può cancellare il male che avete sopportato. È stata tradita la vostra fiducia, e la vostra dignità è stata violata». Così come il fatto di scontare le condanne, o il pentimento e la penitenza dei fautori degli abusi, non sarà mai sufficiente a riparare il danno arrecato alle vittime e a loro stessi.

È proprio il suo riconoscimento della vera natura del nostro bisogno, del nostro dramma, l’unico modo per salvare – per prendere sul serio e per considerare – tutta quanta l’esigenza di giustizia. «L’esigenza di giustizia è una domanda che si identifica con l’uomo, con la persona. Senza la prospettiva di un oltre, di una risposta che sta al di là delle modalità esistenziali sperimentabili, la giustizia è impossibile… Se venisse eliminata l’ipotesi di un “oltre”, quella esigenza sarebbe innaturalmente soffocata» (don Giussani). E come il Papa l’ha salvata? Appellandosi all’unico che può salvarla. Qualcuno che rende presente l’aldilà nell’aldiqua: Cristo, il Mistero fatto carne. «Egli stesso vittima di ingiustizia e di peccato. Come voi, egli porta ancora le ferite del suo ingiusto patire. Egli comprende la profondità della vostra pena e il persistere del suo effetto nelle vostre vite e nei vostri rapporti con altri, compresi i vostri rapporti con la Chiesa».
Fare appello a Cristo, dunque, non è cercare un sotterfugio per scappare davanti all’esigenza della giustizia, ma è l’unico modo di realizzarla.
Il Papa si appella a Cristo, evitando un scoglio veramente insidioso: quello di staccare Cristo dalla Chiesa perché troppo piena di sporcizia per poterlo portare. La tentazione protestante sempre è in agguato. Sarebbe stato molto facile, ma a un prezzo troppo alto: perdere Cristo. Perché, ricorda il Papa, «è nella comunione della Chiesa che incontriamo la persona di Gesù Cristo». E per questo, consapevole della difficoltà di vittime e colpevoli a «perdonare o essere riconciliati con la Chiesa», osa pregare perché, avvicinandosi a Cristo e partecipando alla vita della Chiesa, possano «arrivare a riscoprire l’infinito amore di Cristo per ciascuno di voi», l’unico in grado di sanare le loro ferite e ricostruire la loro vita.

Questa è la sfida davanti alla quale siamo tutti, incapaci di trovare una risposta per i nostri peccati e per quelli degli altri: accettare di partecipare alla Pasqua che celebriamo in questi giorni, l’unico cammino per veder rifiorire la speranza.

Tratto da:Repubblica del 4-04-2010.

Montelepre:la processione dei “MISTERI”.


Montelepre è un piccolo comune dell’entroterra palermitano famoso in tutto il mondo per la vicenda del bandito Salvatore Giuliano e della sua banda che per circa un decennio(1943-1953/54)terrorizzarono tutto il territorio del partinicese di cui Montelepre fa parte.La nascita storica dell’attuale centro abitato e delle sue tradizioni è,però,legata al comune di Carini.Proprio a Carini,a metà del 1700,un farmacista,di origine palermitana,tale Luigi Sarmineto,compose un’opera teologico-misterica di natura strordinaria per vivere la fede cristiana ed in particolar modo la passione della settimana santa.Dunque il termine mistero non significa ciò di cui non si capisce nulla:tutt’altro!Nel significato teologico significa la presenza salvifica di Dio nella storia che ha trovato il suo momento culminante proprio nella Pasqua storica di Gesù-Cristo.Dio salva e salva chi a lui si affida,per mezzo del Figlio suo,nell’oggi della storia.Dunque l’opera teologica del farmacista carinese affonda le sue radici nel senso della “pietas” tipica del 1700:cioè creare un rapporto salvifico con Dio attraverso il dolore di Gesù e di Maria,nel momento della sua passione,e della sua resurrezione.Da quest’opera hanno avuto origine,in Sicilia,la nascita de:i “MISTERI“,cioè la rappresentazione,attraverso quadri viventi,dei momenti fondamentali della salvezza a Montelepre e a Marsala,e la rappresentazione dei momenti salienti della Via Crucis,attraverso gruppi statuari,a Trapani.Ogni anno a Montelepre,circa 400 figuranti,impersonano tutta la storia della salvezza, narrata dalla Bibbia a partire dalla creazione del mondo sino al Venerdì Santo.La processione,connotata non da elementi folcloristici ma di preghiera,silenzio,e meditazione,sfila per le strette vie del paese per circa quattro ore a partire dal primo pomeriggio del Venerdì Santo.Conclusa la quale,si prosegue con la processione dell’effige del Cristo morto dentro l’urna accompagnato da quella della Madre dei Dolori portate a spalla dai confrati dell’antica confraternita dei “Galantuomini”.La strordinarietà della processione dei Misteri di Montelepre,a differenza di quella di Trapani,è data dal fatto che essa conserva il suo spirito originario.

RIANIMARE I MOSAICI ASSOPITI.


di CIRO LO MONTE con un inedito di MARCEL PROUST
COVILE_575
Tratto da:Il Covile,N 575 Anno X,27 Febbraio 2010.

I satanisti. Storia, riti e miti del satanismo.


DI MASSIMO INTROVIGNE
Una merciaia francese del Seicento inventa la Messa nera. Un ministro delle Finanze inglese del Settecento amministra regolarmente l’eucarestia a un babbuino. Autorevoli esponenti cattolici dell’Ottocento si convincono che Satana appare nelle logge massoniche in forma di coccodrillo e suona il pianoforte. Un noto scienziato americano del Novecento si convince di essere l’Anticristo e salta in aria nell’esplosione del suo laboratorio. Tre ragazze italiane nel 2000 sacrificano una suora a Satana. Su questi e molti altri episodi in cui si articola la storia del satanismo – interrogando archivi dimenticati per il passato, e gli stessi protagonisti per il presente – Massimo Introvigne ha indagato per oltre trent’anni. Oggi può riassumere i suoi studi nell’opera di una vita, rispondendo finalmente in modo attendibile a domande che molti si pongono ma che spesso non trovano risposte. Chi sono i satanisti? Quanti sono? Quali riti celebrano? Sono pericolosi? Che cosa fare per allontanare i giovani dal satanismo? Dalla corte del Re Sole alla California della Chiesa di Satana, dalla Francia del secolo XIX ai culti satanici contemporanei di Torino e di New York, dagli Hell-Fire Club alle Bestie di Satana, Introvigne ricostruisce con dovizia di particolari – e con un rigoroso esame di fonti e documenti – la storia del satanismo dal Seicento ai giorni nostri. Come pendant – non meno interessante – alle vicende dei satanisti si disegna un’altra storia: quella delle reazioni sproporzionate che amplificano la realtà del satanismo e ne fanno un incubo collettivo, delle nostre notti più oscure dove in pieno secolo XXI Satana continua a tormentarci con la sua inquietante presenza.

Massimo Introvigne, sociologo e storico delle religioni di fama internazionale e reggente nazionale vicario di Alleanza Cattolica, è autore di quaranta volumi e di oltre cento articoli pubblicati in riviste accademiche internazionali sulla nuova religiosità, il pluralismo religioso contemporaneo e il magistero pontificio. È fondatore e direttore del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni, la cui biblioteca ospita tra l’altro a Torino una delle maggiori collezioni mondiali di pubblicazioni e documenti sul satanismo. Per Sugarco ha pubblicato Le nuove religioni, Il cappello del mago, Il ritorno dello gnosticismo, Cattolici, antisemitismo e sangue, La nuova guerra mondiale,La Turchia e l’Europa, Il dramma dell’Europa senza Cristo, Il segreto dell’Europa e Una battaglia nella notte.

Massimo Introvigne,I satanisti. Storia, riti e miti del satanismo, Sugarco, Milano 2010, 440 pp.

Prego Dio che mi liberi da Dio…..

    VANNINI MARCO
    L’assenza apparente di Dio in questo mondo è la realtà di Dio.
    Il contatto con le creature ci è dato tramite il senso della presenza.
    Il contatto con Dio ci è dato tramite quello dell’assenza.
    In confronto a questa assenza,la presenza diviene più assente dell’assenza.

(Simone Weil)

Il dibattito tra credenti e non credenti è sempre più vivo, specialmente in questi ultimi anni.
Marco Vannini esce nelle librerie con un nuovo libro che si aggiunge a questo eterno dibattito “Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna”.
La quarta di copertina:“Il dibattito tra credenti e non credenti, atei e cristiani, laici e laicisti infiamma tutti i settori della società.
Eppure esso si svolge per lo più a un livello di superficie, tanto che si ha l’impressione che i ruoli si confondano: che i veri credenti siano gli atei, che i laici portino avanti ragioni che i chierici dimenticano e che le motivazioni dei laicisti combacino, per una strana alchimia, con quelle dei cattolici più ortodossi.
Questi paradossi, come mostra Marco Vannini in questa riflessione, hanno radici profonde e non sono per nulla casuali: consistono nella dimenticanza di una serie di categorie che hanno attraversato la tradizione più alta dell’occidente, a partire dalla filosofia greca, attraverso i mistici e i filosofi della modernità, sino a personalità come Simone Weil.
Che Dio sia Spirito; che la religione sia essenzialmente un rapporto nello Spirito in cui Dio e uomo si muovono l’uno verso l’altro, l’uno nell’altro; che la vera religione sia uno spogliarsi della propria volontà, liberarsi dalla costrizione delle cose del mondo per entrare in una dimensione di libertà, di grazia.
Questi concetti si sono via via eclissati a favore di rappresentazioni più comode di Dio e della religione, spesso ridotta a una dottrina morale, a una serie di precetti fisici, adirittura sessuali.
E di questo oblio colpevoli non sono tanto i laici o gli atei ma, piuttosto, chi di questa tradizione doveva farsi depositario e custode: la Chiesa”.
E per questo,a volte,i veri atei,facendo piazza pulita dei falsi concetti della religione,sono più vicini allo Spirito di quanto non lo siano i falsi credenti. In questo viaggio controcorrente,Marco Vannini riallaccia i nodi più profondi di una millenaria tradizione e riaccende fuochi che sembravano sopiti nella banalità delle discussioni odierne,formulando una proposta per credenti e non credenti di certo inattuale ma proprio per questo essenziale.

Se il mistico cristiano non ama gli ebrei
di Vito Mancuso
Ciò che più colpisce nell’ultimo libro di Marco Vannini è la violenza. Convinto che «ai nostri giorni la religione sia tornata a essere oggetto di grande interesse», in Prego Dio che mi liberi da Dio (Bompiani) l’insigne studioso della mistica occidentale intende separare all’interno della religione la verità dalla menzogna, e lo fa sostenendo che il cristianesimo è frutto di due componenti, una buona che è quella greca e più precisamente platonica, e una cattiva che è quella ebraica. Infatti mentre «il platonismo dà il regno di Dio, ossia verità e giustizia», «la mitologia biblica dà un Dio esteriore, creatore e signore – un Dio speculare a un’idolatria del corpo, del sangue, della razza», da cui occorre liberarsi per giungere a «un cristianesimo purificato dall’eredità di Israele». Con tale obiettivo Vannini attacca duramente la teologia, la Bibbia e ogni dimensione istituzionale: «teologie, cerimonie, sinagoghe, chiese, con le loro implicite ma non troppo implicazioni razziste di popolo eletto, comunità di santi ecc., fonte continua di discriminazione e di odio». Spesso lo fa con un livore che contrasta con quel “distacco” da lui posto al cuore dell’esperienza mistica, come quando dice che la teologia «è menzogna e peccato, anzi qualcosa di animalesco», un «prodotto della gula spiritualis con una finalità appropriativa, goditiva, golosa». Il discorso raggiunge toni da invettiva soprattutto contro la Bibbia ebraica, per Vannini «serie di falsità create per un’ideologia razziale». Vi sono persino parole che non dovrebbero essere più scritte dopo la Shoah, come quelle secondo cui «gli ebrei, dopo aver fatto uccidere Gesù, perseguitarono sin dall’inizio i suoi seguaci»; oppure quelle secondo cui «figli del demonio, che è padre della menzogna, sono chiamati i giudei da Gesù». In realtà basta leggere i vangeli con attenzione per vedere che Gesù non ha mai definito gli ebrei in quanto tali “figli del demonio”, perché il testo precisa che si rivolgeva così a quegli ebrei «che avevano creduto in lui» (Gv 8,31), non al popolo ebraico in quanto tale. Né è lecito dire che furono “gli ebrei” a uccidere Gesù, perché è noto che fu l’aristocrazia sacerdotale del tempio, del partito collaborazionista dei sadducei, a consegnare Gesù al potere romano, che poi giustiziò Gesù in quanto minaccia allo status quo. A uccidere Gesù non furono “gli ebrei”, ma il potere religioso e il potere politico uniti in comuni interessi (come spesso accade nella storia). Ma come si fa, ancora oggi, a far ricadere la responsabilità della morte di Gesù su un intero popolo dicendo che “gli ebrei” fecero uccidere Gesù? E sarebbe questo il cristianesimo purificato? In realtà ripetere questi stereotipi, i medesimi dell’antigiudaismo religioso alla base dell’antisemitismo etnico che ha prodotto Auschwitz, è (come minimo) un errore, significa ignorare del tutto i risultati della più accreditata storiografia ed esegesi storico-critica. Ma è tutta l’impostazione di Vannini a lasciare perplessi, non solo il suo sinistro antigiudaismo. Parlare di teologia, di Bibbia, di Chiesa al singolare, è sbagliato. Vi sono diverse teologie, diversi aspetti delle chiese, diversi libri biblici. E che tra queste variegate realtà ve ne siano di negative è vero, verissimo, e occorre criticarle, guai a non farlo. Ma non esercitare la sapienza della distinzione facendo di ogni erba un fascio, significa venir meno al principale compito del pensiero, significa non consegnare alla società ciò che solo il pensiero può darle, cioè la decantazione delle passioni e la luce calma dell’intelligenza. Dire che la teologia in quanto tale è «negazione della religione vera» significa ignorare la storia della teologia del ‘900, nella quale vi sono stati uomini di una grandezza spirituale unica, non inferiori ai maestri medievali cari a Vannini, si pensi a Florenskij, Bonhoeffer, Teilhard de Chardin, teologi che hanno pagato con la vita (martirio rosso e martirio verde) la loro dedizione alla ricerca e al bene del mondo. Come si fa, dimenticandoli, a parlare della teologia nei modi spregiativi e sommari di Vannini? Ma la vera radice del suo errore consiste, a mio avviso, nel concetto di spirito. Spirito per Vannini è correttamente inteso solo come opposizione ad anima, sorge solo come “distacco”, come “rimozione di tutti i contenuti-legami psichici”, come “morte dell’anima”: perché un uomo possa vivere l’esperienza dello spirito, deve morire nella sua individualità psichica. In questa opposizione tra spirito e anima, e tra anima e corpo, rivive la tradizione dell’agostinismo radicale col suo disprezzo del mondo, in particolare della natura umana. Così Vannini: «La natura umana è la fonte da cui derivano tutti i mali dell’uomo, per cui chi si fonda esclusivamente sull’umano non può essere altro che malvagio»; e ancora, l’uomo deve sapere che «tutto quello che procede da se stesso, dalla volontà propria, è menzogna e procede dal demonio». In fondo per lui la vera menzogna, ben oltre teologia chiesa ebraismo, è la natura umana. Attualizzando il gelido pessimismo antropologico del tardo Agostino che faceva dell’umanità una “massa dannata” e collocava tutti i non battezzati all’inferno, Vannini sostiene mediante il concetto di “distacco” che si entra nell’esperienza dello spirito solo negando la natura umana. Se il cristianesimo fosse davvero così, Nietzsche avrebbe ragione a definirlo odio verso la salute, la forza, la bellezza dell’esistenza naturale. E che vi siano elementi in tal senso è vero, l’agostinismo radicale lo mostra. Ma per Gesù l’anima non deve morire, ma deve essere salvata, custodita, coltivata; e tutto ciò va fatto in amore con il mondo e con ogni frammento di essere, non nel distacco ma nella comunione (unione-con), con la gioia della fratellanza verso ogni forma di vita, perché, come insegna la Bibbia ebraica, viviamo all’interno di «un’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne» (Genesi 9,16).
in “la Repubblica” del 19 gennaio 2010

Replica
“Io, la religione e la lettura biblica”
di Marco Vannini

Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo. È un’accusa che respingo fermamente,chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael). Tale accusa si fonda
infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità. Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia
definita come “animalesca”: non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è
presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile
discorso. È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di
riferimento fondamentale del libro – e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di “sinistro antigiudaismo”?
Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di “ebrei”,senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga
precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico,alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso. È comunque
evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra
Gesù e il Padre – bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni. Che la storia biblica sia costruita su falsità – invenzione i Patriarchi, invenzione
l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc. – e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid. p. 391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare
sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa. Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna,accanto a religione come verità. Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendical’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire teologie/mitologie, ma cercare di “farsi simili a Dio” nella giustizia. Significa conoscenza della malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una
conversione, di una “morte dell’anima”, ossia di un radicale distacco dall’egoità. Significa, in conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima – ed è
su questo che il cristianesimo si è fondato – e che la mistica – unica vera erede della filosofia greca– ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo “gelido pessimismo”, come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi
come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi. Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
in “la Repubblica” del 26 gennaio 2010

VANNINI MARCO, Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna, Bompiani, Milano, 2010, pp.192, € 16.00

Creazionismo ed evoluzionismo…..

  • Di Federico Lenchi
  • Parte I
    La teoria dell’evoluzione, fin dal suo primo apparire, sembrava favorire l’ateismo e il materialismo, in quanto sembrava negare quanto afferma la Bibbia in merito alla creazione degli esseri viventi, e sull’origine dell’uomo creato direttamente da Dio e dotato di anima spirituale. Negazione resa evidente dal farlo derivare dalla scimmia, ed escludendo ogni intervento divino nel passaggio della materia non vivente alla vita e dagli esseri non intelligenti all’uomo.
    R.Dawkins considerava gli organismi viventi come il mezzo inventato dai geni per riprodursi, che definiva il “carattere egoista” di questi ultimi.
    Monod concludeva il suo saggio” Il caso e la necessità” con queste parole: “ L’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo
    J. Monod, Il caso e la necessità, Mondatori 1972, 172.

    La fede cristiana, afferma al contrario,che tutto ciò che esiste, sia essa materia che spirito,è creato liberamente e per amore da Dio ed è da lui condotto e guidato secondo un disegno fino al suo completo compimento.
    DA QUANTO HO DETTO RISULTA CHE TUTTO, ANCHE IL PROCESSO EVOLUTIVO, SI SVOLGE SECONDO LA DIPENDENZA DA DIO ED E’ SOTTO LA SUA PATERNA PROVVIDENZA.
    Ma cos’è la Creazione? Per il cristiano è innanzi tutto un mistero da credere:” Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra(…).
    La creazione quindi appartiene unicamente a Dio al punto che la Bibbia inizia con “ In principio Dio creò il cielo e la terra(Gn1,1) dove il verbo usato per “creò” è bara^, il cui soggetto è esclusivamente Dio per indicare che è proprio Lui che ha creato e a cui spetta la creazione.
    CIELO E TERRA nel linguaggio ebraico indica la totalità, tutto ciò che esiste.
    IN PRINCIPIO significa che tutto quello che esiste ha avuto un principio ma non nel senso che Dio ha creato il mondo nel tempo ma in quello che CON IL MONDO DIO HA CREATO ANCHE IL TEMPO.
    DIO quindi non ha creato il mondo nel tempo ma , col mondo, Dio ha creato il tempo come elemento costitutivo del suo divenire ovvero il mondo non è eterno ma ha avuto un inizio temporale.
    CREO’ ( E Dio disse…Gn1) significa che Dio crea con la sua Sapienza ovvero che Dio non fabbrica facendo passare il mondo dal non essere o dal nulla, all’esistenza. La creazione che Dio opera non rientra nella categoria dell’azione ma in quella della RELAZIONE. Questo significa che nella creazione si deve intendere non una “operazione” di Dio ma la dipendenza, che l’essere creato ha con il principio che lo fonda.
    Le creature dipendono da Lui ma Lui non dipende dalle creature. E la creazione non causa in Dio nessun mutamento per cui Dio non passa DAL NON ESSERE CREATORE ALL’ESSERE CREATORE.
    Quindi Dio decide di dare l’ESSERE alle creature che vengono a trovarsi in una situazione di assoluta dipendenza ma tutto questo avviene SENZA CHE EGLI AGISCA.
    Egli, ripeto, non opera e non operando non passa dal non essere creatore all’essere creatore, Egli è immutabile.
    Le creature dipendono da Lui ma Lui non dipende da esse.
    Le creature iniziano ad esistere senza che ci sia alcun essere su cui Dio abbia agito per dare l’essere alle creature.
    In altri termini questa è la creazione dal nulla (creatio ex nihilo).

    Ma bisogna subito comprendere che “creazione dal nulla” non significa che per creare il mondo Dio sia partito dal nulla , come se il nulla fosse qualcosa di diverso da Dio e dalle cose create.
    Infatti il “nulla” non è che nulla e non può servire da punto di partenza per nessuna operazione. Un momento in cui non ci fosse nulla è un assoluto non senso infatti affinché ci sia un momento è necessario che ci sia già qualche cosa. Un momento è una porzione del tempo e il tempo è un attributo delle cose esistenti. Noi non riusciamo a rappresentare nulla fuori dalle forme del tempo, per cui quando cerchiamo di rappresentare il non essere preesistente al mondo, noi lo collochiamo nel tempo, e in tal modo costituiamo un tempo vuoto, pronto a ricevere in un dato momento il mondo e la sua durata. Ma questo non ha alcun senso.

    La creazione quindi non parte dal nulla per giungere all’essere. Non c’è prima il nulla e poi l’essere. Il mondo non è creato in un dato momento prima del quale solo Dio esisteva e che quindi l’atto creatore sia avvenuto in un dato momento, quando Dio ha deciso di far esistere il mondo perché in tal modo la creazione sarebbe un divenire e il divenire presuppone che ci sia un tempo, quello prima e quello dopo. Ma il tempo è la misura delle cose e come tale creato con esse.

    Questa lunga premessa per capire meglio quello che cercherò di spiegare successivamente ovvero come in Teologia si possa conciliare la Creazione con l’ Evoluzione.
    Parte II
    CREAZIONE ED EVOLUZIONE
    Riepilogando quanto fin qui detto vediamo come:
    1) Dio non crea dal nulla, per cui il mondo non passa dal nulla all’esistere;
    2) Dio non crea in un tempo vuoto e in uno spazio vuoto, ma con il mondo crea il tempo e lo spazio;
    3) Dio però non crea e non opera perché se così fosse non sarebbe immutabile, dato che in tal caso passerebbe dal non essere creatore all’essere creatore, per cui dobbiamo ritenere che
    4) Quello che noi intendiamo come CREAZIONE da parte di Dio è la “RELAZIONE DI DIPENDENZA ” voluta liberamente da Lui che pone la creatura nei suoi riguardi.
    5) Ovvero, l’ESSERE CREATO diviene dipendente in rapporto al principio che lo fonda.
    Capisco la difficoltà che vi può essere per chi, come me del resto, non possiede adeguati strumenti di filosofia.
    Questa premessa è però fondamentale per capire quello che ora andrò ad esporre e che più da vicino riguarda il problema che il Prof. Caputo ha sollevato.
    Le conclusioni che presenterò sono l’espressione dei lavori della COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE.
    Dio, liberamente e per amore ha voluto che il mondo esistesse.
    Il mondo esiste esattamente come Dio l’ha voluto, governato dalle leggi che liberamente gli ha dato ed è continuamente sorretto dalla sua forza creatrice.
    Per tale ragione il mondo non è abbandonato a sé stesso, ma continuamente sostenuto nel suo essere e nel suo agire dalla provvidenza e dall’ amore di Dio.
    Ma Dio non si sostituisce alle cause naturali, lascia cioè agire le leggi e le cause naturali che gli ha dato e che lo governano.
    In altri termini: DIO NON SI SOSTITUISCE ALL’ATTIVITA’ CHE LUI MEDESIMO HA CONFERITO ALLE CAUSE CREATURALI, MA PERMETTE CHE QUESTE POSSANO AGIRE SECONDO LA LORO NATURA PER CONSEGUIRE PERO QUELLE FINALITA’ ’ CHE LUI HA STABILITO E VOLUTE.
    In virtù dell’attività che le cause naturali hanno,si sono verificate quelle condizioni biologiche necessarie alla comparsa degli organismi viventi, nonché alla loro riproduzione e DIFFERENZIAZIONE.
    Dio ha quindi voluto che ci fosse un MONDO IN EVOLUZIONE in modo che sotto l’azione delle cause naturali ci fosse il passaggio dal meno al più, dalla materia non vivente alla vita, inizialmente semplice, unicellulare e poi via via sempre più complessa, fino ad arrivare all’uomo, massima espressione dell’evoluzione.
    Risulta evidente che le cause naturali avendo una natura imperfetta e contingente hanno realizzato un processo evolutivo in cui hanno potuto trovare posto la CASUALITA’ e L’ ALEATORIETA’ ovvero mutazioni genetiche disastrose o afinalistiche e anche eventi catastrofici in cui hanno trovato l’estinzione specie vegetali ed animali come appunto i DINOSAURI.
    Sintetizzando possiamo affermare con estrema certezza che non vi è opposizione tra CREAZIONE ed EVOLUZIONE dato che nel processo evolutivo trovano posto tanto il CASO che la FINALITA’ e nell’EVOLUZIONE tanto la FINALITA’ che il CASO.

    L’opposizione e l’inconciliabilità vi è invece tra il “Creazionismo fissista” secondo cui Dio ha creato ab origine tutte le specie quali le vediamo oggi, e “l’Evoluzionismo ateo”, secondo cui il mondo si è evoluto esclusivamente secondo il caso e non con una finalità superiore.
    Dawkins scrive : “…Essa (l’esistenza) non ha una mente né alcuna forma di coscienza. Non progetta il futuro. Non vede, non ha alcuna forma di pre-veggenza. Se si può dire che essa svolga il ruolo di orologiaio in natura, è l’orologiaio cieco. (L’orologiaio cieco, Milano, Rizzoli, 1988).
    Parte III
    L’uomo, come il fine del processo evolutivo.
    Abbiamo fin qui visto come per la concezione cattolica, la contingenza dell’ordine creato, non è incompatibile con un disegno divino , indirizzato, pur nella possibilità di elementi di casualità, ad una finalità, di cui l’uomo, come vedremo, rappresenta la massima espressione, mentre per l’evoluzionismo ateo il processo evolutivo è cieco, privo di guida.
    Ma la scienza e quindi lo scienziato non può né negare né affermare che vi sia una causalità divina.
    Può solo constatare che, nonostante mutazioni genetiche a volte dannose e nonostante eventi distruttivi l’evoluzione sia indirizzata verso forme viventi sempre più evolute e complesse avvalorando in questo modo la realtà di una finalità ed di un disegno intelligente.
    Per la teologia cattolica il fine perseguito da Dio nella creazione è l’uomo, in quanto è l’unico in grado di auto-trascendersi e auto-superarsi, ovvero di essere intelligente e libero.
    L’uomo infatti in quanto costituito da una parte materiale e come tutti gli esseri materiali costretto a discendere per evoluzione da un altro essere materiale, dall’altra è anche parte spirituale il che gli permette di trascendere la materia e di essere appunto, intelligente e libero.
    E’ solo l’uomo che nella sua realtà materiale riassume tutta la sua sapienza, bellezza, perfezione dell’universo e con la sua intelligenza ne scopre la ricchezza e perfezione, la mette a vantaggio degli altri esseri, con le sue scoperte, invenzioni tecnologiche, produzioni artistiche e ne rende gloria al Dio creatore.
    Non importa che egli sia un puntino che abita in un puntino periferico dell’universo perché lo spirito trascende la materia, la pensa, la valuta, la modifica e le fa compiere con la cultura, l’arte, la scienza e la tecnica, quello che essa non sarebbe, se lasciata a sé stessa, mai capace di compiere.
    La grandezza dell’Universo è insignificante davanti alla grandezza dello spirito umano.
    Un pensiero di Pascal esprime magnificamente questo concetto:” L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo si armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta ad ucciderlo. Ma anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancora più nobile di chi l’uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’Universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente” (B. Pascal, Pensieri ed altri scritti di e su Pascal, Ed. Paoline 1986.
    L’uomo è quindi essere spirituale e come tale non può essere il prodotto della materia in evoluzione.
    Con l’uomo ci troviamo davanti ad un salto ONTOLOGICO. Questo non significa negare od opporsi a quella continuità fisica che rappresenta il filo conduttore dell’evoluzione sul piano della biologia, della fisica e della chimica. Il salto ontologico, ovvero il passaggio all’ambito spirituale non è ambito di osservazione scientifica, anche se a livello sperimentale se ne possono scoprire gli effetti, rappresentati dalla autocoscienza, dalla capacità di progettazione del futuro e di simbolizzazione come è il linguaggio simbolico.
    L’esperienza della coscienza di sé, del sapere metafisico, della coscienza morale, della libertà, della esperienza estetica e religiosa sono materia di competenza e riflessione filosofica, mentre è compito della teologia coglierne il senso ultimo secondo il disegno del Creatore.
    Questo salto ONTOLOGICO che ha infuso in una o più forme pre-umane il PRINCIPIO SPIRITUALE, non presente nelle potenzialità della materia anche più evoluta, ha richiesto un intervento particolare e diretto di Dio creatore.
    L’infusione di un principio spirituale (anima) in un principio materiale (corpo) ha potuto avvenire se non quando il corpo era ormai disposto a ricevere l’intervento creatore di Dio ovvero quando da forme pre-umane, australopiceti e ominidi, si è passati a quelle di Homo sapiens.
    L’uomo rappresenta pertanto il culmine e il fine ultimo del processo creativo in quanto è l’unico in grado di dargli un senso, coglierne il significato, comprenderlo, ammirarlo.
    Senza l’uomo, il mondo sarebbe muto, immerso in un eterno silenzio, perché non ci sarebbe nessuno capace di dargli voce.
    Soltanto l’uomo è capace di rompere questo silenzio perché soltanto l’uomo da voce all’universo con la cultura, l’arte, la scienza.
    Affermava Pascal: “ Il silenzio eterno degli spazi infiniti mi sgomenta”.
    Questi sono i rapporti tra creazione ed evoluzione secondo l’insegnamento cattolico.
    A questo va aggiunto che Cristo è Colui cui tutto tende come ultimo fine.Solo allora il faticoso e drammatico processo evolutivo dei viventi acquisterà tutto il suo significato.

    Vi ringrazio e nel caso voleste approfondire l’argomento vi segnalo il notevole lavoro di Giuseppe De Rosa, Quaderno 3752 di La Civiltà Cattolica pp. 127 e seg. da cui ho tratto questo mio intervento.

    La via della Bellezza!

    Duomo_Monreale-FC50-2009[1]

    La dimensione estetica è essenziale nella vita umana. A detta di Dostoevskij (I demoni), la bellezza è «il vero frutto dell’umanità intera e, forse, il frutto più alto che mai possa essere». «Quale bellezza salverà il mondo?», si chiede allora lo scrittore russo nell’Idiota.
    Charles Moeller in Saggezza greca e paradosso cristiano dice: la bellezza dell’arte su questa Terra è superata dalla bellezza dei santi, quindi dell’uomo, che di Dio è immagine. «La gloria di Dio è l’uomo vivente», aveva affermato prima di lui icasticamente sant’Ireneo.
    Tutto ciò non può che aiutarci ad apriare gli occhi su quel brutto a cui ci siamo abituati e che sta diventando categoria di giudizio per venire, pian piano, istradati dentro quella via pulchritudinis che davvero rappresenta l’urgenza educativa del nostro tempo».

    In questo contesto si inserisce il Duomo di Monreale con lo splendore incomparabile dei suoi mosaici. Il duomo di Monreale è una delle testimonianze più impressionanti di quella stagione artistica straordinaria che la Sicilia visse nel XII secolo.
    Sulle pareti del duomo si snoda un ciclo musivo, conservatosi pressoché intatto, che racconta la storia della salvezza, dalla creazione del mondo alla resurrezione di Cristo, in un percorso che ha alle sue estremità le due figure imponenti del Cristo pantocratore dell’abside, le cui braccia si aprono in un abbraccio commovente che accoglie il fedele lasciandolo senza parole, e della Vergine nella controfacciata, la cui maternità è segno perenne del rinnovarsi della presenza di Cristo che accompagna la vita degli uomini, posto genialmente sopra la porta attraverso la quale i fedeli lasciano la basilica per portare nel mondo la loro speranza.
    Oltre alla sequenza narrativa vetero e neotestamentaria, le pareti della basilica ospitano una impressionante serie di ritratti di santi, testimonianze perenni della vita della Chiesa. Anche in questo caso, la loro collocazione rivela un progetto geniale:
    se infatti le absidi laterali ospitano i due capisaldi della fede cristiana, Pietro e Paolo, lungo le pareti del presbiterio e nei sottarchi delle navate si susseguono figure intere, busti e volti di monaci, vescovi, laici, eremiti, uomini e donne che hanno testimoniato la loro fede, chiesa trionfante sempre più vicina alla chiesa militante che affolla ogni giorno la chiesa, per concludersi nella controfacciata, accanto alla figura di Maria, con gli esempi più vicini alla gente di Monreale, Cassio, Casto e Castrense, i “loro” santi.
    Il ciclo musivo di Monreale dispiega così un inno alla Chiesa di eccezionale bellezza.

    Un patrimonio artistico di eccezionale bellezza mai documentato prima d’ora con tale ampiezza di immagini, realizzate mediante una apposita campagna fotografica e strumenti tecnici all’avanguardia.

    «Il duomo di Monreale mostra tutta la sua bellezza quando vi si celebra la liturgia. È stato costruito per la liturgia. E per una liturgia regalmente solenne. È nel momento liturgico che esso appare davvero una reggia, una bellissima reggia, una regale casa di Dio, in cui si celebrano i divini misteri e sulle cui pareti si leggono i racconti della Bibbia, le storie di Dio. Tutto vi dice la presenza del Cristo risorto. Tutto aiuta a farsi presenti alla Divina Presenza. Il mondo di Dio e il mondo degli uomini vi appaiono contigui. Chi lo progettò e ne ideò i cicli musivi aveva molto vivo il senso della trascendenza di Dio e, insieme, della regalità divina di Gesù Cristo, il Figlio eterno di Dio fattosi uomo e morto e risorto per la nostra salvezza.»
    S.E. Mons. Cataldo Naro

    Testi di David Abulafia e Massimo Naro
    Presentazione di Cataldo Naro
    Curatore campagna fotografica: Giovanni Chiaramonte
    Fotografi: Daniele De Lonti, Santo Eduardo Di Miceli, Jurij Gallegra
    Coedizione Itaca – Libreria Editrice Vaticana

    Il duomo di Monreale – Recensioni
    Per chi… cerca Dio nel bello. «Il duomo di Monreale»,
    «Famiglia Cristiana», n. 50, 13 dicembre 2009
    Duomo_Monreale-FC50-2009.pdf (265,6 KB)

    Sincretismo religioso cattolico….

        -Cristo Pantocratore,Duomo di Monreale-


      Gv 1,1In principio era il Verbo,
      il Verbo era presso Dio
      e il Verbo era Dio.
      2Egli era in principio presso Dio:
      3tutto è stato fatto per mezzo di lui,
      e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che
      esiste.
      4In lui era la vita
      e la vita era la luce degli uomini;
      5la luce splende nelle tenebre,
      ma le tenebre non l’hanno accolta…
      9Veniva nel mondo
      la luce vera,
      quella che illumina ogni uomo.
      10Egli era nel mondo,
      e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
      eppure il mondo non lo riconobbe.
      11Venne fra la sua gente,
      ma i suoi non l’hanno accolto.
      12A quanti però l’hanno accolto,
      ha dato potere di diventare figli di Dio:
      a quelli che credono nel suo nome,
      13i quali non da sangue,
      né da volere di carne,
      né da volere di uomo,
      ma da Dio sono stati generati.
      14E il Verbo si fece carne
      e venne ad abitare in mezzo a noi;
      e noi vedemmo la sua gloria,
      gloria come di unigenito dal Padre,
      pieno di grazia e di verità.

      15Giovanni gli rende testimonianza
      e grida: “Ecco l’uomo di cui io dissi:
      Colui che viene dopo di me
      mi è passato avanti,
      perché era prima di me”.
      16Dalla sua pienezza
      noi tutti abbiamo ricevuto
      e grazia su grazia.
      17Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
      la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
      18Dio nessuno l’ha mai visto:
      proprio il Figlio unigenito,
      che è nel seno del Padre,
      lui lo ha rivelato.

      Inserisco,ben volentieri,un’ulteriore riflessione del Dott.Federico Lenchi atta a sviscerare quella “miniera inesauribile” che è il saggio del teologo Vito Mancuso:”L’anima e il suo destino”. Ringrazio il Dott.Lenchi per questo spirito di servizio alla Verità e all'”intellectus fidei”,ossia ad una fede pensata,spesso messa a repentaglio da forme subdole di sincretismo religioso atte a sminuire la portata delle grande verità del cristianesimo.L’opera del Dott.Lenchi è,altresì,meritoria perchè si inserisce in un contesto culturale,come quello odierno,caratterizzato anche dal relativismo religioso.

      Di Federico Lenchi

    Lo spunto, oggi, Santo Stefano, mi è offerto ancora una volta da quella miniera inesauribile che è il saggio “L’anima e il suo destino” di Vito Mancuso.

    Perché dico “miniera inesauribile”? Perché è fonte di continue discussioni non con chi si dice agnostico, non con chi si professa ateo ma, al contrario con chi frequenta la Chiesa e si accosta regolarmente ai sacramenti, in altre parole con chi si considera Cattolico a tutti gli effetti pur ritenendo il suo un cattolicesimo più maturo, più autentico, in altre parole, parafrasando Prodi, un cattolicesimo adulto.
    Ora in cosa consista questa maggior maturità è presto detto, in quanto si articola in questi tre convincimenti presi, pari pari, dal libro in questione:
    1) i dogmi sono un’invenzione della Chiesa, confezionati ad arte nel corso dei secoli;
    2) la Chiesa medesima è un’invenzione umana alla cui costituzione Cristo non aveva mai pensato;
    3) Cristo non ha mai affermato di essere Dio.
    Parto da quest’ultima affermazione che risulta subito di facile contestazione in quanto è evidente che chi la sostiene ha fatto una lettura troppo affrettata e superficiale dei Vangeli.

    Noi sappiamo infatti che quando Mosè chiede a Dio di rivelargli il suo nome per poterlo riferire agli Israeliti, Dio così gli risponde:

    “Dirai agli Israeliti: Io sono mi ha mandato a voi” (Esodo, cap.III, vv.13-15).

    Vediamo ora, nei Vangeli, come Gesù presenta sè stesso:

    Fin d’ora ve lo dico prima che accada, affinche’, quando accadra’,crediate che Io sono” (Gv. 13,19-20) ;

    “Se non credete che Io sono, morirete nei vostri peccati” (Gv.8,24);

    “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora saprete che Io sono” (Gv. 8,28);

    “ In verita’ vi dico prima che Abramo fosse, Io sono “ (Gv. (,58 );

    “ Chi cercate?Gesu’ di Nazareth.Io sono. Appena disse Io sono indietreggiarono e caddero a terra” (Gv. 15, 5.6.8.).

    Ma pure esaminando i Vangeli sinottici possiamo giungere alle stesse conclusioni ovvero che Gesu’ sapeva di avere oltre alla natura umana anche quella divina. Infatti e’inutile ricordare che il nome di Dio, e ce lo dice Lui stesso, e’ “Io sono colui che e’ “ ovvero, in forma breve, “ Io sono”.
    Parlando in questo modo e con tale autorita’ Gesu’, senza alcun dubbio, asseriva la sua Divinita’
    Questo, sempre che si voglia credere ai Vangeli ed agli evangelisti.
    E’ opinione comune presso alcuni teologi, e tra questi naturalmente Mancuso, che il racconto della
    Scrittura vada interpretato e quindi rivisto in maniera sostanziale.
    Secondo tali Autori se essi, i Vangeli, vengono letti attentamente ci mostrano infatti un’interessante processo di idealizzazione dell’immagine di Gesù.
    In altre parole, passando dal primo vangelo di Matteo all’ultimo di Giovanni, è possibile scorgere la trasformazione subita da quest’Ultimo, a opera degli evangelisti, che lo porta da anonimo carpentiere nazaretano a semidio in carne umana..
    In altri termini, secondo tali studiosi, i vangeli sono un dono, ma anche un prodotto della Chiesa e per conoscerne e valutarne la portata, i reali contenuti e nello stesso tempo i limiti, le lacune o le carenze bisognerebbe sapere da quali preoccupazioni erano animate le comunità da cui sono sorti e gli intenti dei rispettivi autori che hanno curato i testi. Ecco allora affacciarsi il vero nodo della questione che possiamo definire come il “soggettivismo”degli autori sacri. Ecco il punto cui si vuole arrivare: Dio ha sì, ispirato gli Evangelisti, ma questi hanno rielaborato la rivelazione secondo le proprie convinzioni, le proprie aspettative, le proprie emozioni umane, il proprio carattere e
    soprattutto le proprie convenienze. Verrebbe da dire: nulla di nuovo sotto il sole. Ecco che riaffiorano le teorie del modernismo del Loisy. Questi nella sua opera principale e più discussa “I Vangeli sinottici” (1907-1908), presenta i Vangeli come creazione della Chiesa, contestando a quest’ultima di aver voluto presentare la morte e la resurrezione di Cristo come fatto storico in realtà mai avvenuto per cui lo scopo del Vangelo è rimasto lo scopo della Chiesa di cui Gesù , si badi bene, non volle assolutamente essere il fondatore. L’esegesi biblica di Loisy si ispirava a criteri marcatamente razionalistici e conduceva inevitabilmente alla negazione del soprannaturale.
    In ultima analisi i redattori dei Vangeli avrebbero operato una gigantesca trasformazione eliminando, completando, trasformando le fonti originarie e imprimendo in tal modo al racconto della vita del Messia ed alla formulazione del suo insegnamento il segno della dottrina paolina e della apologetica della primitiva comunità cristiana. Ora, alcuni di questi cosiddetti teologi, si spingono oltre, affermando che è molto probabile che Gesù fosse sposato perché tale era la condizione normale nella società giudaica e perché Gesù era un uomo con tutte le emozioni ed i sentimenti dei comuni mortali.
    Solo successivamente, soprattutto in virtù della catechesi di Paolo si trovò sconveniente presentare Gesù come vittima della porneia e schiavo quindi dei sensi a cui il matrimonio era rimedio. Due erano fondamentalmente le categorie: quelle dei vergini, spiritualmente vicini agli angeli e quella degli sposati legati alla carne a cui, appunto, Gesù non poteva essere ricondotto. Da cui ne derivava una assoluta, necessaria negazione del suo stato matrimoniale cosa, per secoli, riuscita molto bene alla Chiesa. Se Gesù diceva infatti di essere venuto da Dio, si poteva legittimamente presentarlo come unito carnalmente con una donna?
    Ma senza scomodare i teologici appartenenti a certi schieramenti vediamo cosa dice Dan Brown nel “Codice da Vinci”:
    1) La Chiesa dei primi Concili avrebbe offerto, manipolandola, un’immagine di Gesù.
    2) Discordante da quella testimoniata dalle fonti storiche originarie in questo sostenuta in modo decisivo dall’imperatore Costantino che puntò sul “cavallo più favorito” , il cristianesimo, per consolidare l’unità dell’impero.
    3) Come conseguenza si arrivò ad una deificazione di Cristo che al contrario era visto dai suoi primi seguaci come un uomo grande e potente, ma pur sempre un profeta mortale.
    4) Questa operazione teologica ne comportò un’altra nei confronti dei Vangeli in maniera da escludere dagli stessi gli aspetti prettamente umani per esaltare quelli esclusivamente divini.
    5) Tra gli aspetti umani vi era certamente quello relativo al matrimonio con la Maddalena che non si limitò ad essere di tipo spirituale ma reale tanto da essere sancito persino da un figlio.
    6) La Maddalena, in quanto sposa e madre di un figlio di Gesù, non poteva che far ombra alla gerarchia che si sentiva l’erede e la continuatrice dell’opera di Cristo.
    7) Per queste considerazioni la gerarchia si sentì costretta a ricorrere al rimedio di etichettarla come prostituta cancellando altresì le prove del matrimonio con Gesù di cui appunto nei vangeli canonici non vi è accenno.
    Fin qui Dan Brown.

    Si noti però che queste sono teorie già fatte proprie da certa cultura massonica che sostiene Gesù essere stato discepolo Esseno, (e fin qui può essere, come ipotizza anche Benedetto XVI nel suo recente libro “Gesù di Nazaret”) sposato con la Maddalena nel cui ventre (Sacro Graal) fu generata una discendenza (stirpe reale francese dei Merovingi) e con la quale visse fino a tarda età, contraddicendo la leggenda che lo voleva morto in croce.
    Quest’ultimo fondamentale punto lo ritroviamo anche nella religione musulmana, per non parlare dell’eresia marcionita, ecc…
    Da queste premesse si sviluppa la seconda parte del saggio del teologo P. Ortensio da Spinetoli, noto per un commento al Vangelo di Luca, teso a dimostrare che il tentativo di Dan Brown di mostrarci “un Gesù più autentico, più vicino all’uomo che a Dio non è una colpa, ma sempre un merito” (sic, pag. 31).
    Questo tentativo, giusto nella sostanza, è però, sempre secondo P.Ortensio, sbagliato nel metodo, in quanto si basa sui “vangeli apocrifi” spesso poco attendibili e non su quelli canonici, che meglio possono far luce sulla vita privata di Gesù (pag. 32 ).

    Siamo così arrivati, partendo dal terzo, al primo punto di discussione, quello che vuole i dogmi un’invenzione della Chiesa e non invece un’illuminazione dello Spirito Santo.
    I “cattolici adulti” grazie ai vari Mancuso,traggono linfa al loro convincimento che i dogmi siano in realtà invenzioni per le anime semplici, quelle intellettualmente e culturalmente meno dotate.
    Come può, uno spirito intellettualmente libero, si chiedono, credere al diavolo, all’Inferno,alla verginità della Madonna, alla Transustanziazione. Passi la Consustanziazione ma la
    Transustanziazione proprio no!
    E in perfetta buona fede si credono Cattolici!.
    Sono convinti che si debba vivere e predicare un Vangelo ripulito dai pregiudizi , dagli orpelli e dalle manipolazioni operate , a proprio vantaggio, dalla Chiesa Cattolica nel corso dei secoli.
    Chiesa che sin dalle origini voleva un potere, inizialmente spirituale e poi anche temporale. Un Vangelo basato sull’essenziale e incentrato quasi esclusivamente sulla misericordia di Dio, ovvero il vero Vangelo di Gesù.
    l resto, come ho già detto, in buona misura, invenzioni della gerarchia.
    Ma questa Chiesa, alla fine, Gesù l’ha veramente voluta?
    Siamo così arrivati all’ultimo punto.
    E a proposito di chiesa come e’ sorta e su mandato di chi? Perche’ si dice che il Cristianesimo l’abbia fondato San Paolo e non Gesu’ medesimo?Questi, nel corso di tutta la sua vita, non si stancava di ripetere che Lui era la via che porta alla salvezza (non mi soffermo qui a riportare le varie citazioni che tutti conosciamo ) per cui se ci vole
    va salvare bisognava passare attraverso la sua dottrina ed insegnamento.
    Belle parole: ma Lui non scrisse nulla, ne’da vivo fece scriver nulla. Ha pero’ detto di andare a predicare e a diffondere il Vangelo:
    “ chi ascolta voi ascolta me …” .
    Ecco la nascita della Chiesa come Lui l’ha concepita e voluta;
    tramandare il messaggio di salvezza attraverso la comunita’ dei fratelli suoi discepoli.
    Ai tempi di Gesù, non c’erano i mezzi di comunicazione del giorno d’oggi. Se uno voleva comunicare qualcosa non aveva né telefono, né internet o televisione, nè satelliti.
    L’UNICO MEZZO DI COMUNICAZIONE era prendere un uomo, che veniva chiamato “shalìah”, dargli le opportune istruzioni e comandi e mandarlo là dove si voleva che il messaggio giungesse.
    Nel caso di un re, lo shalìah agiva con tutta l’autorità del re. Quello che diceva lui era come se ’avesse detto il re medesimo da cui il detto al tempo di Gesù: “Lo shalìah di un uomo è come l’uomo stesso”.
    Ora la traduzione di “shalìah” è “apostolo”, più precisamente “plenipotenziario”, cioè colui che ha ricevuto la pienezza dei poteri.
    E tale appaiono gli Apostoli.

    Infatti Gesù da loro pieni poteri quando compare agli Apostoli la sera di Pasqua: “ Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” ( Gv 20,21) e ancora “Chi ascolta voi, ascolta me, chi disprezza voi, disprezza me” (Lc 10,16).
    Fino ad arrivare al testo fondamentale “ E io ti dico che tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16 ss).
    Quest’ultima affermazione offre lo spunto per un’ultima breve riflessione sul primato di Pietro.
    Sarebbe lungo riportare tutti i brani in cui di fatto Gesù conferisce a Pietro l’incarico di rappresentarlo in terra quale vicario estendendo tale incarico anche ai suoi successori, i futuri Papi.
    Mi limiterò però ad alcune brevi considerazioni sul riconoscimento che le varie Chiese che si andavano costituendo riconoscevano ai successori di Pietro.
    Possediamo una lettera risalente al 95 dopo Cristo scritta dal papa S. Clemente Romano ai Corinzi.
    Con tale lettera il papa vuole ristabilire la pace nella Chiesa di Corinto, fondata direttamente da San Paolo, ed ai tempi molto importante. Tale Chiesa era piu’ antica di quella romana e certamente alcuni suoi membri avevano conosciuto l’apostolo Paolo. Eppure si rivolgono al papa e chiedono che sia lui a dirimere la controversia. E si badi che Costantino ed il concilio di Nicea erano di la’ da venire.
    In verita’, come scrive lo storico DUCHESNE “ la Chiesa di Roma si sentiva fin d’allora in possesso di quella autorita’ superiore e straordinaria che non cessera’ mai di rivendicare “.
    San Clemente interviene un’altra volta in un’altra questione, ma non si limita a scrivere, manda anche suoi incaricati.
    E come reagiscono queste Chiese? Tutte obbediscono. Nessuna protesta. Settant’anni dopo il vescovo di Corinto, scrivendo a papa Sotero, ricordera’ che la lettera di Clemente veniva ancora letta
    con devozione nelle assemblee liturgiche.
    I padri greci e latini hanno fatto numerose edizioni e traduzioni di questa lettera tanto che e’ stata addirittura inserita nel codice Alessandrino della Bibbia.
    Per cui: 1) il vescovo di Roma era consapevole di avere autorita’ su tutta la Chiesa;

    2) tutta le Chiese gli riconoscevano questa autorita’.

    Abbiamo un’altra incredibile testimonianza, una lettera scritta verso il 107 da sant’Ignazio di Antiochia morto martire e destinata alla Chiesa di Roma. E’ un testo famoso in cui tra l’altro vi leggiamo: “… alla Chiesa che ha anche la presidenza nel luogo della regione dei Romani ( quae etiam praesidet in loco regionis Romanorum), degna di Dio, degna d’onore, degna di benedizione, degna di lode, degna di essere esaudita, adorna di candore, posta a presiedere alla carita’, depositaria della legge di Cristo, portante il nome del Padre…”
    Con S. Ignazio siamo all’inizio del secondo secolo, neanche 100 dopo la morte di Gesu’, e gia’ cominciano i primi pellegrinaggi a Roma per attingere alle sorgenti di quella che era considerata la vera fede.
    E via via, altre testimonianze che elevano Roma come la regola suprema della Chiesa universale per
    cui essere d’accordo con la Chiesa di Roma e’ garanzia di verita’, essere in disaccordo sicuro segno d’errore.
    Si veda, ad esempio , la lettera di S. Ireneo a papa Vittore e la testimonianza del vescovo Abercio.
    Concludo con la consapevolezza di non aver detto quasi nulla sull’argomento.
    Del resto stiamo riferendoci a 2000 anni di storia impossibili da delineare in poche pagine.
    Come considerazione finale posso aggiungere che i più tenaci e subdoli nemici della Chiesa sono presenti proprio al suo interno.
    Cosa aspettarci allora se il comandamento di Gesù di andare e predicare il vangelo sembra arrivato a un punto morto dato che esso, non solo non viene accettato dai popoli asiatici e da quelli di fede
    musulmana, ma perfino rifiutato per non dire osteggiato da chi ha avuto la grande fortuna di averlo appreso sin da bambino?
    In moltissimi paesi, lo sappiamo essere cristiani è un delitto e convertirsi al cristianesimo una colpa da punire con la pena di morte.
    Pensare che queste popolazioni accettino di aderire alla fede in Cristo, è obiettivamente utopistico.
    Ma quello che è impossibile all’uomo non è impossibile a Dio.
    Forse, chi giunge nei nostri Paesi per trovare un lavoro e una vita più dignitosa, forse, un giorno roverà qualcosa di infinitamente più grande e importante.
    Federico Lenchi

    L’anima e il suo destino:adversus Mancuso.

    A cura del Dott.Federico Lenchi

    PECCATO ORIGINALE

    Continuando l’analisi teologica dell’Anima e il suo destino, invio una breve riflessione prendendo spunto da quanto affermato dal Prof. Mancuso a pag. 165 e più precisamente al paragrafo 59 con il sottotitolo: Due dogmi che fanno a pugni tra loro: origine dell’anima e peccato originale.
    Mancuso scrive:” La fede cattolica ci obbliga (???) a ritenere che le anime vengono create direttamente da Dio, e nello stesso tempo assoggettarla alla corruzione e alla concupiscenza ponendola in uno stato di inimicizia con lui (scritto minuscolo, scusa la pignoleria) al punto che si deve parlare di “morte dell’anima”, come stabilito sempre dal Magistero nel Concilio di Trento (vedi DH 1512). E prosegue più oltre: “Se l’anima è partecipe della natura divina, non può essere corrotta; se invece è corrotta, non può essere partecipe della natura divina”.
    Ora dato che -continua Mancuso- “neppure Agostino sapeva risolvere il problema di questo conflitto dogmatico…per risolverlo ci sono tre possibilità:
    -si tiene il dato della creazione diretta dell’anima spirituale da parte di Dio;
    -si tiene il dato dell’anima che nasce spiritualmente morta perchè soggetta al peccato originale;
    -non si tiene nessuno dei due.
    Mancuso afferma che le prime due ipotesi siano insostenibili per cui aderisce alla terza via e a conclusione del paragrafo ribadisce:” …è sulla base di Dio come Logos che si vede che il dogma del peccato originale, così com’è non tiene”
    (cfr.pp.165-167).
    Riassumendo, secondo l’Autore:
    1-l’anima non può essere creata da Dio in quanto corrotta;
    2-e neppure nascere spiritualmente morta;
    3- per i motivi suddetti le prime due ipotesi sono razionalmente insostenibili.
    A mio giudizio, sempre razionalmente, la prima ipotesi è, contrariamente a quanto creduto da Mancuso, sostenibilissima alla luce della Rivelazione.
    Infatti il peccato originale fu commesso non dal solo corpo o dalla sola anima dei progenitori ma dal concorso di entrambe secondo la concezione biblica, riaffermata dal Catechismo della Chiesa Cattolica (1992, par.365) che considera l’uomo come unità di anima e corpo in maniera così profonda che si deve considerare l’anima come forma del corpo. Da cui ne deriva che lo spirito e la materia, nell’uomo, non sono due nature congiunte ma un’unica natura.
    In altre parole, è Adamo inteso come “unica natura” che ha
    peccato e noi, suoi discendenti , ereditiamo questa colpa solo all’atto del concepimento quando a nostra volta diventiamo un’ unità e acquisiamo la nostra identità di uomini, ovvero quando avviene la fusione tra il corpo materiale datoci dai genitori e l’anima creata da Dio.
    Ma l’anima creata da Dio e da Lui donataci quale soffio vitale, è da ritenersi indenne da colpa fino a quando non diviene una sola sostanza col corpo dando origine ad una realtà unitaria, l’uomo.
    Prima che ciò avvenga l’anima non ha colpe, esce pura, viva non morta dalle mani di Dio, in quanto non è ancora partecipe della creaturalità umana.
    Mi sento quindi di rifiutare con decisione, l’affermazione di Mancuso secondo cui ” …il dogma del peccato originale, così com’è non tiene”.
    Ma capitolo dopo capitolo analizzeremo tutto il lavoro.
    Su una cosa concordo pienamente con Mancuso quando dice che nei tempi andati le menti migliori si dedicavano alla teologia mentre oggi quelle stesse menti, si dedicano alla scienza o ad altre attività più remunerative.

    GNOSI
    Riconosco nel prof. Mancuso un anelito sincero, uno sforzo intellettuale non da poco nella ricerca dell’Assoluto,il grande merito di sollevare problemi e stimolare risposte ma pur riconoscendoli questi meriti non posso condividerne il pensiero.
    A pag. 30 leggo:”Pubblico il libro con la speranza di venir confutato.” e più oltre ” il mio obiettivo non è la vittoria personale. Contro chi poi? Contro la Chiesa, la madre e la maestra alla quale devo la fede?”.
    La Fede! questo è il problema a cui tutto va ricondotto!
    Mancuso, sa che le fonti della teologia sono necessariamente due: la fides e la ratio.
    La prima è la fonte dei suoi contenuti, la seconda è la fonte della loro comprensione. Ora come non rilevare che lui privilegia la seconda? Infatti leggo a pag. 29 del suo libro:” …ma come è possibile pensare che lo Spirito Santo non abbia sempre assistito la Chiesa quando era in gioco la formulazione del patrimonio dogmatico, il depositum fidei?
    Per rispondere è sufficiente dare un’occhiata alla Bibbia. La riteniamo giustamente ispirata dallo Spirito Santo, ma alcune sue pagine, sia dell’Antico Testamento sia del Nuovo, contengono un grado di violenza e di odio difficilmente ascrivibili allo Spirito Santo. Vi è un salmo, molto noto per il suo lirismo spirituale, che si conclude invitando a prendere i neonati dei nemici e a massacrarli sfracellando il loro tenero cranio contro le pietre”.E dopo aver riportato altri passi ugualmente cruenti conclude:” Ora, siccome di pagine di questo genere nella Bibbia ve ne sono in certa quantità, traggo la conclusione che la Bibbia non abbia goduto di una ispirazione tale da parte dello Spirito Santo da essere concepibile come garanzia di ogni parola in essa contenuta (cfr. pp.29-30).FIN QUI Mancuso.
    D’accordo che lui è un teologo e non un esegeta ma neppure io sono un esegeta e tanto meno un teologo ma un semplice credente che di professione fa il medico dentista. Eppure so che già, Clemente Alessandrino insegnava che” quasi tutta la Scrittura espone i suoi oracoli mediante espressioni enigmatiche”.
    Clemente ripartisce gli insegnamenti scritturistici a due livelli, uno di immediata comprensione e uno invece espresso in forma oscura e coperta, che reca profitto solo a chi sa interpretarla(Pedagogo III, 12,27), ossia lo gnostico (il teologo)….Infatti nè i profeti nè il Signore stesso hanno enunciato i misteri divini in forma semplice che fosse accessibile a tutti , ma hanno parlato per parabole come gli stessi apostoli hanno constatato”.
    Sarebbe molto lungo continuare per esporre per intero il suo pensiero. Quello che ho citato è solo per ricordare a Mancuso quello che già conosce e cioè che la Sacra Scrittura parla per allegorie e in questo senso va interpretata.
    Ma questa è una difficoltà che già Sant’Agostino aveva incontrato prima della sua conversione dal manicheismo:” Il mio orgoglio rifuggiva da quella maniera di esprimersi e il mio acume non penetrava nel suo intimo. Essa era tale da crescere insieme ai piccoli ma io, gonfio di superbia, mi volevo credere grande, sdegnando essere ancora bambino”.
    Vorrei arrivare subito alla conclusione ed esporre quelli che secondo me sono gli errori del pensiero teologico di Mancuso ma troppi sono gli adentellati che trovo nel percorso per cui mi fermo qui e rimando alla prossima volta l’addentrarmi nel cuore della sua teologia.

    INFERNO
    Esaminando “L’Anima e il suo Destino” di Vito Mancuso nel capitolo che tratta dell’inferno l’A. arriva ai seguenti risultati:
    1-il diavolo non esiste concretamente come persona oppure se esiste sarà obbligato da Dio a una conversione forzata che lo costringerà a vedere le sue tenebre sbaragliate dall’irrompere della forza della luce divina ;
    2-la punizione degli uomini abitati totalmente dal male, sarà o temporanea , e quindi non eterna oppure vi sarà una distruzione della personalità del peccatore in cui non si è trovato altro che odio.
    Devo subito precisare che si tratta di antiche concezioni, elaborate fin dai primi tempi della Chiesa, come vedremo, atte a mettere in dubbio fino a rifiutarla l’inquietante rivelazione sull’inferno relativa alla sua eternità.
    L’A. pertanto non dice nulla di nuovo ma ripropone quanto già detto a partire dal III secolo da Origene e dagli Origenisti (cfr.pp. 275-76).
    Vediamo da subito come queste teorie siano in netto contrasto con quanto insegnato dal Magistero Cattolico che indica l’inferno, dal latino “luogo che sta sotto”, come uno stato o situazione di infinita sofferenza determinata dal rifiuto totale e definitivo di Dio, degli altri, di se stessi e del mondo, in contrasto con la vocazione di vivere in comunione.
    La Bibbia, al fine di indurci ad opporci con tutte le forze al male, ci presenta la possibilità di dannazione con immagini di morte e di disperazione, immagini che vanno indubbiamente interpretate ma non sminuite (cfr. Mt. 10,28; I Cor. 3,17; Gal. 6,7; Fil. 3,19; Ap. 2,11; 20,6.14; 21,8).
    La Bibbia altresì evidenzia con assoluta chiarezza i diversi aspetti della realtà del peccato:
    -IDOLATRIA, Adamo ed Eva volevano essere come dei
    -RIVENDICAZIONE DI ASSOLUTA AUTONOMIA MORALE, cioè decidere in modo autosufficiente ciò che è bene e ciò che è male;
    -RIFIUTO DELLA CONDIZIONE CREATURALE, ovvero perdita della relazione vitale con
    Dio. In altre parole la radice del peccato va rintracciata nel libero arbitrio dell’uomo, nella sua libertà di opporsi al suo progetto.
    Per tali ragioni il peccato è descritto nell’Antico Testamento e confermato nel Nuovo, come, infedeltà, adulterio, fornicazione ossia come rinnegamento del patto di amore che Dio ha stipulato con l’uomo.

    L’aspetto più inquietante della rivelazione sull’inferno è, come abbiamo visto, quello della sua irreversibilità ed eternità. Per tale ragione già nei primi secoli presero corpo alcune teorie di cui le principali sono quelle relative all’Apocatàstasi e all’Annichilazione.
    Fu Origene, soprannominato Adamanzio “uomo d’acciaio”(185?-250) che per primo, in ambito cristiano, sviluppò la teoria dell’Apocatàstasi.
    Per valutare correttamente il suo pensiero teologico bisogna innanzi tutto tenere ben presente l’epoca in cui scrisse le sue opere.
    Egli, nella ricerca della conoscenza esatta dei divini misteri, si incammina in territori sconosciuti ed inesplorati formulando ipotesi che non avevano la pretesa di soluzioni definitive e non potendo contare quindi, su quella grande “auctoritas”, strumento preziosissimo per il teologo, che è il Magistero della Chiesa che, con i grandi Concili del IV e V secolo, fisseranno con la Regula fidei, argini invalicabili per la ricerca teologica.
    L’opera di Origene, tesa a rafforzare la fede con il ragionamento ma non in modo frammentario chiarendo quel particolare punto o mistero, ma cercando globalmente tutta l’economia della salvezza , inserendo tutte le vicende e tutti gli attori, oltre che per l’Apocatàstasi fu condannata più in generale per il pensiero ellenico che vi compariva anche se Origene scriveva, ben consapevole che la filosofia è un’arma a doppio taglio:” approfittano di questa conoscenza che hanno dell’ellenismo per generare dottrine eretiche e fabbricare, per così dire, vitelli d’oro a Bethel” ( I Principi).
    Era però del parere che i barbari ( i cristiani) sono capaci di scoprire le dottrine ma che i greci sono più abili a giudicare, fondare e adattare alla pratica delle virtù le scoperte dei barbari per cui conclude che “chiunque arriva all’insegnamento cristiano dalle dottrine e dalle discipline dei greci, è in grado di giudicare della sua verità”, stabilendo in tal modo una certa affinità almeno propedeutica tra le due verità, quella ellenica e quella cristiana.
    Senza addentrarmi nel pensiero di questo autentico genio creativo, grandissimo precursore della ricerca teologica, ricordo che la condanna formale di Origene avvenne con il V Concilio di Costantinopoli nel 553, voluto dall’imperatore “teologo” Giustiniano in cui furono pronunciati 15 anatematismi che lo riguardavano. La controversia sull’ortodossia del suo pensiero, fu iniziata nel 394 dal vescovo Epifanio di Salamina e portata a termine da Girolamo che in un primo momento ne era stato un convinto ammiratore.
    Questo portò a una delle più aspre e meno edificanti polemiche tra Girolamo e il suo vecchio amico Rufino, controversia di cui parlò con grande avvilimento anche Agostino nei seguenti termini:” magnum et triste miraculum”.
    Ma per tutto il secolo precedente i grandi Padri greci e latini, da Gregorio taumaturgo fino ad Ambrogio di Milano, avevano avuto parole di enorme elogio ed apprezzamento per il pensiero di Origene.
    Gli anatematismi con cui fu condannato a posteriori, riportano passi presi dalle opere di Evagrio e non da quelle di Origene.
    In tutto il pensiero di Origene è sempre presente un vero spirito ecclesiale, tanto che volle sempre servire esclusivamente la sua Chiesa e fu sempre pronto a sottomettersi al suo giudizio: “ Se io che porto il nome di presbitero e che ho annunciato la parola di Dio, tradissi mai la dottrina della Chiesa e la regola del Vangelo, cosicché a te, Chiesa, fossi motivo di scandalo, possa l’intera Chiesa con unanime decisione, mozzare e gettare via me, sua destra”.
    Tali parole avrebbero dovuto impedire che Origene fosse annoverato tra gli eretici e l’intera sua opera proscritta:
    Ben diverse quelle del modernista Loisy che riporto a memoria:” non è in me la facoltà di cancellare il frutto delle mie ricerche”.
    RITENGO AUSPICABILE CHE LA CHIESA, CHE TANTO DEVE AD ORIGENE, RIVEDA LA CONDANNA; A SUO TEMPO TROPPO AFFRETTATAMENTE ESPRESSA.
    Alle ipotesi sull’inferno di Origene e della sua scuola che Mancuso ha fatto proprie, esporrò quella che potrebbe essere un’altra ipotesi che non è in contrasto con le Scritture e che concilia meglio l’infinita Giustizia di Dio con la sua altrettanto infinita misericordia.
    Ma prima di farlo continuiamo il discorso sull’Inferno e vediamo come Mancuso oltre all’apocatàstasi
    prenda in considerazione l’annichilazione ovvero la riduzione al niente del dannato.
    Ma né l’apocatàstasi,né tanto meno l’annichilazione trovano alcun fondamento nella Scrittura.
    D’altro canto, Le due lettere cui si fa riferimento per giustificare tali teorie e cioè, la lettera ai Corinzi (I, 15-18) che afferma che alla fine del mondo, Dio sarà tutto in tutti, e quella ai Colossesi (I,20) secondo cui Dio in Cristo ha voluto riconciliare a sé tutte le cose, vanno lette ed interpretate nella loro interezza, non limitandosi a queste due affermazioni.
    L’ ipotesi dell’apocatàstasi, va contro ogni logica, perché:
    1- non rispetta la serietà e l’impegno della vita terrena che in tal modo assumerebbe le fattezze di una colossale commedia giocata sulla pelle degli uomini,
    2- negherebbe la gravità del peccato, per cui nulla farebbe più la differenza tra un agire retto e un agire all’insegna del male,
    3- toglierebbe poi significato al libero arbitrio umano e degli angeli decaduti e
    4- svuoterebbe di ogni significato di redenzione l’altissimo prezzo pagato da Cristo in croce.
    Parimenti l’annichilazione non rispetterebbe la scelta dei perduti che ostinatamente hanno rifiutato Dio e renderebbe lo stesso Dio artefice di un progetto di distruzione delle creature da Lui create.
    Fermo restando che io ritengo come assoluta verità, quella insegnata dalla “nostra” Chiesa, mi sembrerebbe più logico pensare che:

    Dio nella sua infinita misericordia abbia stabilito che chi, con assoluta ostinazione libera volontà e piena coscienza, abbia rotto il suo rapporto con Lui trasgredendo le sue leggi per perseguire pervicacemente il male, verrà posto, per l’eternità, in una terra d’oblio, di tenebre e di silenzio come si legge in Dt (32, 22) e in Gb (26,5; 36, 16-17) ovvero una terra di ombre.
    Questa visione non sarebbe in contrasto con l’A.T. e concilierebbe la Giustizia con la Misericordia.

    L’anima e il suo destino.

    Anima

     di

    Vito Mancuso

    “Il libro incontrerà opposizioni e critiche, ma sarà difficile parlare di questi argomenti senza tenerne conto”, scrive nella prefazione al volume il cardinale Martini. Gli argomenti sono i più classici, l’esistenza e l’immortalità dell’anima, il suo destino di salvezza o perdizione. Del tutto nuova è invece la trattazione, in cui scienza e filosofia assumono il ruolo di interlocutori privilegiati della teologia, configurando una fondazione del concetto di anima immortale di fronte alla coscienza laica. Criticando alcuni dogmi consolidati, il libro affronta l’interrogativo fondamentale che da sempre inquieta la mente degli uomini: se esiste e come sarà la vita dopo la morte.

     Commento 

    a cura di

    Giuseppe

    Artino Innaria

     La Chiesa Cattolica ormai ha da tempo perso quel primato culturale detenuto nella nostra civiltà per secoli. Eppure, per nostra fortuna, nella comunità ecclesiale contemporanea non mancano voci affascinanti, capaci di incantare anche i non credenti, soprattutto quegli “atei devoti” sensibili al richiamo delle sirene dello Spirito ed inquieti nella inesausta ricerca di una sfuggente Verità.

    Nel panorama culturale cattolico italiano una attenzione di rilievo merita Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. “L’anima e il suo destino”, un tema avvincente quanto impervio, è il titolo del suo ultimo libro.

    Già, l’anima – questa dimensione impalpabile ancorché viva ed essenziale, oggi sempre più smarrita e confusa, dell’esistenza di ogni uomo -, alla ricerca della quale si era cimentato già, in un viaggio di straordinaria ricchezza di riferimenti culturali e di entusiasmante stimolo intellettuale, Monsignor Gianfranco Ravasi, biblista e oggi Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, nel suo “Breve storia dell’anima” (2003, Arnoldo Mondadori Editore, pagine 341).

    E, sopra ogni altra cosa, il suo destino finale, intorno al quale si gioca l’intera posta della fede.

    L’opera di Mancuso è una coraggiosa avventura teologica, in cui egli chiama a compagna ed interlocutrice la coscienza laica (“quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per se stessa e non per appartenere a un’istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perché ne è profondamente convinta, e non perché l’abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanti numerosi antipapi della cultura laicista”: “L’anima e il suo destino”, pag. 1), per fondare una teologia che non arretri di fronte ai risultati della scienza e al metodo critico della filosofia, e che sappia unificare i contenuti dell’una e dell’altra in un sapere unitario costruito con un discorso razionale e teso alla conquista della verità. Compito non facile, specie se impone addirittura la rivisitazione e la messa in discussione di non pochi profili dogmatici e cardinali della dottrina della Chiesa e a farne le spese è, innanzitutto, una impalcatura concettuale eretta sulle fondamenta della pesante eredità del pensiero di Sant’Agostino.

    Per Mancuso il cosmo è un trattato su Dio al pari delle Sacre Scritture. Grazie ai contributi della scienza, l’uomo è in grado di rintracciare il Principio Ordinatore, il Logos che regge la natura secondo una logica di incremento della complessità e dell’informazione, l’ordine che dà forma all’energia alla base dell’essere, in una linea di evoluzione che dalla materia inerte porta alla vita e man mano alla comparsa degli esseri intelligenti e allo sviluppo della morale e della spiritualità. Questa saggezza basata sull’osservazione della natura ci dà conferma del messaggio cristiano, perché il principio fondamentale dell’essere come energia non è altro che la relazione, che produce armonia e contrasta la deriva entropica dell’universo. Il Logos, quindi, è relazione, che, attraverso i legami, crea sostanza nuova, in un incessante riprodursi di energia su livelli qualitativi sempre superiori. Ma se il Logos è relazione, allora è l’amore l’attuazione perfetta del Logos, in quanto relazione perfetta tra gli esseri.

    L’immortalità dell’anima non è una chimera, ma non è nemmeno la graziosa elargizione di una divinità imperscrutabile che dispensa la Grazia secondo disegni oscuri. Essa è il frutto del lavoro spirituale, della capacità dell’individuo di realizzare dentro e fuori di sé l’ordine relazionale in cui si sostanzia il Logos, permettendo a quel sovrappiù di energia che è l’anima di sopravvivere al corpo nel dare vita ad una ulteriore rottura ontologica, in cui l’energia si incrementa al punto da farsi puro spirito a prescindere da un supporto materiale.

    Dio, il Principio Primo, su cui si fonda il Principio Ordinatore, per l’autore del libro, rimane personale, per quanto trascendente rispetto al Mondo, che governa per mezzo della legge impersonale del Logos. La trascendenza di Dio rispetto al Mondo spiega la distanza che può porsi tra i due termini, il cuneo di libertà che Mancuso chiama “il peccato del mondo” nel tentativo di rileggere il dogma del peccato originale.

    Il rapporto tra libertà e Dio è delicato, tanto più che esso coinvolge anche l’opposizione tra una concezione personale della divinità e quella teologia negativa, per la quale di Dio si può solo dire, con Meister Eckhart, che è “negazione della negazione”.

    Se la libertà fa parte dello statuto ontologico della divinità, forse, non è la libertà il vero “peccato del mondo”, come ritiene Mancuso, perché la libertà del mondo rispecchia quella di Dio tanto quanto il Logos. Forse il vero peccato del mondo è la distanza ontologica da Dio.

    Se il mondo viene da Dio, viene come emanazione di una energia traboccante, che, tuttavia, nel manifestarsi si allontana dall’origine, ed è in questo distacco che risiede il rischio di perdizione. Nell’ottica del ritorno a Dio, l’amore dell’uomo per Dio è essenziale tanto quanto l’amore di Dio per l’uomo e per tutto il creato. Ma il rischio di perdizione probabilmente è solo apparente, perché nella logica dell’essere tutto non può che reintegrarsi nell’origine ed è questo il vero significato della redenzione (il pensiero corre a quelle teorie sull’universo che ipotizzano una fase di espansione ed una di concentrazione dell’energia e della materia).

    Mancuso, in maniera condivisibile, ha il merito, dal nostro punto di vista, di recuperare la dottrina dell’apocatastasi, della reintegrazione di tutte le cose in Dio, rifacendosi ad uno dei padri della Chiesa, Origene, osteggiato da Agostino, per il quale, invece, la massa umana, segnata dal marchio del peccato originale, è dannata, predestinata alla perdizione eterna, tranne nei pochi eletti dalla Grazia.

    L’opera di Mancuso contiene enormi aperture non solo verso la laicità, ma soprattutto verso il pluralismo religioso in nome del carattere universale della verità. Nell’ammettere che è possibile salvarsi anche senza aver conosciuto il messaggio evangelico, la Chiesa ha superato l’antico principio “extra ecclesiam nulla salus”. Nondimeno, il grande interrogativo che giriamo all’autore del libro, è: si può costruire una teologia universale rimanendo cristiani? È la medesima domanda che si pone il sociologo francese Frederic Lenoir in “Le Metamorfosi di Dio. La nuova spiritualità occidentale” (Garzanti, 2005, pagg. 326 ss.). Gesù costituisce il fulcro centrale del Cristianesimo principalmente perché la sua venuta, la sua opera di redenzione, il suo sacrificio sulla croce rappresentano eventi unici, irripetibili nella storia dell’umanità. Lenoir segnala il pericolo di come questa posizione possa finire per emarginare il cristianesimo nella modernità: “Il quesito cruciale che la modernità pone alla teologia cristiana è quello di una possibilità di mantenere la propria unità, coerenza e identità, facendo nel contempo evolvere la propria teologia cristologica ed ecclesiologica in una direzione che gli permetta di prendere in considerazione il pluralismo religioso. In altri termini, il cristianesimo può rimanere sé stesso, rinunciando a dichiararsi depositario della verità ultima, nonché a ritenere che tutte le religioni dell’umanità sono solo vie imperfette di salvezza?”.

    Infine, una rimeditazione del senso della teologia cristiana non può non passare attraverso la consapevolezza che la verità può essere attinta per diverse vie e in diversi gradi. Uno dei limiti del cattolicesimo è quello di non distinguere una dimensione esoterica da quella essoterica. Certi dogmi che la razionalità teologica smonta, per contro, hanno conservato per secoli una utilità dimostrativa essenziale per gli spiriti semplici. Quegli stessi dogmi, ciononostante, non possono risultare appaganti per gli intelletti bramosi di possedere la verità per mezzo di una fede, non concepita come credenza senza spiegazioni, come fiducia cieca nel magistero dell’autorità ecclesiale o come pragmatica scommessa alla Pascal, bensì come convincimento conquistato con la conoscenza. Il riconoscimento di stadi e modalità diverse della rivelazione potrebbe portare ad una nuova maturità del pensiero teologico.

    L’ANIMA E IL SUO DESTINO Autore: Vito Mancuso. Pagine: 323. Anno: 2007. Editore: Raffaello Cortina Editore.

    Controrepliche all’opera del Prof.Vito Mancuso

    a cura del

    Dott.

    FEDERICO LENCHI

    (Prima parte)

    Esaminando “L’Anima e il suo Destino” nel capitolo che tratta dell’inferno l’A. arriva ai seguenti risultati:
    1-il diavolo non esiste concretamente come persona oppure se esiste sarà obbligato da Dio a una conversione forzata che lo costringerà a vedere le sue tenebre sbaragliate dall’irrompere della forza della luce divina ;
    2-la punizione degli uomini abitati totalmente dal male, sarà o temporanea , e quindi non eterna , oppure vi sarà una distruzione della personalità del peccatore in cui non si è trovato altro che odio.
    Devo subito precisare che si tratta di antiche concezioni, elaborate fin dai primi tempi della Chiesa, come vedremo, atte a mettere in dubbio fino a rifiutarla l’inquietante rivelazione sull’inferno relativa alla sua eternità.
    L’A. pertanto non dice nulla di nuovo ma ripropone quanto già detto a partire dal III secolo da Origene e dagli Origenisti. (cfr.pp. 275-76)

    Vediamo da subito come queste teorie siano in netto contrasto con quanto insegnato dal Magistero Cattolico che indica l’inferno, dal latino “luogo che sta sotto”, come uno stato o situazione di infinita sofferenza determinata dal rifiuto totale e definitivo di Dio, degli altri, di se stessi e del mondo, in contrasto con la vocazione di vivere in comunione.
    La Bibbia, al fine di indurci ad opporci con tutte le forze al male, ci presenta la possibilità di dannazione con immagini di morte e di disperazione, immagini che vanno indubbiamente interpretate ma non sminuite (cfr. Mt. 10,28; I Cor. 3,17; Gal. 6,7; Fil. 3,19; Ap. 2,11; 20,6.14;21,8).
    La Bibbia altresì evidenzia con assoluta chiarezza i diversi aspetti della realtà del peccato:
    -IDOLATRIA Adamo ed Eva volevano essere come dei
    -RIVENDICAZIONE DI ASSOLUTA AUTONOMIA MORALE, cioè decidere in modo autosufficiente ciò che è bene e ciò che è male;
    -RIFIUTO DELLA CONDIZIONE CREATURALE, ovvero perdita della relazione vitale con
    Dio. In altre parole la radice del peccato va rintracciata nel libero arbitrio dell’uomo, nella sua
    libertà di opporsi al suo progetto.
    Per tali ragioni il peccato è descritto nell’Antico Testamento e confermato nel nuovo, come, infedeltà, adulterio, fornicazione ossia come rinnegamento del patto di amore che Dio ha stipulato con l’uomo.

    L’aspetto più inquietante della rivelazione sull’inferno è, come abbiamo visto, quello della sua irreversibilità ed eternità. Per tale ragione già nei primi secoli presero corpo alcune teorie di cui le principali sono quelle relative all’Apocatastasi e all’Annichilazione.
    Fu Origene, soprannominato Adamanzio “uomo d’acciaio”(185?-250) che per primo, in ambito cristiano, sviluppò la teoria dell’Apocatastasi.
    Per valutare correttamente il suo pensiero teologico bisogna innanzi tutto tenere ben presente l’epoca in cui scrisse le sue opere.
    Egli nella ricerca della conoscenza esatta dei divini misteri si incammina in territori sconosciuti ed inesplorati formulando ipotesi che non avevano la pretesa di soluzioni definitive e non potendo contare quindi, su quella grande auctoritas, strumento preziosissimo per il teologo, che è il Magistero della Chiesa che, con i grandi Concili del IV e V secolo, fisseranno con la Regula fidei argini invalicabili per la ricerca teologica.
    L’opera di Origene, tesa a rafforzare la fede con il ragionamento ma non in modo frammentario chiarendo quel particolare punto o mistero, ma cercando globalmente tutta l’economia della salvezza , inserendo tutte le vicende e tutti gli attori, oltre che per l’Apocatastasi fu condannata più in generale per il pensiero ellenico che vi compariva anche se scriveva, ben consapevole che la filosofia è un’arma a doppio taglio:” approfittano di questa conoscenza che hanno dell’ellenismo per generare dottrine eretiche e fabbricare, per così dire, vitelli d’oro a Betel” ( I Principi).
    Era però del parere che i barbari ( i cristiani) sono capaci di scoprire le dottrine ma che i greci sono più abili a giudicare, fondare e adattare alla pratica delle virtù le scoperte dei barbari per cui conclude che “chiunque arriva all’insegnamento cristiano delle dottrine dalle dottrine e dalle discipline dei greci, è in grado di giudicare della sua verità” stabilendo in tal modo una certa affinità almeno propedeutica tra le due verità: quella ellenica e quella cristiana.
    Senza addentrarmi nel pensiero di questo autentico genio creativo, grandissimo precursore della ricerca teologica, ricordo che la condanna formale di Origene avvenne con il V Concilio di Costantinopoli nel 553, voluto dall’imperatore “teologo” Giustiniano in cui furono pronunciati 15 anatematismi che lo riguardavano. La controversia sull’ortodossia del suo pensiero, fu iniziata nel 394 dal vescovo Epifanio di Salamina e portata a termine da Girolamo che in un primo momento ne era stato un convinto ammiratore.
    Questo portò a una delle più aspre e meno edificanti polemiche tra Girolamo e il suo vecchio amico Rufino di cui parlò anche Agostino nei seguenti e sconsolati termini:” magnum et triste miraculum”.
    Ma per tutto il secolo precedente i grandi Padri greci e latini, da Gregorio taumaturgo fino ad Ambrogio di Milano avevano avuto parole di grande elogio ed apprezzamento.
    Ma gli anatematismi con cui fu condannato a posteriori, riportano passi presi dalle opere di Evagrio e non da quelle di Origene.
    In tutto il pensiero di Origene è sempre presente un vero spirito ecclesiale, tanto che volle sempre servire esclusivamente la sua Chiesa e fu sempre pronto a sottomettersi al suo giudizio: “ Se io che porto il nome di presbitero e che ho annunciato la parola di Dio, tradissi mai la dottrina sella Chiesa e la regola del Vangelo, cosicché a te, Chiesa, fossi motivo di scandalo, possa l’intera Chiesa con unanime decisione, mozzare e gettare via me, sua destra”.
    Tali parole avrebbero dovuto impedire che Origene fosse annoverato tra gli eretici e l’intera sua opera proscritta:
    Ben diverse quelle del modernista Loisy che riporto a memoria:” non è in me la facoltà di cancellare il frutto delle mie ricerche”.

    RITENGO AUSPICABILE CHE LA CHIESA, CHE TANTO DEVE AD ORIGENE; RIVEDA LA CONDANNA, A SUO TEMPO TROPPO AFFRETTATAMENTE ESPRESSA.

    Continuando il discorso sull’Inferno vediamo come Mancuso, oltre all’apocatàstasi, prenda in considerazione l’annichilazione ovvero la riduzione al niente del dannato.
    Ma né l’apocatàstasi,né tanto meno l’annichilazione trovano alcun fondamento nella Scrittura.
    D’altro canto, Le due lettere cui si fa riferimento per giustificare tali teorie e cioè, la lettera ai Corinzi (I, 15-18) che afferma che alla fine del mondo, Dio sarà tutto in tutti, e quella ai Colossesi (I,20) secondo cui Dio in Cristo ha voluto riconciliare a sé tutte le cose, vanno lette ed interpretate nella loro interezza, non limitandosi a queste due affermazioni.
    L’ ipotesi dell’apocatàstasi, va contro ogni logica, perché non rispetta la serietà e l’impegno della vita terrena che in tal modo assumerebbe le fattezze di una colossale commedia giocata sulla pelle degli uomini, negherebbe la gravità del peccato, per cui nulla farebbe più la differenza tra un agire retto e un agire all’insegna del male, toglierebbe poi significato al libero arbitrio umano e degli angeli decaduti e svuoterebbe di ogni significato di redenzione l’altissimo prezzo pagato da Cristo in croce.
    Parimenti l’annichilazione non rispetterebbe la scelta dei perduti che ostinatamente hanno rifiutato Dio e renderebbe lo stesso Dio artefice di un progetto di distruzione delle creature da Lui create.
    Fermo restando che io ritengo come assoluta verità, quella insegnata dalla “mia” Chiesa mi sembrerebbe più logico pensare che:

    Dio nella sua infinita misericordia abbia stabilito che chi, con assoluta ostinazione libera volontà e piena coscienza, abbia rotto il suo rapporto con Lui trasgredendo le sue leggi per perseguire pervicacemente il male, verrà posto, per l’eternità, in una terra d’oblio, di tenebre e di silenzio come si legge in Dt (32, 22) e in Gb (26,5; 36, 16-17) ovvero una terra di ombre.
    Questa visione non sarebbe in contrasto con l’A.T. e concilierebbe la Giustizia con la Misericordia.

    Continuando l’analisi teologica dell’Anima e il suo destino, ti invio una breve riflessione prendendo spunto da quanto affermato dal Prof. Mancuso a pag. 165 e più precisamente al paragrafo 59 con il sottotitolo: Due dogmi che fanno a pugni tra loro: origine dell’anima e peccato originale.
    Mancuso scrive:” La fede cattolica ci obbliga (???) a ritenere che le anime vengono create direttamente da Dio, e nello stesso tempo assoggettarla alla corruzione e alla concupiscenza ponendola in uno stato di inimicizia con lui (scritto minuscolo, scusa la pignoleria) al punto che si deve parlare di “morte dell’anima”, come stabilito sempre dal Magistero nel Concilio di Trento (vedi DH 1512). E prosegue più oltre: “Se l’anima è partecipe della natura divina, non può essere corrotta; se invece è corrotta, non può essere partecipe della natura divina”.
    Ora dato che -continua Mancuso- “neppure Agostino sapeva risolvere il problema di questo conflitto dogmatico…per risolverlo ci sono tre possibilità:
    -si tiene il dato della creazione diretta dell’anima spirituale da parte di Dio;
    -si tiene il dato dell’anima che nasce spiritualmente morta perchè soggetta al peccato originale;
    -non si tiene nessuno dei due.
    Mancuso afferma che le prime due ipotesi siano insostenibili per cui aderisce alla terza via e a conclusione del paragrafo ribadisce:” …è sulla base di Dio come Logos che si vede che il dogma del peccato originale, così com’è non tiene” (cfr.pp.165-167).
    Riassumendo, secondo l’Autore:
    1-l’anima non può essere creata da Dio in quanto corrotta;
    2-e neppure nascere spiritualmente morta;
    3- per i motivi suddetti le prime due ipotesi sono razionalmente insostenibili.
    A mio giudizio, sempre razionalmente, la prima ipotesi è, contrariamente a quanto creduto da Mancuso, sostenibilissima alla luce della Rivelazione.
    Infatti il peccato originale fu commesso non dal solo corpo o dalla sola anima dei progenitori ma dal concorso di entrambe secondo la concezione biblica, riaffermata dal Catechismo della Chiesa Cattolica (1992, par.365) che considera l’uomo come unità di anima e corpo in maniera così profonda che si deve considerare l’anima come forma del corpo. Da cui ne deriva che lo spirito e la materia, nell’uomo, non sono due nature congiunte ma un’unica natura.
    In altre parole, è Adamo inteso come “unica natura” che ha peccato e noi, suoi discendenti , ereditiamo questa colpa solo all’atto del concepimento quando a nostra volta diventiamo un’ unità e acquisiamo la nostra identità di uomini, ovvero quando avviene la fusione tra il corpo materiale datoci dai genitori e l’anima creata da Dio.
    Ma l’anima creata da Dio e da Lui donataci quale soffio vitale, è da ritenersi indenne da colpa fino a quando non diviene una sola sostanza col corpo dando origine ad una realtà unitaria, l’uomo.
    Prima che ciò avvenga l’anima non ha colpe, esce pura, viva non morta dalle mani di Dio, in quanto non è ancora partecipe della creaturalità umana.
    Mi sento quindi di rifiutare con decisione, l’affermazione di Mancuso secondo cui ” …il dogma del peccato originale, così com’è non tiene”.
    Ma capitolo dopo capitolo analizzeremo tutto il lavoro.
    Su una cosa concordo pienamente con Mancuso quando dice che nei tempi andati le menti migliori si dedicavano alla teologia mentre oggi quelle stesse menti, si dedicano alla scienza o ad altre attività più remunerative.

    Ps.Questo non significa che l’anima sia preesistente al corpo ma solo che all’atto della sua creazione, nel momento in cui viene creata, questa è sola con Dio e quindi pura.
    Questo in virtù del fatto che il concetto di tempo non si applica all’Essere Supremo.
    Ma il Dio ipotizzato da Mancuso è vicino all’uomo, capisce la sua fragilità, partecipa ai suoi dolori?
    Io ritengo di no. Mi sembra un Dio frutto di una eccessiva razionalità, non sua, ma di Mancuso.
    Cercherò di spiegare più avanti perchè.

    Riconosco nel prof. Mancuso un anelito sincero, uno sforzo intellettuale non da poco nella ricerca dell’Assoluto,il grande merito di sollevare problemi e stimolare risposte ma pur riconoscendoli questi meriti non posso condividerne il pensiero.
    A pag. 30 leggo:”Publico il libro con la speranza di venir confutato.” e più oltre ” il mio obietTivo non è la vittoria personale.Contro chi poi? Contro la Chiesa, la madre e la maestra alla quale devo la fede?”.
    La Fede! questo è il problema a cui tutto va ricondotto!
    Mancuso, sa che le fonti della teologia sono necessariamente due: la fides e la ratio.
    La prima è la fonte dei suoi contenuti, la seconda è la fonte della loro comprensione. Ora come non rilevare una certa sua Mancanza nell’interpretarne i contenuti? Infatti leggo a pag. 29 del suo libro:” …ma come è possibile pensare che lo Spirito Santo non abbia sempre assistito la Chiesa quando era in gioco la formulazione del patrimonio dogmatico, il depositum fidei?
    Per rispondere è sufficiente dare un’occhiata alla Bibbia. La riteniamo giustamente ispirata dallo Spirito Santo, ma alcune sue pagine, sia dell’Antico Testamento sia del Nuovo, contengono un grado di violenza e di odio difficilmente ascrivibili allo Spirito Santo. Vi è un salmo, molto noto per il suo lirismo spirituale, che si conclude invitando a prendere i neonati dei nemici e a massacrarli sfracellando il loro tenero cranio contro le pietre”.E dopo aver riportato altri passi ugualmente cruenti conclude:” Ora, siccome di pagine di questo genere nella Bibbia ve ne sono in certa quantità, traggo la conclusione che la Bibbia non abbia goduto di una ispirazione tale da parte dello Spirito Santo da essere concepibile come garanzia di ogni parola in essa contenuta (cfr. pp.29-30).Fin qui Mancuso.
    D’accordo che lui è un teologo e non un esegeta ma neppure io sono un esegeta e tanto meno un teologo ma un semplice credente che di professione fa il medico dentista. Eppure so che già, Clemente Alessandrino, maestro di Origene e padre della teologia scientifica insegnava che” quasi tutta la Scrittura espone i suoi oracoli mediante espressioni enigmatiche”.
    Clemente ripartisce gli insegnamenti scritturistici a due livelli, uno di immediata comprensione e uno invece espresso in forma oscura e coperta, che reca profitto solo a chi sa interpretarla(Pedagogo III, 12,27), ossia lo gnostico (il teologo). “…Infatti nè i profeti nè il Signore stesso hanno enunciato i misteri divini in forma semplice che fosse accessibile a tutti , ma hanno parlato per parabole come gli stessi apostoli hanno constatato”.
    Sarebbe molto lungo continuare ad esporre per intero il suo pensiero. Quello che ho citato è solo per ricordare a Mancuso quello che già conosce e cioè che la Sacra Scrittura parla per allegorie e in questo senso va interpretata.
    Ma questa è una difficoltà che già Sant’Agostino aveva incontrato prima della sua conversione dal manicheismo:” Il mio orgoglio rifuggiva da quella maniera di esprimersi e il mio acume non penetrava nel suo intimo (la Bibbia). Essa era tale da crescere insieme ai piccoli ma io, gonfio di superbia, mi volevo credere grande, sdegnando essere ancora bambino”.
    Vorrei arrivare subito alla conclusione ed esporre quelli che secondo me sono gli errori del pensiero teologico di Mancuso ma troppi sono i rimandi che trovo lungo il percorso per cui mi fermo qui e rimando alla prossima volta l’addentrarmi nel cuore della sua teologia.

    Egr. Signor Pandiani. la ringrazio per le spiegazioni sull’A.T. relative ai versetti che sono stati motivo di inciampo per il Prof. Mancuso. Evidentemente lei è uno specialista di cui in questo dibattito si sentiva la mancanza e della cui presenza pertanto mi rallegro. Ero rimasto solo nella difesa dell’ortodossia. Oltre a quello che lei così autorevolmente ha spiegato aggiungerò qualcosa sulla Parusia.
    Credo di aver capito che tutto l’impianto speculativo del prof. Mancuso sia partito dal tentativo di giustificare il male e la sofferenza nel mondo, problema che già aveva angustiato Sant’Agostino.
    Per farlo ha teorizzato un Dio per così dire lontano, che agisce per interposto Principio Ordinatore Impersonale cui ha demandato il governo del mondo, non privilegiando l’uomo ma agendo indifferentemente in favore di tutte le cose.
    Nel suo ragionamento si avventura in conclusioni aberranti da un punto di vista cattolico:
    1)l’ anima come surplus di un’energia non meglio definita ma comunque di tipo fisico e come tale non creata da Dio ma mutuata dai genitori;
    2) uomo che si salva indipendentemente dalla Grazia ma per esclusivo merito personale raggiunto con la “capacità di riprodurre in sè e fuori di sè la logica generale della natura physis”(già sentito da Pelagio anche se questi non parlava di natura physis) (cfr. pp. 306-307);
    3)negazione dell’opera redentrice di Cristo al punto che”… l’immortalità non viene legata a un singolo evento del passato quale la risurrezione di Cristo, nè ricondotta a un atto divino unilaterale …” (cfr. pp. 307-308)e ancora:” Non è la risurrezione di Cristo, che per prima, vince la morte, ogni volta che è morto un uomo giusto, è già stata possibile mediante le leggi divine che governano il processo cosmico”:
    4) rifiuto dei dogmi (già teorizzato dalla New-age e dalla Massoneria:
    5) Negazione del diavolo e dell’inferno (dopo aver banalizzato il peccato si nega che il commetterlo coscentemente e pervicacemente, rifiutando fino all’ultimo il pentimento e la conversione a Dio possa comportare una pena.
    Mi fermo qui reputando che ce n’è abbastanza per provare disagio nei confronti di uno studioso che si definisce cattolico e che definisce formali e non sostanziali le differenze tra il suo pensiero e quello della dottrina cattolica!!!
    Ma anche il Peccato originale e la risurrezione della carne sono per lui dottrine senza fondamento.
    Ripeto ce n’è abbastanza per provare sofferenza nei confronti di un fratello in grave crisi di fede.
    Vediamo ora quali alibi invoca a sostegno delle sue tesi.
    Quello della Sacra Scrittura e più precisamente quei passi dell’A.T. che l’amico Pandiani ha così magistralmente spiegato nel loro corretto significato e in quelli della Parusia predicata da San Paolo che a mia volta cercherò di spiegare come meglio potrò;poi l’alibi degli antichi Padri incorsi in errori che avevano una spiegazione nell’ essere loro i primi esploratori di una teologia cristiana ancora agli albori, inesplorata e pertanto privi di quell’aiuto fondamentale che è l’auctoritas della Chiesa che verrà solo successivamente con i vari Concili. Infine altro alibi il primato della sua ragione impossibilitata ad accettare le dottrine suddette.
    Come possa un cattolico, che si dice grato alle suore e ai sacerdoti dell’oratorio per avergli fatto apprendere la fondamentale consuetudine alla preghiera, essere attore di tali e tante eresie da lui definite eufemisticamente “libertà di pensiero teologico” mi risulta non solo doloroso ma anche del tutto incomprensibile.
    Vista l’ora devo rimandare la discussione sulla Parusia a domani sperando che il signor Pandiani continui a seguirci.
    Egr.. Signor Pandiani,
    solo ora leggo le precisazioni da lei fornite riguardo il battesimo. Nel ringraziarla, ancora mi complimento per la grande cultura che dimostra di possedere e che mi è di stimolo ed insegnamento.
    In attesa di riprendere l’argomento devo però fornire qualche spiegazione sulla Parusia che lei è già fin d’ora è pregato di ampliare.

    Il capitolo 15 della 1 Corinzi è estremamente denso e complesso.
    L’occasione viene posta a Paolo dall’obiezione sollevata da alcuni, presenti nella comunità, tesa a negare la risurrezione dei morti. Problema molto grave che poteva minare dalle fondamenta l’essenza stessa della fede.
    Paolo infatti aveva portato l’annuncio della risurrezione a tutte le comunità che aveva fondato.
    Si trattava di un annuncio sconvolgente che meritava, prestandosi a fraintendimenti, un ulteriore approfondimento teologico.
    Iniziamo confrontando il suo pensiero sulla risurrezione quale emerge nella 1 Tess. 4, 13-18 per giungere poi alla posizione assunta in 1 Cor. 15.
    Tra questi due scritti intercorrono circa 5 anni essendo la 1 Tessalonicesi del 50-51 e la 1 Cor. del 54-55.
    La risurrezione è trattata in maniera molto diversa nelle due lettere poichè era premura di Paolo rispondere ai bisogni concreti delle comunità cui erano indirizzati.
    Quella dei Tessalonicesi era una comunità formata da non pochi cristiani provenienti dal giudaismo, e il giudaismo concepiva la salvezza in chiave esclusivamente escatologica per cui l’attesa della fine dei tempi e della storia era il tema teologico dominante.
    Ne consegue che una volta convertiti al cristianesimo, la loro attesa si concentrò tutta sul ritorno di Cristo che avrebbe segnato l’inizio di un mondo nuovo.
    Ma nel frattempo alcuni cristiani erano morti per cui la domanda che sorgeva era se questi sarebbero stati esclusi dalla partecipazione dell’incontro con il Signore.
    Quindi:
    1) nessuno a Tessalonica aveva messo in dubbio la predicazione Paolina circa la seconda venuta del Signore;
    2) ma ci si chiedeva quale sorte sarebbe toccata a quanti erano o sarebbero morti prima della realizzazione di tale evento.
    In risposta a questo dubbio, Paolo scrive preoccupandosi di confortare la giovane comunità cristiana:” Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perchè non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato:; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con Lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti…Confortatevi dunque a vicenda con queste parole”.
    Il ritorno di Cristo è descritto con due schemi diversi: quello giudaico con l’immagine della tromba, dell’arcangelo, delle nubi ovvero con quello tipico degli scritti apocalittici sulla fine, e quello ellenistico rappresentato dal corteo, dell’arrivo del Signore e l’ascesa con Lui verso il cielo.
    Da notare che in questo capitolo Paolo non affronta il problema dei non credenti o dei nemici della fede, non parla di Giudizio e non affronta il problema dei peccati, è convinto dell’imminente ritorno del Signore verso cui con una visione cristocentrica tutto converge.
    In questa fase della riflessione paolina resta in ombra il valore proprio della risurrezione finalizzata esclusivamente alla Parusia: Cristo deve tornare per prendere con se tutti i credenti.
    A sua volta la risurrezione non è molto importante per i Tessalonicesi che serve solo per coloro che al ritorno di Cristo sono già morti.
    Il proseguimento di questa analisi lo completerò appena mi sarà possibile e cioè compatibilmente con le mie disponibilità di tempo.
    Mi scuso se per ragioni di fretta posso aver commesso qualche errore. A volte, come in questo caso, invio senza neanche rileggere quello che ho scritto.
    Invito il signor Pandiani ad aggiungere qualcosa che posso aver dimenticato o ignorato.
    Continua…

    IL DUOMO di MONREALE.Lo splendore dei mosaici.

    Duomo-Monreale_1

    A quasi tre anni dalla morte,tanto repentina quanto eccessivamente improvvisa….., dell’Arcivescovo di Monreale Mons.Cataldo Naro,avvenuta il 29-09-2006,vede la luce un altro volume dedicato allo splendore dei mosaici del Duomo di Monreale in cui Cataldo Naro ebbe la sua “cattedra” come Pastore e Maestro per circa quattro anni.

    L’Arcivescovo Naro fu un grandissimo estimatore del significato teologico,biblico-catechetico,artistico,liturgico-mistagogico del duomo e dei sui meravigliosi mosaici che il Re normanno Guglielmo II fece costruire.

    Mons.Naro fece,davvero,tanto per rilanciare il significato spirituale e storico culturale del “suo” amato Duomo come luogo di preghiera,personale e comunitaria e d’incontro con il Cristo Risorto e Pantocratore della chiesa locale. Cristo come alfa e omega,il principio e la ricapitolazione,Colui che E’,prima del tempo,che si è fatto carne e che ritornerà,alla fine dei tempi,a giudicare i vivi e i morti:il suo regno non avrà fine!

    I testi del  volume, edito da Itaca libri, sono curati da David Abulafia e Massimo Naro.La presentazione,postuma,è dello stesso Mons.Cataldo Naro.

    IMG_2642

     Un patrimonio artistico di eccezionale bellezza mai documentato prima d’ora con tale ampiezza di immagini, realizzate mediante una apposita campagna fotografica e strumenti tecnici all’avanguardia. 

    Il duomo di Monreale è una delle testimonianze più impressionanti di quella stagione artistica straordinaria che la Sicilia visse nel XII secolo. 
    Sulle pareti del duomo si snoda un ciclo musivo, conservatosi pressoché intatto, che racconta la storia della salvezza, dalla creazione del mondo alla resurrezione di Cristo, in un percorso che ha alle sue estremità le due figure imponenti del Cristo pantocratore dell’abside, le cui braccia si aprono in un abbraccio commovente che accoglie il fedele lasciandolo senza parole, e della Vergine nella controfacciata, la cui maternità è segno perenne del rinnovarsi della presenza di Cristo che accompagna la vita degli uomini, posto genialmente sopra la porta attraverso la quale i fedeli lasciano la basilica per portare nel mondo la loro speranza.
    Oltre alla sequenza narrativa vetero e neotestamentaria, le pareti della basilica ospitano una impressionante serie di ritratti di santi, testimonianze perenni della vita della Chiesa. Anche in questo caso, la loro collocazione rivela un progetto geniale: 
    se infatti le absidi laterali ospitano i due capisaldi della fede cristiana, Pietro e Paolo, lungo le pareti del presbiterio e nei sottarchi delle navate si susseguono figure intere, busti e volti di monaci, vescovi, laici, eremiti, uomini e donne che hanno testimoniato la loro fede, chiesa trionfante sempre più vicina alla chiesa militante che affolla ogni giorno la chiesa, per concludersi nella controfacciata, accanto alla figura di Maria, con gli esempi più vicini alla gente di Monreale, Cassio, Casto e Castrense, i “loro” santi. 
    Il ciclo musivo di Monreale dispiega così un inno alla Chiesa di eccezionale bellezza. 
    «Il duomo di Monreale mostra tutta la sua bellezza quando vi si celebra la liturgia. È stato costruito per la liturgia. E per una liturgia regalmente solenne. È nel momento liturgico che esso appare davvero una reggia, una bellissima reggia, una regale casa di Dio, in cui si celebrano i divini misteri e sulle cui pareti si leggono i racconti della Bibbia, le storie di Dio. Tutto vi dice la presenza del Cristo risorto. Tutto aiuta a farsi presenti alla Divina Presenza. Il mondo di Dio e il mondo degli uomini vi appaiono contigui. Chi lo progettò e ne ideò i cicli musivi aveva molto vivo il senso della trascendenza
    di Dio e, insieme, della regalità divina di Gesù Cristo, il Figlio eterno di Dio fattosi uomo e morto e risorto per la nostra salvezza.»
    S.E. Mons. Cataldo Naro

    DSC06303

     Testi di David Abulafia e Massimo Naro
    Presentazione di Cataldo Naro
    Curatore campagna fotografica: Giovanni Chiaramonte
    Fotografi: Daniele De Lonti, Santo Eduardo Di Miceli, Jurij Gallegra

    La Bibbia nella letteratura italiana.Vol.II.

    B

    INTRODUZIONE

    IL NOVECENTO E LA BIBBIA

    Questo libro rappresenta l’ideale continuazione di quello sulla Bibbia nella letteratura italiana I. Dall’Illuminismo al Decadentismo. Come quello, non ha ambizione di sistematicità, poiché gli studiosi invitati a collaborare al volume hanno scelto in assoluta libertà gli autori o i personaggi su cui esercitare la loro attenzione. E tuttavia, anche in ragione del ventaglio relativamente ampio del volume, non paia troppo azzardato trarne alcune considerazioni d’assieme: sia pure un assieme non sistematico e neppure programmaticamente selettivo ma rapsodico e pressoché anarchico.

    Nel tentarne il riassunto, ignoriamo un intento primario del nostro lavoro, quello cioè di esaminare modi e senso degli echi biblici: una verifica intertestuale che il lettore troverà applicata in varia misura all’interno dei singoli saggi. Uno sguardo a volo d’uccello lungo la pista, meglio il sentiero tratteggiato (molti vuoti intercedono la traccia) che va da D’Annunzio a Luzi, ed oltre, deve giustificare innanzitutto il punto di partenza. L’autore che chiude il segmento ottocentesco, Giovanni Pascoli, è poco più vecchio del suo «fratello maggiore e minore», Gabriele d’Annunzio che anzi, da fanciullo prodigio, lo precede nel debutto sulla ribalta letteraria, ma che gli sopravvive a lungo, facendo esperienza del Novecento fin quasi alle soglie della seconda guerra mondiale, dopo aver attraversato da prim’attore, e cantato da vate, il primo conflitto, la cui vista viene risparmiata agli occhi del poeta romagnolo, chiusi per sempre nel 1912 dopo un’agonia che ispira all’amico esule in Francia le pagine della Contemplazione della morre, una delle sue prose più belle, e in certo senso la più religiosa. Potrebbe sembrare dunque una forzatura porre lo spartiacque fra i due volumi separando quei due scrittori così vicini per età e le cui opere, pur diverse per timbro, si intrecciano strettamente al punto che D’Annunzio può dedicare a Pascoli il capolavoro dell’Alcyone (1903) con l’immagine di un unico monte cui l’ultimo figlio degli Elleni e l’ultimo figlio i Vergilio, ossia Gabriele e Giovanni, ascendono per opposte balze. Vero è che la cima agognata è quella della bellezza classica, dunque attinente piuttosto al Mito che alla Bibbia. Pure, ha per noi un senso emblematico chiudere il secolo col nome di chi negli splendidi Poemi conviviali attraversa la civiltà antica fino al suo crepuscolo coincidente con l’alba della civiltà nuova che sta per nascere con un bimbo a Betlemme; col poeta che nel Piccolo vangelo fa rivivere con spirito di profonda adesione quelle parabole che D’Annunzio invece oserà parodiare con taglio quasi blasfemo nel suo Vangelo secondo l’Avversario.

    Chiudere un secolo con l’irenico Giovanni per aprirne uno nuovo col superomista Gabriele vale, se non altro, a ricordare che nella storia dello spirito nessun traguardo è definitivo. Quello del Pascoli è un approdo alla fede, in linea con l’immagine che Mariù ci lascia del fratello morente, o piuttosto un’ansia, una trepida speranza di fede? Non spetta a noi, e neppur forse al biografo, sentenziare sulle conversioni o presumere di giudicare della sincerità o profondità di un trasporto religioso: perché questo libro si colloca entro i confini della critica e della storiografia letteraria. Ma proprio entro questo disegno assume un valore emblematico fissare l’incipit del secolo nuovo in quel D’Annunzio che passa dal naturalismo all’estetismo decadente, simbolista o classicheggiante, facendosi per molti aspetti apripista del Novecento ma trascinandosi intatta la sua formazione positivistica e ghibellina tutta ottocentesca. Sicché, quella stessa Contemplazione della morte ritmata sulla doppia agonia di Bermond e di Pascoli, del sant’uomo che lo ospita ad Arcachon e del poeta che si spegne a Bologna, si chiude in realtà con l’immagine del parto di una levriera, di un «mutamento» senza «patimento», che traduce in termini profani l’idea di una rigenerazione o redenzione senza Passione. Di più, proprio nelle poesie e nelle prose di guerra, il Poeta-soldato rivestirà il valore essenzialmente profano della patria con i panni del linguaggio sacro e dell’immaginario liturgico, attingendo a piene mani da fonti e modelli biblici e cristiani. Non dunque un ritorno al sacro, ma una secolarizzazione, se non una profanazione, del sacro.

    E non si avverte forse l’eredità del Risorgimento laicista nel primo Trilussa? Egli non risparmia strali al Vaticano e alla condotta dei clericali, ma spesso anche alla dottrina morale della Chiesa. Poi con Benedetto XV, col papa cioè che si prodiga invano per evitare l’«inutile strage» del 1914-18 le cose cambiano, come cambiano le sue letture, prima inclini all’esoterismo così di moda da Capuana a Pirandello, ora volte ai testi religiosi seri. E se Belli ha rivisitato nei suoi frizzanti sonetti la Bibbia, con lo spirito critico di un cattolico rigoroso e razionalista, anche Trilussa rilegge e verseggia, con un suo sorriso pensoso, la Creazione, il Diluvio, i Novissimi.

    Il passaggio di testimone fra due secoli non del tutto l’un contro l’altro armati, almeno fino alla belle époque, non avviene però solo all’ombra del nazionalismo laico e sacralizzato del Vate o dello scetticismo ironico del suo amico romanesco. Ombra grigia, se non nera (nessuno dei due invero fu fascista). C’è anche l’ombra rossa degli ideali di cui si tingono le poesie della «maestrina socialista» Ada Negri, che nelle sue ultime raccolte manifesta con vigore e chiarezza l’anelito cristiano. Non si tratta di una brusca svolta, ma piuttosto di un’evoluzione che muove da un socialismo sentito come ribellione morale dall’ingiustizia, dunque già potenzialmente evangelico. Se in Tempeste (1895) Cristo assomiglia a un laico arringatore, con Maternità (1904) i riferimenti alla Bibbia sono più espliciti; Dal profondo (1910) segna la conversione contemplativa, e il dialogo con Dio si fa straziante. Nelle ultime raccolte come Vespertina (1931) l’itinerarium mentis in deum si perfeziona, approdando a un personale panteismo cristiano (Il Dono, 1936).

    Ada Negri è la prima di una folta schiera di donne che interiorizza- no i testi sacri ed orientano la loro ricerca espressiva e spirituale verso il religioso, e nella forma della poesia: una schiera folta che sarebbe arduo trovare in epoche precedenti, in cui per ragioni storiche e culturali la forte propensione religiosa femminile si esplicava nella preghiera e nella vita pratica più che nella scrittura, anche se dalla setacciatura casuale di questo volume restano escluse voci di rilievo (si pensi solo a Margherita Guidacci).

    Ecco dunque Lina Galli, con il suo cattolicesimo praticato e le forti suggestioni di Rilke, progettare una storia-antologia della letteratura religiosa italiana e trarre lei stessa poesia dal suo continuo interrogarsi sul senso della vita. Ne nasce un dialogo continuo con la Madonna vista come confidente e madre di tutti i credenti (Domande a Maria, 1959).

    Meno confessionalmente definita, ma non meno intensa la ricerca dell’oltre in Antonia Pozzi. Nella sua breve esperienza di vita, tragicamente conclusa nel 1938 (le poesie uscirono postume), vibra un’ansia d’infinito che fa di ogni esperienza un viaggio alla ricerca di un approdo. La poesia la rende con l’immagine dominante della montagna, rifugio dalle contrarietà dell’esistenza, mèta di un’ascesa che si fa ascesi. Nell’estenuante contatto con il divino, si avverte anche la paura di restare senza Dio, mentre la poesia si fa sempre più preghiera. Una vera e propria metanoia caratterizza la carriera spirituale e poetica di Cristina Campo, che la registra in un verso memorabile della sua prima raccolta, Passo d’addio (1956): «Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere». Certo è che la sua vocazione cristocentrica resta affidata inizialmente a tracce delicate (lo pseudonimo assunto, la cangiante sovrapponibilità tra amor profano e amor sacro che si registra nei versi suoi o in quelli del prediletto e tradotto John Donne); o versi successivi alla raccolta edita segnano una vera epifania del religioso, anzi del liturgico: considerate finora come note disperse di un canto più devozionale che ispirato, quelle poesie dovevano confluire in una raccolta organica, Le temps revient (1957). Le cinque parti costruite di quel progettato edificio segnano una tappa ulteriore verso la conquista della quiete spirituale, e si infittiscono di riferimenti liturgici e biblici, specie ai passi dei Vangeli e di san Paolo.

    Con la sua poesia, prossima nei toni alla tradizione classica cristiana, Alda Merini rilegge i Vangeli dando corpo e voce umanissima ai suoi personaggi. Essa risuona nella trilogia formata da Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (2001), da Magniflcat. Un incontro con Maria (2002) e dal Poema della croce (2004). Centrale il rapporto tra figlio e madre, vista come una donna comune cui viene strappato il figlio dalle braccia; e basta pensare alla dolorosa vicenda biografica della poetessa per capire perché questo motivo percorra gran parte dell’intera sua opera.

    Lungo e lineare il cammino euristico di Arturo Onofri. Se in Miracieli (1920), dal significativo sottotitolo Storia dell’uomo nuovo, il poeta affermava di aver già scoperto la presenza del divino, e se già prima guardava alla Bibbia anche come modello formale, il nuovo corso di Onofri comincia con Le trombe d’argento (1924), libro dettato da una visione spiritualista della storia umana. Il cristianesimo è per lui come energia che trasforma la coscienza dell’uomo fino a fargli scoprire la presenza del divino in lui, a fargli raggiungere la pienezza della libertà. D’ora in poi la poesia è per Onofri un inno continuo al verbo creatore.

    Al contrario, la ricerca veritativa di Umberto Saba non può dirsi rettilinea, né chiaro il suo approdo. Il rapporto con il giudaismo e il cristianesimo è marcato all’inizio dalla lacerazione freudiana tra la figura della madre ebrea e della balia cattolica (Versi militari, 1908), poi si svilupperà all’ombra di due “cattivi maestri” più tardi ripudiati; a differenza di Freud, Weininger con i suoi pregiudizi antisemiti, e Nietzsche con la sua morale superomistica e anticristiana. Ma mentre anche nel poeta maturo resta ferma l’avversione alla Chiesa, frettolosamente identificata con il clericalismo, differente è l’atteggiamento verso Gesù, che affiora anche in lettere della vecchiaia.

    Formatosi in un ambiente di laica moralità, Clemente Rebora sperimenta l’impatto di una conversione che gli fa scegliere, dopo l’esperienza del mondo e quella cruda della guerra, la via del sacerdozio. La tendenza costante alla citazione biblica aumenta vistosamente a partire dal 1929 (l’anno in cui riceve comunione e cresima). Il dialogo con Maria, figura centrale e simbolo della femminilità, permette al poeta di riappacificarsi col mondo degli affetti. La poesia è per lui concilia zione tra Cielo e terra, dove ogni cosa reca l’orma del Creatore. Se nelle lettere emerge frequente il richiamo al buio e al peccato, la poesia si fa soprattutto testimone del vissuto personale, che trova il culmine della propria aspirazione nell’unione mistica (Poesie religiose, 1936-1947). Costante è la presenza del sacro anche in Giuseppe Ungaretti con la sua poesia che spesso si fa preghiera. Se in Porto Sepolto (1915- I ) 16), il dialogo si limita a due soli tentativi, è con Sentimento del tempo (1919-1935) che la ricerca spirituale si fa più intensa. Ora infatti le immagini religiose sono costanti e testimoniano l’adesione al divinoo da parte del poeta: i versi della Pietà, vera e propria preghiera al Creatore, sono la testimonianza poetica della conversione. Nelle raccolte successive la tensione verso il divino sembra attenuarsi ma in realtà è sempre presente il rifiuto della dimensione puramente mondana e l’aspirazione all’Oltre. Significativi in tal senso sono i versi dell’Apocalissi (1961) che racchiudono l’angoscia dell’uomo e del poeta di fronte all’impossibilità di avere un contatto stabile con il divino, una sete per un inafferrabile “oltre” che ha caratterizzato tutta la vita dell’uomo Ungaretti.

    Importante ma essenzialmente episodico parrebbe invece il rapporto di Salvatore Quasimodo con i testi sacri. Nel 1946 il poeta siciliano traduce il Vangelo secondo Giovanni, ma è soprattutto nelle poesie disperse appartenenti al periodo di Acque e terre (1930), non più ripubblicate dal poeta, che pullulano i riferimenti a luoghi, avvenimenti e personaggiaggi evangelici: Betlemme, il Calvario, la croce, la preghiera, Gesù, il Padre, Giuda Iscariota, la Maddalena… La risposta al perché il poeta abbia poi relegato nel limbo delle extravaganti queste liriche va probabilmente cercata nell’evoluzione ideologica subita dal futuro Premio Nobel, alla luce della quale il recupero di quei testi poteva non apparire opportuno.

    Fin qui abbiamo sottolineato i nuclei tematici dei poeti che nei loro versi facevano rivivere echi e motivi delle sacre scritture, o ne facevano strumento di una strenua tensione spirituale (ripetiamo che solo all’interno dei singoli saggi il lettore potrà verificare il contatto intertestuale più o meno stretto tra fonte biblica e creazione letteraria). Una considerazione linguistica s’impone però gettando lo sguardo al saggio dedicato a uno dei più rigogliosi fenomeni del nostro Novecento letterario: la fioritura della poesia dialettale. Cos’è infatti il dialetto se non il sermo humilis da sempre raccomandato agli scrittori cristiani? Ai divulgatori di quel verbo che si rivolgeva soprattutto ai poveri, ai semplici, ai negletti? Rimossa ormai la pregiudiziale comica e bozzettistica che gravava ancora in buona parte sugli Ottocentisti, i poeti del nuovo secolo fanno del dialetto lo strumento ideale per esprimere la voce più profonda del proprio intimo (dialetto lingua della fanciullezza e degli oggetti) e farne insieme uno strumento corale (dialetto lingua della comunità). Ognuno tocca quelle corde a modo suo: per Delio Tessa (L’è el dì di mort, alegher!, 1932), la religione appare come un bene ormai perduto dall’umanità e dallo stesso poeta; invece, tutta la lirica di Biagio Marin, è pervasa dal soffio di un Dio misterioso e insondabile, e la poesia gli appare quale forma di preghiera (El fogo del ponente, 1959). Anche il Dio di Giacomo Noventa, sotteso al suo sincretismo socialista-liberal-cristiano, pervade tutti gli aspetti del vivere e si effonde discretamente nei suoi versi (Dio è con noi, 1960). Ecco poi l’approccio critico di Ernesto Calzavara, attento soprattutto all’Antico testamento (Ombre sui veri, 1946-1987), mentre Eugenio Tomiolo introietta la lettura dei Salmi (Oseo gemo, 1984). Da parte sua Albino Pierro recupera il cristianesimo come mezzo per evadere dal mondo e cercare una via salvifica (‘A terra d’u ricorde, 1960). Nei suoi versi friulani Pier Paolo Pasolini (attento al sacro anche nel resto della sua poliedrica produzione) vede Cristo come figura tragica e redentrice (Poesie a Casarsa, 1942). Quanto amara e intensa, poi, l’interrogazione inevasa o delusa che nel Vangelo secondo Mario dell’Arco (1983) il lirico romanesco rivolge al testo sacro! In Franco Loi, invece, religiosa è quella rivelazione tutta interiore che già consente una redenzione (Aria della memoria, 1973 -2002).

    Poesia, umile o sublime, poesia come ricerca o poesia come preghiera: ma c’è spazio, per gli affioramenti del sacro, anche nella prosa narrativa? Le sorprese non mancano, a partire dal sanguigno e bizzarro Federico Tozzi, lettore consentaneo di santa Caterina, la mistica conterranea. Ma anche in un romanzo che parrebbe lontano da ogni atmosfera religiosa, l’icona sacra sia pur desacralizzata dalla brutale realtà quotidiana, vive nella doppia faccia di Ghìsola che appare al protagonista nei tratti contraddittori della madre mariana e della fanciulla seduttrice, con uno sdoppiamento che nel saggio viene ricondotto alla schizoide visione della donna elaborata dal pensiero maschile occidentale e penetrato nell’immaginario cattolico del passato (Con gli occhi chiusi, 1919).

    Se Tozzi può apparire un cattolico malgré-lui che cita la fonte sacra inconsciamente e/o con intenti dissacranti, con Luigi Santucci, scrittore d’altra generazione, ci troviamo di fronte a un autore di fede professata. La sua rilettura dei luoghi agiografici (Il cuore dell’inverno, 1992) nasce dall’urgenza di vedere, rappresentare e far propria l’esperienza di Gesù, dei Santi e della Vergine. Tema ricorrente è il Natale visto come tempo di riscatto. Intensa anche la devozione alla Vergine, nata dalla profonda attenzione che lo scrittore dedica al rapporto tra madre e figlio. Nella rilettura e riscrittura dei Salmi, si avverte la lezione esercitata da padre Turoldo. Soprattutto, Santucci si sofferma a esaminare i singoli momenti dell’esistenza terrena di Gesù per attualizzarli, confrontandoli continuamente con i problemi della società.

    Chi, del resto, più attualizzante di Pier Paolo Pasolini, un intellettuale militante costantemente teso a un bruciante confronto critico col proprio tempo? Pur dichiarandosi non credente, Pasolini orienta tutta la sua opera poliedrica a una ostinata ricerca del sacro eclissato, la cui epifania appare un antidoto o una resistenza all’avanzare di una società mercificante e disumanizzante. A ragione dunque poté dire: «La mia visione del mondo è sempre nel suo fondo di tipo epico-religioso». Ecco i motivi evangelici nella prima stagione poetica, dalle Poesie a Casarsa (1942) all’Usignolo della Chiesa Cattolica (1958), alle Ceneri di Gramsci (1957). Dalla cosmica religione rurale passa a un cristianesimo radicalmente schierato con gli umili (La ricotta, 1963, Il Vangelo secondo Matteo, 1964), quegli umili ancor capaci di sentire il mistero cui la società tecnologica rende sordi. Un primitivo resistente se non salvifico che può trovarsi nel mondo antico (Medea, 1969), nel Terzo mondo o nell’anima pura di una povera serva (Teorema, 1968). Diviso tra adesione al messianesimo rivoluzionario e l’ostilità alla Chiesa come istituzione complice del potere. Pasolini compendia il suo atteggiamento nella sceneggiatura per un film incompiuto su San Paolo, uomo dal doppio volto, quello spirituale del santo e quello arcigno del prete, fatto rivivere fra nazismo e dopoguerra, fra Parigi e New York.

    Se il dialogo di Santucci e di Pasolini concerne essenzialmente i Vangeli, è all’Antico testamento che guarda Primo Levi. Il libro di Giobbe è, in effetti, il testo più citato dai testimoni della shoàh. L’autore di Se questo è un uomo (1946) depura dal suo linguaggio il pathos proprio della vittima e del vendicatore. Anziché comprendere la Creazione, Levi vuole spiegare l’immane Distruzione; dallo scrittore, non-credente, la Genesi è vista come vicenda conflittuale, perché narra una storia che deve essere ricominciata con una nuova creazione, dopo i campi di sterminio. Tema rilevante della sua mente e della sua opera, tesa a una laicizzazione del sacro, è dunque quella del Nuovo Inizio.

    Costante è il rapporto col testo sacro nell’opera di Beppe Fenoglio, affascinato dal Dio che crea e che punisce. Agostino, protagonista della Malora (1954), può essere visto come riflesso della vicenda biblica dell’allontanamento dell’uomo dal paradiso terrestre. Il partigiano Johnny (uscito postumo nel 1968) apparenta l’animus del resistente e del predicatore: entrambi si impegnano a diffondere la testimonianza di qualcosa d’impalpabile. Nell’opera di Fenoglio, insomma, spira l’andito ad una religione pura e indissoluta.

    Una figura che sembra aver attratto particolarmente l’attenzione degli scrittori novecenteschi è quella di Giuda, qui seguita nella narrativa e nel teatro. Volta per volta gli autori illuminano una faccia diversa del poliedrico personaggio, enigmatico e drammatico e dunque esemplarmente vicino al nostro tempo. Per Giovanni Papini (Storia di Cristo, 1921) l’errore di Giuda non cessa di perpetuarsi nella storia; Federico Valerio Ratti riscatta la figura dell’iscariota presentandolo come un perseguitato (Giuda, 1923); Ferruccio Parazzoli si astiene dal condannare l’apostolo traditore (Vita di Gesù, 1935); il Giuda (1938) di Giuseppe Lanza del Vasto è un illuso che non ha compreso il significato delle parole di Cristo; Luigi Santucci vi si immedesima per cercare di comprenderne i pensieri e i turbamenti e conclude che è in mezzo a noi, poiché l’infedeltà e la menzogna abitano i nostri cuori (Volete andarvene anche voi?, 1969); Giuseppe Berto, infine, tende a scagionarlo: Giuda non è un traditore ma uno che ha accettato di collaborare col suo gesto al compimento del disegno provvidenziale (La gloria, 1978).

    Ma non è altrettanto viva, per la sensibilità moderna, la figura della Maddalena? Mescolate fin dal medioevo, le Maddalene dei Vangeli si fondono in un personaggio unico lacerato fra peccato e redenzione. Il saggio a lei dedicato ne segue gli sviluppi anche nelle letterature straniere, con deroga ai confini italiani del volume (ma un che di trasgressivo non si confà alla donna dalle lunghe chiome?). Si passa dalla poesia civile di Anna Achmàtova (Requiem, 1939) al dialogo più religioso di Boris Pasternak (Maddalena e Orto del Getsemani, 1937), dalla peccatrice pentita di Max Jacob (Santa Maria Maddalena), alle varianti declinate da Rainer Maria Rilke (Crocifissione, 1908) o da Yves Bonnefoy (Noli me tangere, 1987), toccando talora la sponda italiana col Compianto (2004) di Davide Rondoni, ispirato alla scultura quattrocentesca di un Niccolò dell’Arca.

    Libro poetico per eccellenza, i Salmi sono anche il libro che più accomuna in concordia di emozione e d’interpretazione le religioni dei figli d’Abramo. Ed è quella la fonte e il modello del possente salmista del Novecento, David Maria Turoldo. Poeta-profeta, padre Turoldo ha cantato nelle sue opere l’intera Bibbia, dalla Genesi fino all’Apocalisse. Mentre uno dei due saggi a lui dedicati scruta l’ampio orizzonte dei suoi temi, l’altro si concentra sull’immagine di Maria come icona della femminilità ideale di cui padre David ha visto però parziali ma concrete incarnazioni nella sua esperienza di vita: da donna madre e virginalmente pura, umile e segretamente alta (O sensi miei.. .,1993; Canti ultimi, 1991 e Mie notti con Qohèlet, 1992).

    Con la sua poesia in forma di preghiera (per lo più velata), Luzi merita di essere posto come termine ideale di questo libro, che pur contiene delle pagine su qualche scrittore anagraficamente più giovane. Dichiaratamente prossimo al Nuovo più che all’Antico testamento (con l’eccezione dei libri profetici, di Giobbe, dei Salmi) il poeta fiorentino guarda al mistero gaudioso oltre che al doloroso; cerca l’infinito nel finito; riconosce la grazia divina nella bellezza del mondo. Di qui approda al mistero glorioso, alla contemplazione della luce che corona il suo viaggio di poeta e quasi mistico pellegrino, guidato anziché smarrito dinanzi al silenzio di Maria (La barca, 1946).

    Un filo mariano si svolge anche nell’arcolaio di Marco Beck, poeta per il quale si può parlare di realismo cristiano. Ricorrente in lui, e motivo d’ispirazione, è infatti l’incontro quotidiano con i segni del divino, ma la sua poesia nasce anche dalle parole dei testi sacri. Pur nel solco del filone mariano, Beck punta alla dimensione interiore e soggettiva del lettore, ma invita altresì l’uomo contemporaneo a far colli- mare il proprio destino con quello di Maria (Il pane sulle acque, 2000).

    E proprio a Maria è dedicato lo scritto che chiude il volume: una lunga carrellata tra i poeti che hanno dedicato versi alla Madonna.

    Comincia da Domenico Giuliotti (Poesie, 1932) e da Giovanni Papini (Preghiera alla vergine, 1958), e di poeta in poeta emerge ora l’uno ora l’altro tratto della prismatica figura: in Carlo Betocchi, ad esempio, spicca l’umiltà e l’umanità della Vergine (Dell’ave Maria, 1947), mentre in Lino Angiuli la donna prevale sulla madre (Per Maria, 2006). Maria ispira versi a poeti di costante vocazione religiosa, come Antonio Barolini (L’angelo attento, 1968), ma anche in autori di netta impostazione laica, come Attilio Bertolucci (La camera da letto, 1964). In quasi tutti prevale un tono colloquiale, con una Maria umanissima, calda d’affetti, materna o sororale.

    Da quest’ultimo rilievo potremmo trarre spunto per dar voce a un’impressione unitaria scaturita alla fine della lettura del volume, per quanto possa essere unitaria un’impressione suscitata da studiosi diversi per inclinazioni personali, materia scelta, formazione di scuola, orientamenti ideologici o spirituali, esperienza generazionale. Non solo: occorre ribadire chiaramente che l’impressione d’assieme affacciata è suscitata da un libro privo d’ambizione sistematica, che coprendo l’arco novecentesco a macchia di leopardo non può in alcun modo pretendere di definire i caratteri dominanti di un secolo letterario particolarmente ricco, complesso, dispersivo. E tuttavia l’umanizzazione del divino sembra candidarsi come marca prevalente nella rivisitazione letteraria del testo sacro operata dagli autori contemporanei. Se in larga parte della tradizione culturale giudaica e poi cristiana ha visto prevalere il moto verticale ascendente, uno sguardo levato verso l’Altissimo, l’Oltre, il Mistero insondabile, qui il moto verticale sembra piuttosto discendente, teso cioè a calare il divino nell’umano, a cercare il disvelamento del Dieu caché dentro le pieghe dell’anima, a cercare il Cristo nel volto sofferente del prossimo. Si supplica il Dio misericordioso, più che il Dio giusto, perché guardi all’umanità, e più spesso si chiede all’umanità sentimenti di misericordia e gesti di giustizia che vincano la base ferma dell’uomo, ne liberino la scintilla divina e con quella il riscatto dalla disperazione, dall’insensatezza di un vivere puramente biologico, utilitario. Un moto verticale che s’incrocia con quello orizzontale della comprensione, della tolleranza, della carità. Moto ecumenico, allargato ai non credenti, ai lontani: è questo, mi pare, il leit-motiv più percepibile nel coro armonioso o dissonante, sommesso o vociante e comunque folto che levano le voci di tanti poeti e scrittori novecenteschi: cercare il divino sulla base di una comune humanitas (il termine cui s’intitola la rivista dell’editrice Morcelliana e ne riassume il pensiero-guida). E proprio questa sete di umanità, questo bisogno di ‘far carne’ della parola poetica come del Verbo cristiano rappresenta un innovativo ricorrente in tanti saggi: e fa rimpiangere l’assenza di uno studio specificamente consacrato al Quinto evangelio (1975) di Mario Pomilio, quel romanzo-saggio che chiudeva la lunga quète alla ricerca del vangelo perduto con la scoperta ch’esso altro non era che la somma dei quattro vangeli trasferiti dalla carta alla vita, vissuti con calore e coerenza. Coro, dicevamo: ma nella consapevolezza che come in poesia ogni voce ha un timbro inconfondibile, così anche il dialogo con lo spirito vive in modi personali nell’intimo di ciascuna anima1.

    Pietro Gibellini e Nicola Di Nino

     1 Questo volume è stato coordinato e seguito da entrambi i curatori, ma in particolare Pietro Gibellini ha curato da p. 5 a p. 254 e Nicola di Nino da p. 255 a p. 557. Gli indici dei nomi e dei passi biblici sono stati invece elaborati congiuntamente.

    Pietro Gibellini (Ed.),La Bibbia nella letteratura italiana,II,l’età contemporanea,Morcelliana,2009,pp.583

    La Bibbia nella letteratura italiana:vol.I.

    B

    PREFAZIONE

    DAL MITO ALLA SACRA SCRITTURA

    Questo volume sulla Bibbia nella letteratura italiana del Sette-Ottocento, come quello che appare nella stessa collana a sondare echi e motivi scritturali nei nostri autori del Novecento, ha alle spalle una storia breve e una lunga preistoria. Breve è il tempo trascorso tra l’approvazione di un Progetto di ricerca d’ interesse nazionale (PRIN, nel gergo accademico-ministeriale) legato alle Riscritture del Sacro, elaborato nel 2005, e la raccolta dei risultati affidati ai due corposi volumi della “Biblioteca” Morcelliana. Lunga ne è la preistoria, avviata all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso grazie all’incoraggiamento della stessa casa editrice e poi al sostegno di vari PRIN. Ne nacque un’indagine collettiva sulle riprese della mitologia classica nella nostra letteratura, sfociata prima in un volumetto dell’Arcadia (Mito e letteratura dall’Arcadia al Romanticismo, 1993), poi in tre numeri monografici di «Humanitas» (Il mito nèlla letteratura italiana moderna, 1996; Fedra:un mito dall’antico al moderno, 1997 e Il mito nella letteratura italiana del ‘900, 1999), infine nell’opera sistematica realizzata presso la stessa editrice bresciana (Il mito nella letteratura italiana, voll. 1-1V, 2005-2007, vol. v in corso di stampa). Ai primi fascicoli, cartoni preparatori del futuro affresco, avevano partecipato colleghi e amici in buona parte gravitanti attorno agli atenei in cui allora insegnavo, l’Università di Trieste e la Cattolica di Brescia; per l’opera sistematica la cerchia si era allargata, partendo dalle università aggregate nel PRIN (Venezia, divenuta nel frattempo mia sede di lavoro e centro coordinatore del progetto, Trieste, Verona, Lecce) ma arruolando man mano, come nella favola degli allegri suonatori di Brema, studiosi di diverse generazioni e di diversi atenei, italiani e stranieri, senza contare ricercatori free-lance, forti solo della loro competenza e passione.

    A partire dalle quattro sedi alleate nella mitica impresa, cui si è aggiunta l’équipe dell’università di Pisa, buona parte di quella numerosa squadra, corroborata da forze nuove specialmente giovanili, si è poi ritrovata nell’avviare il PRIN “Riscritture del sacro” su echi e motivi biblici e cristiani nei nostri scrittori moderni e contemporanei.

    Il lavoro corale, scandito da momenti di confronto quali seminari privati o convegni pubblici, come quelli tenuti a Portogruaro nel 2006 e a Brescia nel 2007, sfocia ora nei due volumi, questo e il suo compagno novecentesco.

    Ora, parlare di continuità fra un’opera destinata agli “dèi falsi e bugiardi” e questa dedicata alla Sacra scrittura potrebbe parere a qualcuno un giudizio forzato, per legittimare l’atto sconveniente di mescolare il diavolo con l’acqua santa (nel Medioevo qualcuno volle vedere nelle divinità pagane nient’altro che dèmoni camuffati). L’obiezione virtuale invita a ribadire un’idea che fino a tempi recenti sarebbe parsa pleonastica: e cioè che questa ricerca, come ogni ricerca degna di tal nome, non ha pregiudizi ideologici o confessionali, perché la cultura è sempre laica, come si suole ripetere in quella casa editrice di ispirazione cattolica che, come osservava con giusto orgoglio Stefano Minelli, poteva dirsi conciliare prima del Concilio, aperta com’è sempre stata non solo al dialogo ecumenico (specie con la cultura ebraica e protestante) ma anche al fitto, osmotico colloquio con gli intellettuali razionalisti, laici, compresi quei “lontani” ai quali, pionieristicamente, dedicò la collana dei compagni di Ulisse. Che poi alcuni degli autori abbiano nei confronti della Bibbia un interesse che non si limita al solo taglio letterario, questo appartiene ai loro liberi percorsi mentali e spirituali. Queste premesse, che solo ieri sembravano scontate, ci sono suggerite dalla situazione dell’oggi, che merita anche un’altra osservazione: la capacità di aver attratto l’interesse dei nostri italianisti prima sull’eredità mitologica e poi su quella biblica nasce forse dall’agnizione delle due inestricabili radici della identità culturale europea oggi sollecitata dal confronto con le ondate migratorie del cosiddetto mondo globale: quella classico-razionalista e quella giudaico-cristiana. Due modelli di riferimento, con i loro patrimoni verbali e mentali, che hanno conosciuto anche fasi di convivenza agonistica e duramente polemica, ma anche fasi di conciliazione, dialogo e cooperazione: modo che ora appare davvero dominante, come riconosce ogni onesto studioso, non accecato dall’ignoranza né chiuso nella gabbia arrugginita del pregiudizio ideologico. A dissipare le diffidenze anco ieri tangibili (ma non nei dintorni della casa editrice che intitolò alla humanitas la sua rivista, improntata ai valori dell’umanesimo cristiano, nella linea Erasmo-Thomas More, e che come i Padri illuminati considerava il tesoro della sapienza greco-latina come l’altro Testamento antico) basterebbe la valanga di firma raccolte recentemente dall’associazione aconfessionale “Biblia” per promuovere la conoscenza della Sacra scrittura nella scuola del nostro Paese, cui viene tradizionalmente imputata una scarsa conoscenza del Testo Sacro, nonostante o (secondo taluno) a causa della sua tradizione cattolica. E quanto a ciò, sat prata biberunt.

    Vero è, invece, che anche nel dominio di nostra spettanza, cioè nel campo degli studi letterari, il peso di passate tensioni fra laicismo e integralismo ha determinato lacune negli studi. La storiografia letteraria anche recente, debitrice nonostante tutto del modello liberai-risorgimentale del De Sanctis, piegato poi spesso a storicismo marxista, ha confinato la letteratura religiosa entro lo steccato di uno specifico genere letterario o para-letterario, delimitato nel tempo: dal Medioevo al nascente Umanesimo, con tutt’al più un revival nell’età della Controriforma e del Barocco. Restavano così in ombra larghe zone di letteratura sacra o di poesia-preghiera, salvo qualche punta di iceberg emergente qua e là (le canzoncine di Sant’Alfonso de’ Liguori, le visioni varaniane echeggiate da Monti, l’innografia di Manzoni). Accanto alle manchevolezze della linea storiografica, l’ignoranza dell’intertesto biblico condiziona la piena intelligenza critica dell’opera non solo di autori quali Dante o Manzoni, che al Libro sacro guardano come a una viva fonte spirituale, ma anche ad autori che avevano orientato verso altri orizzonti il loro pensiero: sarebbe lo stesso, il Principe di Machiavelli, amputato dell’exemplum di Mosè? E i Canti di Leopardi, privati degli echi di Qohélet?

    Nella biblioteca paterna di Recanati, dunque nella provincia dello Stato pontificio, il conte Giacomo poteva trovare molti libri intrisi di quel secolare sapere, molti dei quali peraltro mediavano anche le idee dei tempi nuovi, maturate nel chiarore dei lumi di Francia o fra le brume nordiche. E proprio dagli anni in cui si verificava e consolidava la grande svolta della Rivoluzione francese prende le mosse questo volume, i cui primi saggi riguardano appunto il protoromantico Alfieri, i neoclassici Monti e Foscolo: da lì lo sguardo percorre, nei due volumi, l’arco di duecento e più anni, nel quale la cultura secolarizzata è divenuta egemone, e si rivela palpabile anche in autori di esplicito orientamento cristiano, da Tommaseo a Fogazzaro: tanto più sollecitante, dunque, verificare le tracce indelebili lasciate dall’Antico e dal Nuovo Testamento nel linguaggio e nel pensiero di scrittori dell’Otto e del Novecento.

    I frutti che se ne colgono nei due volumi incoraggiano a proseguire nell’impresa, a volgere cioè lo sguardo anche ai secoli precedenti, dove la messe si promette abbondante: al ciel piacendo, e con la generosa collaborazione di tanti studiosi amici, aggiungeremo altri volumi. Basti, per ora, questo primo torno, per il quale possiamo dire, come gli antichi copisti, e nel senso più pieno: explicit, deo gratias.(Pietro Gibellini)

    B1

    Il Duomo di Monreale.Lo splendore dei mosaici.

    duomo

    duomo1

    duomo-2

    Testi di David Abulafia e di Massimo Naro.

    Presentazione di Cataldo Naro

    naro-porcasi

    David Abulafia-Massimo Naro,Il Duomo di Monreale.Lo splendore dei mosaici.Itaca libri.Marzo 2009.

    Conversazioni notturne a Gerusalemme di Carlo Maria Martini e Georg Sporschill.

     

    Nel nuovo libro «Conversazioni notturne a Gerusalemme» l‘ex arcivescovo di Milano risponde alle domande di un gesuita e affronta i temi della fede e della Chiesa. Con qualche risposta scomoda sulle difficoltà del Cattolicesimo e la morale sessuale.

    «Conversazioni notturne a Gerusalemme» (Mondadori, in libreria dal 28 ottobre) è il titolo del volume che raccoglie il confronto sui temi del Cattolicesimo e della Chiesa fra il cardinale Carlo Maria Martini , ex arcivescovo di Milano e studioso della Bibbia di fama mondiale, e il gesuita Georg Sporschill.

    Un dialogo franco, senza reticenze, in pagine che possono essere interpretate come il testamento spirituale di Martini.

    A Vito Mancuso, autore del best-seller «L’anima e il suo destino» e docente di teologia all’ Università San Raffaele di Milano, ‘Panorama» ha chiesto di leggere il libro in anteprima.

     

     

    Ecco il suo pensiero.

    di VITO MANCUSO

     

    perché il Cristianesimo non affascina più l’Occidente? Se lo sono chiesti due dotti gesuiti a Gerusalemme nelle loro «conversazioni notturne», e lo hanno fatto a partire dai giovani, visto che essi sono la cartina di tornasole del fascino spirituale di una dottrina o di un’istituzione. Alla Chiesa certo non basta celebrare ogni 4 anni un evento mediatico come la Giornata mondiale della gioventù per nascondere il problema.

    La verità della vita infatti si misura nella quotidianità, non negli eventi speciali. e la quotidianità dice che i giovani sono molto distanti dalla Chiesa cattolica: in Italia i praticanti non superano il 10 per cento, in Europa ancora meno, e se poi in gioco è la morale sessuale si arriva a cifre con le quali oggi, se si trattasse di elezioni, non si entrerebbe in alcun parlamento.

    Nell’affrontare il problema i due gesuiti hanno messo in campo quella «libertà interiore di cui godeva San Paolo» (per riprendere alcune parole di Benedetto XVI del 1° ottobre 2008), libertà che lo portò a opporsi a San Pietro, primo papa della storia. Benedetto XVI quindi dovrebbe essere il primo a rallegrarsi di un libro così, la cui principale caratteristica è l’onestà e il coraggio dell’analisi: pane al pane, crisi alla crisi, cose chiamate col proprio nome senza nascondere la testa dentro l’incenso delle liturgie. «Oggi in Europa la situazione della Chiesa esige delle decisioni. Vi sono comunità dove non troviamo più giovani. Soprattutto nelle grandi città bambini e ragazzi sono una presenza rara alla messa domenicale». Il risultato è allarmante: «Manca la prossima generazione»,

    Nessuno sconforto però, perché «dove esistono conflitti lo Spirito Santo è all’opera». L’importante è non eludere i problemi facendo finta che non ci siano.

    Il gesuita Georg Sporschill pone al confratello cardinale Carlo Maria Martini una domanda particolarmente provocatoria:

    “Se Gesù vivesse adesso, tratterebbe l’attuale Chiesa cattolica come a quel tempo i farisei?”. Risposta: «Sì, scuoterebbe tutti i responsabili della Chiesa».

    Chi è privo di un’adeguata conoscenza della profezia biblica potrebbe chiedersi come sia possibile che un cardinale parli così della gerarchia della Chiesa. In realtà si tratta di stabilire se la Chiesa sia in funzione del mondo oppure se, viceversa, il mondo sia in funzione della Chiesa. A chi spetta il primato?

    Nella risposta a questa domanda si gioca la differenza che attraversa il Cattolicesimo contemporaneo (e forse quello di sempre), diviso tra chi ritiene che la Chiesa sia relativa al mondo e chi invece che il mondo sia relativo alla Chiesa. Il cardinale Martini è per la prima alternativa, ed è per questo che, per il bene del mondo, sferza la Chiesa.

    Che cosa lo preoccupa di più? «Mi angustiano le persone che non pensano… Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti». Ben lontano da ogni intellettualismo, qui appare che cosa significa vita spirituale:

    significa pensare e poi decidere. Infatti«chi non prende decisioni si lascia sfuggire la vita», mentre «solo gli audaci cambiano il mondo».

    Si prospetta una nuova figura di cristiano: non più la pecorella devota, ma uno «che vive con la Bibbia e trova risposte personali alle domande fondamentali». E allora la Chiesa? Essa è «un contesto che procura stimoli e supporto, non necessariamente un magistero da cui il cristiano dovrebbe dipendere». A chi sa pensare con la sua testa basta la Bibbia, «il miglior ausilio per formare la propria opinione e la coscienza».

    A partire da questi principi Martini non teme di criticare l’enciclica Humanae vitae, con cui quarant’anni fa Paolo VI vietò la contraccezione: «L’enciclica ha contribuito a far sì che molti non prendessero più in seria considerazione la Chiesa come interlocutrice o maestra… Molte persone si sono allontanare dalla Chiesa e la Chiesa dalle persone». Occorre cercare

    «una via per discutere seriamente di matrimonio, controllo delle nascite, fecondazione artificiale e contraccezione», perché «saper ammettere gli errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri è segno di grandezza d’animo e di sicurezza».

    Su quale criterio debba essere decisivo per la morale sessuale non ci sono dubbi:

    la coscienza del singolo. «La Chiesa dovrebbe sempre trattare le questioni di sessualità e famiglia in modo tale che alla responsabilità di chi ama spetti un ruolo portante e decisivo»,

    Martini ricorda che durante il conclave tra cardinali si discusse dei problemi più urgenti, in primis «il rapporto con la sessualità e la comunione per divorziati e risposati», problemi cui il nuovo papa «avrebbe dovuto dare nuove risposte». Benedetto XVI non è venuto meno al suo compito: totale conferma dell’Humanae vitae e netto no ai divorziati risposati. Quanto a novità non c’è male,..

    Nei frattempo il divario tra la Chiesa e il mondo occidentale cresce sempre più, tra l’indifferenza di gran parte dei giovani e il placido assopimento della Chiesa in cui, dice Martini, «regna troppa calma». E conclude: «Sento la nostalgia di Gesù di lanciare sulla Terra il fuoco ardente dell’entusiasmo». Ma chi, tra i pastori di questa Chiesa italiana, raccoglierà l’eredità di Carlo Maria Martini?

     

    Tratto da Panorama del 30-10-2008 pp.217-218.