La mafia a Vallelunga Pratameno (CL).

Questa è una narrazione, per sommi capi, e tirata fuori dal cilindro dei miei ricordi.

Vallelunga Pratameno è un centro fondato a metà del 1600 dai Notarbartolo e dai Marino di Termini Imerese. Premesso che Vallelunga Pratameno è stato,ed è,un comune di gente laboriosa ed onesta,di coltivatori della terra,decimato,negli anni,dal triste fenomeno migratorio verso il nord Italia,la Germania e altri paesi europei,pur tuttavia,a Valleunga Pratameno, piccolo centro agricolo ricadente al centro della Sicilia,nel cosidetto “vallone”,la mafia è stata sempre di casa.Non fosse altro perchè vicino a due altri centri,Villalba e Mussomeli,che negli anni ’50 hanno segnato la storia della mafia con personaggi del calibro di Don Calò Vizzini e Genco Russo. Negli anni ’50 una feroce faida si scatenò tra due fazioni:i Trabona-Cammarata,con a capo Totò Trabona,detto “l’arracchiato”, e i Madonia con a capo il patriarca Francesco. Una scia di sangue e decine di cadaveri segnarono la storia della mafia “agraria” di Vallelunga. Successivamente,mentre i componenti della cosca Cammarata finirono o uccisi(Giovanni Cammarata fu ucciso la sera del Corpus Domini-“u Signuri”,nella piazza del paese) o in galera,i Madonia “emigrarono” verso Catania e Gela. Così Francesco Madonia incominciò a stringere rapporti con i boss del calibro di Di Cristina,di Riesi,e a controllare il territorio gelese.Erano gli anni del boom economico e della mafia del “cemento”.Francesco Madonia,detto Ciccio,strinse rapporti con i corleonesi che stavano conquistando Palermo, con la cosidetta “calata dei viddrani”. Ne divenne un fedele alleato e quando fu ucciso per opera del boss Di Cristina,quest’ultimo venne eliminato, dalla mano dei corleonesi, che non gli perdonarono lo “sgarro”. A prendere le redini della famiglia Madonia fu il figlio:Giuseppe detto Piddru. Piddru divenne subito un pezzo da 90 nel gotha mafioso regionale e continuò la sua alleanza con i corleonesi a Palermo e i Santapaola a Catania. Ma Piddru non dimenticò il suo paese d’origine:Vallelunga. Dove creò un legame tra la “vecchia” mafia,rappresentata da u zu Tanu Pacino (Gaetano Pacino),u zu Calogerinu Sinatra (Calogero Sinatra) e le nuove leve. Lo scettro del potere fu dato all’emergente Ciro Vara che si attorniò di altra gente. L’ascesa di Ciro Vara,divenenuto,nel frattempo, compare di Piddru, fu rapida e sanguinaria. Da bravissimo calciatore che portava il numero 10 dietro la maglia del Valleunga Calcio,passò a spietato e silenzioso killer di cosa nostra.Parecchi omicidi commessi(12 0 13) e tanti altri reati di cui lo stesso Vara si è autoaccusato,pendendosi.Nel frattempo,Piddru macinava affari con il cemento a Gela e Catania,soprattutto nella costruzione della diga Disueri.Trovò,sulla sua strada,ad opporvisi gli STIDDRARI,nati in opposizione a cosa nostra,e i morti a Gela e dintorni non si contarono più. In seguito  al pentimento di Vara,vi furono diverse operazioni di polizia con decine di arresti in tutto il vallone e non solo e diverse condanne. Tutto ciò,mentra a Vallelunga imperava la DC contrastata,solamente,dal coraggio di qualche comunista:Cosimo Anzaldi.

 

La Bibbia nella letteratura italiana.Vol.II.

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INTRODUZIONE

IL NOVECENTO E LA BIBBIA

Questo libro rappresenta l’ideale continuazione di quello sulla Bibbia nella letteratura italiana I. Dall’Illuminismo al Decadentismo. Come quello, non ha ambizione di sistematicità, poiché gli studiosi invitati a collaborare al volume hanno scelto in assoluta libertà gli autori o i personaggi su cui esercitare la loro attenzione. E tuttavia, anche in ragione del ventaglio relativamente ampio del volume, non paia troppo azzardato trarne alcune considerazioni d’assieme: sia pure un assieme non sistematico e neppure programmaticamente selettivo ma rapsodico e pressoché anarchico.

Nel tentarne il riassunto, ignoriamo un intento primario del nostro lavoro, quello cioè di esaminare modi e senso degli echi biblici: una verifica intertestuale che il lettore troverà applicata in varia misura all’interno dei singoli saggi. Uno sguardo a volo d’uccello lungo la pista, meglio il sentiero tratteggiato (molti vuoti intercedono la traccia) che va da D’Annunzio a Luzi, ed oltre, deve giustificare innanzitutto il punto di partenza. L’autore che chiude il segmento ottocentesco, Giovanni Pascoli, è poco più vecchio del suo «fratello maggiore e minore», Gabriele d’Annunzio che anzi, da fanciullo prodigio, lo precede nel debutto sulla ribalta letteraria, ma che gli sopravvive a lungo, facendo esperienza del Novecento fin quasi alle soglie della seconda guerra mondiale, dopo aver attraversato da prim’attore, e cantato da vate, il primo conflitto, la cui vista viene risparmiata agli occhi del poeta romagnolo, chiusi per sempre nel 1912 dopo un’agonia che ispira all’amico esule in Francia le pagine della Contemplazione della morre, una delle sue prose più belle, e in certo senso la più religiosa. Potrebbe sembrare dunque una forzatura porre lo spartiacque fra i due volumi separando quei due scrittori così vicini per età e le cui opere, pur diverse per timbro, si intrecciano strettamente al punto che D’Annunzio può dedicare a Pascoli il capolavoro dell’Alcyone (1903) con l’immagine di un unico monte cui l’ultimo figlio degli Elleni e l’ultimo figlio i Vergilio, ossia Gabriele e Giovanni, ascendono per opposte balze. Vero è che la cima agognata è quella della bellezza classica, dunque attinente piuttosto al Mito che alla Bibbia. Pure, ha per noi un senso emblematico chiudere il secolo col nome di chi negli splendidi Poemi conviviali attraversa la civiltà antica fino al suo crepuscolo coincidente con l’alba della civiltà nuova che sta per nascere con un bimbo a Betlemme; col poeta che nel Piccolo vangelo fa rivivere con spirito di profonda adesione quelle parabole che D’Annunzio invece oserà parodiare con taglio quasi blasfemo nel suo Vangelo secondo l’Avversario.

Chiudere un secolo con l’irenico Giovanni per aprirne uno nuovo col superomista Gabriele vale, se non altro, a ricordare che nella storia dello spirito nessun traguardo è definitivo. Quello del Pascoli è un approdo alla fede, in linea con l’immagine che Mariù ci lascia del fratello morente, o piuttosto un’ansia, una trepida speranza di fede? Non spetta a noi, e neppur forse al biografo, sentenziare sulle conversioni o presumere di giudicare della sincerità o profondità di un trasporto religioso: perché questo libro si colloca entro i confini della critica e della storiografia letteraria. Ma proprio entro questo disegno assume un valore emblematico fissare l’incipit del secolo nuovo in quel D’Annunzio che passa dal naturalismo all’estetismo decadente, simbolista o classicheggiante, facendosi per molti aspetti apripista del Novecento ma trascinandosi intatta la sua formazione positivistica e ghibellina tutta ottocentesca. Sicché, quella stessa Contemplazione della morte ritmata sulla doppia agonia di Bermond e di Pascoli, del sant’uomo che lo ospita ad Arcachon e del poeta che si spegne a Bologna, si chiude in realtà con l’immagine del parto di una levriera, di un «mutamento» senza «patimento», che traduce in termini profani l’idea di una rigenerazione o redenzione senza Passione. Di più, proprio nelle poesie e nelle prose di guerra, il Poeta-soldato rivestirà il valore essenzialmente profano della patria con i panni del linguaggio sacro e dell’immaginario liturgico, attingendo a piene mani da fonti e modelli biblici e cristiani. Non dunque un ritorno al sacro, ma una secolarizzazione, se non una profanazione, del sacro.

E non si avverte forse l’eredità del Risorgimento laicista nel primo Trilussa? Egli non risparmia strali al Vaticano e alla condotta dei clericali, ma spesso anche alla dottrina morale della Chiesa. Poi con Benedetto XV, col papa cioè che si prodiga invano per evitare l’«inutile strage» del 1914-18 le cose cambiano, come cambiano le sue letture, prima inclini all’esoterismo così di moda da Capuana a Pirandello, ora volte ai testi religiosi seri. E se Belli ha rivisitato nei suoi frizzanti sonetti la Bibbia, con lo spirito critico di un cattolico rigoroso e razionalista, anche Trilussa rilegge e verseggia, con un suo sorriso pensoso, la Creazione, il Diluvio, i Novissimi.

Il passaggio di testimone fra due secoli non del tutto l’un contro l’altro armati, almeno fino alla belle époque, non avviene però solo all’ombra del nazionalismo laico e sacralizzato del Vate o dello scetticismo ironico del suo amico romanesco. Ombra grigia, se non nera (nessuno dei due invero fu fascista). C’è anche l’ombra rossa degli ideali di cui si tingono le poesie della «maestrina socialista» Ada Negri, che nelle sue ultime raccolte manifesta con vigore e chiarezza l’anelito cristiano. Non si tratta di una brusca svolta, ma piuttosto di un’evoluzione che muove da un socialismo sentito come ribellione morale dall’ingiustizia, dunque già potenzialmente evangelico. Se in Tempeste (1895) Cristo assomiglia a un laico arringatore, con Maternità (1904) i riferimenti alla Bibbia sono più espliciti; Dal profondo (1910) segna la conversione contemplativa, e il dialogo con Dio si fa straziante. Nelle ultime raccolte come Vespertina (1931) l’itinerarium mentis in deum si perfeziona, approdando a un personale panteismo cristiano (Il Dono, 1936).

Ada Negri è la prima di una folta schiera di donne che interiorizza- no i testi sacri ed orientano la loro ricerca espressiva e spirituale verso il religioso, e nella forma della poesia: una schiera folta che sarebbe arduo trovare in epoche precedenti, in cui per ragioni storiche e culturali la forte propensione religiosa femminile si esplicava nella preghiera e nella vita pratica più che nella scrittura, anche se dalla setacciatura casuale di questo volume restano escluse voci di rilievo (si pensi solo a Margherita Guidacci).

Ecco dunque Lina Galli, con il suo cattolicesimo praticato e le forti suggestioni di Rilke, progettare una storia-antologia della letteratura religiosa italiana e trarre lei stessa poesia dal suo continuo interrogarsi sul senso della vita. Ne nasce un dialogo continuo con la Madonna vista come confidente e madre di tutti i credenti (Domande a Maria, 1959).

Meno confessionalmente definita, ma non meno intensa la ricerca dell’oltre in Antonia Pozzi. Nella sua breve esperienza di vita, tragicamente conclusa nel 1938 (le poesie uscirono postume), vibra un’ansia d’infinito che fa di ogni esperienza un viaggio alla ricerca di un approdo. La poesia la rende con l’immagine dominante della montagna, rifugio dalle contrarietà dell’esistenza, mèta di un’ascesa che si fa ascesi. Nell’estenuante contatto con il divino, si avverte anche la paura di restare senza Dio, mentre la poesia si fa sempre più preghiera. Una vera e propria metanoia caratterizza la carriera spirituale e poetica di Cristina Campo, che la registra in un verso memorabile della sua prima raccolta, Passo d’addio (1956): «Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere». Certo è che la sua vocazione cristocentrica resta affidata inizialmente a tracce delicate (lo pseudonimo assunto, la cangiante sovrapponibilità tra amor profano e amor sacro che si registra nei versi suoi o in quelli del prediletto e tradotto John Donne); o versi successivi alla raccolta edita segnano una vera epifania del religioso, anzi del liturgico: considerate finora come note disperse di un canto più devozionale che ispirato, quelle poesie dovevano confluire in una raccolta organica, Le temps revient (1957). Le cinque parti costruite di quel progettato edificio segnano una tappa ulteriore verso la conquista della quiete spirituale, e si infittiscono di riferimenti liturgici e biblici, specie ai passi dei Vangeli e di san Paolo.

Con la sua poesia, prossima nei toni alla tradizione classica cristiana, Alda Merini rilegge i Vangeli dando corpo e voce umanissima ai suoi personaggi. Essa risuona nella trilogia formata da Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (2001), da Magniflcat. Un incontro con Maria (2002) e dal Poema della croce (2004). Centrale il rapporto tra figlio e madre, vista come una donna comune cui viene strappato il figlio dalle braccia; e basta pensare alla dolorosa vicenda biografica della poetessa per capire perché questo motivo percorra gran parte dell’intera sua opera.

Lungo e lineare il cammino euristico di Arturo Onofri. Se in Miracieli (1920), dal significativo sottotitolo Storia dell’uomo nuovo, il poeta affermava di aver già scoperto la presenza del divino, e se già prima guardava alla Bibbia anche come modello formale, il nuovo corso di Onofri comincia con Le trombe d’argento (1924), libro dettato da una visione spiritualista della storia umana. Il cristianesimo è per lui come energia che trasforma la coscienza dell’uomo fino a fargli scoprire la presenza del divino in lui, a fargli raggiungere la pienezza della libertà. D’ora in poi la poesia è per Onofri un inno continuo al verbo creatore.

Al contrario, la ricerca veritativa di Umberto Saba non può dirsi rettilinea, né chiaro il suo approdo. Il rapporto con il giudaismo e il cristianesimo è marcato all’inizio dalla lacerazione freudiana tra la figura della madre ebrea e della balia cattolica (Versi militari, 1908), poi si svilupperà all’ombra di due “cattivi maestri” più tardi ripudiati; a differenza di Freud, Weininger con i suoi pregiudizi antisemiti, e Nietzsche con la sua morale superomistica e anticristiana. Ma mentre anche nel poeta maturo resta ferma l’avversione alla Chiesa, frettolosamente identificata con il clericalismo, differente è l’atteggiamento verso Gesù, che affiora anche in lettere della vecchiaia.

Formatosi in un ambiente di laica moralità, Clemente Rebora sperimenta l’impatto di una conversione che gli fa scegliere, dopo l’esperienza del mondo e quella cruda della guerra, la via del sacerdozio. La tendenza costante alla citazione biblica aumenta vistosamente a partire dal 1929 (l’anno in cui riceve comunione e cresima). Il dialogo con Maria, figura centrale e simbolo della femminilità, permette al poeta di riappacificarsi col mondo degli affetti. La poesia è per lui concilia zione tra Cielo e terra, dove ogni cosa reca l’orma del Creatore. Se nelle lettere emerge frequente il richiamo al buio e al peccato, la poesia si fa soprattutto testimone del vissuto personale, che trova il culmine della propria aspirazione nell’unione mistica (Poesie religiose, 1936-1947). Costante è la presenza del sacro anche in Giuseppe Ungaretti con la sua poesia che spesso si fa preghiera. Se in Porto Sepolto (1915- I ) 16), il dialogo si limita a due soli tentativi, è con Sentimento del tempo (1919-1935) che la ricerca spirituale si fa più intensa. Ora infatti le immagini religiose sono costanti e testimoniano l’adesione al divinoo da parte del poeta: i versi della Pietà, vera e propria preghiera al Creatore, sono la testimonianza poetica della conversione. Nelle raccolte successive la tensione verso il divino sembra attenuarsi ma in realtà è sempre presente il rifiuto della dimensione puramente mondana e l’aspirazione all’Oltre. Significativi in tal senso sono i versi dell’Apocalissi (1961) che racchiudono l’angoscia dell’uomo e del poeta di fronte all’impossibilità di avere un contatto stabile con il divino, una sete per un inafferrabile “oltre” che ha caratterizzato tutta la vita dell’uomo Ungaretti.

Importante ma essenzialmente episodico parrebbe invece il rapporto di Salvatore Quasimodo con i testi sacri. Nel 1946 il poeta siciliano traduce il Vangelo secondo Giovanni, ma è soprattutto nelle poesie disperse appartenenti al periodo di Acque e terre (1930), non più ripubblicate dal poeta, che pullulano i riferimenti a luoghi, avvenimenti e personaggiaggi evangelici: Betlemme, il Calvario, la croce, la preghiera, Gesù, il Padre, Giuda Iscariota, la Maddalena… La risposta al perché il poeta abbia poi relegato nel limbo delle extravaganti queste liriche va probabilmente cercata nell’evoluzione ideologica subita dal futuro Premio Nobel, alla luce della quale il recupero di quei testi poteva non apparire opportuno.

Fin qui abbiamo sottolineato i nuclei tematici dei poeti che nei loro versi facevano rivivere echi e motivi delle sacre scritture, o ne facevano strumento di una strenua tensione spirituale (ripetiamo che solo all’interno dei singoli saggi il lettore potrà verificare il contatto intertestuale più o meno stretto tra fonte biblica e creazione letteraria). Una considerazione linguistica s’impone però gettando lo sguardo al saggio dedicato a uno dei più rigogliosi fenomeni del nostro Novecento letterario: la fioritura della poesia dialettale. Cos’è infatti il dialetto se non il sermo humilis da sempre raccomandato agli scrittori cristiani? Ai divulgatori di quel verbo che si rivolgeva soprattutto ai poveri, ai semplici, ai negletti? Rimossa ormai la pregiudiziale comica e bozzettistica che gravava ancora in buona parte sugli Ottocentisti, i poeti del nuovo secolo fanno del dialetto lo strumento ideale per esprimere la voce più profonda del proprio intimo (dialetto lingua della fanciullezza e degli oggetti) e farne insieme uno strumento corale (dialetto lingua della comunità). Ognuno tocca quelle corde a modo suo: per Delio Tessa (L’è el dì di mort, alegher!, 1932), la religione appare come un bene ormai perduto dall’umanità e dallo stesso poeta; invece, tutta la lirica di Biagio Marin, è pervasa dal soffio di un Dio misterioso e insondabile, e la poesia gli appare quale forma di preghiera (El fogo del ponente, 1959). Anche il Dio di Giacomo Noventa, sotteso al suo sincretismo socialista-liberal-cristiano, pervade tutti gli aspetti del vivere e si effonde discretamente nei suoi versi (Dio è con noi, 1960). Ecco poi l’approccio critico di Ernesto Calzavara, attento soprattutto all’Antico testamento (Ombre sui veri, 1946-1987), mentre Eugenio Tomiolo introietta la lettura dei Salmi (Oseo gemo, 1984). Da parte sua Albino Pierro recupera il cristianesimo come mezzo per evadere dal mondo e cercare una via salvifica (‘A terra d’u ricorde, 1960). Nei suoi versi friulani Pier Paolo Pasolini (attento al sacro anche nel resto della sua poliedrica produzione) vede Cristo come figura tragica e redentrice (Poesie a Casarsa, 1942). Quanto amara e intensa, poi, l’interrogazione inevasa o delusa che nel Vangelo secondo Mario dell’Arco (1983) il lirico romanesco rivolge al testo sacro! In Franco Loi, invece, religiosa è quella rivelazione tutta interiore che già consente una redenzione (Aria della memoria, 1973 -2002).

Poesia, umile o sublime, poesia come ricerca o poesia come preghiera: ma c’è spazio, per gli affioramenti del sacro, anche nella prosa narrativa? Le sorprese non mancano, a partire dal sanguigno e bizzarro Federico Tozzi, lettore consentaneo di santa Caterina, la mistica conterranea. Ma anche in un romanzo che parrebbe lontano da ogni atmosfera religiosa, l’icona sacra sia pur desacralizzata dalla brutale realtà quotidiana, vive nella doppia faccia di Ghìsola che appare al protagonista nei tratti contraddittori della madre mariana e della fanciulla seduttrice, con uno sdoppiamento che nel saggio viene ricondotto alla schizoide visione della donna elaborata dal pensiero maschile occidentale e penetrato nell’immaginario cattolico del passato (Con gli occhi chiusi, 1919).

Se Tozzi può apparire un cattolico malgré-lui che cita la fonte sacra inconsciamente e/o con intenti dissacranti, con Luigi Santucci, scrittore d’altra generazione, ci troviamo di fronte a un autore di fede professata. La sua rilettura dei luoghi agiografici (Il cuore dell’inverno, 1992) nasce dall’urgenza di vedere, rappresentare e far propria l’esperienza di Gesù, dei Santi e della Vergine. Tema ricorrente è il Natale visto come tempo di riscatto. Intensa anche la devozione alla Vergine, nata dalla profonda attenzione che lo scrittore dedica al rapporto tra madre e figlio. Nella rilettura e riscrittura dei Salmi, si avverte la lezione esercitata da padre Turoldo. Soprattutto, Santucci si sofferma a esaminare i singoli momenti dell’esistenza terrena di Gesù per attualizzarli, confrontandoli continuamente con i problemi della società.

Chi, del resto, più attualizzante di Pier Paolo Pasolini, un intellettuale militante costantemente teso a un bruciante confronto critico col proprio tempo? Pur dichiarandosi non credente, Pasolini orienta tutta la sua opera poliedrica a una ostinata ricerca del sacro eclissato, la cui epifania appare un antidoto o una resistenza all’avanzare di una società mercificante e disumanizzante. A ragione dunque poté dire: «La mia visione del mondo è sempre nel suo fondo di tipo epico-religioso». Ecco i motivi evangelici nella prima stagione poetica, dalle Poesie a Casarsa (1942) all’Usignolo della Chiesa Cattolica (1958), alle Ceneri di Gramsci (1957). Dalla cosmica religione rurale passa a un cristianesimo radicalmente schierato con gli umili (La ricotta, 1963, Il Vangelo secondo Matteo, 1964), quegli umili ancor capaci di sentire il mistero cui la società tecnologica rende sordi. Un primitivo resistente se non salvifico che può trovarsi nel mondo antico (Medea, 1969), nel Terzo mondo o nell’anima pura di una povera serva (Teorema, 1968). Diviso tra adesione al messianesimo rivoluzionario e l’ostilità alla Chiesa come istituzione complice del potere. Pasolini compendia il suo atteggiamento nella sceneggiatura per un film incompiuto su San Paolo, uomo dal doppio volto, quello spirituale del santo e quello arcigno del prete, fatto rivivere fra nazismo e dopoguerra, fra Parigi e New York.

Se il dialogo di Santucci e di Pasolini concerne essenzialmente i Vangeli, è all’Antico testamento che guarda Primo Levi. Il libro di Giobbe è, in effetti, il testo più citato dai testimoni della shoàh. L’autore di Se questo è un uomo (1946) depura dal suo linguaggio il pathos proprio della vittima e del vendicatore. Anziché comprendere la Creazione, Levi vuole spiegare l’immane Distruzione; dallo scrittore, non-credente, la Genesi è vista come vicenda conflittuale, perché narra una storia che deve essere ricominciata con una nuova creazione, dopo i campi di sterminio. Tema rilevante della sua mente e della sua opera, tesa a una laicizzazione del sacro, è dunque quella del Nuovo Inizio.

Costante è il rapporto col testo sacro nell’opera di Beppe Fenoglio, affascinato dal Dio che crea e che punisce. Agostino, protagonista della Malora (1954), può essere visto come riflesso della vicenda biblica dell’allontanamento dell’uomo dal paradiso terrestre. Il partigiano Johnny (uscito postumo nel 1968) apparenta l’animus del resistente e del predicatore: entrambi si impegnano a diffondere la testimonianza di qualcosa d’impalpabile. Nell’opera di Fenoglio, insomma, spira l’andito ad una religione pura e indissoluta.

Una figura che sembra aver attratto particolarmente l’attenzione degli scrittori novecenteschi è quella di Giuda, qui seguita nella narrativa e nel teatro. Volta per volta gli autori illuminano una faccia diversa del poliedrico personaggio, enigmatico e drammatico e dunque esemplarmente vicino al nostro tempo. Per Giovanni Papini (Storia di Cristo, 1921) l’errore di Giuda non cessa di perpetuarsi nella storia; Federico Valerio Ratti riscatta la figura dell’iscariota presentandolo come un perseguitato (Giuda, 1923); Ferruccio Parazzoli si astiene dal condannare l’apostolo traditore (Vita di Gesù, 1935); il Giuda (1938) di Giuseppe Lanza del Vasto è un illuso che non ha compreso il significato delle parole di Cristo; Luigi Santucci vi si immedesima per cercare di comprenderne i pensieri e i turbamenti e conclude che è in mezzo a noi, poiché l’infedeltà e la menzogna abitano i nostri cuori (Volete andarvene anche voi?, 1969); Giuseppe Berto, infine, tende a scagionarlo: Giuda non è un traditore ma uno che ha accettato di collaborare col suo gesto al compimento del disegno provvidenziale (La gloria, 1978).

Ma non è altrettanto viva, per la sensibilità moderna, la figura della Maddalena? Mescolate fin dal medioevo, le Maddalene dei Vangeli si fondono in un personaggio unico lacerato fra peccato e redenzione. Il saggio a lei dedicato ne segue gli sviluppi anche nelle letterature straniere, con deroga ai confini italiani del volume (ma un che di trasgressivo non si confà alla donna dalle lunghe chiome?). Si passa dalla poesia civile di Anna Achmàtova (Requiem, 1939) al dialogo più religioso di Boris Pasternak (Maddalena e Orto del Getsemani, 1937), dalla peccatrice pentita di Max Jacob (Santa Maria Maddalena), alle varianti declinate da Rainer Maria Rilke (Crocifissione, 1908) o da Yves Bonnefoy (Noli me tangere, 1987), toccando talora la sponda italiana col Compianto (2004) di Davide Rondoni, ispirato alla scultura quattrocentesca di un Niccolò dell’Arca.

Libro poetico per eccellenza, i Salmi sono anche il libro che più accomuna in concordia di emozione e d’interpretazione le religioni dei figli d’Abramo. Ed è quella la fonte e il modello del possente salmista del Novecento, David Maria Turoldo. Poeta-profeta, padre Turoldo ha cantato nelle sue opere l’intera Bibbia, dalla Genesi fino all’Apocalisse. Mentre uno dei due saggi a lui dedicati scruta l’ampio orizzonte dei suoi temi, l’altro si concentra sull’immagine di Maria come icona della femminilità ideale di cui padre David ha visto però parziali ma concrete incarnazioni nella sua esperienza di vita: da donna madre e virginalmente pura, umile e segretamente alta (O sensi miei.. .,1993; Canti ultimi, 1991 e Mie notti con Qohèlet, 1992).

Con la sua poesia in forma di preghiera (per lo più velata), Luzi merita di essere posto come termine ideale di questo libro, che pur contiene delle pagine su qualche scrittore anagraficamente più giovane. Dichiaratamente prossimo al Nuovo più che all’Antico testamento (con l’eccezione dei libri profetici, di Giobbe, dei Salmi) il poeta fiorentino guarda al mistero gaudioso oltre che al doloroso; cerca l’infinito nel finito; riconosce la grazia divina nella bellezza del mondo. Di qui approda al mistero glorioso, alla contemplazione della luce che corona il suo viaggio di poeta e quasi mistico pellegrino, guidato anziché smarrito dinanzi al silenzio di Maria (La barca, 1946).

Un filo mariano si svolge anche nell’arcolaio di Marco Beck, poeta per il quale si può parlare di realismo cristiano. Ricorrente in lui, e motivo d’ispirazione, è infatti l’incontro quotidiano con i segni del divino, ma la sua poesia nasce anche dalle parole dei testi sacri. Pur nel solco del filone mariano, Beck punta alla dimensione interiore e soggettiva del lettore, ma invita altresì l’uomo contemporaneo a far colli- mare il proprio destino con quello di Maria (Il pane sulle acque, 2000).

E proprio a Maria è dedicato lo scritto che chiude il volume: una lunga carrellata tra i poeti che hanno dedicato versi alla Madonna.

Comincia da Domenico Giuliotti (Poesie, 1932) e da Giovanni Papini (Preghiera alla vergine, 1958), e di poeta in poeta emerge ora l’uno ora l’altro tratto della prismatica figura: in Carlo Betocchi, ad esempio, spicca l’umiltà e l’umanità della Vergine (Dell’ave Maria, 1947), mentre in Lino Angiuli la donna prevale sulla madre (Per Maria, 2006). Maria ispira versi a poeti di costante vocazione religiosa, come Antonio Barolini (L’angelo attento, 1968), ma anche in autori di netta impostazione laica, come Attilio Bertolucci (La camera da letto, 1964). In quasi tutti prevale un tono colloquiale, con una Maria umanissima, calda d’affetti, materna o sororale.

Da quest’ultimo rilievo potremmo trarre spunto per dar voce a un’impressione unitaria scaturita alla fine della lettura del volume, per quanto possa essere unitaria un’impressione suscitata da studiosi diversi per inclinazioni personali, materia scelta, formazione di scuola, orientamenti ideologici o spirituali, esperienza generazionale. Non solo: occorre ribadire chiaramente che l’impressione d’assieme affacciata è suscitata da un libro privo d’ambizione sistematica, che coprendo l’arco novecentesco a macchia di leopardo non può in alcun modo pretendere di definire i caratteri dominanti di un secolo letterario particolarmente ricco, complesso, dispersivo. E tuttavia l’umanizzazione del divino sembra candidarsi come marca prevalente nella rivisitazione letteraria del testo sacro operata dagli autori contemporanei. Se in larga parte della tradizione culturale giudaica e poi cristiana ha visto prevalere il moto verticale ascendente, uno sguardo levato verso l’Altissimo, l’Oltre, il Mistero insondabile, qui il moto verticale sembra piuttosto discendente, teso cioè a calare il divino nell’umano, a cercare il disvelamento del Dieu caché dentro le pieghe dell’anima, a cercare il Cristo nel volto sofferente del prossimo. Si supplica il Dio misericordioso, più che il Dio giusto, perché guardi all’umanità, e più spesso si chiede all’umanità sentimenti di misericordia e gesti di giustizia che vincano la base ferma dell’uomo, ne liberino la scintilla divina e con quella il riscatto dalla disperazione, dall’insensatezza di un vivere puramente biologico, utilitario. Un moto verticale che s’incrocia con quello orizzontale della comprensione, della tolleranza, della carità. Moto ecumenico, allargato ai non credenti, ai lontani: è questo, mi pare, il leit-motiv più percepibile nel coro armonioso o dissonante, sommesso o vociante e comunque folto che levano le voci di tanti poeti e scrittori novecenteschi: cercare il divino sulla base di una comune humanitas (il termine cui s’intitola la rivista dell’editrice Morcelliana e ne riassume il pensiero-guida). E proprio questa sete di umanità, questo bisogno di ‘far carne’ della parola poetica come del Verbo cristiano rappresenta un innovativo ricorrente in tanti saggi: e fa rimpiangere l’assenza di uno studio specificamente consacrato al Quinto evangelio (1975) di Mario Pomilio, quel romanzo-saggio che chiudeva la lunga quète alla ricerca del vangelo perduto con la scoperta ch’esso altro non era che la somma dei quattro vangeli trasferiti dalla carta alla vita, vissuti con calore e coerenza. Coro, dicevamo: ma nella consapevolezza che come in poesia ogni voce ha un timbro inconfondibile, così anche il dialogo con lo spirito vive in modi personali nell’intimo di ciascuna anima1.

Pietro Gibellini e Nicola Di Nino

 1 Questo volume è stato coordinato e seguito da entrambi i curatori, ma in particolare Pietro Gibellini ha curato da p. 5 a p. 254 e Nicola di Nino da p. 255 a p. 557. Gli indici dei nomi e dei passi biblici sono stati invece elaborati congiuntamente.

Pietro Gibellini (Ed.),La Bibbia nella letteratura italiana,II,l’età contemporanea,Morcelliana,2009,pp.583

La Bibbia nella letteratura italiana:vol.I.

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PREFAZIONE

DAL MITO ALLA SACRA SCRITTURA

Questo volume sulla Bibbia nella letteratura italiana del Sette-Ottocento, come quello che appare nella stessa collana a sondare echi e motivi scritturali nei nostri autori del Novecento, ha alle spalle una storia breve e una lunga preistoria. Breve è il tempo trascorso tra l’approvazione di un Progetto di ricerca d’ interesse nazionale (PRIN, nel gergo accademico-ministeriale) legato alle Riscritture del Sacro, elaborato nel 2005, e la raccolta dei risultati affidati ai due corposi volumi della “Biblioteca” Morcelliana. Lunga ne è la preistoria, avviata all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso grazie all’incoraggiamento della stessa casa editrice e poi al sostegno di vari PRIN. Ne nacque un’indagine collettiva sulle riprese della mitologia classica nella nostra letteratura, sfociata prima in un volumetto dell’Arcadia (Mito e letteratura dall’Arcadia al Romanticismo, 1993), poi in tre numeri monografici di «Humanitas» (Il mito nèlla letteratura italiana moderna, 1996; Fedra:un mito dall’antico al moderno, 1997 e Il mito nella letteratura italiana del ‘900, 1999), infine nell’opera sistematica realizzata presso la stessa editrice bresciana (Il mito nella letteratura italiana, voll. 1-1V, 2005-2007, vol. v in corso di stampa). Ai primi fascicoli, cartoni preparatori del futuro affresco, avevano partecipato colleghi e amici in buona parte gravitanti attorno agli atenei in cui allora insegnavo, l’Università di Trieste e la Cattolica di Brescia; per l’opera sistematica la cerchia si era allargata, partendo dalle università aggregate nel PRIN (Venezia, divenuta nel frattempo mia sede di lavoro e centro coordinatore del progetto, Trieste, Verona, Lecce) ma arruolando man mano, come nella favola degli allegri suonatori di Brema, studiosi di diverse generazioni e di diversi atenei, italiani e stranieri, senza contare ricercatori free-lance, forti solo della loro competenza e passione.

A partire dalle quattro sedi alleate nella mitica impresa, cui si è aggiunta l’équipe dell’università di Pisa, buona parte di quella numerosa squadra, corroborata da forze nuove specialmente giovanili, si è poi ritrovata nell’avviare il PRIN “Riscritture del sacro” su echi e motivi biblici e cristiani nei nostri scrittori moderni e contemporanei.

Il lavoro corale, scandito da momenti di confronto quali seminari privati o convegni pubblici, come quelli tenuti a Portogruaro nel 2006 e a Brescia nel 2007, sfocia ora nei due volumi, questo e il suo compagno novecentesco.

Ora, parlare di continuità fra un’opera destinata agli “dèi falsi e bugiardi” e questa dedicata alla Sacra scrittura potrebbe parere a qualcuno un giudizio forzato, per legittimare l’atto sconveniente di mescolare il diavolo con l’acqua santa (nel Medioevo qualcuno volle vedere nelle divinità pagane nient’altro che dèmoni camuffati). L’obiezione virtuale invita a ribadire un’idea che fino a tempi recenti sarebbe parsa pleonastica: e cioè che questa ricerca, come ogni ricerca degna di tal nome, non ha pregiudizi ideologici o confessionali, perché la cultura è sempre laica, come si suole ripetere in quella casa editrice di ispirazione cattolica che, come osservava con giusto orgoglio Stefano Minelli, poteva dirsi conciliare prima del Concilio, aperta com’è sempre stata non solo al dialogo ecumenico (specie con la cultura ebraica e protestante) ma anche al fitto, osmotico colloquio con gli intellettuali razionalisti, laici, compresi quei “lontani” ai quali, pionieristicamente, dedicò la collana dei compagni di Ulisse. Che poi alcuni degli autori abbiano nei confronti della Bibbia un interesse che non si limita al solo taglio letterario, questo appartiene ai loro liberi percorsi mentali e spirituali. Queste premesse, che solo ieri sembravano scontate, ci sono suggerite dalla situazione dell’oggi, che merita anche un’altra osservazione: la capacità di aver attratto l’interesse dei nostri italianisti prima sull’eredità mitologica e poi su quella biblica nasce forse dall’agnizione delle due inestricabili radici della identità culturale europea oggi sollecitata dal confronto con le ondate migratorie del cosiddetto mondo globale: quella classico-razionalista e quella giudaico-cristiana. Due modelli di riferimento, con i loro patrimoni verbali e mentali, che hanno conosciuto anche fasi di convivenza agonistica e duramente polemica, ma anche fasi di conciliazione, dialogo e cooperazione: modo che ora appare davvero dominante, come riconosce ogni onesto studioso, non accecato dall’ignoranza né chiuso nella gabbia arrugginita del pregiudizio ideologico. A dissipare le diffidenze anco ieri tangibili (ma non nei dintorni della casa editrice che intitolò alla humanitas la sua rivista, improntata ai valori dell’umanesimo cristiano, nella linea Erasmo-Thomas More, e che come i Padri illuminati considerava il tesoro della sapienza greco-latina come l’altro Testamento antico) basterebbe la valanga di firma raccolte recentemente dall’associazione aconfessionale “Biblia” per promuovere la conoscenza della Sacra scrittura nella scuola del nostro Paese, cui viene tradizionalmente imputata una scarsa conoscenza del Testo Sacro, nonostante o (secondo taluno) a causa della sua tradizione cattolica. E quanto a ciò, sat prata biberunt.

Vero è, invece, che anche nel dominio di nostra spettanza, cioè nel campo degli studi letterari, il peso di passate tensioni fra laicismo e integralismo ha determinato lacune negli studi. La storiografia letteraria anche recente, debitrice nonostante tutto del modello liberai-risorgimentale del De Sanctis, piegato poi spesso a storicismo marxista, ha confinato la letteratura religiosa entro lo steccato di uno specifico genere letterario o para-letterario, delimitato nel tempo: dal Medioevo al nascente Umanesimo, con tutt’al più un revival nell’età della Controriforma e del Barocco. Restavano così in ombra larghe zone di letteratura sacra o di poesia-preghiera, salvo qualche punta di iceberg emergente qua e là (le canzoncine di Sant’Alfonso de’ Liguori, le visioni varaniane echeggiate da Monti, l’innografia di Manzoni). Accanto alle manchevolezze della linea storiografica, l’ignoranza dell’intertesto biblico condiziona la piena intelligenza critica dell’opera non solo di autori quali Dante o Manzoni, che al Libro sacro guardano come a una viva fonte spirituale, ma anche ad autori che avevano orientato verso altri orizzonti il loro pensiero: sarebbe lo stesso, il Principe di Machiavelli, amputato dell’exemplum di Mosè? E i Canti di Leopardi, privati degli echi di Qohélet?

Nella biblioteca paterna di Recanati, dunque nella provincia dello Stato pontificio, il conte Giacomo poteva trovare molti libri intrisi di quel secolare sapere, molti dei quali peraltro mediavano anche le idee dei tempi nuovi, maturate nel chiarore dei lumi di Francia o fra le brume nordiche. E proprio dagli anni in cui si verificava e consolidava la grande svolta della Rivoluzione francese prende le mosse questo volume, i cui primi saggi riguardano appunto il protoromantico Alfieri, i neoclassici Monti e Foscolo: da lì lo sguardo percorre, nei due volumi, l’arco di duecento e più anni, nel quale la cultura secolarizzata è divenuta egemone, e si rivela palpabile anche in autori di esplicito orientamento cristiano, da Tommaseo a Fogazzaro: tanto più sollecitante, dunque, verificare le tracce indelebili lasciate dall’Antico e dal Nuovo Testamento nel linguaggio e nel pensiero di scrittori dell’Otto e del Novecento.

I frutti che se ne colgono nei due volumi incoraggiano a proseguire nell’impresa, a volgere cioè lo sguardo anche ai secoli precedenti, dove la messe si promette abbondante: al ciel piacendo, e con la generosa collaborazione di tanti studiosi amici, aggiungeremo altri volumi. Basti, per ora, questo primo torno, per il quale possiamo dire, come gli antichi copisti, e nel senso più pieno: explicit, deo gratias.(Pietro Gibellini)

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Cose nostre….

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Questo libro nasce dalle sollecitazioni finali del prof. Michele A. Crociata, ordinario di storia negli istituti superiori che, in occasione della presentazione del libro precedente “Banditismo, Mafia e Politica “, così si era espresso:« Su “Banditismo, Mafia e Politica in Sicilia molto di vero e di falso è stato detto e scritto da siciliani, da italiani ed anche da stranieri. Lo studio del Prof. Giuseppe Mazzola, però, ha un taglio del tutto particolare perché, parlando della “Banda Giuliano “, mette bene in evidenza tanti aspetti della storia più recente della nostra isola, della mentalità e dei costumi propri del suo paese natio: Montelepre.

Anche se ancora ragazzo, egli, infatti, ha visto, ha sentito, ha vissuto ed ha impresso nella sua memoria e nel suo essere quello che ora, uomo maturo, ci racconta e ci commenta con un periodare fluido e con stile accattivante, semplice, da innamorato della sua terra ubertosa e piena di poesia.

Dalla prima all’ultima pagina di questo libro c’è infatti, un lodevole e crescente sforzo per ridare ai suoi concittadini la verità dopo tante denigrazioni, sofferenze, soprusi, calunnie, fango, umiliazioni.

La figura di suo padre – galantuomo, anche se ritenuto mafioso e, per questo, vessato in vario modo alla ricerca di qualche reato concretamente imputabile e torturato fisicamente e psicologicamente – emerge da tutto il racconto come quella di un uomo saggio e forte, stimato da tutte le parti, anche le più ostili. Fra le righe si nota sempre la grande ammirazione e il grande affetto del figlio per un uomo considerato eccezionale e impegnato nella quotidiana e titanica lotta contro i malvagi. Proprio al padre – “che non avrebbe approvato “, dice – egli dedica questo libro, oggi alla sua seconda edizione.

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 Trovo l’opera interessante anche per i tanti e dotti richiami all’archeologia e alla storia locale e regionale; perle puntuali annotazioni su costumi, usi, tradizioni, proverbi popolari, sacralità e centralità della famiglia, evoluzione della mentalità, dell’urbanistica e della religiositàdi Montelepre. Apprezzabili sono pure le battute, le citazioni ed una poesia (pag 147) nella colorita lingua siciliana.Si nota subito che l’autore è anche uno studioso, uno psicologo e un sociologo convincente, attento al rispetto della persona e della legalità.

Non mancano, infatti, neanche le pagine che evidenziano – senza reticenze, eufemismi o moralismi – le connessioni sfacciate tra i vari poteri, una certa sorda lotta tra polizia e carabinieri, i vecchi e, purtroppo, mai del tutto abbandonati sistemi polizieschi intenti ad estorcere con le torture anche testimonianze fasulle, la mafia del primo e del secondo dopoguerra, le cause e le devastanti ed imprevedibili conseguenze dell’uragano – banditismo, la “misteriosa” strage di Portella della Ginestra, la messinscena del conflitto a fuoco a Castelvetrano e la morte di Giuliano; l’intervento dèl vescovo di Monreale a difesa di un paese angariato e demonizzato, specialmente dopo il caotico sfascio dell’ultimo dopoguerra, quando si lottava per sopravvivere; la dilagante ingiustizia e l’altrettanto dilagante corruzione in una regione sempre predata e mal governata; l’eredità di cultura d’ingegno e anche di litigiosità dei Greci antichi; la radicata diffidenza verso lo Stato e le istituzioni, che spingono a cercare protezione nei privati; la vita d’inferno del mafioso tra incertezze, precarietà, apprensioni, preoccupazioni ecc. ecc.

A mio parere, è bene che questo libro ricco anche di un repertorio fotografico ampio e spesso ancora inedito, sia messo in mano ai giovani per non dimenticare il passato e per migliorare il presente; nelle mani degli amministratori e dei politici per non ricadere nei vecchi detestabili errori; nelle mani di quanti cercano la verità e lottano per la giustizia e per il bene del nostro popolo.Mille volte grazie, dunque, al Prof. Giuseppe Mazzola ed auguri per eventuali nuove fatiche di questo e di altro tipo a vantaggio della nostra storia locale, di Montelepre e della Sicilia».

Prof Don Michele A. Crociata

La coesistenza religiosa:nuova sfida per lo Stato laico.

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Il presente volume, frutto di uno scambio di conoscenze fra studiosi del mondo universitario e operatori della pubblica amministrazione, attenti alla realtà culturale del diritto e volti a recepire gli stimoli presenti nella società, si propone di recare un contributo alla comprensione del fattore religioso nello spazio euromediterraneo e alle rinnovate dinamiche conflittuali tra monismo islamico e dualismo cristiano. 
In particolare, il tema della riflessione è focalizzato sul rapporto tra Stato laico e coesistenze religiose, così come viene evidenziandosi dopo l’11 settembre; tema che si rinnova continuamente e si presenta con fattispecie diverse che vedono intrecciarsi globalizzazione, grandi processi migratori, terrorismo. Il punto di osservazione parte da Genova, capitale del Mediterraneo, dove oriente e occidente rappresentano le due rive di un unico specchio d’acqua che è luogo d’incontro nella storia dei popoli e della cultura greco-romana, ebraica e araba, come pure delle tre grandi religioni del libro, che insistono nel medesimo contesto geografico. 
Pur osservando che l’integrazione delle comunità musulmane nella società italiana è oggetto di problematiche non previste dal legislatore dello Stato, e come tale lacuna, determina per reazione forme di integralismo confessionale. Non si può non riconoscere a tutte le religioni praticate con fede sincera un valore di civiltà e un elemento di elevazione spirituale nella loro funzione di collegamento tra il finito dell’uomo e l’assoluto di Dio. 


Indice:

Premessa del Curatore p. 5 

Adriana Gardino 
Democrazia e religione nel sistema della Convenzione europea 
dei diritti dell’uomo p. 13 

Massimo Campanini 
La percezione del rapporto tra islam e occidente p. 23 

Giovanni B. Varnier 
Libertà, sicurezza e dialogo culturale come coordinate 
del rapporto tra islam e occidente p. 27 

Giulio Gavotti 
Condizioni per la cittadinanza agli stranieri p. 65 

Alessandro Albisetti 
Osservazioni sul matrimonio islamico p. 69 

Ugo Taucer 
Immigrazione e sicurezza p. 75 

Giuseppe Rivetti 
Migrazione e fenomeno religioso: problemi (opportunità) 
e prospettive p. 109 

Gli Autori p. 127 

 

G.B. Varnier (a cura di) La coesistenza religiosa: nuova sfida per lo Stato laico
Rubbettino Editore, Soveria Manneli (CZ), 2008
€ 8,00, pp. 130

Lo “schiticchio”.A tavola con il Padrino!

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Avete mai assaggiato i “cannoli dei boss?” oppure la “caponatina alla Al Capone?”;vi siete mai cimentati in cucina con gli “agnelli sacrificali?”, “il silenzio delle sarde al linguate?”.Sapete che cos’è la “latitanza del macco?” e la “la norma della legge?”. A farvelo sapere ci ha provato,egregiamente,Guido Guidi Guerrera* ponendo in essere un volume che ruota attorno al cibo,di matrice sicula, e all’uso che ne fanno i Padrini di Cosa Nostra. Un invito,intriso di ironia, per provare a stare “A tavola con il Padrino” per farsi uno “schiticchio”!

Lo schiticchio in siciliano significa “abbuffata”. Il termine indica per antonomasia, e secondo una tradizione consolidata, il tipico banchetto dei mafiosi e della gente di malaffare in genere. Guido Guidi Guerrera, una delle firme più brillanti e sarcastiche della stampa italiana, ci invita a tavola con il Padrino. Un invito che non si può rifiutare.

Don Saro Partinico da Montelepre, capofamiglia e uomo d’onore, attorno al quale ruota una folla di comprimari e di comparse, è il protagonista indiscusso di questo libro giocato sul filo dell’ironia ma anche dell’analisi, insieme a un comprimario di straordinaria potenza evocativa: il cibo.

Lo schiticchio diventa dunque la metafora di ogni possibile appetito: i mafiosi, afflitti da una voracità declinata in tutti i generi possibili, ridono e si abbracciano, mangiano e parlano di cose sconce, ma nello stesso istante, e continuando a usare identiche forme lessicali, senza neppure mutare l’espressione del volto, con l’aria di non finire mai di scherzare, progettano omicidi e forse stragi. La tavola è il momento della celebrazione di un potere visibile proprio nell’eccesso, come accadeva per gli antichi imperatori, o al giorno d’oggi per ogni dittatore.

Eppure, ogni cibo amato dai padrini è anche sinonimo di un modo semplice se non dialettale di concepire la cucina, che è sempre quella delle madri e delle nonne. Un mangiare “di casa”, sempre preferibile a ogni latitudine a qualsiasi altra raffinatezza troppo distante dai ricordi più cari.

Un libro intriso di atmosfere siciliane alla Puzo, della lingua di Camilleri, di immagini alla Coppola.

Per scoprire, insieme alle ricette di ogni piatto, che lo schiticchio siciliano aveva anche altri significati.

«Se dobbiamo sopportare che Adonis andasse pazzo per la pasta alla norma e Al Capone da tacchino vanitoso per la caponatina, sopportiamolo, anzi: in questo caso non resta altro da fare che associarci. In fondo si tratta di farsi un ottimo schiticchio e, in nome della cucina siciliana, che mi fa battere il cuore allo stesso movimento di quel mare, ci posso stare».(Nino Frassica)

A tavola con il padrino:un invito che non si può rifiutare se è vero che:

  • “ Una goccia di vino dell’Etna è per l’uomo d’onore gradevole quanto una goccia del sangue del suo nemico”( Don Vito Cascio Ferro)
  • “Mi piace la pasta con le sarde,ma sinceramente le preferisco con l’olio che faceva papà” (Michael Corleone)

Un volume da “assaporare” per esportare sempre più la sana e ottima cucina siciliana e,sempre meno, la criminalità mafiosa che ha infangato,oltremodo,questa bellissima isola.

 *Guido Guidi Guerrera scrittore e giornalista per «QN». Tra i massimi esperti di Hemingway in Italia, ha pubblicato, tra gli altri, A spasso con papa Hemingway(Todaro, 2002), Battiato another link (Verdechiaro, 2006), A tavola con Maigret(IL Leone Verde, 2007) e Vivere alla grande (Aliberti, 2008).

Misteri d’Italia:da Salvatore Giuliano a Paolo Borsellino….

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 A 17 anni dalla strage di via D’Amelio,in cui furono trucidati il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta,si stanno aprendo nuovi scenari investigativi circa i mandanti dell’eccidio. Infatti la procura nissena indaga sulla sparizione della famosa “agenda rossa” ,che il giudice portava sempre con sè, e su un personaggio misterioso che avrebbe avuto un ruolo chiave nell’organizzazione e nella realizzazione della strage. Pensando a tutto ciò,soprattutto nel ricordo affettuoso dei caduti,vorrei proporvi una breve recensione di un “volumetto”,da poco dato alle stampe,che prova a rivangare un altro grande mistero d’Italia:ossia la figura di Salvatore Giuliano,bandito di Montelepre, che ha reso questo piccolo paese dell’entroterra palermitano tristemente famoso in tutto il mondo a partire dal 1943,anno dell’inizio della latitanza di Giuliano,sino ad oggi,passando per il 1950,anno della sua morte. A porre in essere l’ultimo contributo,in ordine di tempo,sulla vicenda Giuliano è Salvatore Badalamenti,nato e cresciuto a Montelepre,ma attualmente vive e lavora a Palermo. Il suo interessante studio è intriso di ricordi d’infanzia , di testimonianze acquisite nella sua giovinezza dagli anziani del paese, di fonti storichee mira a dimostrare che,ad oggi,sulla vicenda Giuliano,così come su tanti altri misteri d’Italia,purtroppo dolorosi, esiste una verità “ufficiale” e una “popolare”. Ad esempio circa la fine del bandito,la verità ufficiale dice che fu ucciso in un conflitto a fuoco a Castelvetrano,quella popolare che è stato ucciso,a Montelepre,dal cugino Gaspare Pisciotta, (a sua volta poi ucciso, a suon di strichinina, dentro il carcere borbonico dell’Ucciardone),poi trasportato a Castelvetrano dove sarebbe stato inscenato il conflitto a fuoco:da un lato i carabinieri e dall’altro Giuliano già morto! Eppure,come dice il detto,non c’è due senza tre,ossia:Giuliano è,davvero, morto nel 1950 e a Montelepre-Casteletrano? E se fosse morto molto tempo dopo,di morte naturale? E quale sarebbe il nesso tra il Mistero,o i misteri, che avvolgono ad oggi la strage di via D’Amelio e la vicenda della fine,o presunta tale, del bandito Salvatore Giuliano? Il mistero di Giuliano sarebbe quello circa la sua vera fine:quando è morto e dov’è morto Giuliano? Siamo certi che,circa la fine di Giuliano,sia stata  la verità ufficiale che quella popolare, dicano la verità?Ossia che sia realmente morto? Vedendo e leggendo il libro di Badalamenti,mi è venuto in mente un fatto successomi alcuni anni fa. Mi trovavo a Montelepre e parlando con una persona addentro alle segrete cose,circa la vicenda Giuliano,ebbi a chiedergli:”Giuliano è sepolto nel cimitero di Montelepre”? Risposta secca del mio interlocutore:”Forse”! Io non replicai,ma quella risposta mi lascio di sasso,come “forse” dissi fra me e me….Quella risposta,negli anni successivi,avrebbe avuto altre conferme circa la sopravvivenza di Giuliano sino ad un paio di anni fa,in America e sotto falso nome. Se così fosse,(basterebbe una semplice ricognizione cadaverica del corpo mai fatta), sarebbe probabilmente vero il fatto che Giuliano avrebbe accettato un salvacondotto,solo per lui,offertogli, a suo tempo, dal cardinale di Palermo Ernesto Ruffini? E se Giuliano fosse,davvero,andato in America,chi c’è sepolto, al suo posto, nel cimitero di Montelepre? Sarei curioso di saperlo! Intanto un filo sottile di MISTERI,attraversa la storia dell’Italia Repubblicana, dalla strage di Portella delle Ginestre,passando per la presunta fine del bandito di Montelepre,per arrivare a quella di via D’Amelio.Misteri dolorosi che aspettano di ricevere una risposta corrispondente a Verità:quella vera….possibilmente!

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Salvatore Badalamenti,Montelepre,il dopoguerra e i misteri di Giuliano,La Zisa,2009,pp.157

Il Carretto siciliano….

Guida ai sapori perduti….

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Per i siciliani il cibo ha grande importanza: in una riunione informale fra amici come in un pranzo ufficiale, l’argomento non manca di eccitare gli animi, di rompere ogni tipo di ghiaccio, di sconfiggere ogni inibizione. Mangiare è sempre un atto culturale, dando alla parola cultura quel senso lato che molti le hanno negato. Non una singola isola, ma un agglomerato di isole, quasi un subcontinente, è la Sicilia, dove la geografia e l’aspra natura del terreno hanno per millenni rappresentato una barriera naturale alla circolazione di merci e di idee. Nel campo culinario molto è sconosciuto anche agli stessi abitanti dell’isola: in Sicilia c’è tutto un universo sommerso di cibi che sono conosciuti solo in una zona, a volte addirittura solo in un quartiere, o che si possono comprare in una singola pasticceria o panificio.Frascatole, ‘nfasciatieddi, funciddi, piscirè, ‘nfigghiulate, e molto altro ancora: vere e proprie reliquie da preservare. Ogni siciliano, specie se di una certa età, conserva alcuni di questi misconosciuti brandelli di cultura legati ai propri ricordi d’infanzia o all’esperienza ancora viva del quotidiano. È importante riunire il maggior numero possibile di queste informazioni, per un atto di conoscenza collettiva e per una speranza di futura memoria.

Introduzione di Giuseppe Barbera

Il cibo di un popolo, non diversamente dal suo paesaggio, esprime risultati dell’incontro tra la natura del luogo e la sua storia, la sua cultura. In Sicilia, che è una terra dove la natura si manifesta in modi straordinariamente differenti, anche i cibi riflettono tale diversità. Sono, prima di tutto, il risultato di una moltitudine di suoli, di morfologie, di esposizioni e di altitudini e, quindi, di climi; gli ingredienti che li compongono hanno origine in una biodiversità animale e vegetale che risulta essere tra le più alte nel Mediterraneo e si esprime in una straordinaria ricchezza di forme, di sapori, di valori alimentari. La diversità biologica dell’isola ha guadagnato, in termini di varietà e cultivar indotte dalla coltivazione nei sistemi produttivi, quello che, in lunghi anni di sfruttamento agricolo e di depauperamento ambientale, ha perso in numerosità di specie per la scomparsa di molti habitat naturali, per la fine dei suoi agrosistemi tradizionali.

Su una base fisica e naturale così varia, la storia dell’uomo ha contribuito non poco ad aumentare la diversità biologica con l’arrivo e l’incontro fecondo di tante civiltà differenti: ciascuna con le sue piante coltivate, le sue tecniche agricole, i suoi costumi alimentari, le sue sapienze gastronomiche. Dal punto di vista della diversità dei saperi umani, il Mediterraneo ha, nella sua posizione geografica, la ragione della ricchezza propria dei confini (gli ecotoni come li chiamano gli ecologi). I margini, cioè, dove si incontrano ambienti naturali e culture umane diverse scambiandosi geni, informazioni, tecniche e arti. Comunicano tra loro tre continenti e la Sicilia è lì al centro del mare che li unisce, al centro di ogni antico viaggio, pensiero, commercio a elaborare e offrire diversità, complessità, stabilità.

Cibi e paesaggi sono palinsesti. In loro la storia e la natura si avvicendano e si sovrappongono mostrando e conservando nelle forme e nelle sensazioni sensoriali che entrambi diversamente suscitano la loro grande molteplicità. Il problema è svelarla, raccontarla, tramandarla.

Marcella Croce riesce a farlo con i cibi della tradizione siciliana. Il suo libro non è un libro di ricette, nè un libro di storia o di ricordi alimentari e neanche una rassegna etnoantropologica o un florilegio di citazioni. È tutto questo insieme. Gli ingredienti della cultura e della natura siciliana sono presenti e bene amalgamati e, direi, cucinati come in un piatto della tradizione. Marcella scrive bene, conosce geografia e storia dell’isola, è curiosa, va in cerca di storie e tradizioni dimenticate o nascoste. Ma ha anche la curiosità rigorosa dei bravi ricercatori: ogni affermazione è confermata da un dato bibliografico o dal parere di un esperto.

Non ho mai amato molto i libri che scrivono delle tradizioni alimentari siciliane. Sono o lunghe rassegne di ricette o somme di cattive e pretenziose informazioni. Sono, di solito, buoni solo in cucina. Non è questo il caso. Il libro di Marcella non va conservato tra il Cucchiaio d’Argento o Il Talismano della Felicità, Il suo posto è in uno scaffale in biblioteca, costringendolo magari ad un continuo andirivieni verso i fornelli della cucina e una sosta alla tavola da pranzo.

Marcella Croce*,Guida ai sapori perduti.Storie e segreti del cibo siciliano con quaranta ricette.Kalòs,2008.

*Marcella Croce ha conseguito il dottorato in letteratura italiana presso la University of Wisconsin-Madison (USA). Ha tenuto conferenze negli Stati Uniti, Giappone e Israele. È giornalista e collabora con il quotidiano “La Repubblica”. Per conto del Ministero degli Esteri ha insegnato italiano all’Università di Isfahan (Iran) e di Kyoto (Giappone). Ha pubblicato Pupi carretti contastorie (1999), Pupari (2003), Le stagioni del sacro (2004), History on the road – The painted carts of Sicily (2005) e Oltre il chador – Iran in bianco e nero (2006) per il quale ha vinto il 1° Premio di scrittura femminile “Il paese delle Donne”, Roma 2007. NeI giugno 2008 è uscito negli USA un suo libro in inglese sul cibo siciliano: Eat smart in Sicily (Ginkgo Press).

 In copertina fotografia di Melo Minnella.s

Foto di seguito,non presenti nel volume,di Michele Vilardo.

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“Caritas in veritate”.

“Caritas in veritate”.

 Pagine scelte

 Antologia della terza enciclica di questo pontificato, firmata dal papa il 29 giugno 2009 e resa pubblica il 7 luglio 

di Benedetto XVI

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A cura di Sandro Magister

 1. LA CARITÀ NELLA VERITÀ, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. […]

3. […] Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità.  […] Nella verità la carità riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme Agápe e Lógos: Carità e Verità, Amore e Parola.

4. […] Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività. […]

28. Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l’importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli. Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti di povertà e di sottosviluppo alle questioni collegate con l’accoglienza della vita, soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.

Non solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l’aborto. Nei paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale.

Alcune organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell’aborto, promuovendo talvolta nei paesi poveri l’adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l’imposizione di un forte controllo delle nascite. Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che prevedono l’eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico. […]

29. C’è un altro aspetto della vita di oggi, collegato in modo molto stretto con lo sviluppo: la negazione del diritto alla libertà religiosa. Non mi riferisco solo alle lotte e ai conflitti che nel mondo ancora si combattono per motivazioni religiose, anche se talvolta quella religiosa è solo la copertura di ragioni di altro genere, quali la sete di dominio e di ricchezza. Di fatto, oggi spesso si uccide nel nome sacro di Dio, come più volte è stato pubblicamente rilevato e deplorato dal mio predecessore Giovanni Paolo II e da me stesso. Le violenze frenano lo sviluppo autentico e impediscono l’evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale. Ciò si applica specialmente al terrorismo a sfondo fondamentalista, che genera dolore, devastazione e morte, blocca il dialogo tra le Nazioni e distoglie grandi risorse dal loro impiego pacifico e civile. Va però aggiunto che, oltre al fanatismo religioso che in alcuni contesti impedisce l’esercizio del diritto di libertà di religione, anche la promozione programmata dell’indifferenza religiosa o dell’ateismo pratico da parte di molti paesi contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e umane. Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”. […]

34. La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. […] Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini. […] La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano. Come ho affermato nella mia enciclica “Spe salvi”, in questo modo si toglie dalla storia la speranza cristiana, che è invece una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella giustizia. La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà. È già presente nella fede, da cui anzi è suscitata. La carità nella verità se ne nutre e, nello stesso tempo, la manifesta. Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia. Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti. La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant’Agostino. […]

35. Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.

Opportunamente Paolo VI nella “Populorum progressio” sottolineava il fatto che lo stesso sistema economico avrebbe tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi a trarre beneficio dallo sviluppo dei paesi poverisarebbero stati quelli ricchi. Non si trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l’assistenza. I poveri non sono da considerarsi un “fardello”, bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico. È tuttavia da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l’economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio. È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.

36. […] La Chiesa ritiene da sempre che l’agire economico non sia da considerare antisociale. Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse “ipso facto” la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale.

La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o “dopo” di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente.

La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del donocome espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un’esigenza dell’uomo nel momento attuale, ma anche un’esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità. […]

42. […] La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno. […] I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l’intero mondo. […]

43. […] Si assiste oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell’umanità. Si è spesso notata una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli. La relazione sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri.L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri. […]

44. […] Considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all’importante diminuzione della mortalità infantile e il prolungamento della vita media che si registrano nei paesi economicamente sviluppati; dall’altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l’altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell’uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell’esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l’educazione sessuale non si può ridurre a un’istruzione tecnica, con l’unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal “rischio” procreativo. […]

L’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica. Grandi nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti. Al contrario, nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto “indice di sostituzione”, mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l’accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei “cervelli” a cui attingere per le necessità della nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società. […]

45. […] Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale. […] È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell’aggettivo “etico” che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo.

Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento. Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell’uomo “ad immagine di Dio” (Genesi 1, 27), un dato da cui discende l’inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente valore delle norme morali naturali. Un’etica economica che prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Tra l’altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono. […]

56. La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo “statuto di cittadinanza” della religione cristiana. […] La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità.

57. Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace l’opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell’umanità. […]

67. Di fronte all’inarrestabile crescita dell’interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza di una recessione altrettanto mondiale, l’urgenza della riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale. […] Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune,  impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti. Ovviamente, essa deve godere della facoltà di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate adottate nei vari fori internazionali. In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri di potere tra i più forti. Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione. […]

75. […] Oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmentequestione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo. La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell’ibridazione umana nascono e sono promosse nell’attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita. Qui l‘assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione. In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica. Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell’uomo e i nuovi potenti strumenti che la “cultura della morte” ha a disposizione. Alla diffusa, tragica, piaga dell’aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente “in nuce”, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Sul versante opposto, va facendosi strada una “mens eutanasica”, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta. Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana. Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l’indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite. Mentre i poveri del mondo bussano ancora alle porte dell’opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l’umano. Dio svela l’uomo all’uomo; la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell’uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale. […]

79. Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, “caritas in veritate”, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. […] L’anelito del cristiano è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come “Padre nostro!”. Insieme al Figlio unigenito, possano tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole che Gesù stesso ci ha insegnato, di saperlo santificare vivendo secondo la sua volontà, e poi di avere il pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso i debitori, di non essere messi troppo alla prova e di essere liberati dal male. […]

Il testo integrale dell’enciclica, nel sito del Vaticano:

 “Caritas in veritate” in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20090629_caritas-in-veritate_it.html

Luigi Di Franco:un poeta da scoprire…….

               CANTI DI PIETRALUNA UN INNO ALLA LIBERTA’

 Di Franco Luigi copertina vol poesia 2009

Il poeta Luigi Di Franco* scrive il canto dell’umanità che conquista la libertà

 “Canti di Pietraluna”. Questo il titolo dell’ultima opera di poesia pubblicata dal poeta Luigi Di Franco di Villarosa che è stata presentata al teatro comunale “Vittoria Colonna” di Vittoria (Ragusa) con l’intervento dell’autore e dei docenti universitari Giuseppe Savoca ed Antonio Sichera della facoltà di Lettere dell’Università di Catania. Il poeta Di Franco che ha pubblicato questa sua nuova raccolta, cinquanta “poesie ad un millennio” come egli stesso le definisce, edite  nell’Aprile 2009 dall’Autore Libri di Firenze, ha sottolineato come occorre sempre imparare finché dura l’ignoranza, cioè per tutta la vita, ma proprio là dove la maggior  parte della gente ha l’impressione  che non si faccia nulla di buono occorre ricostruire templi alla virtù del sapere, altrimenti ci resteranno solo suoni inarticolati di barbarie.

L’opera,ultima raccolta di una trilogia che include i  precedenti volumi “Fuochi barocchi” (edito nel 1996) e “Sentieri del Tempo” (edito nel 1999), traccia un consuntivo dell’esistenza e del percorso culturale del poeta che anela ad una nuova dimensione umana e sociale lontana dall’uomo di oggi ma a lui visibile e pertanto realizzabile.

Quelli di “Canti di Pietraluna” sono versi che inneggiano alla libertà umana colta nel suo scioglimento con i vincoli del materiale all’insegna di nuove categorie ontologiche che sempre più affermano il valore dell’uomo inteso come costante essere in divenire.

L’uomo di queste liriche, in quanto misura di tutte le cose, conferisce senso e valore a fatti e luoghi da egli stesso vissuti evitando che la dirompenza della barbarie umana e istituzionale cancelli ogni retaggio culturale per offrire all’individuo non più una condizione di cittadino, quanto quella di ospite della propria terra.

Con quest’ultima raccolta il poeta Di Franco non si presenta più solo come letterato, ma si qualifica come uomo di azione impegnato in prima persona a smascherare le insidie di una politica miope, della volgarità d’animo, della smania di potere. Poesia lirica e civile, dunque, che nasce da una coscienza matura e consapevole del costante annullamento di ogni valore che si sta vivendo e che con la sua poetica parola apre ad ogni tipo di lettore la possibilità di compiere più profonde riflessioni. In una società in decadenza variamente affaccendata in egoistici interessi ciò che pare mancare alle istituzioni e ai vari gruppi dirigenti è la dimensione speculativa del vero, per questo solo una riconquista ed una rivalutazione della cultura umanistica può offrire rinnovate ragioni di riscatto. “Non c’e’ più tempo di cantare…/Non c’e’ più tempo di restare” scrive il poeta. Ed è il suo congedo da un’umanità ormai schiava, ma anche l’esaltazione consapevole della dignità umana che vale per quanti ancora sanno guardare in alto.

Foto prof. Luigi Di Franco

*Luigi Di Franco è nato e vive a Villarosa, in provincia di Enna.  Laureatosi in Filosofia, in Magistero in Scienze Religiose e in Storia Contemporanea, è docente di Filosofia, Storia e Scienze Umane presso i Licei statali. È membro dell’Accademia Internazionale dei Micenei e della Società Filosofica Italiana, nonché dottorando di ricerca in Storia contemporanea all’Università di Catania nella Facoltà di Scienze Politiche.Ha ricevuto diversi riconoscimenti culturali nazionali ed internazionali fra cui: il Primo Premio di Poesia al Premio «Città di Ragusa», nel 1972; il Primo Premio per la Saggistica alla VII edizione del «Premio Letterario Nazionale Isola Bella» a Stresa, nel 1994; a Varsavia (Polonia) il Primo Premio di poesia e saggistica alla XXIV Edizione del «Premio Letterario Internazionale I Migliori dell’Anno», nel 1996; il Premio «Superprestige Spagna ’98» per la poesia, con «Superpremio Messico» per la saggistica, al Premio Letterario Internazionale«Miguel de Cervantes» nel 1998 a Roma-Madrid; è inoltre stato finalista al Premio letterario-editoriale «L’Autore» nel 1998, con la silloge di poesia inedita Sentieri del tempo; il Primo Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri per opere di poesia e saggistica filosofico-letteraria edita, a Roma il 14 dicembre 1999; il «Premio Letterario Internazionale Pirandello 2000» a Luco dei Marsi (AQ); il Primo Premio di poesia al Premio Internazionale «Shakespeare» nel 2001 a Roma; il Premio Internazionale «Cristoforo Colombo» nel 2002 a Madrid-Roma; il Primo Premio per la saggistica e la poesia al «4° Concorso di Saggistica e Poesia Scena Illustrata 2004», a Vietri sul Mare, Salerno, nel 2004. È autore di diversi saggi tra cui L’insegnamento della religione nella storia della scuola italiana (Caltanissetta, 1991); Verità e libertà nell’educazione religiosa (Enna, 1995); La Nostalgia dell’Essere nella poesia di Federico G. Lorca (Roma, 1999); Il “dramma di morte” nella religiosità popolare di Sicilia secondo Leonardo Sciascia (Milano, 2000); Antropologia filosofica e costruzione dell’essere personale (Caltanissetta-Roma, 2000); Dimore della parola nella poesia del Novecento italiano (Roma, 2001); L’Inesauribile filosofia dall’ombra all’essere (Roma, 2001); Caio Giulio Cesare. Scelta e moda culturale nella ricerca storica (Acireale-Roma, 2005); Filosofia ed Abitare Antropologico. La persona iniziativa dell’Essere (Acireale-Roma, 2007); Villarosa prima dello zolfo 1731-1825. Un paese nuovo tra i lumi del potere baronale e il protagonismo borghese nella Sicilia tra ‘700 e ‘800 (Acireale-Roma,2009).Ha pubblicato i volumi di poesia Una terra il mio cuore (Enna, 1993), Fuochi barocchi (Firenze, 1996), Sentieri del tempo (Firenze, 1999) ed ora il volume Canti di Pietraluna (Firenze, 2009).

Saggezza….

SAGGEZZA

Ricordare Mons.Giovanni Speciale…..

j.invito

Oggi pomeriggio,verrà intitolato il museo diocesano di Caltanissetta alla spendida figura del suo fondatore:Mons.Giovanni Speciale, deceduto circa un anno fa. Don Giovanni,o Padre Speciale come tutti lo chiamavamo, è stato un figlio della chiesa nissena davvero “Speciale”. Figura eclettica,uomo di profonda e grandissima cultura,sacerdote degnissimo,appassionato di arte sacra. Ma padre Speciale è stato,per oltre un trentennio,il Rettore con la “R” maiuscola.Formatore di intere generazioni di seminaristi e di sacerdoti,secondo il cuore di Dio e della Chiesa.Persona liggia al dovere  che avvertiva,fortemente,la responsabilità di cui era investito,perchè dalla formazione dei futuri sacerdoti dipende la vita e il futuro della chiesa locale.Don Giovanni ne era pienamente consapevole e ha speso tantissime energie per consegnare alla diocesi nissena sacerdoti degni di tale nome,attraverso un discernimento serio e rigoroso,senza se e senza ma….senza tentennamenti….e senza cedere alla tentazione delle ordinazioni-tappa buchi. Don Giovanni ha speso,gran parte della sua vita,a formare,ad educare, a discernere,a trasmettere la passione per il Bello. Ha dato tanto alla chiesa nissena,non ultimo per importanza, quel meraviglioso gioiello che è il Museo Diocesano,voluto fortemente e realizzato da lui. Il museo diocesano come luogo identitario della storia della chiesa locale. Il museo per scongiurare che tanta parte del patrimonio artistico della diocesi potesse perdersi…..conservare per tramandare.Cioè trasmettere alle generazioni presenti e future la storia della inculturazione della fede cattolica in quei territori. Pertanto,è quanto mai doveroso intitolargli il “suo” museo ad un anno,circa,della sua dipartita terrena con una mostra dal titolo dantesco ” Figlia del tuo Figlio”:icone di maternità realizzate da Ennio Tesei,Ernesto Lamagna,Silvana Pierangelini Recchioni. A tagliare il nastro inaugurale il Vescvo Mons.Mario Russotto. L’ arte, come veicolo  della Verità rivelata e tramandata,da una generazione all’altra,  a disposizione di chi cerca la Verità,perchè “la Verità vi farà liberi”.

Marcia indietro su:fisite fiscali e orari di reperibilità.

Il ministro Brunetta  aveva allungato le fascie di reperibilità oraria per i pubblici dipendenti assenti per motivi di salute e,inoltre,aveva emesso la circolare n° 8 del 5.9.08 per meglio chiarire l’art. 71 della legge 133/2008: sembrava proprio un voler punire i docenti colpevoli di “malattia”, prolungando le fasce di reperibilità in occasione della visita fiscale.
Il Governo ha fatto “marcia indietro” e con il D.L.26-06-09  ha reintrodotto il vecchio orario di reperibilità da rispettare nei giorni di malattia, cioè dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19; di conseguenza cade l’obbligo di farsi trovare in casa dal medico fiscale fra le 8 e le 13 e tra le 14 e le 20.
   Non solo. Per effetto delle modifiche apportate, viene definitivamente chiarito che la certificazione della malattia può farla anche il medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale; inoltre si chiarisce che i costi delle visite fiscali sono a carico delle ASL (e non dei dissestati fondo-cassa delle amministrazioni scolastiche) e  viene abrogato il comma 5 dell’art. 71 che assoggettava tutte le assenze, a qualsiasi titolo richieste, alle stesse trattenute in vigore per la malattia: in questo modo le assenze per donare il sangue , quanto a trattenute, ora sono equiparate alle presenze così come tutte le altre assenze non dovute a malattia.
   Si è dunque posto rimedio ad alcune situazioni contenute nell’art. 71, ma  non a tutte. Rimane  la “tangente” sulla malattia: la decurtazione nella busta paga per i giorni di malattia non sarà più applicata solo a chi lavora in polizia, forze armate e vigili del fuoco. Comunque  sarebbe stato più opportuno non creare discrepanze tra le varie categorie sociali.  Auspichiamo una nuova “retro-marcia ” che consenta al  personale scolastico in malattia di non essere ulteriormente penalizzato.