I vescovi calabresi: “La ‘ndrangheta non è cristiana”.

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“Testimoniare la verità del Vangelo” è la nuova nota pastorale diffusa dalla Conferenza episcopale della Calabria

(ANSA) – REGGIO CALABRIA, 2 GEN – La ‘ndrangheta “è contro la vita dell’uomo e la sua terra. E’, in tutta evidenza, opera del male e del Maligno”. Così si esprime la Conferenza episcopale della Calabria in una pastorale sulla ‘ndrangheta “Testimoniare la verità del Vangelo”. “La ‘ndrangheta non ha nulla – scrivono i vescovi – di cristiano. Attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule che scimmiottano il sacro, si pone come una forma di religiosità capovolta, sacralità atea e negazione dell’unico vero Dio. “La ‘ndrangheta – scrivono ancora i vescovi nella pastorale presentata stamani a Reggio Calabria dal presidente e dal vice presidente della Cec, mons. Salvatore Nunnari e mons. Francesco Milito – è un’organizzazione criminale fra le più pericolose e violente. Essa si poggia su legami familiari, che rendono più solidi sia l’omertà, sia i veli di copertura. Utilizzando vincoli di sangue, o costruiti attraverso una religiosità deviata, nonché lo stesso linguaggio di atti sacramentali (si pensi alla figura dei ‘padrini’), i boss cercano di garantirsi obbedienza, coperture e fedeltà. Lì dove attecchisce e prospera svolge un profondo condizionamento della vita sociale, politica e imprenditoriale nella nostra terra”.
“Con la forza del denaro e delle armi – sostengono ancora i vescovi calabresi – esercita il suo potere e, come una piovra, stende i suoi tentacoli dove può, con affari illeciti, riciclando denaro, schiavizzando le persone e ritagliandosi spazi di potere. E’ l’antistato, con le sue forme di dipendenza, che essa crea nei paesi e nelle città. È l’anti-religione, insomma, con i suoi simbolismi e i suoi atteggiamenti utilizzati al fine di guadagnare consenso. È una struttura pubblica di peccato, perché stritola i suoi figli”. “L’appartenenza ad ogni forma di criminalità organizzata – è scritto nella pastorale – non è titolo di vanto o di forza, ma titolo di disonore e di debolezza, oltre che di offesa esplicita alla religione cristiana. L’incompatibilità non è solo con la vita religiosa, ma con l’essere umano in generale. La ‘ndrangheta è una struttura di peccato che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale”.
“La Calabria – sostengono ancora i Vescovi – è una terra meravigliosa, ricca di uomini e donne dal cuore aperto ed accogliente, capaci di grandi sacrifici. D’altra parte, però, la disoccupazione, la corruzione diffusa, una politica che tante volte sembra completamente distante dai veri bisogni della gente, sono tra i mali più frequenti di questa nostra terra, segnata, anche per questo, dalla triste presenza della criminalità organizzata, che le fa pagare un prezzo durissimo in termini di sviluppo economico, di crisi della speranza e di prospettive per il futuro”. (ANSA)
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“L’Eucarestia mafiosa”.

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Cos’hanno in comune le organizzazioni criminali e la Chiesa di Roma? Com’è possibile che proprio nelle quattro regioni più devote di Italia – Sicilia, Calabria, Puglia e Campania – siano nati questi fenomeni criminali così feroci?
L’eucaristia mafiosa – La voce dei preti, opera prima di Salvo Ognibene, affronta il controverso rapporto tra mafia e Chiesa cattolica, una storia che va dal dopoguerra ai giorni nostri. Una storia di silenzi e di mancate condanne che dura da decenni e che è stata interrotta da rari moniti di alti prelati, dall’impegno di pochi ecclesiastici e da alcune morti tristemente illustri come padre Pino Puglisi e don Peppe Diana.
La riflessione prende il via dal tema della ritualità come manifestazione di potere: la processione come compiacenza; l’affiliazione come nuova religione; uomini che indossano la divisa di Dio per esercitare il loro potere in terra. Uomini di morte e di pistola con i santi sulla spalla. La fede di Provenzano nel libro di Dio, la Bibbia, ma anche l’ateismo di Matteo Messina Denaro. Le due facce della mafia nello scontro con i mezzi di Dio. Pur percorrendo la linea già segnata da due grandi studiosi come Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, L’eucaristia mafiosa – La voce dei preti si presenta con un taglio diverso: non si basa su strutture, non dialoga con i sistemi, ma indaga la realtà di prima mano, interroga i protagonisti di questo dualismo e cattura le ‘voci’, gli esempi concreti del presente per rivalutare la missione e la posizione della Chiesa di oggi. Le voci dei religiosi-testimoni all’interno del libro ripercorrono tutta l’Italia: Monsignor Pennisi; Don Giacomo Ribaudo; Monsignor Silvagni; Don Giacomo Panizza; Don Pino Strangio, Suor Carolina Iavazzo. Preti e suore che hanno preso posizione e hanno fatto del Cattolicesimo, ognuno a modo proprio, uno strumento di lotta alle mafie.
In una nazione in cui l’azione cattolica è ancora fortemente coinvolta nel tessuto politico e sociale, questo lavoro si pone come strumento essenziale di ‘pratica civile’ e di informazione sull’uso della liturgia della fede come strumento di propaganda mafiosa.
Maggiori informazioni nel sito http://www.eucaristiamafiosa.it/

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Indice

Prefazione

1. Storia dei rapporti tra Chiesa, mafia e religione
2. Il Dio dei mafiosi
3. La Chiesa tra peccato, ritardi e giustizia
4. Il Vangelo contro la lupara
5. La voce dei preti
6. Biografie

Salvo Ognibene,
L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti

Navarra Editore, Marsala (TP)
Categoria: Saggistica
Anno: 2014
Pagine: 144
Prezzo: 12,00 €
ISBN: 978-88-98865-11-6
Formato: 14×21

Cento Passi Ancora…..

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Il volume “Cento Passi Ancora,Peppino Impastato,I Compagni,Felicia,L’Inchiesta” è l’ultima fatica letteraria di Salvo Vitale. Ripercorre,con la forza dei ricordi e dei fatti storicamente accaduti,la vicenda umana e politica di Peppino Impastato,di Cinisi,che è stato barbaramente ucciso dalla mafia nella notte del 9 Maggio 1978.Peppino,militante di Dp,aveva osato puntare il dito contro il boss indiscusso di Cinisi,don Tano Badalamenti,ridicolizzando lui e i suoi “striscia quacina”(seguaci)in pubblico e con l’aiuto di radio AUT.La morte cruenta ed inaspettata di Peppino non scoraggio i suoi compagni che iniziarono a cercare la verità insieme al fratello e soprattutto alla madre di lui:Felicia Bartolotta. Dunque pagine di un diario scritte da chi ha vissuto direttamente questa storia, iniziata subito dopo la morte di Peppino Impastato. Il depistaggio delle indagini, la controinchiesta dei compagni, le vicende processuali, la vita di Radio Aut, la lunga notte di Felicia e la sua ostinata richiesta di giustizia. 22 anni di lotta contro la mafia e uno slogan, scritto in uno striscione portato ai funerali, che ha accompagnato, da allora ad oggi, ogni scelta dei suoi compagni: ”con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo”.
Il volume sarà presentato Sabato 17 Gennaio 2015,presso l’auditorium “Maria Grazia Alotta”del Liceo Scientifico “Santi Savarino” di Partinico.Interverranno:la Prof.ssa Chiara Gibilaro,DS del Liceo;le Prof.sse Caterina Brigati e Silvana Appresti; il sostituto procuratore la Dott.ssa Franca Imbergamo;l’autore Prof.Salvo Vitale;Coordinerà i lavori Lorenzo Baldo vice-direttore di Antimafia Duemila.

L’attentato a Parigi…..

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L’attentato di Parigi. L’editoriale di Massimo Introvigne sul “Mattino” di Napoli
L’Europa al buio con la testa sotto la sabbia
Massimo Introvigne (il Mattino, 8 gennaio2015)

Il 7gennaio 2015 si è spenta a Parigi una luce sull’Europa, e Dio solo sa quando mai sarà riaccesa. I terroristi – qualunque sia la congrega di tagliagole cui davvero appartengono – hanno mostrato di poter colpire non solo in Iraq o inSiria, non solo nei luoghi nomadi dove si viaggia in aereo o in metropolitana, ma di giorno, in una grande città, nella sede di un giornale, cioè in uno di quei luoghi che ci sembrava potessero godere di un qualche statuto di zona franca. Ma non esistono più zone franche: ogni luogo, ogni uomo, ogni donna è un obiettivo di questa guerra maledetta.
Sì, la luce si è spenta. Si è spenta sui sogni di Hollande,di Obama, dell’Unione Europea, delle Nazioni Unite, e anche dei nostri politici italiani di potersi permettere di non occuparsi dell’ISIS, del califfo, di al-Qa’ida che si riorganizza e che forse, a un anno dalla rottura con il Califfato, sta riannodando le fila di un grande cartello del Male che raduni tutti i terroristi dell’ultra-fondamentalismo islamico. Ci si illudeva in Francia, ci si illude anche da noi che, se non ci occupiamo dei terroristi, se non mandiamo neppure un soldato a combattere in Medio Oriente o a difendere i cristiani massacrati e crocefissi o le donne della minoranza yazida violentate e vendute come schiave – perché ogni soldato che torna a casa in una bara fa perdere voti al governo che lo ha mandato a combattere – i terroristi ci lasceranno in pace. Ma se noi non ci occupiamo dei terroristi, i terroristi si occupano di noi, e torna a casa in una bara chi è semplicemente andato a lavorare nel centro di una delle nostre capitali. Possiamo condannare, deprecare, firmare appelli, ma le chiacchiere stanno a zero e si combatte il terrorismo solo andandolo a estirpare nei suoi santuari, con gli stivali delle truppe sul terreno e non con la semplice propaganda o i droni di Obama. Altrimenti diamo ragione a Osama bin Laden, il quale sosteneva che tra chi non vuole rischiare di morire e chi ama la morte vince sempre il secondo – e il primo muore comunque.
Sì, la luce si è spenta. Si è spenta su chi non ha capito la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona e oltre Ratisbona, che non offendeva affatto l’Islam – chi ha risposto alla satira di «Charlie Hebdo» con gli omicidi è un miserabile farabutto, e tuttavia i discorsi di Papa Ratzinger e le vignette non sono sullo stesso piano – ma lo invitava a riannodare le fila di un dialogo fra fede e ragione partendo dalla sua stessa tradizione, senza rinnegarla ma nello stesso tempo senza rifiutare di vederne gli aspetti oscuri e problematici. Non hanno capito quella lezione i buonisti per cui tutti i musulmani sono amanti della pace, gentili e magari amici degli animali e dei fiori. Ma non l’hanno capita neanche i «cattivisti» che oggi se la prendono con Papa Francesco perché non hanno mai letto Papa Benedetto, il quale affermava anche, il 28 novembre 2006, che il dialogo con i musulmani «non può essere ridotto ad un extra opzionale: al contrario, esso è una necessità vitale, dalla quale dipende in larga misura il nostro futuro».
Sì, la luce si è spenta. Si è spenta sui politicanti estremisti e sciacalli di tutte le risme, i quali sperano di lucrare su queste tragedie per fare i martiri con il sangue degli altri alla ricerca di un miserabile tornaconto elettorale, o per arruolare anche i poveri morti di Parigi in rese dei conti ecclesiastiche che oggi hanno di mira Papa Francesco, accusato di inventare un dialogo con l’islam che invece già Benedetto XVI definiva «non opzionale», cioè obbligatorio.
Mantenere i nervi saldi quando la luce si spegne è molto difficile. Ma chi sa vedere nel buio comprende che la «strategia Francesco» che Papa Bergoglio ha più volte proposto di fronte alle stragi dell’ISIS è l’unico modo ragionevole di rispondere a questa criminale follia. Non è delegando a qualche generale medio-orientale con gli stivali sporchi di sangue la repressione insieme dell’islam politico e dei diritti umani nel suo Paese, e non è strillando in piazza che tutti i musulmani sono terroristi che si disinnesca l’ultra-fondamentalismo assassino. Al contrario, lo si alimenta, e si spengono altre luci. Oriana Fallaci, poco prima di morire, aveva riferito che Benedetto XVI in un colloquio privato con lei aveva definito il dialogo con il mondo islamico «impossibile ma obbligatorio». In giornate come quella di oggi il dialogo sembra davvero impossibile. Ma è solo trovando interlocutori islamici disposti non a rinnegare la propria storia e la propria identità ma a cercare con fatica al loro interno le ragioni per condannare e isolare i terroristi che questi assassini potranno essere davvero sconfitti. È la strategia di Papa Francesco, era la vera strategia di Papa Benedetto. È la strategia più difficile. Ma non ce ne sono altre.
Benedetto XVI ama ricordare un proverbio della sua terra, la Baviera. Quando la luce si spegne si possono fare due cose: maledire l’oscurità, che non serve a nulla, o accendere una fiammella. Oggi ci sembra che anche la fiammella serva a poco. Ma se ognuno di noi accende la sua fiammella, alla fine tornerà la luce. Alla fine non avremo più paura del buio, e potrà perfino capitare che sia il buio ad avere paura di noi.

“La mafia è contro il Vangelo: non basta la scomunica”.

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L’arcivescovo Vincenzo Bertolone, postulatore del martire anti-clan don Puglisi, riapre la discussione sulla sanzione canonica per i mafiosi

giacomo galleazzi
città del vaticano

“La mafia è contro il Vangelo”. Dopo il monito di papa Francesco ai clan (“offendono gravemente Dio”) nel messaggio del 1° gennaio alla Giornata mondiale della pace, a riaprire con questa intervista a “Vatican Insider” il dibattito sulla scomunica dei mafiosi è l’arcivescovo di Catanzaro, Vincenzo Bertolone (postulatore della causa di beatificazione del martire anti-mafia don Pino Puglisi). Secondo il presule della congregazione Missionari Servi dei Poveri “Boccone del Povero”(S.d.P) ed ex viceministro vaticano degli Istituti di Vita consacrata e delle Società di vita apostolica, prima della pena canonica serve un radicale cambiamento “educativo e pastorale”.

Può essere utile un decreto di scomunica dei mafiosi?
«E’ una questione che va affrontata. Negli ultimi decenni, e in particolare dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha usato sempre meno il provvedimento della scomunica. Non che esso sia scomparso o che la Chiesa abbia scelto la strada del buonismo, ma il popolo dei credenti e i suoi pastori hanno scelto di abbracciare il mondo in un modo diverso, con tutte le sue ombre e le sue luci. Da una Chiesa che si limitava a denunciare il male e associare la pena canonica di riferimento si è passati ad una Chiesa che “esce da se stessa”, che si impegna a creare una nuova coscienza, che sceglie la strada dell’incontro umano e dell’evangelizzazione come risposta al male. Papa Francesco, ultimamente, ci sta esortando ad essere una Chiesa aperta che si sporca e si ferisce le mani per accompagnare l’uomo offrendogli la luce del Vangelo. Ora, nel caso della mafia – e il ministero di padre Puglisi lo dimostra – sono tante le cose che la Chiesa può e deve fare, prima e al di là di una pena canonica. Inoltre poi, mi chiedo: oggi c’è una sensibilità ed una formazione religiosa tale che faccia comprendere la gravità di un tale provvedimento? Detto ciò, restiamo fermi nella condanna assoluta della mafia e di ogni organizzazione in contrasto palese col Vangelo. Resta prioritario invece che la Chiesa prosegua nella sua opera pastorale educativa e preventiva, in un comune sforzo di nuova evangelizzazione che comporta attività pastorale, annuncio biblico, dottrinale ed esercizio di opere di misericordia».

Per i funerali dei mafiosi, si può applicare il modello seguito a Roma per il nazista Priebke, cioè una benedizione privata della salma senza pubbliche esequie?
«Va anzitutto detto che dinanzi al mistero della morte bisogna imparare a far tacere i giudizi umani e restare in rispettoso silenzio. Anche la morte di un criminale o di un mafioso non deve diventare occasione di giudizio. La Chiesa ha sempre creduto e crede che il giudizio ultimo e fondamentale spetti a Dio. Dunque, il funerale non è una benedizione delle opere e della vita del defunto, e con la preghiera la Chiesa lo affida, al di là di tutto, al giudizio misericordioso di Dio Padre. Inoltre, il funerale è un atto comunitario che accompagna i parenti e gli amici del defunto in un momento di dolore. Da questo punto di vista, non dovrebbe essere negato. Si dà però il caso di chi, notoriamente e ostinatamente, ha preso parte pubblicamente e in prima persona, ovvero come mandante, come collaboratore o esecutore consapevole, a crimini efferati, quali furono i massacri dei nazisti e quali sono oggi stragi, assassini, violenze, soprusi ed esecuzioni delle organizzazioni criminali e/o mafiose. Anche in questo caso, la Chiesa non si sostituisce al giudizio di Dio; tuttavia, il funerale di queste persone può essere strumentalizzato trasformandolo da momento di preghiera in occasione di gloria e di manifestazione di potere della mafia stessa, e di qui una indebita legittimazione di cui, anche senza volerlo, ci si può rendere complici e diventare motivo di scandalo per i fedeli . Ora, nel territorio, la Chiesa è tenuta ad essere sempre un segno profetico che chiama le cose per nome e sta dalla parte delle vittime. In considerazione di questo e di altre circostanze pastorali, in occasione di richieste di esequie si valuterà tutto con la dovuta intelligenza e sapienza evangelica».

Il magistrato calabrese Nicola Gratteri ha lanciato un allarme attentati: la ‘ndrangheta potrebbe reagire violentemente all’azione di pulizia di Bergoglio allo Ior, in qualche caso, si sostiene, usato dalla criminalità organizzata per riciclare soldi sporchi. Condivide questa preoccupazione?
«Gratteri, stimato magistrato, ha dati e conoscenze che io non ho e quindi non posso che prendere atto con preoccupazione di quanto da lui affermato. Tuttavia, specie in questi ultimi tempi, la Chiesa è impegnata in un coraggioso rinnovamento di se stessa, delle sue strutture e delle sue azioni di governo. Se Benedetto XVI ha denunciato con coraggio, onestà e sofferenza il male che a volte pervade la stessa istituzione ecclesiastica e i suoi membri attivi, Papa Francesco sta proseguendo energicamente in un processo di cambiamento in direzione della trasparenza, dell’onestà e della sobrietà. Le riforme in atto allo Ior ne sono testimonianza. Tuttavia, lo stesso papa ci ricorda che questa riforma ecclesiale non può avvenire se non con la santità della vita dei suoi membri. La Chiesa, prima che una semplice istituzione terrena, è una comunità vivente: quanto più i suoi membri praticano la radicalità del Vangelo.

La Scuola.

 

 

                                                                               LA SCUOLA

Sorprendersi dell’Uomo.Domande radicali ed ermeneutica cristiana della letteratura.

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Don Massimo Naro,giovane teologo della chiesa nissena,direttore del Centro Studi “A.Cammarata” di San Cataldo e docente presso la Facoltà Teologica di Sicilia di Palermo,si propone con un nuovo ed interessante lavoro dal titolo:”Sorprendersi dell’Uomo. Domande radicali ed ermeneutica cristiana della letteratura”,edito dalla Cittadella editrice. I saggi raccolti in questo nuovo volume si propongono di attenzionare,in chiave teologica e ateologica,le domande radicali della letteratura contemporanea in relazione al senso dell’esistenza umana. Il libro raduna saggi dedicati a poeti e narratori che hanno cercato delle risposte alle cosi dette domande radicali. Nella presentazione al testo il Prof.Giulio Ferroni, docente alla Sapienza di Roma,dice che la “radicalità di queste domande è data proprio dal loro essere semplici,dal loro chiamare in causa l’esperienza di tutti quelli che vivono”.Interrogativi semplici, ma al contempo ultimativi, che vertono su questioni forti quali il perché “del vivere e del morire,sulla sete umana di verità e di giustizia,sulla meschine debolezze del potere,sul confronto tra Dio e il dolore innocente,sulla destinazione ultima e vera dell’uomo”.La tesi di fondo sostenuta dall’Autore è la seguente:”la letteratura,sia quella che parteggia per Dio sia quella che grida contro Dio,la letteratura esplicitamente religiosa ma anche quella ateologica,mostra di non poter rimanere senza Dio. Diventa, insomma, un discorso in cui Dio non è nominato esplicitamente e però rimane altrimenti invocato. Così la letteratura e le sue parole rinviano ad un orizzonte-altro, a cui l’uomo non può smettere di anelare”.Per dimostrare ciò,Naro interpella autori noti e meno noti della letteratura dell’otto-novecento che possono essere iscritti,a vario titolo,in ciò che l’autore definisce letteratura “meridiana”:ossia ciò che altrove è stato fatto da filosofi,soprattutto in Sicilia,è stato fatto da letterati.La lettura che Divo Barsotti fa di Leopardi  e quest’ultimo come testimone  della crisi spirituale moderna. La natura poetica della verità,ossia le questioni radicali nella scrittura letteraria dell’inglese John Henry Newman, probabilmente la vetta assoluta del pensiero cattolico post rivoluzione francese. Nato anglicano e convertitosi al cattolicesimo sino a diventare cardinale,Newman è un singolare miscuglio di teologia e letteratura. Per l’autore inglese,Don Massimo parla di autentica “poesia del pensiero” capace di esprimere nelle sue opere “un orizzonte misterioso sorprendentemente presagito oltre che acutamente interpretato,suggestivamente immaginato,ma anche lucidamente interpretato”.A fare da apri pista per gli autori siciliani è Pirandello con le sue  lanterninosofie,facendo reagire le dichiarazioni di fede dello scrittore isolano (“sento e penso Dio in tutto ciò che penso e sento”)con il suo pensiero scettico o di conclamato agnosticismo,lambendo in certi casi l’azzeramento di ogni fede. Prosegue con la  scrittrice, mistica palermitana, Angelina Lanza Damiani,prendendo in considerazione “la terza interpretazione della vita”.Le tematiche della tanatofilia e della tanatofobia,per dirla con Bufalino, attraversano il pensiero poetico siciliano e l’opera dello scrittore ateologo  Sebastiano Addamo e la verità insultante di Pippo Fava,ucciso da Cosa Nostra. L’Italia umile di Carlo Levi  e la poetica profetica di Mario Pomilio. Le domande radicali non si limitano alla sfera esistenziale e religiosa ma sfidano la stessa modernità facendo i conti con il “disinganno cosmico e religioso”,scrive Naro,che l’epoca moderna impone con prepotenza. Due interessanti capitoli conclusivi sono dedicati alla Bibbia come codice della cultura occidentale  e alla Bibbia musiva presente nei mosaici del duomo di Monreale riletta dal poeta Davide Maria Turoldo e dal teologo Romano Guardini.Scrive Naro “Per Turoldo il duomo di Monreale è un «Eden dell’Arte» e i suoi mosaici sono un «mirabile tesoro» che il popolo di Sicilia ha la responsabilità di «custodire» in forza di una vocazione consegnatagli attraverso una storia ormai plurisecolare e nonostante le ombre negative che smorzano lo splendore di questa stessa lunga e grandiosa storia. Si tratta certamente di una vocazione culturale. Ma non solo: il popolo di cui parla il poeta ha, in questi versi, un profilo ecclesiale e perciò la sua vocazione ha anche una ineliminabile qualità cristiana, dipendente proprio dal suo rapporto con il duomo e, nel duomo, con la Parola di Dio che riecheggia figurativamente nei mosaici. La «grazia» e la «virtù» di questo popolo, la sua nobiltà regale più forte di ogni pur suo infamante «crimine», consistono nel suo stare dentro la reggia – che è appunto la basilica costruita nel XII secolo da re Guglielmo II – e nel leggere, dentro la reggia, dentro la basilica, «le storie di Dio» che vi sono raffigurate su uno sfondo immenso di «pietruzze d’oro».

Guardini,scrive Naro, giunse a Monreale nel pomeriggio del giovedì santo del 1929, mentre vi si stava svolgendo la celebrazione liturgica in coena Domini, e vi ritornò il sabato santo, per la messa pasquale. E perciò ebbe la provvidenziale opportunità di vederne lo splendore artistico non nella sua immobilità e intangibilità museale – come di solito accade al turista che vi si reca semplicemente come tale – bensì rivitalizzato dall’azione liturgica alla quale, sin dalla sua costruzione, era stato destinato. Guardini, dunque, non si limitò a visitare il duomo di Monreale. Più radicalmente: lo visse, ne fece esperienza. Percependolo non come cornice materiale ma come parte integrante di un mistero vivente, in cui – per il suo carattere metastorico – ugualmente sono coinvolti gli uomini di oggi insieme a quelli che li hanno preceduti ieri e che hanno loro tramandato il testimone della fede. I profeti biblici e i santi raffigurati negli immensi mosaici monrealesi sembrarono animarsi agli occhi di Guardini, risvegliati dal fruscio dei paramenti sacri e dai canti dell’assemblea, coinvolti nei ritmi della celebrazione, aggregati alla preghiera del vescovo e dei suoi assistenti. Ma, soprattutto, interpellati dallo sguardo dei fedeli, sguardo di contemplazione attraverso cui il mistero si lasciava raggiungere e si rendeva di nuovo presente. Ciò che colpì maggiormente Guardini, secondo la sua stessa testimonianza, fu appunto lo sguardo orante della gente riunita dentro il duomo. «Tutti vivevano nello sguardo» (Alle lebten im Blick), tutti erano protesi a contemplare, scrive affascinato Guardini, intuendo il valore metafisico di quel contemplare: quegli uomini e quelle donne, vivono – più assolutamente: sono – in quanto guardano, vivono e sono perché spalancano i loro occhi sul mistero.

Infine,l’immagine messa in copertina è tratta da una rivista tedesca, negli anni trenta, i terribili anni del nazismo, diretta da Romano Guardini (la rivista si intitolava “Die Schildgenossen”, che significa “gli scudieri”, i portatori di scudo…). L’immagine fu disegnata da Desiderius Lenz, e vuole indicare il modello dell’uomo nuovo, secondo una visione cristianamente ispirata, che la rivista si proponeva di propugnare tra i suoi lettori, docenti e studenti universitari anti-nazisti. Difatti il titolo dell’immagine è “Kanon des menschlichen Kopfes” (Canone del Capo umano, o del Volto umano).

M.Naro,Sorprendersi dell’Uomo. Domande radicali ed ermeneutica cristiana della letteratura,Cittadella Editrice,pp.392,euro 22,80.

SENTENZA STORICA PER I DOCENTI DI RELIGIONE.


Uno dei romanzi più famosi della letteratura italiana è il “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa che descrive la società siciliana risorgimentale volendo comunicare una amara verità:tutto cambia ma perché nulla,nella sostanza cambi. Il contenuto del predetto romanzo si addice perfettamente alla situazione attuale della gestione dei docenti di religione di ruolo ad opera di chi fa finta che nulla sia cambiato in seguito alla legge n.186/03 che ha disciplinato l’immissione in ruolo di tanti docenti e le conseguenze successive ad essa. Così si continua a far finta di niente e come se nulla fosse successo,in alcune realtà diocesane,la realtà degli IDR è rimasta inalterata con una gestione feudale e “mafiosa” degli stessi ad opera del saccente di turno che non si pone tanti interrogativi né di natura morale né giuridica circa la dignità e lo status giuridico degli IDR. Così si continua a pestare la stessa acqua putrida nel mortaio delle raccomandazioni,delle segnalazioni,dei privilegi,del favorire il docente di turno per questo o quest’altro motivo. E’ amaro costatare che i veri nemici degli IDR non sono all’esterno delle realtà ecclesiali ma proprio al loro interno.
La legge 186/2003 ha sostanzialmente cambiato,malgrado ciò che possa pensare qualche incompetente di turno(in giro ve ne sono sin troppi!), lo stato giuridico dei docenti di religione, principalmente per due motivi: 1) ha trasferito il sistema di reclutamento, sia per i docenti di ruolo che per gli incaricati annuali, dall’istituzione scolastica alla Direzione regionale con un organico regionale articolato su base diocesana; 2) ha previsto per il personale di ruolo l’applicazione delle norme di stato giuridico previste dalle disposizioni legislative in materia di istruzione (D.L.vo 297/1994) e dalle norme contrattuali. Per quanto riguarda il primo punto è indubbio che la legge 186/2003, avendo assegnato la competenza delle nomine al Direttore regionale, ha di fatto elevato il livello dell’Intesa da un settore ristretto alla singola istituzione scolastica ad un ambito più ampio che abbraccia tutto il territorio della diocesi.
Se poi si tiene presente che per la mobilità dei docenti di religione di ruolo si applicano le disposizioni contrattuali, allora diventa ancora più chiaro che il compito di individuare chi voglia o debba spostarsi da una sede all’altra compete al Direttore regionale, il quale dovrà utilizzare i criteri oggettivi stabiliti dal Contratto collettivo e dall’ordinanza ministeriale. Insomma appare chiaro che il docente di religione di ruolo ha il diritto di rimanere nella propria sede di servizio (ovviamente escludendo il caso in cui viene revocata l’idoneità), a meno che non voglia andare su un’altra sede oppure sia costretto a chiedere una nuova sede per contrazione delle ore disponibili.
Questa doverosa premessa serve a segnalare agli addetti ai lavori una sentenza di portata storica,la n.4666 emessa dal pretore del lavoro di Lucera (FG) del 1/12/2010,in favore di un insegnante MARIO LORIZIO che lo scorso anno scolastico si è visto trasferire d’ufficio dalla sua sede di servizio-il circolo didattico di Viesti,ad un’altra sede di servizio a 40 KM di distanza ossia presto l’istituto G.Falcone di Rodi.Un trasferimento,unitamente ad un passaggio dalla scuola primaria a quella dell’infanzia,che il giudice ha ritenuto illegittimo “in quanto la normativa in materia degli IDR prevede che dopo la prima assegnazione IL TRASFERIMENTO Può AVVENIRE SOLAMENTE PER LA PERDITA’ DELL’IDONEITA’ O PER LA MANCANZA DELLA DISPONIBILITA’ DI ORE”.Presupposti assenti nella vicenda dell’insegnante in questione,il quale è anche titolare della legge n.104.
Inoltre,si ricorda ai benpensanti del malaffare e a chi vuole coprire le proprie incapacità gestionali con brogli di sorta per favorire il lecchino di turno, che l’O.M. n.29/2010,art.8 c.2 dice che “le sedi assegnate agli IDr si intendono confermate di anno in anno”.Dunque la normativa vigente non disciplina alcuni ipotesi di “utilizzazione forzata” assicurando loro il diritto alla mobilità e alla utilizzazione SOLTANTO A DOMANDA DELL’INTERESSATO.
Infine,augurando al collega Mario di ritornare al più presto nella sua sede naturale,è opportuno precisare come la “causa” del collega sia stata portata avanti dalla Flc CGIL e non da altri sindacati “vicini”,solo a parole,agli idr.

VOCI DALL’AULA.I giovani oltre il nichilismo.


Noi adulti sappiamo davvero poco dei ragazzi di oggi, di come vedono se stessi e il mondo, di come giudicano i grandi e la società, delle loro paure, sofferenze, desideri, bisogni, sentimenti. Ci accorgiamo raramente di quanto sono intelligenti, autentici, maturi. Solitudine, disorientamento, delusione, paura, mancanza di prospettive, noia, percezione del non senso, aridità nelle relazioni, apatia, scetticismo, sfiducia: questo è il terreno nichilista nel quale crescono i ragazzi.
Ma in essi c’è una profonda attesa, di felicità e di pienezza: quello che Nietzsche definiva ospite inquietante – e che si annida nel loro cuore – attende l’Ospite dolce dell’anima, che bussa alla porta di ciascuno di noi.
Questo libro è la risposta scritta di un Professore di Liceo alle domande e alle riflessione che i suoi ragazzi gli hanno posto attraverso i temi, le lettere, i dialoghi in aula. Cultura, esperienza, senso religioso, sono la materia che l’umanità dell’educatore plasma in queste pagine, offrendo la sua chiave di lettura sul senso e il buono della vita.
Il presente lavoro è lo sviluppo di un precedente saggio (1), una riflessione sul mondo dei ragazzi condotta attraverso la lettura dei loro componimenti scolastici. I testi utilizzati allora erano stati elaborati all’interno di due classi (una seconda ed una terza liceo) di un Istituto Superiore della Provincia di Bergamo. Decisi di intervenire il minimo possibile nella trama delle riflessioni contenute negli elaborati, per lasciare che emergesse la voce dei protagonisti, consapevole del fatto che difficilmente i ragazzi parlano davvero di loro stessi, della loro intimità: come stanno, cosa provano, cosa desiderano, cosa pensano. Dovevano essere loro a fornire elementi di conoscenza del proprio mondo agli adulti.
Perché allora una continuazione? Quella lettura aveva il pregio di far emergere le domande dei ragazzi, alle quali non volevo sovrapporre le mie risposte: oggi mi sento quasi in dovere di addentrarmi in questo ulteriore tentativo, poiché essi, a mio modo di vedere, sono evidentemente in attesa di proposte, anche umili, frutto di un’esperienza in divenire e del tutto personale.
Colgo un grande vuoto ed una profonda solitudine nel viso dei miei interlocutori, non frutto della loro aridità ma della nostra assenza o della nostra indifferenza.
Amore, politica, cultura, lavoro: tutto sembra essere così svuotato di dignità, intensità, profondità da rendere comprensibile quel radicale nichilismo con cui tanti ragazzi percepiscono la realtà, al limite dell’invivibilità.
Quando entro in una classe, soprattutto quelle iniziali della scuola superiore, ho sempre la percezione che gli occhi, i volti, la vitalità, la sola presenza dei ragazzi che ho davanti, siano domanda, attesa di qualcosa che essi aspettano da me, da noi, dagli adulti in generale. Oggettivamente è così: sono l’insegnante e si aspettano che io trasmetta loro qualcosa, possibilmente significativo, bello. Un ragazzo è una promessa, un bisogno rispetto al quale l’adulto ha naturalmente una responsabilità. Ebbene il testo l’ho scritto perché tante volte mi sento in debito verso di loro: sento che c’è qualcosa che è dovuto, una ragione e una proposta di vita, un’ipotesi di impegno della loro esistenza, che oggi non riusciamo più a comunicare adeguatamente. Ma in essi c’è una profonda attesa, di felicità e di pienezza: quello che Nietzsche definiva ospite inquietante – e che si annida nel loro cuore – attende l’Ospite dolce dell’anima, che bussa alla porta di ciascuno di noi.
Ho cercato l’espressione delle corde più profonde che fanno vibrare il mio cuore e alla mancanza delle quali nessun giovane dovrebbe mai abdicare: il desiderio della bellezza, dell’amore, di Dio.
Ciò che più di tutto mi preme esprimere è la percezione dell’assoluta coincidenza tra Dio e ciò che nel mondo creato attrae come bellezza: natura, persone, sentimenti, affetti… tutto della creatura coincide con il Creatore. Il male non è negato ma il mio sguardo sul mondo creato desidera e vuole essere capace di coglierlo nella sua innocenza, grazie al sacrificio redentore di Cristo.
L’assenza di Cristo, il vuoto da Lui lasciato nel cuore dei giovani, è la radice più profonda del loro smarrimento. Il cuore umano ha bisogno di Dio, lo cerca, niente può dare respiro all’animo, alla profondità della sua sete, se non l’abbraccio e la deposizione della propria inquietudine nella presenza del Padre. Cercare di rispondere al bisogno di un giovane senza arrivare a questo livello è, nella mia esperienza, un girare a vuoto, un «immoto andare» per usare un’espressione di Montale (2).
Alla libertà dignitosa ma soffocante, colma di solitudine e di aridità, che Nietzsche ha lasciato alla sua era, si oppone compiutamente una sola alternativa: l’amore, l’amore inconcepibile di quella Croce, nella quale ogni umano sentimento, sfumatura, intuizione è accolta nella sua verità. La Sua verità è inclusiva: tutto ciò che è veramente umano è Lui.
Il giovane, come ricorda San Giovanni Bosco, ha bisogno di sentire di essere amato: il nichilismo è sconfitto se la nostra esistenza è per sempre, è importante, se le esigenze del cuore contano qualcosa.
Ma quale amore può dissetare una sete d’amore che umanamente è inestinguibile? Arrivare a Cristo è arrivare alla fonte profonda, dove la domanda di Dio diventa domanda di occhi, mani, braccia, sorriso, dolore di Dio, dove il bisogno d’amore è accolto fino alla sua implicazione ultima: morire d’amore, morire d’amore su una Croce, alla cui base è deposto tutto il dolore umano. «Io ho bisogno di Cristo, e non di qualcosa che Gli somigli», affermava ancora Lewis (3): abbiamo bisogno della Sua presenza, della Sua amicizia.
E’ l’innocenza di quella vittima che ha spaccato la ferrea visione di Nietzsche: l’innocenza di quella vittima è la pace e l’approdo a quella guerra che combattiamo in noi, quel combattimento – che in fondo vorremmo perdere – contro la Sua amorosa e discreta presenza, perché la pace è riconoscerLo e amarLo, come afferma sant’Agostino: «Tu mostri in modo abbastanza evidente la grandezza che hai voluto attribuire alla creatura razionale; alla sua quiete beata non basta nulla, nulla che sia meno di te, Cristo» (4).

1.M. Lusso, Quello che ai genitori non diciamo, Liberedizioni, Brescia 2007.
2.E. Montale, Arsenio in L’opera in versi, Einaudi, Torino 1980, p. 81.
3.C. S. Lewis, Diario di un dolore, op. cit., p. 74.
4.Sant’Agostino, Confessiones, Libro XIII, 8.9.

L’AUTORE

Matteo Lusso, laureato in Lettere Moderne, è docente di ruolo in un Liceo Socio-Psicopedagogico della Provincia di Bergamo. Svolge attività di ricerca negli àmbiti dell’orientamento scolastico e del diritto allo studio. Fra le sue opere ricordiamo: Quello che ai genitori non diciamo, un viaggio nel mondo dei ragazzi attraverso la lettura dei loro componimenti (2007); e la raccolta di poesie Non morire dentro (2008).

Storie di donne di fronte all’Islam.


Un’intervista con Renata Pepicelli
Quello che segue – è bene sottolinearlo – non è un articolo di apologia del fenomeno che viene raccontato attraverso un’approfondita intervista a un’interessante studiosa. Si è scelto di approcciare il femminismo islamico come uno dei segni della complessità di questo tempo, in cui le religioni stanno invadendo la sfera pubblica di gran parte degli scenari politici mondiali, e i tentativi di opporsi all’islamizzazione come forma di teocrazia sembrano, specie nell’ultimo decennio, sortire effetti del tutto opposti agli obiettivi perseguiti.
È un dato di fatto che gran parte delle manifestazioni di codificata e formalizzata oppressione femminile nel mondo abbiano cause in qualche modo connesse alla religione. Un altro dato di fatto è che una parte non minoritaria del mondo islamico (e quindi della maggioranza dei credenti della terra) affermi l’esistenza di una profonda disuguaglianza tra uomo e donna, e di una necessaria subordinazione di quest’ultima.
Nonostante queste premesse, chi ha avuto modo di frequentare il mondo della diaspora femminile delle donne migranti in Europa si è reso probabilmente conto di come, anche per molte di loro, nonostante entrino in contatto con modelli completamente differenti (o forse anche a causa di ciò), non sia comunque facile distaccarsi da ciò che ritengono la propria cultura e tradizione. In alcuni casi, questa forma di attaccamento a rituali e segni di appartenenza alla propria comunità religiosa (e quindi, spesso, anche politica e sociale), persiste anche laddove questi si concretizzino in pratiche violente come le mutilazioni genitali femminili (che molti interpreti non ritengono però in accordo con la legge islamica).
A un livello molto diverso, basti pensare a quanto la questione del velo abbia messo in disaccordo tra loro intellettuali e femministe di ogni parte del mondo, politici riformatori e religiosi di ogni dove (salvo, ovviamente, le forze conservatrici dell’Islam). Sorprendente è stato scoprire come molte donne musulmane, in Francia, non si siano affatto sentite “liberate” dal peso del velo, quanto piuttosto private di un riferimento identitario che non avevano liberamente scelto di abbandonare, su ordine di un sistema di valori considerato tutt’altro che neutrale.
Riflettere su forme di reazione come il femminismo islamico può servire quindi a comprendere da una prospettiva poco nota quanto scivoloso sia oggi il terreno delle lotte di genere nei luoghi in cui la presenza della religione appare totalizzante nella sfera pubblica, ma può anche essere utile per indagare un ulteriore aspetto delle conseguenze di un discorso occidentale sull’universalità dei diritti umani che si è fatto guerra e oppressione, invece che punto di riferimento possibile per un radicale cambiamento.
Il femminismo islamico non è l’unica risposta, né con tutta probabilità la migliore, alla violenza patriarcale che milioni di donne subiscono in modo codificato e formalizzato in alcune parti del mondo (anche quelle migranti, spesso, nei luoghi della diaspora). Si tratta, anzi, di un fenomeno molto contraddittorio, che può rischiare di legittimare una strutturale sottomissione della sfera pubblica alla religione (con tutti i danni che storicamente ciò comporta, qualunque sia la religione in questione), anche se si tratta di un’interpretazione egualitaria in cui le donne appaiono libere, ad esempio, di coprirsi o meno il capo. Il femminismo islamico, però, è un fenomeno che ci parla della realtà contemporanea e che può aprire dei dubbi e fornire spunti di riflessione, per quanto certamente non semplici da decifrare e valutare.
Solo in questa prospettiva è stata realizzata e pubblicata l’intervista che segue.
Basi teoriche del femminismo islamico
D. Potremmo iniziare innanzi tutto con lo spiegare, essendo una materia questa ancora poco conosciuta e diffusa al di là delle élites accademiche che se ne occupano qui in Europa, che cosa è esattamente il femminismo islamico. Tu dedichi un intero paragrafo del tuo libro a parlare della problematicità della stessa definizione di femminismo islamico. In che senso questa definizione è problematica?
R. Nel mondo musulmano in questo momento esistono tre correnti del movimento delle donne: una che possiamo definire di femminismo laico, un’altra di femminismo religioso, chiamata femminismo islamico, e un’altra che è una corrente di critica di genere che si va affermando in varie organizzazioni islamiste. Il femminismo islamico cui dedico la gran parte del mio libro – solo l’ultimo capitolo è dedicato al discorso di genere all’interno di movimenti islamisti – è un movimento che si basa su una rilettura dei testi sacri da una prospettiva di genere. Vale a dire che teologhe di diverse nazionalità, sia dei paesi a maggioranza musulmana che dei paesi occidentali della diaspora islamica, sostengono che i testi sacri dell’islam, quindi penso al corano innanzi tutto, ma anche alla Sunna e agli Hadith, affermino assolutamente l’eguaglianza di genere, ma che siano state delle erronee interpretazioni, perpetuate da élites maschili patriarcali, ad avere fatto emergere invece un’idea di islam misogina che, dal punto di vista di queste teologhe, tradisce completamente quello che era il messaggio divino che era invece un messaggio di giustizia di genere e di uguaglianza
Le femministe islamiche e il discorso occidentale sui diritti
D. Quale rapporto possiamo dire che esiste oggi tra l’attivismo di genere definito come femminismo e proprio delle donne che operano fuori dai riferimenti religiosi, e questo tipo di femminismo che invece a quei riferimenti religiosi si rifà?
R. Come dicevi, qui c’è un problema di definizioni. Molto spesso le donne che vengono definite femministe islamiche non si riconoscono in tale terminologia, perché pur battendosi contro codici di legge patriarcali, contro istituti e costumi che affermano la disuguaglianza di genere, queste donne considerano che la parola femminista non sia la migliore per parlare di quella che è la loro battaglia, in quanto considerano il femminismo un termine che connota i movimenti delle donne occidentali e quindi anche compromesso con la storia occidentale e in particolar modo con il colonialismo e le nuove forme di neoimperialismo. Faccio degli esempi: tutto il discorso della difesa dei diritti umani, e in particolare dei diritti delle donne, che ha giustificato interventi militari in Iraq e prima ancora in Afghanistan, è visto da molte donne musulmane e femministe come un atteggiamento legato a una certa parte del discorso dei diritti umani e anche del discorso femminista che continua ad essere colonizzatore e imperialista. Per le femministe islamiche molto spesso l’approccio del femminismo occidentale verso le donne musulmane appare un approccio di tipo autoritario, salvifico, sempre con l’idea che le donne musulmane vadano salvate, in continuità con quello che si diceva in età coloniale, con la “missione civilizzatrice” che doveva avere l’Occidente, e anche le donne occidentali rispetto a quelle musulmane. Le donne musulmane, invece, rivendicano appieno l’idea che non hanno bisogno di essere salvate da altre, ma che stanno cercando all’interno della propria cultura, storia, tradizione e religione, il modo migliore per affermare i propri diritti, diritti che loro dicono comunque essere già sanciti nella loro religione, anche se degli uomini hanno sottratto la possibilità di sentire affermata l’eguaglianza di genere che è già scritta nel Corano.
Femministe islamiche e Islamiste
D. Dall’altra parte – visto che, come tu scrivi, mentre alcune donne non si riconoscono nel termine “femminismo”, altre non si riconoscono nel termine “islamico” accoppiato a “femminismo” – quale rapporto esiste tra il femminismo islamico e il resto del mondo islamico? Tu chiudi il tuo libro con un capitolo sulle Islamiste e fai una distinzione tra queste donne e le femministe islamiche. Quale relazione c’è tra queste due categorie di donne, e poi all’interno del mondo islamico in generale come è percepito questo tipo di femminismo?
R. C’è una parte della letteratura accademica, e anche alcuni mass media che definiscono femmismo islamico anche quello delle donne islamiste attive in movimenti come al- ’Adl wa’l-Ihsan in Marocco, o Hamas in Palestina. Le definiscono femministe islamiche perché alcune di queste donne sono molto attive non solo in questi gruppi politici, ma anche sul piano delle questioni di genere.
Io non penso che sia giusto parlare di femministe islamiche nel loro caso, per quanto io stessa riconosca che indubbiamente, all’interno della galassia islamista, vi sia un’affermazione sempre crescente delle donne non solo come base – sempre più donne seguono questi movimenti, li appoggiano in quanto i loro uomini, padri, mariti, figli, militano in questi gruppi – ma perché loro stesse sembrano convinte delle ragioni di questi movimenti. Queste donne quindi non sono solo base elettorale o popolare durante le manifestazioni, ma ormai coprono sempre più ruoli di leadership all’interno di questi partiti o gruppi politici. È il caso, ad esempio, di Nadia Yassine, marocchina, portavoce di questo movimento “giustizia e spiritualità” fondato dal padre e di cui lei è oggi una delle più importanti esponenti. Nadia Yassine, all’interno di questo movimento è molto nota sia in Marocco che nel resto del mondo, per una serie di battaglie che ha portato avanti contro la monarchia marocchina, ma anche per quelle che sono alcune sue posizioni di genere, quando afferma per esempio che le donne oltre al ruolo riproduttivo e sociale di madri debbano avere anche un ruolo politico attivo nella società, che loro debbano accanto agli uomini partecipare a quella che è la battaglia per la realizzazione di Stati islamici.
Ci sono quindi differenze per certi versi sostanziali tra le femministe islamiche e le islamiste perché sicuramente per le donne islamiste attente al genere importante è fare emergere letture del Corano che mettano in evidenza il ruolo della donna nell’Islam come ruolo sociale e politico, ma la loro battaglia principale non è contro il patriarcato, bensì è quella per la fondazione di Stati islamisti. La loro è una visione fortemente conservatrice della società.
Detto questo, però, queste donne sono in primo piano nella società e non sono più relegate a spazi privati, ma sono sempre più nello spazio pubblico, sia politico che religioso. Affollano sempre più le moschee, studiano teologia islamica, si prendono sempre più la parola su quello che è il discorso contemporaneo sull’Islam.
Femminismo islamico e società islamica
D. Questo attivismo all’interno dei gruppi islamisti, ma anche le teorie e le pratiche sviluppate all’interno del femminismo islamico come vengono percepite all’interno del resto dell’islam? La vita di queste donne, ad esempio, è a rischio per le loro idee e per il loro modo di essere?
R. Bisogna fare di nuovo delle distinzioni tra islamismi, posizioni di genere all’interno dei gruppi islamisti e femminismo islamico anche rispetto alla ricezione di questi fenomeni. Le posizioni portate avanti dalle femministe islamiche sono molto più radicali come rivendicazioni.
Faccio l’esempio di una di quelle donne che è considerata un’icona del femminismo islamico che è Amina Wadud, afroamericana convertitasi all’islam negli anni ’70 che nel marzo del 2008 ha condotto per la prima volta una preghiera mista mettendosi a capo di una comunità composta da uomini e donne, e ricoprendo per la prima volta, da donna, il ruolo di Imam, cosa che nell’Islam non può essere assolutamente accettato (o quanto meno non è assolutamente accettato che le donne possano guidare la preghiera anche per uomini e non solo per altre donne).
Il gesto di Amina Wadud è stato criticato e considerato inaccettabile dalle islamiste, ma anche da qualche femminista islamica, come la marocchina Asma Lamrabet che sta portando avanti in Marocco un lavoro esegetico molto interessante. Ma Amina Wadud è stata criticata soprattutto dalla stragrande maggioranza dei musulmani, sia nei paesi della diaspora che nei paesi a maggioranza musulmana. Il suo gesto è stato sentito troppo provocatorio, troppo in avanti.
Detto questo, le femministe islamiche stanno in qualche modo portando avanti un discorso che è ancora minoritario e di élite, sicuramente anche per la loro composizione – penso soprattutto alle teologhe e alle accademiche – però hanno una ricaduta nella società: i discorsi che queste donne fanno sono discorsi che, anche se non in toto, in qualche misura vengono accettati da larghi strati di popolazione musulmana, o comunque innescano dei dibattiti molto vivaci e interessanti all’interno del mondo islamico e soprattutto all’interno del discorso riformista islamico.
Questa capacità delle femministe islamiche, di queste teologhe che stanno proponendo queste letture alternative del Corano, di avere una grande ricaduta, anche grazie ad internet, su diversi strati delle popolazione in diverse parti del mondo, espone molto queste donne agli attacchi delle forze più conservatrici del mondo islamico.
Amina Wadud, per esempio, per avere condotto questa preghiera nel 2008, ha ricevuto delle minacce di morte e ha dovuto vivere nascosta a lungo, insegnare nascosta e solo attraverso una webcam poteva interagire con i suoi studenti, affinché non fosse identificabile il luogo in cui lei si trovava, cosa che avrebbe rappresentato un rischio per lei, ma anche per gli studenti. Queste donne corrono dei rischi proprio perché vogliono parlare dei diritti delle donne e lo vogliono fare all’interno e non al di fuori del discorso islamico, arrogandosi il diritto di dire: io parlo in nome dell’Islam.
Penso ancora ad una donna turca, di nome Konca Kuris, che nei primi anni della sua vita aveva militato all’interno di organizzazioni islamiste nella galassia turca, e che però era sempre stata anche molto attenta ai discorsi del femminismo laico turco. Lei aveva proposto una serie di letture fortemente femministe dei testi sacri, e fu rapita da un gruppo terrorista, estremista turco, seviziata per 38 giorni, quanti erano gli anni della sua vita e poi fu ammazzata. Sappiamo delle sevizie a cui è stata sottoposta dal fatto che i suoi aguzzini non solo l’avevano torturata e ammazzata, ma avevano anche nascosto insieme al suo corpo anche un video che testimoniava delle sevizie subite da questa donna. Questo ci dà proprio l’idea di come cercare di portare avanti dei discorsi radicali all’interno dell’Islam, che vogliono colpirne proprio le forze più retrograde ed integraliste, ponga queste donne davanti a dei rischi altissimi.
Le ragioni di un ritorno alla religione: spiritualità, postcolonialismo e “guerre umanitarie anti-islamiche”.
D. Per noi donne occidentali è impressionante l’idea che una lotta così radicalmente femminista possa essere portata avanti all’interno di riferimenti religiosi. La nostra abitudine mentale è pensare una laicità sostanziale di questo tipo di battaglie. Tu invece parli di una religione diventata quasi uno strumento di liberazione per queste donne. Ma in che senso la religione si sta riposizionando all’interno della vita di molte donne musulmane grazie proprio al femminismo islamico?
R. Forse accade ancora prima del femminismo islamico. Dal finire degli anni Ottanta all’inizio degli anni Novanta, sempre più donne riposizionano la religione all’interno della loro sfera privata, ma anche della loro sfera pubblica. Ciò accade per un bisogno di spiritualità e religione che era un po’ stato negato nel corso del Novecento, ma penso anche per ragioni di natura politica, e penso in particolar modo al fallimento delle grandi ideologie socialiste, marxiste, a cui in diversi paesi varie donne, varie femministe, avevano fortemente creduto. Penso anche al grande fallimento che molte donne si sono sentite addosso, dei regimi del post-indipendenza che avevano appoggiato, per cui avevano lottato, per i quali avevano perso i loro casi. Queste donne hanno visto tali regimi corrompersi, negare completamente le loro aspettative e i loro sogni di giustizia sociale nel paese e di giustizia di genere.
E poi penso anche a tutto il sentimento di frustrazione che i popoli arabi musulmani provano per questioni come il conflitto israelo-palestinese o anche gli interventi militari occidentali in varie parti del mondo islamico, Iraq e Afghanistan in particolare.
Tutti questi fattori hanno fatto sì che la religione diventasse per queste donne un elemento sempre più importante nella loro vita, come bisogno identitario, di riappropriazione della propria identità.
Dopo l’11 settembre questo discorso di riposizionamento dell’Islam è stato ancora rafforzato. Di fronte agli attacchi che il mondo musulmano riceveva in toto per quanto successo a New York queste donne si sono sentite di condannare gli attacchi terroristici e di considerarli anti-islamici, ma anche dall’altra parte di difendere in qualche modo l’Islam, di sentirsi di appartenere a quell’identità. Penso all’intervista che ho fatto con una ragazza malesiana di un’organizzazione che si chiama Sisters in Islam, e lei mi diceva:
“Fino all’11 settembre la mia vita di musulmana era legata a pochi momenti della mia esistenza: la nascita, il matrimonio, la morte. Dopo l’11 settembre mi sono invece sentita chiamata in causa come musulmana. Dovevo scegliere da che parte stare e a un certo punto ho sentito il bisogno di scegliere di difendere la mia religione. Difenderla dagli attacchi interni, che sono quelli delle forze estremistiche e terroristiche dell’islam, ma di difenderla anche da tutti quelli che sono gli attacchi e i pregiudizi occidentali. Avevo bisogno di un discorso femminile e femminista in cui riconoscermi, e non era più per me quello laico, e secolare, ma avevo bisogno di un femminismo che si iscrivesse all’interno di un discorso religioso. Nel femminismo islamico ho trovato il mio discorso. Ho trovato strumenti per battermi contro ad esempio la poligamia. Mio nonno era stato un poligamo, e questa cosa aveva portato grandi sofferenze alla mia famiglia. Il femminismo islamico mi permette di essere contro la poligamia e femminista senza rinunciare all’Islam.”
Un’alternativa possibile o una sospensione tra due mondi?
D. L’immagine di queste donne appare quindi come sospesa tra due mondi, in reazione rispetto a due mondi.
Da una parte è in opposizione rispetto all’idea dell’universalismo dei diritti umani come portato occidentale che offre l’unica strada possibile per la liberazione femminile, e dall’altra è una reazione alla lettura patriarcale del mondo islamico. Ma la tua opinione profonda, dopo che hai conosciuto così tante donne vicine a questo pensiero e studiato così a lungo questo fenomeno, è che queste donne siano in qualche modo schiacciate tra questi due mondi o pensi che il femminismo islamico possa essere veramente quella chiave in grado di elaborare una strategia di fuoriuscita da questi due schemi?
R. Mi sembra che sia un’alternativa possibile. Non penso che sia la sola, nel senso che sicuramente le donne che si stanno battendo nel mondo islamico da una prospettiva laica e secolare hanno delle forti ragioni e la loro battaglia è molto importante. Quello che però ho visto nelle mie ricerche è che questo tipo di femminismo è sempre meno seguito e sentito dalle persone. Invece mi sembra che il femminismo che parte da un discorso religioso riesca a trovare molti più consensi e la disponibilità per molte donne, intima e personale, di fare i conti con un discorso femminista che parte anche da un discorso religioso e culturale. Il femminismo islamico non solo intercetta il bisogno di religione di alcune donne, ma risulta anche uno strumento molto efficace per potere entrare all’interno di quell’islamizzazione del discorso pubblico e politico che oramai è imperante in gran parte delle società musulmane.
Il femminismo islamico ha gli strumenti per scendere sullo stesso terreno delle forze più conservatrici e retrograde, per parlare lo stesso linguaggio, e su quel terreno e con quel linguaggio battersi per l’uguaglianza tra l’uomo e la donna.
Una geografia (anche diasporica) del femminismo islamico
D. Un’ultima domanda: è possibile tracciare una geografia del femminismo islamico? Quali sono i paesi in cui in questo momento questo fenomeno è più sviluppato? E, soprattutto, per le donne in diaspora questo fenomeno quanto esiste e, se esiste, si trova solo a un livello intellettuale ed elitario di alcune pensatrici, o anche al livello più diffuso delle tante donne migranti che hanno dovuto lasciare il loro paese, la loro famiglia, e magari cercano di ritrovare nel femminismo islamico una forma di identità che non rimanga schiacciata tra il vecchio e il nuovo mondo che vivono?
R. Il femminismo islamico nasce negli anni Novanta contemporaneamente in diverse parti del pianeta – in Iran e negli Stati Uniti, in Sudafrica e in Marocco – come espressione di una serie di processi storici e politici che erano in atto, pur con le dovute differenze, un po’ ovunque.
Accanto a questo va detto che ci sono dei poli che sono stati maggiormente produttori di un discorso relativo al femminismo islamico: penso all’Iran, un paese dove l’islamizzazione del discorso politico era totale e imperante e che quindi per le donne alla fine l’unica vera possibilità per interagire e far breccia nella situazione del paese era discutere su un terreno islamico.
Parallelamente, come dicevo, il movimento appariva e si sviluppava anche in paesi della diaspora islamica o in paesi occidentali in cui il numero di musulmani sta crescendo non solo per l’arrivo di immigrati, ma anche perché sono sempre più le persone che si convertono all’Islam, sia uomini che donne, e questo è un dato interessante perché il femminismo islamico sta parlando molto ai nuovi convertiti e alle nuove convertite all’Islam.
E quindi vediamo che le battaglie assumono chiaramente delle differenze da contesto a contesto avendo una comune struttura di riferimento che è questo discorso femminile condotto all’interno di un discorso religioso. Le battaglie delle donne marocchine fatte negli anni Duemila per la riforma del Codice della famiglia sono ovviamente ben diverse dalle battaglie delle donne degli Stati Uniti che si battevano contro i pregiudizi occidentali sull’Islam o per un accesso alle moschee uguale per gli uomini e per le donne e per spazi di preghiera rispettosi anche della spiritualità femminile. Quindi abbiamo battaglie che nei contesti locali sono molto differenti ma che dialogano da una parte all’altra. Per esempio, la riforma del Codice della famiglia marocchina nel 2004 è stata salutata come un grande successo per tutto il mondo musulmano, ed è stato considerato una delle migliori implementazioni del discorso femminista islamico, perché si è riusciti a riformare un codice di legge sulla famiglia che era ingiusto verso le donne grazie e un’interpretazione nuova e progressista dei testi sacri e in particolare del corano.
Quello che è successo in Marocco è stato poi ampiamente discusso da diversi gruppi di donne e di femministe in diverse parti del mondo. Le Sisters in Islam, questa organizzazione malesiana, ad ad esempio ha inviato delle donne marocchine che erano state molto attive nel processo di riforma del codice della famiglia, per spiegare come era stato possibile riformare in questo senso un Codice di legge senza allontanarsi dall’Islam. Questo movimento dialoga fortemente, e lo fa sia materialmente che, molto di più, virtualmente, grazie ad internet. Internet è infatti una delle grandi sorprese di questo tempo. Sappiamo che la comunità islamica transnazionale utilizza molto internet per dialogare, e lo fanno anche le femministe islamiche. Sul web troviamo una pluralità di siti di femministe islamiche, o contenitori di coumenti sul movimento, penso ad esempio al sito Women Living Under Muslim Laws. Il web è pieno di materiali che le femministe islamiche scrivono perché vengano letti da loro omologhe che vivono in altre parti del mondo, o di reti come il Gruppo Gierfi (Groupe international d’études et de réflexion sur femmes et Islam) che fa capo ad Asma Lamrabet ma che vede donne di vari paesi musulmani perteciparvi.

(Renata Pepicelli è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna e già autrice di un libro importante, uscito qualche anno fa, “2010. Un nuovo ordine mediterraneo?” Che è servito molto a chiarire che tipo di relazioni esistano nel mondo mediterraneo tra le due sponde Nord Sud di quest’area così composita. Renata ha appena pubblicato un nuovo volume, edito nel gennaio di quest’anno da Carocci, il cui titolo è “Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme”).
(a cura di Alessandra Sciurba)

Il giorno della civetta…..


(Quadro denominato “Uomini,mezzi uomini, quaquaraquà”del pittore partinicese Gaetano Porcasi)
Incontro Sciascia

I PRETI E I MAFIOSI.STORIA DEI RAPPORTI TRA MAFIE E CHIESA CATTOLICA.


Il 2 Luglio del 1960,veniva ordinato sacerdote, dall’allora Arcivescovo di Palermo,Cardinale Ernesto Ruffini,don Pino Puglisi.Oggi compirebbe 50 anni di sacerdozio se la mano armata di Salvatore Grigoli non avesse fermato,barbaramente,la sua vita terrena il 15 settembre del 1993.L’omicidio Puglisi ha scosso fortemente le coscienze non fosse altro perché la mafia alzava il tiro contro la Chiesa. Lo stesso delitto Puglisi non può non essere letto come un giudizio di Dio sulla chiesa palermitana in primis e sulle chiese del sud Italia in relazione proprio al lungo legame tra la Chiesa,parte della gerarchia e la mafia. Proprio a questo argomento è dedicata l’ultima fatica editoriale del Prof. On.Isaia Sales dal titolo:”I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e chiesa cattolica”.L’interessante ed avvincente volume affronta il tema delle responsabilità della chiesa cattolica nell’affermazione delle organizzazioni mafiose,esaminando l’apporto culturale che direttamente o indirettamente la dottrina della Chiesa ha fornito al loro apparato ideologico. Come spiegare il fatto,si chiede l’autore,che in quattro “cattolicissime”regioni meridionali si siano sviluppate alcune delle organizzazioni criminali più spietate e potenti al mondo?Come spiegare che la maggioranza degli affiliati a queste organizzazioni criminali, con la patente di spietati assassini, si dichiarino cattolici osservanti?Che rapporto c’è tra cultura mafiosa e quella cattolica?Perchè questo rapporto non è mai stato indagato in sede storica e,invece, è stato sempre smentito o sottovalutato?Fino a pochi anni fa la Chiesa ha taciuto sulle mafie e non le ha mai considerate nemici ideologici. Personaggi come Don Ciro Vittozzi,Don Stilo,Don Agostino Coppola,Fra Giacinto sono stati fortemente collusi con essa. E ancora l’attentato a Mons.Peruzzo,l’eremo di Tagliavia,il santuario di Polsi,i frati di Mazzarino:luoghi ed ecclesiastici avvezzi a complicità e compiacenze. Dopo l’assassinio di Don Puglisi il silenzio è stato,in parte,interrotto. Il volume parla di tutto questo senza intenti scandalistici nella forte convinzione dell’autore che senza il sostegno culturale della Chiesa le mafie non si sarebbero potute radicare così profondamente nel sud del paese. Il successo delle organizzazioni mafiose rappresenta un insuccesso della Chiesa cattolica,ma,al tempo stesso,senza una Chiesa realmente e cristianamente antimafiosa la lotta per la sconfitta definitiva delle mafie sarà ancora lunga.Don Pino Puglisi,sacerdote secondo il cuore di Dio e della Chiesa,ha aperto la strada per un cammino di vera conversione e di rescissione dei legami tra Chiesa e mafie:quanti sono disposti a seguirne l’esempio?

Isaia Sales,I PRETI E I MAFIOSI.STORIA DEI RAPPORTI TRA MAFIE E CHIESA CATTOLICA.Saggi B.C.Dalai editore,pp.367.2010.

Le “cento Sicilie”raccontate!


A CAMPOFIORITO E NEI COMUNI SICANI CON A.G.MARCHESE E GLI STORICI LOCALI I COMUNI RISCOPRONO LA LORO STORIA

Una identita’, che rischiava di essere cancellata, nel millennio dalla memoria corta, pur rientrando tra gli insediamenti di nuova fondazione.

di Ferdinando Russo

E’ partita da Campofiorito(Pa) la sfida dei piccoli comuni a rivedere ,aggiornare,arricchire la storia degli uomini e degli eventi delle città nuove .
E non c’era miglior curatore del medico -letterato e cultore di Storia dell’Arte nell’Università di Palermo, dr.Antonino Giuseppe Marchese, per tentare una prima raccolta di storie locali,partecipate vissute da parte degli estensori, in un aggiornamento temporale ,proposto a studiosi ,intellettuali,tecnici,storici di oltre 20 comuni della Sicilia, per intessere una maglia di confronti e di diversità tra quelle che Bufalino chiamava le “Cento Sicilie”.(1)
Il Presidente della provincia regionale di Palermo, ing.Giovanni Avanti ,ne ha permesso la pubblicazione ,riconoscendo il valore della storiografia locale, “che consente di conoscere,riscoprire e,quindi,valorizzare,le tradizioni,gli usi,i costumi dei nostri padri,i loro ritmi di vita,ma anche le loro speranze e i loro sogni.” (2)
Ed è toccato al compianto arcivescovo Cataldo Naro,al suo inizio della guida della diocesi di Monreale, aprire il convegno ospitato dalla città di Campofiorito, che dalla iniziativa ha tratto interesse e impegni culturali per una presa di coscienza comunitaria della memoria delle origini, quasi a riscoprire le peculiarità del lavoro e della cultura degli antenati e della loro creatività umana,della loro fede religiosa.
Proprio mentre cresce il fenomeno della globalizzazione nelle sue varie dimensioni economiche,sociali e culturali,ha affermato il Presule, e mentre si intensificano i processi di integrazione politica del continente europeo,si riscopre il senso dell’appartenenza alla patria locale e spesso nel quadro più ampio di una riscoperta dell’identità nazionale.”
“ .Per troppo tempo in Italia- ha continuato Naro,-“il sentimento di appartenenza alla stessa nazione è stato soppiantato,almeno ad alcuni livelli della consapevolezza diffusa,da quello dell’appartenenza ai partiti politici e alle grandi famiglie ideologiche: si era democristiani o comunisti,cattolici o anticlericali,socialisti o altro ancora. E ci si ricordava di essere Italiani solo quando si era all’estero o a partire da alcuni elementi, come la cucina o la quadra di calcio.”

E per i 150 anni dell’Unità d’Italia bene ha fatto il sindaco di Campofiorito, in provincia di Palermo ,Giuseppe Sagona, a promuovere ,fuori da ogni ufficialità patriottica formale,
una solenne celebrazione unitaria , legando alla prima presentazione del volume (2) sulle storie locali,a ciò che unisce gli Italiani e come il localismo non debba ottundere l’essenza di una comune civiltà, ma contribuire, con un protagonismo culturale e storico, al comune cammino umano del Paese.
La presentazione degli scritti storici ha avuto così il conforto e la corale presenza della Giunta e di numerosi consiglieri Comunali, l’apprezzamento dell’assessore alla cultura,Mario Milazzo, e degli assessori Pizzo,Gerardi e Bono,del Consigliere della provincia regionale Vallone, in rappresentanza del Presidente Avanti, ,dell’on.Ferdinando Russo, già sottosegretario agli Interni e parlamentare della Sicilia occidentale,e di numerosi storici dei comuni di Giuliana, Ciminna,Villafrati, Contessa Entellina, Vicari, intervenuti ad illustrare il loro apporto.
E la Sicilia da questo studio dedicato ad alcune comunità, conferma una rinata consapevolezza
di proseguire, o riprendere l’indagine storica sull’Isola, partendo dall’investigazione delle realtà locali, per decifrarne le linee di forza, le motivazioni, la cause, che hanno spinto, anche gli stranieri, a visitare ed a scrivere delle vicende ,delle diversità, dei microcosmi dei fattori isolani, che rendono peculiare e significativo il procedere del cammino di questa regione-nazione che si rinnova, nelle sue realtà istituzionali, non tralasciando la memoria dei padri ,rischiando di apparire ostile ai cambiamenti, come in Tomasi di Lampedusa, mentre ingloba tante culture mediterranee e continentali, recependone, spesso i valori ,anche se, talvolta, si tratta di incolti disvalori..
A.G.Marchese, il curatore apripista di questa voluminosa ricerca, stimolatrice quindi di ulteriori integrazioni in progress, per le cento o mille altre realtà, non è nuovo a produrre testimonianze letterarie e comunitarie ed a tracciare ipotesi di futuri lavori storici e ricerche ,non rigidi monotematici, ma coinvolgenti studiosi locali ed esperti di ricerche sul territorio sui temi dei beni culturali, ambientali, geofisici, antropologicici (3).
Basta ricordare la sua vasta produzione di saggi, scritti storici, biografie, scoperte artistiche, che hanno interessato l’area dei monti Sicani e del Belice, si da promuovere azioni conservative ,di restauro e politiche istituzionali quali le Unioni dei Comuni, (del Salso,del Belice,ecc ), il Parco dei Monti Sicani, così come si preannunciano per l’interesse creato dalla recentissima opera “ Insula” (4)
E con l’umiltà che caratterizza gli storici, nell’opera della presente riflessione, il Nostro sceglie di trattare ed offrire il suo apporto, anche metodologico, affrontando come soggetto della sua ricerca un comune tra i più piccoli,”Campofiorito: una new town baronale dela Sicilia occidentale” (cfr,pagg.27-74 del volume ).
E’ questo “un centro del Val di Mazara, nella comarca di Corleone, la cui “licentia populandi” ,rilasciata nel 1655 dal re Filippo IV di Spagna al Marchese della Ginestra(e poi primo principe di Campofiorito)Stefano Reggio Santo Stefano, non ebbe alcuna attuazione concreta, mentre oltre un secolo dopo,nel 1768, avrebbe avuto una realizzazione,seppure parziale,con l’intervento del suoV principe Stefano III Reggio Gravina”.

“La nascita giuridica di Campofiorito, intesa come Universitas baronale,-scrive Marchese, -sia che la sua costituzione sia avvenuta ex novo, o che abbia fatto uso di preesistenze abitative ,è stata sancita nel 1768, con il riconoscimento al principe Reggio da parte della Curia arcivescovile di Monreale,guidata da mons.Francesco Testa, dello status di parrocchia della chiesetta di Santo Stefano e la nomina del primo parroco arciprete, nella persona del sacerdote Leonardo Schifani da Chiusa..
Il 27 ottobre 1768 si celebra il primo battesimo ed è Stefano il nome in onore sia del Patrono della città,sia del principe.

“Ed è come effettuare il recupero di una identità,- ha affermato ,intervenendo alla presentazione dell’opera Ferdinando Russo, -come riportare alla comunità dei “Campofioritani ,o “bellanuvisi”,o “terranuvisi “,dagli archivi e dalle tele ingiallite di alcuni secoli, dai musei e dalle Sovrintendenze ,dal patrimonio storico-archivistico di Monreale, il fluire della storia umana e religiosa degli antenati di una delle “città nuove”, create cioè ex novo nell’età moderna, assieme ad altri 87 centri siciliani tra il 1593 ed il 1714.”

La cultura urbanistica di questi comuni rurali di nuova colonizzazione, non è comunque esente da legami e ascendenze con la grande cultura europea contemporanea, come afferma M.Renda.(5).

Significativo e moderno il tentativo di denominare questi comuni con sinonimi accattivanti, incoraggianti: Campofiorito,Villafranca,Campobello,Campofranco,Camporeale,Belmonte,Altavilla,
Roccamena, Villafrati.

Attorno a Campofiorito, nascono tentativi di industrializzazione, con la conceria e con la produzione dei materiali di costruzione, la calce ed il gesso,.che rappresenteranno, fino alle soglie degli anni sessanta, una fonte di approvvigionamento dei materiali fondamentali per l’edilizia e non solo per quella povera dei comuni del circondario.

Della nascita della città usufruiscono gli artigiani dei comuni vicini di Bisacquino, Corleone, Chiusa Sclafani, Prizzi, Giuliana, Contessa Entellina, ed i paesi sicani hanno ormai già risorse comuni e maestranze interscambiabili.

Ragioni di sicurezza del latifondo, ragioni di lavoro, di esplosione demografica (vedi Palermo), di ripopolamento, di necessarie produzioni cerealicole, determinatesi dopo il terremoto del 1693 ,stanno alla base di una positiva politica economico-sociale, che investe la Sicilia, in maniera preponderante.

E nella storia appare un contributo innovativo a modificare l’assetto fondiario e culturale, come
sottolinea Marchese ,citando una ricerca del giornalista Dino Paternostro (6) “pe r effettuare la presenza di sempre più numerosi abitanti, infatti, il Principe procedette al frazionamento delle terre e alla loro concessione, tanto che gli enfiteutica da 46, che erano nel 1774, aumentarono a 133 nel 1811 e a 146 nel 1817.Le rimanenti terre vennero condotte in gabella ed affidate ad un unico affittuario”.
Ora però vogliamo invitare i lettori e gli amministratori comunali ad utilizzare per le Biblioteche comunali e per le scuole il volume al nostro esame.
Tra i Comuni coinvolti nelle ricerche ricordiamo sommariamente:
Montemaggiore Belsito (contributo di Giovanni Mendola), Calamonaci (con le maestranze e la sua economia,l’esempio che riporta Giovanni Moroni),Villafrati e Cefalà Diana (dello studioso Giuseppe Oddo (9), Marineo, Il barone e il popolo (Antonino Scarpulla), Serradifalco (Alberico Lo Faso ), Monforte San Giorgio (Giuseppe Ardizzone Gullo), Chiaramonte e Monterosso nel 1593 (Gianni Morando)), Ventimiglia di Sicilia (Arturo Anzelmo), Montalbano (Alfio Seminara).

Ed ancora, Prizzi (Carmelo Fucarino), Caltabellotta (Angela Scandagliato), Acquedolci e Capo D’Orlando (Antonino Palazzolo), Cammarata (Domenico De Gregorio), Campofranco (Giuseppe Testa). Per la Val di Noto (Marisa Buscemi), per Sciacca (Ignazio Navarra), Polizzi (Vincenzo Abbate), Alcara Li Fusi (Angela Mazzè), Bivona (Antonino Marrone),Castelbuono(Rosario Termotto).

La ricerca non poteva non toccare anche Enna , Tortorici, Petralia Sottana, Isnello, Contessa Entellina (Calogero Raviotta), Palazzo Adriano (Antonino Cuccia). .

Ci riserviamo ,pertanto, di presentare gli altri comuni interessati a questo storico evento librario,.scusandoci con gli storici locali, che hanno collaborato allo studio originale e ricapitolativo di quanto finora conosciuto solo dagli esperti e degli addetti ai lavori e non citati in questa nota.
.
La ricerca spazia ,infatti, nel territorio dell’intera Sicilia e merita informazioni e riflessioni attente di apprezzamento per gli studiosi e per la fatica immane del curatore .

Torneremo sull’argomento ,quando i sindaci e il presidente della Provincia regionale di Palermo G.Avanti presenteranno ufficialmente la meritevole pubblicazione.

Ferdinando Russo
onnandorusso@libero.it

1)G.Bufalino,Nunzio Zago,Cento Sicilie ,testimonianze per un ritratto,La Nuova Italia editrice,
Scandicci,Firenze 1993

2)A,G.Marchese (a cura),L’isola ricercata,inchieste sui centri minori della Sicilia secoli XVI-XVIII,Atti del Convegno di studi (Campofiorito,12-13 aprile 2003-Provincia Regionale di Palermo

3) A.G.Marchese, Insula ,Ila Palma Mazzone Produzioni dicembre 2009 (vedi anche Orizzonti Sicani aprile 2010)

4)F.Russo ,I centenari di A.G.Marchese vivono a Giuliana in http://www.google.it e in http://www.maik07.wordpress.com

5)M.Renda I nuovi insediamenti del 600 siciliano.Genesi e sviluppo di un comune (Cattolica Eraclea,in M.Giuffrè (a cura di) Città nuove di Sicilia,Palermo 1979

6)D.Paternostro,Campofiorito:nato dal sogno di un principe il primo giorno di Primavera,dattiloscritto del 1991,Archivio comunale di Campofiorito,p.5

9)G.Oddo,Lo sviluppo incompiuto,Storia di un comune agricolo della Sicilia occidentale,Villafrati 1596-1960,Palermp1986

COSA SIGNIFICA ESSERE LAICI.


Il tema della laicità è diventato,in questi anni,oggetto di incessanti dibattiti e di scontri accaniti,sullo sfondo di una strumentale quanto dannosa opposizione tra posizioni laiche e quelle cattoliche.I grandi nemici della verità-il materialismo,l’individualismo e,soprattutto,il relativismo,spingono l’uomo verso risposte sempre più arbitrarie e soggettive a questioni vitali,che riguardano il senso stesso dell’esistenza umana:la vita,la morte,la dignità della persona umana,l’educazione,il rapporto tra Stato e Chiesa….In questo quadro la risposta cristiana è considerata mera espressione confessionale,spogliata del suo valore universale e del suo alto contenuto antropologico.In verità,nessuna religione,come il Cristianesimo,ha saputo porre l’uomo al centro,nella sua piena dignità e responsabilità.Giuseppe Savagnone si accosta al tema con un atteggiamento corretto,prudente ma non riduttivo,rispettoso della complessità delle materie,capace di esplorarne la ricchezza al tempo stesso umana e cristiana. Il laico, dunque,è colui che vuole riportare al centro la speranza,per sconfiggere il nichilismo contemporaneo,usando l’arma del dialogo in ogni conflitto;lottare sul fronte della vita,difendendo la dignità dell’uomo di fronte alla nascita e alla morte,ma anche nelle tappe intermadie;combattere il relativismo e la secolarizzazione;lavorare in vista dell’educazione;vivere nella comunità degli uomini e comprendere il giusto rapporto tra questa e la Chiesa;ispirare l’impegno politico alla ragionevolezza e alla validità del bene comune della città terrena;lasciare che il punto di vista altrui lo metta in discussione,nella consapevolezza dei propri limiti e nella capacità di percepire la diversità come ricchezza.

Giuseppe Savagnone,COSA SIGNIFICA ESSERE LAICI.Una risposta nel segno dello Spirito Santo.Ed.Rinnovamento nello Spirito,2010.

Vietato in nome di Allah…..


VIETATO IN NOME DI ALLAH. Libri e intellettuali messi al bando nel mondo islamico.

Se nei primi secoli dell’islam, l’arte e la cultura godettero di grande libertà, nel XX secolo il vento è cambiato e oggi il numero di artisti uccisi, minacciati o privati della libertà è in continuo aumento. La ricostruzione storica effettuata da Valentina Colombo spazia dall’Arabia Saudita all’Egitto, dal Sudan al Kuwait, dall’Iran alla Turchia e si concentra in particolare sul periodo che va dalla prima guerra mondiale a oggi, ripercorrendo molte terribili vicende: per esempio quelle del grande romanziere Nagib Mahfuz, del teologo e uomo politico Muhammad Taha, della scrittrice Layla ‘Uthman, dei poeti giordani Musa Hawamdeh e Islam Samhan, dello scrittore turco Nedim Gürsel, del poeta siriano Adonis.

Valentina Colombo (Cameri, Novara, 1964) è docente di Geopolitica del mondo islamico presso l’Università Europea di Roma e Senior Fellow presso la European Foundation for Democracy (Bruxelles). Traduttrice di molti autori arabi, tra cui Nagib Mahfuz e Adonis, nel 2009 ha pubblicato presso Mondadori il volume Islam. Istruzioni per l’uso.
Valentina Colombo,VIETATO IN NOME DI ALLAH. Libri e intellettuali messi al bando nel mondo islamico.Edizioni Lindau | «I Draghi» | pp. 176.

LA LAICITA’ DEI NON LAICI.


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LA LAICITA’ FRONTIERA DEL TERZO MILLENNIO per un dialogo unitario, a favore del bene comune e della persona umana

Ci si chiede oggi da più parti, dove sono i laici? La domanda è lecita, specialmente perché i laici, non tutti, sembrano di avere la paura della testimonianza della loro fede. Ma i laici ci sono, hanno bisogno di esercitare il diritto di parola e avere il “permesso” di agire: si devono decidere, però, a farlo.

di Ferdinando Russo

Quella di Salvatore Agueci, docente, giornalista pubblicista, poeta, operatore sociale, scrittore, attento studioso dei processi di mobilità, delle migrazioni mediterranee, della famiglia, è la lunga e faticosa marcia dei laici credenti del dopo Concilio, per affermare la
loro identità nel turbinoso Occidente,tra speranze e cadute ,luminosi traguardi e forzate soste, tra incomprensioni e ritardi, studi e convegni, tentativi di nuove aggregazioni e di presenze partecipative.
Prima del presente saggio l’Autore aveva scritto “Uomini in cammino.Verso una società interculturale “.E poi ha tentato di compartecipare alla vicenda umana del suo tempo, fondando,
per un concreto servizio, associazioni benemerite:”Senza sponde”,”Un legale per tutti”,”Italia-Tunisia”,quasi a vivere e sperimentare il rapporto con il prossimo, nel suo tempo e nel suo territorio.
E così, da sempre,ha vissuto tra testimonianze eroiche ,umili e generose, di laici spesso silenziosi all’esterno, come le preghiere delle suore dei Conventi di clausura, dei tanti gruppi di evangelizzazione e di carità, di vocazioni e di scelte personali.
Sono infatti i” laici credenti” ad intessere il sottofondo,la trama del volume di Salvatore Agueci, .
Con l’obiettivo di toglierli dall’anonimato, dai furti della storia anche della loro denominazione.
Quasi a dovere scegliere ,anche se solo per un momento ed in modo provocatorio, per loro il termine di “non laici”.
Anche la cultura post-conciliare all’interno della Chiesa a volte sembra non avere allontanato tutti i sospetti sul termine “laico” nella sua evoluzione storica.
Laico è un membro della Chiesa, che fa parte del popolo di Dio,non è un chierico,è,in definitiva, chi non ha ricevuto il sacramento dell’ordine o non appartiene allo stato religioso.
Il termine aggettivale “laico” ha subito, in verità, nella sua genesi storico-semantica il logoramento della storia della comunità umana,ma l’autore ne recupera l’origine e l’inevitabile evoluzione nell’irrompere del cristianesimo.
Lo stesso è avvenuto, di conseguenza , per il sostantivo la parola “laicità”.
Da qui la riflessione di Agueci per approfondire il termine di “sana laicità,”che implica il senso del limite e un atteggiamento di onesta ricerca,che non può non tradursi a sua volta, in un’intima disponibilità alla cooperazione e all’ascolto.”
“Laicità significa attitudine alla riflessione personale,ma anche apertura al confronto:senso critico,
ma anche docilità(dal latino docibilitas), che indica la virtù di colui che sa lasciarsi insegnare qualcosa da altri,o semplicemente dalla vita;disincanto,ma anche capacità di meraviglia:
Laicità è percezione dell’altro come “altro”,disponibilità a lasciarsi inquietare e talvolta spiazzare dalla sua alterità, rinunziando a proiettare su di essa la maschera omologante, che la ricondurrebbe ai nostri schemi e alle nostre aspettative:
Laicità è coraggio di gettare i ponti, dal sicuro terreno su cui si è radicati; verso l’ignoto e di avventurarsi su di essi senza nessuna garanzia;”senza sponde”.
Molti dei laici credenti , senza neppure essere nominati dall’autore, ci sono stati di
Riferimento,nelle diverse regioni, nella seconda parte del secolo scorso ed all’inizio del terzo millennio,alcuni prima, altri durante e dopo il Concilio Vaticano II..

Con Agueci ci sembra di incontrarli ,senza disturbare la loro riservatezza, sia in Sicilia, la regione, in cui ora vive, come nel resto del paese, nell’associazionismo cattolico, nel
volontariato, nei movimenti di spiritualità e di servizio ,nella magistratura e perché no ,talvolta ,in politica.
La loro identità è nel fieri della storia, è sempre più marcata, con il procedere delle riflessioni,degli studi e delle testimonianze, dei documenti della Chiesa. .
L’abbiamo intravista nei compagni che ci sono stati cari per il loro coraggio, per la loro operatività, per la testimonianza resa, per lo stile dei loro comportamenti, per la missionarietà della loro professione, per la vocazione scelta, per i riconoscimenti, talvolta tardivi, anche da parte della Gerarchia della Chiesa..
Costoro , come Agueci, non si sono mai arresi ai ritardi nella traduzione e applicazione dei dettami conciliari , talvolta riscontrati presso le chiese locali ,tradizionaliste nelle forme, ma smemorate spesso nell’impegno educativo tra la gioventù,che un tempo fu generalizzato e mirato oltre il momento catechistico-sacramentale,(battesimo,cresima,matrimonio) .
Ora i fedeli laici si sono armati dei documenti conciliari, ampliamenti citati dall’autore,della Gaudium et Spes, delle encicliche sociali,delle indicazioni
dei santi papi ,che il Signore ha concesso alla Chiesa dei nostri tempi.
La identità dei laici incontrati nasceva e traeva sempre alimento nel Vangelo, da cui attingevano con convinta fede,incoraggiati da..predicatori (P.Rivilli,il fondatore della Crociata e poi della Presenza del Vangelo) e da altri laici raggruppati attorno al carisma della diffusione del vangelo,ardenti profeti dei progetti di evangelizzazione della cultura.
Ricordarli è per rivivere le riflessioni che ci trasmette Agueci nelle persone incontrate e sottaciute per non offendere quella loro riservata umiltà ,che ci
sono stati compagni nelle nostre intraprese associative nell’Azione Cattolica, (V. Veronesi, Carretto,Gedda,Bachelet), nella FUCI, (Moro, Murgia, Pietrobelli ), nelle ACLI, (Pennazzato, Labor, Bersani, Colombo, Pozzar )e nel nostro agire pubblico e privato (La Pira, Giordano),. nel Movimento dei Focolari (Chiara Lubich), nel
Movimento Maestri .(Corghi, Buzzi,Badaloni), nel movimento Laureati ( G.B.Scaglia e Bachelet),
E nella Sicilia, patria dell’autore,offeso dai nomi malfamati ,spesso devoti ma non credenti, non sono mancati tanti laici ,spiriti eletti per le opere o gli scritti quali G.Cusmano,V.Mangano, P.Mignosi,N.Petix;G.La Barbera,C.Crifò,P.Mazzamuto.,o più contemporanei come Sinagra, Perollo, Occhipinti, L.Messina, Del Castillo, G.Russo , Palumbo,
Muccioli, Savagnone, B.Messina.

L’autore per rispetto dei lettori, per la loro sensibilità all’essenziale, per lasciare loro la gioia della ricerca territoriale, li considera noti nel sottofondo del saggio perchè li abbiamo trovati nel mondo relazionale della nostra e loro giovinezza ad orientarci , ad aiutarci nelle scelte vocazionali dell’età adulta, a confermarci nella convinzione della nostra laicità ,aperta alla alterità, al dialogo con l’altro,al servizio del prossimo..
Giuseppe Savagnone nel saggio “Dibattito sulla laicità”, afferma che storicamente essa
porta al dialogo,rifugge l’intransigenza,“si presta ad unire più che a dividere, a costruire più che a distruggere, a fondare l’ascolto e il rispetto dell’altro più che a demonizzarlo”: .
Ed Agueci con il suo saggio, così come Savagnone, si fa promotore del rispetto delle diversità, contribuisce ad “abbattere le artificiose barriere che talora vengono innalzate tra credenti e non credenti e a mostrare che il dialogo non solo è possibile, ma può aiutare tutti a capire un po’ meglio gli altri e forse anche se stessi.”
Si è allungata ,nel frattempo , la schiera dei tanti laici, che sono “in cammino verso la santità” ,ancora più silenziosi, ma degni di ammirazione generalizzata, di comune emulazione , e pertanto l’autore rifugge dalla codificazione ed evidenziazione :sono i beati Alberto Morelli,Pina
Suriano, Pietro Torres, Giorgo la Pira, Igino Giordano, Lazzati , Bachelet e
quelli meno conosciuti dall’opinione colta,(L.Cerrito,M.C.Magro,F.Conticelli,Livatino) che pure sono vissuti nelle contrade conosciute da Agueci, verso i quali stimola, con intellettuale delicatezza, speranzose ricerche .

Erano stati con loro, quasi compagni di viaggio( animatori,formatori,assistenti e ispiratori)
sacerdoti figli dello stesso Popolo di Dio, Costa,Guano,Zama,Don Zeno,Milani, Dossetti,Turoldo,
spesso poveri (come i preti sociali della Sicilia dell’autore ( Monteleone, Mangialino, Marchisotta, Di Vincenti, Pizzitola, Rivilli, Bacile,Arena, Mancuso, Messina, Mirabella, Alessi, Tricomi, Baiada)..nomi che hanno inciso nella formazione del laicato che Agueci fa rivivere
ed al quale ci rimanda alla fine del suo saggio ,perchè continuino gli studi sul piano teologico e nella personale testimonianza a favore del servizio verso il prossimo.

E cio’ alla luce del Concilio, che i laici avevano atteso con trepidazione filiale, e che ora dovevano
testimoniare, comunitariamente, senza interpretazioni minimaliste e riduttive,consapevoli che tutto il patrimonio conciliare sui compiti dei laici nella Chiesa e nel mondo, sulla loro ministerialità,.si sarebbe concretizzato con il tempo.

Sturzo era stato il riferimento sociale e istituzionale di una tale laicità , della Chiesa e dello Stato
poco conosciuta, se non dai vecchi Popolari suoi contemporanei e dai sacerdoti sconfitti delle Casse rurali, contrastate dal Fascismo ed ora stanchi dei condizionamenti del ventennio.

Quei laici ricordati avevano commentato il Concilio Vaticano II con scritti, nelle quaranta annate della rivista “Labor di Crifò e Mazzamuto, in “Vita e Pensiero, Civiltà Cattolica, Ricerca, Il Dialogo di Aldo Romano,Franco Armetta e poi Settegiorni, Terza fase di Carlo Donat Cattin, Città per l’Uomo, Segno, Cntn, e recentemente “ Alveare”di Nino Alongi.

Ed il Concilio tanto atteso chiedeva la testimonianza ai laici ed ai sacerdoti e religiosi ,non estranei al mondo,anche essi cultori di laicità nei riguardi del mondo esterno.

Il Concilio apriva ,in verità, la svolta nel laicato impegnato a costruire una identità
consapevole, unitaria, condivisa,diffusa..

Questa identità ,anche se ancora flessibile, mancava prima del Concilio, nella coscienza comune dei laici, in quanto frammentaria ,timorosa, profetica ma compressa, dalla storia italiana pre-unitaria ,confinata ai servizi di carità e di assistenza (San Vincenzo,opere confraternali, Leghe,Casse Rurali, ed appariva ancora incerta,dopo Sturzo, nello storico ritorno dei cattolici nelle
Istituzioni repubblicane. E nel loro apporto alla nuova Costituzione. ..)
Questa identità si appalesava ora ,dopo il Concilio , nella società europea e occidentale come portatrice di pace, di sviluppo, di giustizia ,di libertà,di comune coscienza sul significato e sul rispetto della vita.
Doveva,come fatto dinamico, vivere nel rapporto tra l’eredità del passato e le sfide del presente
nella secolarizzazione che fa le differenze, che divide gli spazi di competenza tra il temporale ed il soprannaturale,fra lo spazio di Cesare e quello di Dio,finalmente riconosciuto come valore del
Cristianesimo entrato a far parte della cultura e della democrazia dell’Occidente.
I documenti conciliari e la nuova ministerialità del laicato

La Lumen Gentium afferma :”Col nome di laici si intendono qui tutti i fedeli, a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa (L.G.,n:31)

Da qui quel “professarci laici credenti, laici cristiani e talvolta solo laici, per non ergere barriere tra i cittadini di una stessa comunità.
E da laici vogliamo vivere la cittadinanza nella sua pienezza solidaristica e unitaria, respingendo la moda,per fortuna non generale, di una certa cultura laicista, tesa ad attribuire alla parola “laico”,prese di posizione ideologiche, valori anticlericali di natura ottocentesca, che respingiamo” (10) E sempre più in molti,laici credenti e non ..
I numerosi convegni delle aggregazioni laicali di questi anni lo testimoniano,non sono pertanto senza storia. Essi hanno segnato una ripresa della cultura cattolica, l’apertura al dialogo interno e a quello rivolto agli altri sui temi della modernità, nei rapporti con la religione e le religioni, in una sintonia propositiva con le indicazioni del S.Padre e dei Vescovi, sulla parrocchia, la pace, lo sviluppo, l’evangelizzazione, la partecipazione alla politica.

Sono alimentati dall’invito che, nella veglia di Pentecoste del 1998, Giovanni Paolo II rivolse alle realtà laicali per celebrare assieme la festa dello Spirito Santo, quasi a segnare il battesimo di una volontà unitaria da sperimentare nella pluralità delle funzioni e dei carismi dei diversi movimenti laicali, dei ruoli delle parrocchie, degli oratori.(F.Russo in CNTN , La svolta delle aggregazioni cattoliche)

La vitalità culturale espressa da Cl a Rimini, negli annuali convegni, attraverso la rappresentazione dell’opera svolta nei oltre cinquanta anni della sua storia, si accompagna, infatti, al fiorire d’iniziative, che preparano la settimana sociale dei cattolici: di Reggio Calabria

Predicare il Vangelo in un mondo che cambia da laici

L’assistente generale dell’AC, Francesco Lambiasi ha scritto : .(7) Il lavoro non manca ai laici di buona volontà.

Né è da escludere il tentare “nuove forme di laicità,fenomeno presente anche fuori del nostro paese, come in Francia e in Spagna e studiare una cultura che veda per la cittadinanza una nuova alba in contraddizione con il disfattismo della rinuncia e del tramonto della politica.

Le società europee,compresa la nostra,si trovano in una situazione di post-secolarizzazione,conseguente al crollo delle utopie che,di fatto, sono state religioni politiche sostitutive. Da qui la necessità di intendere insieme la secolarizzazione della società come un processo di apprendimento complementare, al quale dobbiamo dare voce, contenuti, azioni.

In questo processo di modernizzazione, come laici,la città ci appartiene con i diritti ed i servizi, che richiede,con il diritto di viverla, anche per i fratelli venuti da lontano per lavorare da noi,ma primariamente come dovere per la difesa del lavoro,della famiglia,dell’ambiente,del paesaggio,dei beni culturali, da fruire da parte di tutti.( 11)

“La modernità, di cui ci vantiamo e di cui viviamo nelle istituzioni politiche, viene dalla fede cristiana ,-ha scritto su Avvenire Giuseppe Dalla Torre,-In particolare, senza quella distinzione evangelica tra Cesare e Dio,diretta ad evitare ogni forma di politicizzazione della religione e di sacralizzazione della politica ,che introdusse un principio dualista nella storia umana,saremmo ancora nel fondamentalismo, che si contesta alle società non cristiane (12)

C’è allora da rendere universale e convinta, l’accettazione del laico nella chiesa, come lo è stato nell’antica
Comunità cristiana e come è riaffermato nella Gaudium et Spes, dopo secoli di logoramento del ruolo,e del significato dei termini laico e laicità, mutati dalla storia della secolarizzazione e dal prevalere nell’interpretazione un po’ capziosa da parte dell’ integralismo radicale.

Il saggio di Agueci richiama i laici alla fiducia in essi riposta dal Concilio, mentre invita coloro che hanno fatto della laicità una barriera ideologica ad una riflessione e maturazione per relazioni più aperte e meno pregiudiziali.

Ci vengono incontro La Pira e Bobbio .

Ferdinando Russo

Bibliografia eventuale

Riviste:
Labor, Il Dialogo, Città per l’uomo,CNTN, Il Segno,

G.Dalla Torre,Dio e Cesare,paradigmi cristiani nella modernità,Città Nuova editrice,2008

F.Russo,in Nuove frontiere del Concilio, Analisi di 40 anni di cammino in CNTN,Anno III, N.7
Ottobre 2002 .

F.Russo,La svolta delle aggregazioni laicali in CNTN

F.Russo L’Assemblea della svolta in CNTN

G.Savagnone, Dibattito sulla laicità,Alla ricerca di una identità,Editrice ELLEDICI,2006

Lumen Gentium

Gaudium et Spes

F.Russo,in Laici per una nuova città,in CNTN Anno VII,N:41,1 luglio 2007

F.Russo, Il monito dei laici cattolici siciliani del novecento ,Labor,Anno LXI ,N.4,Ottobre-dicembre,2000

F.Russo ,L’Europa senza padri in CNTN Anno III n.27 Marzo 2003

F.Russo La Pira e Bobbio in CNTN

Preti pedofili.


Secondo Benedetto XVI la tragedia dei preti pedofili ha fatto più danni alla Chiesa delle grandi persecuzioni, di cui pure la storia è piena. La colpa, anzitutto, è degli stessi preti pedofili, «vergogna e disonore» per la Chiesa secondo le parole del papa. Sulla base della Lettera ai cattolici dell’Irlanda di Benedetto XVI, riprodotta in appendice, e di anni di ricerche sociologiche sul tema Massimo Introvigne si chiede come una simile sconcertante vicenda sia stata possibile nella Chiesa, e concentra la sua attenzione sulla rivoluzione e la contestazione contro la morale degli anni 1960 all’esterno e all’interno del mondo cattolico. Dalla triste realtà dei preti pedofili Introvigne distingue però l’amplificazione del loro numero attraverso statistiche fasulle, e il sospetto generalizzato ingiustamente gettato sui sacerdoti nel loro insieme, sulla Chiesa e su Benedetto XVI da una lobby laicista, i cui argomenti sono sistematicamente smontati con il rigore del sociologo e la passione del cattolico che si sente vicino a un papa addolorato e calunniato.

MASSIMO INTROVIGNE, sociologo che ha al suo attivo trent’anni di studi e oltre quaranta volumi dedicati in particolare al pluralismo religioso e ai casi di violenza collegati alla religione, dirige a Torino il CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni), una delle maggiori istituzioni mondiali che si occupano di rilevare e descrivere i fenomeni religiosi in Italia e nel mondo. È vice-presidente dell’APSOR (Associazione Piemontese di Sociologia delle Religioni) e vice-responsabile nazionale di Alleanza Cattolica.

Un mese dedicato alla faccia delle donne.

Contro la sterilità imperante. Dopo anni di maschilizzazione liberal

Onan è la pietra di paragone dell’indignazione. Disperde il proprio seme in terra piuttosto che inseminare la donna. Musil è la pietrificazione del risentimento. Disperde il proprio seme in ogni donna perché non vuole più perdonare la terra («non potrei più guardare una donna allo stesso modo se sapessi che è stata inseminata da un altro uomo»). Sade è puro e semplice onanismo assistito. Il razionalismo, come diceva il vecchio Diderot alla vista delle passeggiatrici, del «sono le idee le mie puttane». Altra forma di dispersione del seme (oltre che di anestesia, o privazione dell’estasi) è, per esempio, il “savianesimo”. Il quale rinvia all’efebìa ateniese. Efebo, “recluta”, l’adolescente a cui era richiesta una esibizione pubblica di adesione agli ideali della polis. Nella attuale variante trombona italiana, la prova pubblica di efebìa è il reclutamento antimafia (vedi in proposito la recente messa alla scuola di giornalismo di Perugia cantata da Avatar Al Gore e dal Tristano di Gomorra di famosa e delicata peluria; o si veda il rito mediatico officiato intorno all’albero di Falcone profanato e orbato dai disegni dei bambini antimafia).
Diversamente da questo maschilismo imperante – questo maschilismo che si esprime nelle narrazioni giornalistiche e nell’intrattenimento televisivo come seme disperso, risentimento, efebìa – Tempi rimane persuaso che tutto (nell’economia come nello spettacolo) e tutti (anche i leader dei partiti e quelli di Chiesa) starebbero meglio (e di conseguenza anche noi persone in società) se vi fosse occasione di lasciarsi educare dal talento femminile. Che, come scrisse Cesare Pavese, «è un talento innato, una disposizione originaria, un assoluto virtuosismo nel conferire al finito un senso». Nasce di qui l’idea di dedicare un maggio alla “faccia delle donne”. Non un’evasione civettuola dalla cronaca cicisbea (per esempio, non può essere che anche il siparietto, pericoloso per l’Italia, tra Fini e Berlusconi, abbia radici maschiliste?), ma un diverso abitare la cronaca. Tant’è che l’idea ci è venuta dalla solida provocazione della nostra amica Susanna Tamaro. Che dopo averci fatto l’onore di una visita in redazione, si è esibita sul Corriere della Sera in un bel tuffo nel femminismo italiano d’antan, riguardato dall’autrice di Anima mundi come “fallimento” (diverso, e forse meritorio di un’altra crime scene investigation, il caso del femminismo virago che ha messo radici in Nordeuropa e Nordamerica). Non staremo qui a discutere le tesi di Susanna (per altro già dibattute dagli interventi della Comencini, Rodotà e Terragni). Ma partendo da lei, prendendo le mosse da una questione che sembrava perduta nelle rughe de “l’utero è mio”, riprenderemo in chiave di grimaldello, di lettura dell’attualità, l’intuizione secondo cui «la donna concilia l’uomo e se stessa col mondo» (Pavese). Per esempio: come si concilia (si concilia?) la donna con il “manipulitismo”, cioè con quella forma di violento onanismo che a fronte delle continue “perdite” del reale, persegue la purità cercando di imporre (alle donne, alla politica, alle imprese, al calcio, alla Chiesa, eccetera) sistemi sempre più pazzeschi – o come li chiamano loro, “perfetti” – di purificazione e abluzione?
Proveremo a sondare il lato femminile della cronaca e a fare un mese di giornale femminile. Nonché – e questo è il punto – proveremo a capire se è proprio questo il lato della vicenda umana che decide di personalità e società aperta o chiusa; di giustizia matrigna o misericordiosa; di bellezza chirurgica-preservativa o di “cara Beltà-freschezza più cara” (e dire che Leopardi era un “materialista”, e dire che Gerald Manley Hopkins era un gesuita!). Insomma, poiché il tratto essenziale del femminile sulla terra non è il fatto che la donna dia la vita (è infatti possibile, in un futuro, che si avveri quella tremenda e schifosa cosa prometeica che è la riproduzione per via completamente artificiale) ma è l’atteggiamento originale insito nel suo dare la vita e, soprattutto, insito nella vita stessa (perfino Eugenio Scalfari sarà stato quell’urlo in utero, poi lo stupore di cose fuori di sé, poi lo stupore di sé, insomma il bambino che domanda e non chiude mai la porta al mondo), cercheremo la biblica “costola dell’uomo”. Che come ha notato il grande storico Jacques Le Goff è tutt’altro che la prima affermazione di un maschilismo ancestrale. Ma è la prima parola di uguaglianza uomo-donna che sia risuonata nella storia. Parola di liberazione, precisa l’agnostico Le Goff, quando tutte, ma proprio tutte, le radici non giudeo-cristiane del mondo (compresa l’attuale, liberal, occidentale, Homo Sapiens New York Times, come ci spiega in questo numero Irene Vilar) erano state e restano saldamente maschiliste.

http://www.tempi.it/editoriale/008950-un-mese-dedicato-alla-faccia-delle-donne-dopo-anni-di-maschilizzazione-liberal

IL GREMBIULE E LO SCETTRO.

Il grembiule e lo scettro, due simboli per indicare immediatamente due realtà complesse: la Chiesa e la politica. Il primo simbolo è relativo al servizio che la comunità cristiana presta in nome diGesù, che non è venuto per “essere servito ma per servire” (Mt 20,28). E qui la memoria di molti va all’insegnamento e alla testimonianza di don Tonino Bello, cui questo libro è dedicato. La Chiesa del grembiule – scriveva don Tonino nel 1988 – è certamente “l’immagine che meglio esprime la regalità della Chiesa, per la quale, come per Cristo, regnare significa servire”.E poi lo scettro. Ovvero il simbolo del potere. Non certo considerato in un’analisi storica e dottrinale, ma nella sua valenza quotidiana, cioè in riferimento a coloro che lo detengono, a coloro che hanno la responsabilità di provvedere, in varie forme e tempi, al bene comune, alla giustizia e alla pace della società.
Sul rapporto tra queste due realtà complesse si soffermano le pagine seguenti. Sono appunti di un viaggio di diversi anni che non hanno nessuna pretesa di esaustività, ma solo il carattere di una riflessione ad alta voce da condividere, criticare, arricchire e orientare meglio. Essi sono stati scritti insieme ai credenti con cui ho percorso itinerari di formazione all’impegno sociale e politico, ai tanti pastori e laici incontrati nelle nostre comunità, agli uomini e alle donne provenienti da altre culture o sensibilità religiose, agli amici con cui continuo a discutere di queste tematiche. In alcuni casi hanno ispirato articoli apparsi su giornali, in altri sono stati oggetto di discussione in incontri pubblici e personali. Mi auguro che – anche grazie a questa veste editoriale – possano essere utili a chi continua a camminare, con ingegno, passione e coraggio, verso la pienezza del Regno di giustizia e di pace.

Le verità del Vangelo non fanno mai l’occhiolino

Quando incontri una verità di passaggio – scriveva George Bernanos nel suo Diario –guardala bene, in modo da poterla riconoscere, ma non aspettare che ti faccia l’occhiolino. Le verità del Vangelo non fanno mai l’occhiolino”[1]. È questo brano del famoso scrittore francese che mi ritorna spesso inmente quando sento parlare o leggo dei teo-con (credenti e conservatori in formato unico) a braccetto con i neo-con(conservatori di ultima produzione), del troppo insistere di alcuni cattolici in materia di aborto, di unioni civili, del ruolo della donna e della famiglia, della loro riscoperta e riproposta di tradizioni cristiane antiche, di Bush e del partito di Dio e via discorrendo.
Il Vangelo ha le sue verità. Per chi ne volesse una sintesi ragionata ed agile, in materia sociale, economica, culturale e politica, basta fare riferimento al recente Compendio[2].
Da che mondo è mondo il magistero ecclesialele approfondisce, ribadisce e propone secondo il suo proprio ministero. Da che mondo è mondo la Chiesa ha degli oppositori, alcuni corretti e altri scorretti; alcuni pacifici e altri violenti; alcuni rispettosi della diversità di opinioni e prassi, altri no; alcuni interessati a stabilire un dialogo per superare la trappola del clericalismo-anticlericalismo, altri no; alcuni disposti a collaborare con la Chiesa in vista del bene di tutto il corpo sociale, altri no.
È questo il problema? Sembra proprio di no. Il punto sembra essere un altro; cioè il riferimento a queste verità nella lotta politica, sia da parte di credenti di lunga data, sia da parte di convertiti dell’ultima ora o neofiti, come dir si voglia. E qui Bernanos c’entra a pieno titolo. Si ha molto spesso l’impressione che il riferimento alle verità evangeliche – indiscutibili e sovrane – sia un modo per strizzare l’occhio a qualcuno, singolo alleato o compagine istituzionale che sia.
Ma le verità evangeliche non strizzano l’occhio.Qualora lo facessero diventerebbero funzionali ad un progetto, ad un partito o schieramento politico, al potente di turno o a chissà chi. Il Vangelo è fine a se stesso, cioè al buon annuncio di un Dio che si incarna e salva coloro che a Lui aderiscono. E sì, le verità evangeliche non si usano, si servono. O, come direbbe un altro grandefrancese, Jacques Maritain,“ciò di cui noi abbiamo bisogno non è un insieme di verità che servono, ma piuttosto di una verità da servire”[3].
Nel servire la Verità, la tradizione della Chiesa insegna molte cose, sia in ordine ai contenuti, sia alle finalità e alle strategie, sia allo stile e alle valutazioni contingenti.
Annunciare e testimoniare il Vangelo in politica è arduo; non so dire se meno o più che altrove, ma certamente comporta una fatica intellettuale, emotiva e (anche) fisica di non poco conto. Lo sanno bene quei tanti cattolici impegnati in politica seriamente e coerentemente, che, pur non apparendo alla ribalta della cronaca, portano comunque un contributo notevole nel far crescere la città di Dio nella città umana.
Per fronteggiare questa fatica è necessario anche un metodo, elaborato dal magistero sociale e conosciuto come metodo del vedere-giudicare-agire[4]. Con esso singoli e comunità cercano, come scriveva Giovanni XXIII, di tradurre in termini di concretezza i principi e le direttive sociali, attraverso tre momenti: rilevazione delle situazioni; valutazione di esse nella luce di quei principi e di quelle direttive; ricerca e determinazione di quello che si può e si deve fare per tradurre quei principi e quelle direttive nelle situazioni, secondo modi e gradi che le stesse situazioni consentono o reclamano”[5].
Applicando questo metodo sempre e comunque, oggi giorno, a mio modesto avviso, vale la pena sottolineare alcuni atteggiamenti, indispensabili quando si vuole servire la verità e non servirsene. Essi sono: la libertà, il rispetto, il dialogo e la scaltrezza.

La libertà

Si dovrebbe dire una libertà da tutto e da tutti: “Cristo ci ha liberati – ammonisce l’Apostolo – perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). E sono schiavitù, in politica come altrove, anche tutte le dipendenze e asservimenti su base economica e/o di potere. Quelle che il Papa definisce la brama esclusiva del profitto e dalla sete del potere. Esse sono da considerare come “azioni e atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo. […]. A ciascuno di questi atteggiamenti si può aggiungere, per caratterizzarli meglio, l’espressione: ‘a qualsiasi prezzo’. In altre parole, siamo di fronte all’assolutizzazione di atteggiamenti umani con tutte le possibili conseguenze”[6]. Sono liberi i teo-con rispetto ai potentati economici che alcune volte finanziano iniziative cattoliche? Sono liberi quei politici che si ritrovano in schieramenti dove il peso economico e le vicende personali dei leader hanno una forte influenza? “Conosco il partito clericale – ancora la penna sferzante di Bernanos–. So quanto sia privo di coraggio e di onore. Non l’ho mai confuso con la Chiesa di Dio. La Chiesa ha la custodia del povero ed il partito clericale è sempre stato soltanto il sornione intermediario del cattivo ricco, l’agente più o meno inconsapevole, maindispensabile, di tutte le simonie”[7].

Il rispetto

Il cattolicesimo non è più né religione di Stato, né religione della maggioranza degli italiani. È una realtà difficile da accettare. Allora più che rimpiangere i tempi passati ci dovremmo interrogare sulle responsabilità personali ed ecclesiali che hanno portato alla scristianizzazione, sulle colpe e sulle mancate testimonianze della comunità cristiana – il Papa lo ha fatto solennemente il 12 marzo 2000 –Non è tempo di nuove crociate. È tempo di imparare ad essere minoranza in un mondo secolarizzato, contraddittorio, che presenta segni positivi e negativi, ed anche ambigui. È tempo di rispettare e accogliere, come dice il Concilio, “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloroche soffrono” perché “sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”[8]. Certo, in politica si devono prendere delle decisioni e queste possono essere immorali, secondo la fede cristiana, ma ciò non toglie il rispetto di chi la pensa diversamente in merito a questioni scottanti dal punto di vista morale, psicologico e sociale. Va anche detto che, nel momento in cui le scelte politiche sono contrarie a quanto ispirato dalla fede, il fedele impegnato è chiamato alla coerenza e ad esprimere la sua obiezione di coscienza. Tuttavia nulla di tutto ciò autorizza a nuove crociate e ad ergere steccati, che non giovano né alla comunità cristiana, né ai singoli fedeli, né alle istituzioni politiche e, quindi, al bene dell’intera collettività.

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[1] G. BERNANOS, Journal d’un curé de campagne, Plon, Paris, 1936; trad. it. Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano, 1965, p. 72.
[2] PONT. CONS. DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE,Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano 2004; con un ricco indice per argomenti.
[3] J. MARITAIN, Distinguer pour unir ou Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Paris, 1932-1959; trad. it. Distinguere per unire. I gradi del sapere,Morcelliana, Brescia, 1974. p 22.
[4] Si vedano CONC. ECUM.VATICANO II, Gaudium et Spes, Roma, 1965, n. 4; PAOLO VI,Octogesima adveniens, Roma, 1971, nn. 4 e 42.; CONGR. EDUCAZIONE CATT.,Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale, Roma, 1988, nn. 7-10; GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo Rei Socialis, Roma, 1987, n. 1; GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus, Roma, 1991, nn. 5, 43, 56-59.
[5] GIOVANNI XXIII, Mater etMagistra, Roma, 1961, n. 217.
[6] GIOVANNI PAOLO II,Sollicitudo rei socialis, Roma, 1987, n. 37.
[7] G. BERNANOS, Scandale de la vérité, Gallimard, Paris, 1939; trad. it. Scandalo della verità,Logos, Roma, 1980, p. 86.
[8] CONC. ECUM. VATICANO II,Gaudium et Spes, Roma, 1965, n. 4.

Introduzione

Il grembiule tra fughe e attivismi

Le verità del Vangelo non fanno mai l’occhiolino

Tangentopoli, legalità e credenti

Cara raccomandazione, cosa non farei per te

Per amore dei poveri non tacerò

Ripartendo dagli ultimi: No profit e dintorni

Dalla parte degli immigrati

Il Papa, la pace e i distinguo

Lo scettro al vaglio

Chiesa, Massoneria e doppie appartenenze

I privilegi e il potere dei segni

Il denaro nel cortile del tempio

Mass media e teste vuote

Voglia di Democrazia Cristiana

Cattolici in bilico tra destra, centro e sinistra

Drammi e dilemmi del voto

Il clero presso lo scettro

Don Tonino conclude

Rocco D’Ambrosio,Il Grembiule e lo Scettro,Ed.La Merdidiana.

Bruno Ridulfo:il sindaco pittore di Corleone.


BRUNO RIDULFO
IL SINDACO PITTORE DELL’AZIONE CATTTOLICA
DA RICORDARE NELLA SETTIMANA DELLA CULTURA
UNA PROPOSTA PER UNA MOSTRA ANTOLOGICA ALLA MEMORA DEL SINDACO E ARTISTA AUTODIDATTA PER BISOGNO E VOCAZIONE

di Ferdinando Russo

La settimana della cultura, promossa nel Paese, aprendo musei e monumenti, spesso chiusi o non visitabili, o pienamente fruibili, stimola ogni realtà o istituzione locale ad una riflessione sui patrimoni artistici nascosti o comunque non ancora divenuti coscienza diffusa delle identita, e del valore delle eredità delle opere lasciate da molti spiriti eletti.
Su costoro non può e non deve cadere l’indifferenza delle comunità.Da qui la proposta per una mostra antologica alla memoria di Bruno Ridulfo, sindaco e artista autodidatta, per bisogno e vocazione.

Ammirevoli in questo senso il Convegno promosso, nelle terre sicane e del Belice a Campofiorito, dal sindaco Giuseppe Sagona e dallo storico A.G.Marchese sul patrimonio storico e identitario delle piccole comunità e la Giornata dedicata a Antonino Ferraro, organizzata a Castelvetrano dal sindaco Pompeo e dall’Assessore Calcara, nel quattrocentesimo anno dalla morte dell’artista e nel quadro delle celebrazioni Ferrariane, proposte da docenti e studiosi delle opere lasciate nel territorio siciliano dalla dinastia dei Ferraro, come è avvenuto a Corleone, per la statuaria religiosa in legno e prossimamente è prevedibile a Burgio, a Caltabellotta, a Mazara, a Trapani .
Ed è proprio la recente manifestazione di Corleone che ci porta, durante la settimana della cultura, a segnalare agli amministratori di questa città ed ai proprietari di sue opere un artista che non va dimenticato: Bruno Ridulfo (1929-1998) .
E’ stato un pittore molto amato dai corleonesi, che ne conservano i quadri, andati sempre a ruba nelle mostre organizzate in Italia ed all’estero, ed il suo ricordo permane nelle istituzioni culturali e tra le associazioni degli emigranti con le mostre a NewJork, in Svizzera e in Germania.
Quando la fama delle sue pitture raggiunse l’estero, negli ultimi anni della sua attività, avvenne che nell’estate di ogni anno arrivavano nella sua abitazione di Corleone i galleristi d’oltre oceano ed acquistavano in blocco tutta la sua produzione.

Era ricercata dagli emigranti del corleonese e non interessava il prezzo d’acquisto.
Più volte gli proposi un’antologica delle sue opere migliori e l’invito a fotografare i quadri che allestiva, ma l’umiltà di certi artisti non ammette l’autoesaltazione e non riuscivo a strappargli che qualche catalogo stampato in fretta, come in fretta percorreva la sua esistenza.
Ridulfo partecipò, da protagonista, negli anni ottanta del secolo scorso, alle Mostre della Cooperativa “Mediterranea Arti”, organizzate a Palermo nella Biblioteca regionale di Casa Professa, a Giuliana nel Castello di Federico II, a Campofiorito, a Corleone, ad Altofonte, e promosse dagli Architetti Vittorio Noto, Pippo Romeo, Angelo Mulone, Giangaspare Russo, Angelo Rocca, Enrico Ortoleva, Francesco Parisi, Salvatore Emmolo, Enza Orestano, Nicola Ribaudo, aiuto sceneggiatore di “Cinema paradiso”, dal maestro Massimo Crivello e da Patricia Falcone ().
Le opere, che Ridulfo ha lasciato sono ora in possesso dei nipoti Cutrone (Antonino e Giuseppe) e Ridulfo, dei suoi numerosi amici, sparsi in ogni parte del mondo e padre Calogero Giovinco, nel suo peregrinare tra gli emigrati, non è detto che non ne recuperi alcune, per la sua ammirevole attività Museologica dell’area sicana e del Belice.
Il comune di Corleone non farebbe torto alla sua tradizione artistica d’essere patria di Giovanni Naso, di Giuseppe Vasi, di Santo Governali, Di Gaetano Ferina e in epoca a noi più recente di Pippo Rizzo (1897-1964) se allestisse,con le istituzioni scolastiche e le associazioni culturali locali, dopo il decennale dalla scomparsa, un mostra alla memoria di Bruno Ridulfo , certamente gradita a quanti hanno avuto la possibilità di acquistare un suo quadro o di averlo avuto in regalo, come spesso capitava, ai suoi amici per battesimi, cresime e matrimoni, per esporlo in una mostra antologica alla memoria.
Solo una tela con il “Cristo crocefisso” conservava nel suo salotto di Corleone, attestato pubblico della sua fervida fede centrata su Cristo e del culto corleonese per “U Signori r’à Catina”.
Ridulfo è stato anche, per un breve periodo, sindaco della brava gente, del popolo, del mondo cattolico del corleonese.
Fu molto stimato,come laico credente, dagli arcivescovi Carpino, Romano, Catarinicchia, Bommarito, Bacile.La sua sindacatura del Comune di Corleone è raccontata da Dino Paternostro nel saggio “L’antimafia sconosciuta-Corleone 1893-1993” e nelle cronache di Città nuove (2).
Apprendiamo che quella passione e scoperta vocazione per la pittura, da autodidatta, forse è una via di fuga, quando il suo impegno nella politica comunale gli tolse la possibilità di avere un reddito minimo.
Gli era stato congelato, per aspettativa non retribuita, lo stipendio d’impiegato al Banco di Sicilia, nella sua città natale.
Il nostro non era fatto per la politica, ma per la riflessione, per l’arte, per la meditazione, per la vita religiosa, per la testimonianza, da laico credente. Per la sua comunità auspicava da sindaco “un riscatto morale e culturale”, negli anni difficili di Corleone.
Mons.Alfonso Bajada, recentemente scomparso. Si dedicava con passione alla formazione dei ragazzi della Gioventu’ cattolica, nella Parrocchia della Chiesa Madre, ma già allora era deciso, volitivo, impegnato nell’apostolato.
In estate partecipava a S.Maria del Bosco alle “Tre Giorni” di studio e preghiera ed ai campi scuola, organizzati dalla GIAC, nei locali del Seminario estivo dell’Archidiocesi.
Vi facevano capolino da assistenti con Mons.Calogero Di Vincenti, decano di Bisacquino, Bajada, Marchisotta, Cuccì, Bommarito, Catarinicchia, Pasquale Bacile e da relatori Emanuele Romano, Giuseppe Petralia, Francesco Carpino e dirigenti locali dell’Azione Cattolica, Li Calsi, Contorno, Lombino, Pioppo, Colletti, Di Giorgio, Lo Grasso, Viola, Clesi.
Apprendevamo le prime nozioni della Dottrina Sociale della Chiesa.
Meditavamo su come costruire nel corleonese città più umane, non violente, pacificate, colte, amanti delle arti e della santità. Nella Corleone del dopoguerra, la guerra interna continuava ed il san Leoluca e Bernardo e tutti gli altri, scolpiti nella statuaria d’Antonino Ferraro e dei suoi emuli, sembrava l’avessero abbandonata.
A Ridulfo erano vicini il giovane prof.Mario Mancuso, compagno delle lunghe passeggiate nel corso, dalla Piazza a San Leoluca, e talvolta Salvatore Mangano, anche lui con la passione per i santi locali ed ancora Leoluca Pollara,autore di un saggio su “L’Addolorata”, Biagio ed Ernesto Governali, le sorelle Patti, Don Domenico Piraino, il maestro Comaianni, il giornalista Nonuccio Anselmo, il prof.Giuseppe Governali.
La Gioventù dell’azione Cattolica di Monreale sarebbe stata diretta dalla operosa, entusiasta guida di Ridulfo .Dopo Ridulfo, dai suoi collaboratori: Rino Terranova, Pino Viola, Piero Terzo, Domenico Cavarretta,(Ficuzza),Ignazio Marretta (Prizzi)e da Salvatore Mangano,(Corleone), già presenti nella GIAC degli anni sessanta e settanta.
I primi anni sessanta ci videro impegnati con Bruno Ridulfo, oltre che nell’Azione Cattolica di Carlo Carretto e Mario Rossi, nelle ACLI di Livio Labor con S.Migliaccio, M.Nuara, N.Alongi, S.Serio, Pippo Vitale, Gaetano e Salvatore Liardo, Totuccio Terranova, Elio Russotto, e cresceva in noi la disponibilità a recuperare, per allargare gli spazi della democrazia, attorno ai valori del cristianesimo, nella politica del paese, quanti apparivano lontani dall’esperienza democratica, a volte, per nostre inettitudini, infingardaggini, inesperienza civica, non eccelse testimonianze, rigidità ideologiche.
Ridulfo, tra noi, è stato un profetico “apripista” nei rapporti della DC con le componenti socialiste di Corleone e dovette dimettersi, per quella scelta, da laico responsabile, da presidente dell’Azione cattolica della diocesi di Monreale.Inventore della lista dei cattolici democratici di Corleone “Rinnovamento cittadino”, era un cattolico molto vicino alla curia arcivescovile di Monreale, scrive un giornalista di valore suo concittadino, (1) che l’aveva voluto presidente diocesano dell’Associazione Cattolica; un uomo irrequieto, che rimase affascinato dal nuovo clima, che si respirava nella Chiesa sotto la guida di Giovanni XXIII>.
“Anticipando ciò che sarebbe avvenuto a livello regionale e nazionale “, si battè per sperimentare a Corleone l’apertura della maggioranza ai socialisti. La sera del 14 maggio ‘61 fu uno dei primi sindaci del centro-sinistra d’Italia, eletto con i voti della DC, del PSI, dell’UCS(i cristiano sociali)e di una Lista civica.<Pur in assenza dei comunisti, che si erano astenuti, ”scrive Dino Paternostro, ”lo scandalo fu grande nel mondo cattolico corleonese, ancora di più, fuori”.
La prima breve esperienza di sindaco si sarebbe conclusa presto. Il 7 Gennaio ‘62 Bruno Ridulfo si presentava dimissionario da consigliere comunale per la forte opposizione di tre esponenti democristiani della Giunta da lui presieduta (Liggio, Lisotta e Verro).
Mi fu vicino nella competizione elettorale nazionale del ‘68, alla mia prima presenza in politica, con Alongi, Migliaccio, Cimino, Cinà, La Greca, Nuara, Orlando, Alessi, Maltese, Zacco, Mangano, Contorno, D’Asaro, Purpura, Maniaci, Montadoni, Clesi, Canzoneri, Caruso, Ribisi, Mocciaro, Messeri, Milazzo, Pollichino, Giaccone, G.Tomasino.
Fummo, sin da allora, simpatizzanti del gruppo politico di Carlo Donat Cattin e di Vittorino Colombo. Organizzatori, sulla scia di Pastore, della corrente delle forze sociali della DC, poi Forze Nuove, in Sicilia con G.Conte, N.Muccioli, E.Primavera, G.Gerbino, G.Sinesio, G.Vitale, E.Russotto, L.Preti, F.Morgante, G.Maniaci, V.Purpura, M.Carlino, D.Alessi, S.Serio, N.Cavallaro.
E per una città più umana (Alongi a Palermo sperimentava, con alcuni giovani aclisti, il movimento Città per l’Uomo), ma Ridulfo era ora assorbito dalla scoperta della nuova vocazione artistica e continuava a dipingere le sue tele, a lanciare messaggi per l’ambiente, per la natura, per l’acqua, tanto necessaria alle campagne, che raccoglieva nei laghi sognati, trasposti nelle tele, ed esposti nelle sale comunali, come speranze di lavoro, di sviluppo e di innovazione in agricoltura.
Era tornato in Banca, dopo l’esperienza d’amministratore comunale e per noi non era più il politico, ma il pittore dei tramonti, dei paesaggi naturali, esplosione di vita, il laico cattolico fervente e generoso, il cantore della vita che muta ad ogni stagione.
Nel suo orizzonte pittorico: I Pini rossi al tramonto per il sole ed il sangue sparso nelle campagne della strada provinciale Palermo Corleone Agrigento, i boschi verdi di Ficuzza, le greggi di Rocca Busambra e di Godrano, (il paese del poeta Giardina, del critico d’arte Carbone, dove avrebbe fatto sosta da Parroco Don Pino Puglisi), il paesaggio nevoso di Chiosi, nelle cui vicinanze insedia un suo laboratorio pittorico, le agavi della Sicilia ambiziosa, superbe della non curanza ed i campi gialli, rossi, azzurri di fiori senza colture ,delle brevi primavere del territorio dei Sicani.
La vita di Ridulfo, da giovanissimo educato nell’azione cattolica, era stata cadenzata dagli studi classici al liceo Guido Baccelli di Corleone (dove insegnavano G.Colletto, V.Mancuso, P.Mondello, G.Spatafora, G.Di Giorgio, ) e poi da quelli universitari presso la Facoltà di Legge di Palermo e quindi dal lavoro presso il Banco di Sicilia.
Lavoro, azione cattolica e poi, come sport intellettuale, quando anche il bisogno lo aiutò a scoprire la vocazione dell’arte pittorica, l’amore per il bello, per i cieli sereni, confusi con il mare, a dare speranza e serenità al lavoro duro e faticoso d’ogni giorno, a quello dei custodi dei greggi, che amava dipingere tra siepi di ginestre fiorite.
Sant’Agostino e San Tommaso i suoi autori preferiti. La sua filosofia, il Creato e la fede nel Creatore, la sua vita l’incontro con il suo prossimo, generoso e dialogante, le sue ferie a visitare
I sacerdoti che gli erano stati vicini ed ora erano pastori in diverse diocesi.
Ammirava a Monreale presso il centro della diocesi che frequentava, gli studi e l’attività del maestro pittore Benedetto Messina, che aveva conosciuto nell’azione cattolica, assieme a Bino Li Calsi, Pino Viola, Franco Mortillaro, Mario Cinà, Ferdinando Russo, Giovanni Labruzzo, Antonio Vaccaro, Pino Giacopelli, Salvatore Mangano, Francesco Riccobono, Rocco Campanella, Ignazio Sgarlata, Nino Mancuso, Domenico Cavarretta, Vincenzo Ciacciofera, e con loro, Greco,Terzo,Terruso, Vaglica, Mortilaro, Sirchia, artisti, poeti, musici, saggi e coraggiosi amministratori.
Apprezzava il maestro Pippo Rizzo, suo compaesano, adoratore della legalità, che racchiudeva e rappresentava nei carabinieri in divisa, il presidio della sicurezza e dell’ordine ed il giovane concittadino Biagio Governali, scultore di valore, che nelle piazze dell’Isola ricordava gli emigranti ed i santi del nostro tempo, ed era presente, senza gelosie, ma con consigli e richiami alle mostre dei giovani artisti corleonesi suoi emuli.
Rivedere in una mostra antologica, nella sua Corleone, una parte delle sue opere, per iniziativa dell’amministrazione di cui è stato un solerte appassionato operatore culturale e politico, sognatore di una nuova primavera e di un progetto di libertà e di partecipazione, faticosamente portato avanti,sarà un invito ad apprezzare e scoprire maggiormente il lavoro dell’artista che c’è in tutti noi, nascosto come, per anni, in Bruno Ridulfo e che può svelarsi nel bisogno, come nell’impegno, di ciascuno un contributo alla scoperta a fare ciò a cui si è vocati.
E quanti sono in possesso di opere dell’artista corleonese potranno farsi promotori e collaboratori di una tale timida proposta.
Terramia può anche in tale occasione partecipare alla settimana della cultura segnalando al Comune di Corleone ed all’associazionismo di detta città quanti tra i lettori hanno conosciuto il laico dell’azione cattolica che visse per l’arte e per l’impegno religioso e sociale.

Ferdinando Russo
onnandorusso@libero.it

1)D.Paternostro,L’antimafia sconosciuta Corleone (1893-1993,Prefazione di Luciano Violante-Editrice la Zisa,1994

2)F.Russo ,Patricia Falcone in http://www.vivienna.it, del 2009.o in http://www.google.it alla voce Patricia Falcone ed in http://www.maik07.wordpress.com

3)G.Cerasa in La repubblica del 6-10-85)

4)D.Paternostro,Città nuove-Corleone-Il giornale on.line della zona del Corleonese

5)F.Russo ,in Benedetto Messina in http://www.google.it ,in http://www.vivienna.it

6)F.Russo , Nelle terre sicane e del Belice alla ricerca di un grande artista in http://www.orizzontisicani.it