“La mafia è contro il Vangelo: non basta la scomunica”.

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L’arcivescovo Vincenzo Bertolone, postulatore del martire anti-clan don Puglisi, riapre la discussione sulla sanzione canonica per i mafiosi

giacomo galleazzi
città del vaticano

“La mafia è contro il Vangelo”. Dopo il monito di papa Francesco ai clan (“offendono gravemente Dio”) nel messaggio del 1° gennaio alla Giornata mondiale della pace, a riaprire con questa intervista a “Vatican Insider” il dibattito sulla scomunica dei mafiosi è l’arcivescovo di Catanzaro, Vincenzo Bertolone (postulatore della causa di beatificazione del martire anti-mafia don Pino Puglisi). Secondo il presule della congregazione Missionari Servi dei Poveri “Boccone del Povero”(S.d.P) ed ex viceministro vaticano degli Istituti di Vita consacrata e delle Società di vita apostolica, prima della pena canonica serve un radicale cambiamento “educativo e pastorale”.

Può essere utile un decreto di scomunica dei mafiosi?
«E’ una questione che va affrontata. Negli ultimi decenni, e in particolare dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha usato sempre meno il provvedimento della scomunica. Non che esso sia scomparso o che la Chiesa abbia scelto la strada del buonismo, ma il popolo dei credenti e i suoi pastori hanno scelto di abbracciare il mondo in un modo diverso, con tutte le sue ombre e le sue luci. Da una Chiesa che si limitava a denunciare il male e associare la pena canonica di riferimento si è passati ad una Chiesa che “esce da se stessa”, che si impegna a creare una nuova coscienza, che sceglie la strada dell’incontro umano e dell’evangelizzazione come risposta al male. Papa Francesco, ultimamente, ci sta esortando ad essere una Chiesa aperta che si sporca e si ferisce le mani per accompagnare l’uomo offrendogli la luce del Vangelo. Ora, nel caso della mafia – e il ministero di padre Puglisi lo dimostra – sono tante le cose che la Chiesa può e deve fare, prima e al di là di una pena canonica. Inoltre poi, mi chiedo: oggi c’è una sensibilità ed una formazione religiosa tale che faccia comprendere la gravità di un tale provvedimento? Detto ciò, restiamo fermi nella condanna assoluta della mafia e di ogni organizzazione in contrasto palese col Vangelo. Resta prioritario invece che la Chiesa prosegua nella sua opera pastorale educativa e preventiva, in un comune sforzo di nuova evangelizzazione che comporta attività pastorale, annuncio biblico, dottrinale ed esercizio di opere di misericordia».

Per i funerali dei mafiosi, si può applicare il modello seguito a Roma per il nazista Priebke, cioè una benedizione privata della salma senza pubbliche esequie?
«Va anzitutto detto che dinanzi al mistero della morte bisogna imparare a far tacere i giudizi umani e restare in rispettoso silenzio. Anche la morte di un criminale o di un mafioso non deve diventare occasione di giudizio. La Chiesa ha sempre creduto e crede che il giudizio ultimo e fondamentale spetti a Dio. Dunque, il funerale non è una benedizione delle opere e della vita del defunto, e con la preghiera la Chiesa lo affida, al di là di tutto, al giudizio misericordioso di Dio Padre. Inoltre, il funerale è un atto comunitario che accompagna i parenti e gli amici del defunto in un momento di dolore. Da questo punto di vista, non dovrebbe essere negato. Si dà però il caso di chi, notoriamente e ostinatamente, ha preso parte pubblicamente e in prima persona, ovvero come mandante, come collaboratore o esecutore consapevole, a crimini efferati, quali furono i massacri dei nazisti e quali sono oggi stragi, assassini, violenze, soprusi ed esecuzioni delle organizzazioni criminali e/o mafiose. Anche in questo caso, la Chiesa non si sostituisce al giudizio di Dio; tuttavia, il funerale di queste persone può essere strumentalizzato trasformandolo da momento di preghiera in occasione di gloria e di manifestazione di potere della mafia stessa, e di qui una indebita legittimazione di cui, anche senza volerlo, ci si può rendere complici e diventare motivo di scandalo per i fedeli . Ora, nel territorio, la Chiesa è tenuta ad essere sempre un segno profetico che chiama le cose per nome e sta dalla parte delle vittime. In considerazione di questo e di altre circostanze pastorali, in occasione di richieste di esequie si valuterà tutto con la dovuta intelligenza e sapienza evangelica».

Il magistrato calabrese Nicola Gratteri ha lanciato un allarme attentati: la ‘ndrangheta potrebbe reagire violentemente all’azione di pulizia di Bergoglio allo Ior, in qualche caso, si sostiene, usato dalla criminalità organizzata per riciclare soldi sporchi. Condivide questa preoccupazione?
«Gratteri, stimato magistrato, ha dati e conoscenze che io non ho e quindi non posso che prendere atto con preoccupazione di quanto da lui affermato. Tuttavia, specie in questi ultimi tempi, la Chiesa è impegnata in un coraggioso rinnovamento di se stessa, delle sue strutture e delle sue azioni di governo. Se Benedetto XVI ha denunciato con coraggio, onestà e sofferenza il male che a volte pervade la stessa istituzione ecclesiastica e i suoi membri attivi, Papa Francesco sta proseguendo energicamente in un processo di cambiamento in direzione della trasparenza, dell’onestà e della sobrietà. Le riforme in atto allo Ior ne sono testimonianza. Tuttavia, lo stesso papa ci ricorda che questa riforma ecclesiale non può avvenire se non con la santità della vita dei suoi membri. La Chiesa, prima che una semplice istituzione terrena, è una comunità vivente: quanto più i suoi membri praticano la radicalità del Vangelo.

La Chiesa di fronte alla criminalità organizzata.

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naro porcasi

Intervista a Don Pino Demasi, parroco di Polistena e referente di Libera

(La Redazione di OLIR.it)

Il primo intervento di condanna alla criminalità organizzata dei vescovi calabresi risale al 1975. Che differenza c’è fra la situazione di ieri e quella di oggi? Perché tornare sull’argomento a distanza di quasi 40 anni?

L’episcopato calabro, forse primo rispetto ad altri episcopati, nel 1975 avvertì l’esigenza di una vera e propria condanna al crimine organizzato, elaborando il documento “L’episcopato calabro contro la mafia,disonorante piaga della società”. Da allora continui sono stati gli interventi di singoli Vescovi e dell’intero episcopato sino all’ultima dichiarazione della sessione primaverile di quest’anno della CEC. E’ stato ed è un cammino tuttora in atto, quello dei Vescovi calabresi, che in un certo qual modo sta andando di pari passo con l’evoluzione del fenomeno ndranghetistico.
Per quanto riguarda la ‘ndrangheta, si è passati, in questi anni, dalla ‘ndrangheta vissuta e percepita solo come organizzazione criminale ad una ‘ndrangheta “liquida” che si infiltra dappertutto e si interfaccia con gli altri sistemi di potere, producendo valori e cultura. Un’organizzazione globalizzata, fatta di famiglie che vivono in tutti gli angoli della terra, capace ormai essa stessa di farsi istituzione.
Gli interventi dei Pastori della Chiesa, dall’altra parte, sono stati innanzitutto di denunzia; man mano che si è andati avanti si è passati dalla semplice denuncia della ‘ndrangheta, come un “cancro”, una zavorra, un triste peso, ad indicazioni pastorali abbastanza puntuali e precise. Interessante il documento del 2007 ”Se non vi convertirete, perirete tut ti allo stesso modo”, dove si mette in evidenza che la ‘ndrangheta è soprattutto un fatto culturale e che per sconfiggerla serve un’azione incisiva che pervada ogni settore della società.
C’è da dire, però, che la ricaduta nella base di questi documenti è stata “timida”. Abbiamo assistito infatti a comportamenti di accondiscendenza nei confronti del fenomeno mafioso, ma anche a fulgidi esempi di contrasto e di grande coraggio e determinazione. E’ mancata però in questi anni una prassi pastorale collettiva e condivisa.

Il documento della Cei del 21 febbraio 2010 “Per un paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno” afferma (paragrafo 9) che le mafie “non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione”.

Come la Chiesa può concretamente educare alla legalità?

Oggi di fronte alla presa di coscienza sempre più diffusa dell’insostenibilità dell’assurdità del costume mafioso, la risposta che la Chiesa è chiamata a dare non può essere quella esclusiva di una denuncia o di una reprimenda. E’ necessario prendere sempre più sul serio il ministero della evangelizzazione e della liberazione affidato alle nostre comunità, partendo dalla presa di coscienza delle nostre responsabilità.
Com’è possibile, infatti, che terre come la Calabria, dove esiste ancora una fortissima presenza della Chiesa, dove la partecipazione popolare alle funzioni ecclesiastiche, alle processioni, alle messe, all’ora di religione è ancora fortissima rispetto ad altri territori, com’è poss ibile che una presenza così forte possa coesistere con uno dei fenomeni più violenti, più crudeli, più illegali, più contrari al bene comune, come quello della ‘ndrangheta?
E poi come abbiamo potuto permettere alle varie associazioni o famiglie mafiose di utilizzare nei loro codici d’onore il linguaggio e i simboli religiosi? O come abbiamo potuto permettere agli uomini di ‘ndrangheta di utilizzare la religiosità popolare e in particolare le sue feste come momento per trovare legittimazione sociale e spesso anche per sancire vincoli, formalizzare spartizioni, stabilire gerarchie, decretare ed eseguire sentenze mafiose? Gli stessi riti religiosi, in alcune situazioni, sono stati oggetto di manipolazione. Attraverso di essi è avvenuto lo sfoggio del potere mafioso.
Ecco questo è lo scandalo da cui dobbiamo partire, per costruire un modello ecclesiologico ed una conseguente prassi pastorale.
Nel documento Chiesa Italiana e Mezzogiorno i Vescovi italiani hanno affermato: «rivendichiamo alla dimensione educativa, umana e religiosa, un ruolo primario nella crescita del Mezzogiorno: uno sviluppo autentico ed integrale ha nell’educazione le sue fondamenta più solide, perché assicura il senso di responsabilità e l’efficacia dell’agire, cioè i requisiti essenziali del gusto e della capacità di intrapresa. I veri attori dello sviluppo non sono i mezzi economici, ma le persone» .
Le Chiese del Sud sono chiamate in questo campo a dare il loro essenziale contributo, con la loro pastorale ordinaria, trasformata in profondità, puntando soprattutto ad un nuovo protagonismo dei laici. Laici maturi, impegnati e responsabili, protagonisti del cambiamento.
Occorre, allora, restituire le comunità cristiane a uno stile pastorale evangelico superando un male atavico delle nostre parrocchie: il dualismo sa cro-profano, secondo il quale quando il fedele varca la soglia del tempio, la sfera della sua vita professionale, familiare, sessuale, civile, ecc., viene lasciata dietro le spalle e diventa importante solo in quanto lettore, catechista, accolito, ministro straordinario dell’eucaristia. Si spoglia della sua veste tra virgolette profana e acquista quella di cristiano. Quando il fedele varca in senso inverso la soglia del tempio ritorna ad essere il professionista di trecento euro a visita, l’amministratore che chiede il pizzo per poter fare andare avanti una pratica o che la fa andare avanti solo per gli amici suoi, il professore svogliato che arriva sempre tardi a scuola, il padre nervoso e distratto che se ne sta tutto il giorno fuori, insomma dentro il tempio siamo nel sacro e ci salviamo l’anima, fuori dimentichiamo di essere membri di una comunità cristiana.
Nel documento Educare alla legalit&a grave; del 1991 l’indicazione che vi è fornita appare chiarissima: «Il cristiano non può accontentarsi di enunciare l’ideale e di affermare i principi generali. Deve entrare nella storia ed affrontarla nella sua complessità, promuovendo tutte le realizzazioni possibili dei valori evangelici e umani della libertà e della giustizia».
Concetti netti, che saldano l’etica dei princìpi e l’etica della responsabilità, la dimensione spirituale con l’impegno civile, e richiamano chi si professa credente ad una coerenza che non ammette intervalli, né accomodamenti.

Basta invitare chi sbaglia al pentimento o bisogna pensare anche a delle sanzioni canoniche come ha fatto, ad esempio, il Vescovo di Acireale che ha emanato un decreto circa la Privazione delle esequie ecclesiastiche per chi è stato condannato per reati di mafia (20 giugno 2013)?

Fermo restando che la conversione per tutti i cristiani passa attraverso un reale pentimento e ravvedimento e che quindi la strada da seguire è quella indicata da Zaccheo “Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho defraudato qualcuno di qualcosa, gli restituirò quattro volte tanto” (Lc. 19,8), io personalmente mi trovo d’accordo con il Vescovo di Acireale sulla necessità di qualche sanzione quando ci troviamo in situazioni in cui manca con chiarezza il ravvedimento ed il pentimento.
E’ un modo questo per superare quel dualismo sacro- profano di cui parlavo prima e per affermare con fermezza e senza tentennamenti che la mafia è una struttura di peccato e che vivere da cristiani è un non vivere da mafiosi, rifiutarsi e sempre più potersi rifiutare di vivere da mafiosi.
Non a caso, Il decreto di Mons. Raspanti si apre c on una citazione dettata da San Giovanni Paolo II nella storica visita alla Valle dei Templi di Agrigento il 9 maggio 1993: “La fede […] esige non solo un’intima adesione personale, ma anche una coraggiosa testimonianza esteriore, che si esprime in una convinta condanna del male. Essa esige qui, nella vostra terra, una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile”.

Che lei sappia solo la Chiesa calabrese è impegnata nella lotta alla criminalità organizzata oppure questa lotta vede impegnate anche altre conferenze episcopali regionali?

Il cammino di consapevolezza della pericolosità delle mafie e quindi la conseguente ricerca di una pastorale adeguata ha visto in questi ultimi decenni come protagoniste non solo le Chiese di Calabria, ma anche le Chiese del resto del Paese e soprattutto di quelle aree maggiormente interessate al fenomeno mafioso. Le linee direttive dei vari episcopati regionali, dell’episcopato italiano e dei Sommi Pontefici non ammettono ormai più passi e ritorni indietro.
Molto di nuovo anche in questo campo sta nascendo nella Chiesa. L’ascolto del popolo, del suo malessere, della sua soggezione, l’ascolto del grido degli onesti e degli indifesi che reclamano il bisogno di dignità umana e di reale libertà sta scuotendo ormai tutte le chiese, incoraggiate anche da Papa Francesco.
E’ certamente il tempo della speranza, intesa non come un’attesa fatalistica di cambiamento, un appigliarci all’eventualità che accada qualcosa in grado di scacciare, come per incanto, paure e incertezze. E’ Il tempo di quella speranza che ha il volto dell’impegno, del mettersi in marcia (in latino la parola speranza, spes, richiama del resto il termine pes, piede) di quella speranza, stretta parente del realismo, che risveglia il desiderio di reagire, di rialzare la testa.

fiorita_mafiem