I vescovi calabresi: “La ‘ndrangheta non è cristiana”.

vescovi-600x310

“Testimoniare la verità del Vangelo” è la nuova nota pastorale diffusa dalla Conferenza episcopale della Calabria

(ANSA) – REGGIO CALABRIA, 2 GEN – La ‘ndrangheta “è contro la vita dell’uomo e la sua terra. E’, in tutta evidenza, opera del male e del Maligno”. Così si esprime la Conferenza episcopale della Calabria in una pastorale sulla ‘ndrangheta “Testimoniare la verità del Vangelo”. “La ‘ndrangheta non ha nulla – scrivono i vescovi – di cristiano. Attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule che scimmiottano il sacro, si pone come una forma di religiosità capovolta, sacralità atea e negazione dell’unico vero Dio. “La ‘ndrangheta – scrivono ancora i vescovi nella pastorale presentata stamani a Reggio Calabria dal presidente e dal vice presidente della Cec, mons. Salvatore Nunnari e mons. Francesco Milito – è un’organizzazione criminale fra le più pericolose e violente. Essa si poggia su legami familiari, che rendono più solidi sia l’omertà, sia i veli di copertura. Utilizzando vincoli di sangue, o costruiti attraverso una religiosità deviata, nonché lo stesso linguaggio di atti sacramentali (si pensi alla figura dei ‘padrini’), i boss cercano di garantirsi obbedienza, coperture e fedeltà. Lì dove attecchisce e prospera svolge un profondo condizionamento della vita sociale, politica e imprenditoriale nella nostra terra”.
“Con la forza del denaro e delle armi – sostengono ancora i vescovi calabresi – esercita il suo potere e, come una piovra, stende i suoi tentacoli dove può, con affari illeciti, riciclando denaro, schiavizzando le persone e ritagliandosi spazi di potere. E’ l’antistato, con le sue forme di dipendenza, che essa crea nei paesi e nelle città. È l’anti-religione, insomma, con i suoi simbolismi e i suoi atteggiamenti utilizzati al fine di guadagnare consenso. È una struttura pubblica di peccato, perché stritola i suoi figli”. “L’appartenenza ad ogni forma di criminalità organizzata – è scritto nella pastorale – non è titolo di vanto o di forza, ma titolo di disonore e di debolezza, oltre che di offesa esplicita alla religione cristiana. L’incompatibilità non è solo con la vita religiosa, ma con l’essere umano in generale. La ‘ndrangheta è una struttura di peccato che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale”.
“La Calabria – sostengono ancora i Vescovi – è una terra meravigliosa, ricca di uomini e donne dal cuore aperto ed accogliente, capaci di grandi sacrifici. D’altra parte, però, la disoccupazione, la corruzione diffusa, una politica che tante volte sembra completamente distante dai veri bisogni della gente, sono tra i mali più frequenti di questa nostra terra, segnata, anche per questo, dalla triste presenza della criminalità organizzata, che le fa pagare un prezzo durissimo in termini di sviluppo economico, di crisi della speranza e di prospettive per il futuro”. (ANSA)
Nota-Pastorale-sulla-’ndrangheta

“L’Eucarestia mafiosa”.

eucarisitia-mafia

Cos’hanno in comune le organizzazioni criminali e la Chiesa di Roma? Com’è possibile che proprio nelle quattro regioni più devote di Italia – Sicilia, Calabria, Puglia e Campania – siano nati questi fenomeni criminali così feroci?
L’eucaristia mafiosa – La voce dei preti, opera prima di Salvo Ognibene, affronta il controverso rapporto tra mafia e Chiesa cattolica, una storia che va dal dopoguerra ai giorni nostri. Una storia di silenzi e di mancate condanne che dura da decenni e che è stata interrotta da rari moniti di alti prelati, dall’impegno di pochi ecclesiastici e da alcune morti tristemente illustri come padre Pino Puglisi e don Peppe Diana.
La riflessione prende il via dal tema della ritualità come manifestazione di potere: la processione come compiacenza; l’affiliazione come nuova religione; uomini che indossano la divisa di Dio per esercitare il loro potere in terra. Uomini di morte e di pistola con i santi sulla spalla. La fede di Provenzano nel libro di Dio, la Bibbia, ma anche l’ateismo di Matteo Messina Denaro. Le due facce della mafia nello scontro con i mezzi di Dio. Pur percorrendo la linea già segnata da due grandi studiosi come Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, L’eucaristia mafiosa – La voce dei preti si presenta con un taglio diverso: non si basa su strutture, non dialoga con i sistemi, ma indaga la realtà di prima mano, interroga i protagonisti di questo dualismo e cattura le ‘voci’, gli esempi concreti del presente per rivalutare la missione e la posizione della Chiesa di oggi. Le voci dei religiosi-testimoni all’interno del libro ripercorrono tutta l’Italia: Monsignor Pennisi; Don Giacomo Ribaudo; Monsignor Silvagni; Don Giacomo Panizza; Don Pino Strangio, Suor Carolina Iavazzo. Preti e suore che hanno preso posizione e hanno fatto del Cattolicesimo, ognuno a modo proprio, uno strumento di lotta alle mafie.
In una nazione in cui l’azione cattolica è ancora fortemente coinvolta nel tessuto politico e sociale, questo lavoro si pone come strumento essenziale di ‘pratica civile’ e di informazione sull’uso della liturgia della fede come strumento di propaganda mafiosa.
Maggiori informazioni nel sito http://www.eucaristiamafiosa.it/

________________________________________
Indice

Prefazione

1. Storia dei rapporti tra Chiesa, mafia e religione
2. Il Dio dei mafiosi
3. La Chiesa tra peccato, ritardi e giustizia
4. Il Vangelo contro la lupara
5. La voce dei preti
6. Biografie

Salvo Ognibene,
L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti

Navarra Editore, Marsala (TP)
Categoria: Saggistica
Anno: 2014
Pagine: 144
Prezzo: 12,00 €
ISBN: 978-88-98865-11-6
Formato: 14×21

“La mafia è contro il Vangelo: non basta la scomunica”.

P

L’arcivescovo Vincenzo Bertolone, postulatore del martire anti-clan don Puglisi, riapre la discussione sulla sanzione canonica per i mafiosi

giacomo galleazzi
città del vaticano

“La mafia è contro il Vangelo”. Dopo il monito di papa Francesco ai clan (“offendono gravemente Dio”) nel messaggio del 1° gennaio alla Giornata mondiale della pace, a riaprire con questa intervista a “Vatican Insider” il dibattito sulla scomunica dei mafiosi è l’arcivescovo di Catanzaro, Vincenzo Bertolone (postulatore della causa di beatificazione del martire anti-mafia don Pino Puglisi). Secondo il presule della congregazione Missionari Servi dei Poveri “Boccone del Povero”(S.d.P) ed ex viceministro vaticano degli Istituti di Vita consacrata e delle Società di vita apostolica, prima della pena canonica serve un radicale cambiamento “educativo e pastorale”.

Può essere utile un decreto di scomunica dei mafiosi?
«E’ una questione che va affrontata. Negli ultimi decenni, e in particolare dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha usato sempre meno il provvedimento della scomunica. Non che esso sia scomparso o che la Chiesa abbia scelto la strada del buonismo, ma il popolo dei credenti e i suoi pastori hanno scelto di abbracciare il mondo in un modo diverso, con tutte le sue ombre e le sue luci. Da una Chiesa che si limitava a denunciare il male e associare la pena canonica di riferimento si è passati ad una Chiesa che “esce da se stessa”, che si impegna a creare una nuova coscienza, che sceglie la strada dell’incontro umano e dell’evangelizzazione come risposta al male. Papa Francesco, ultimamente, ci sta esortando ad essere una Chiesa aperta che si sporca e si ferisce le mani per accompagnare l’uomo offrendogli la luce del Vangelo. Ora, nel caso della mafia – e il ministero di padre Puglisi lo dimostra – sono tante le cose che la Chiesa può e deve fare, prima e al di là di una pena canonica. Inoltre poi, mi chiedo: oggi c’è una sensibilità ed una formazione religiosa tale che faccia comprendere la gravità di un tale provvedimento? Detto ciò, restiamo fermi nella condanna assoluta della mafia e di ogni organizzazione in contrasto palese col Vangelo. Resta prioritario invece che la Chiesa prosegua nella sua opera pastorale educativa e preventiva, in un comune sforzo di nuova evangelizzazione che comporta attività pastorale, annuncio biblico, dottrinale ed esercizio di opere di misericordia».

Per i funerali dei mafiosi, si può applicare il modello seguito a Roma per il nazista Priebke, cioè una benedizione privata della salma senza pubbliche esequie?
«Va anzitutto detto che dinanzi al mistero della morte bisogna imparare a far tacere i giudizi umani e restare in rispettoso silenzio. Anche la morte di un criminale o di un mafioso non deve diventare occasione di giudizio. La Chiesa ha sempre creduto e crede che il giudizio ultimo e fondamentale spetti a Dio. Dunque, il funerale non è una benedizione delle opere e della vita del defunto, e con la preghiera la Chiesa lo affida, al di là di tutto, al giudizio misericordioso di Dio Padre. Inoltre, il funerale è un atto comunitario che accompagna i parenti e gli amici del defunto in un momento di dolore. Da questo punto di vista, non dovrebbe essere negato. Si dà però il caso di chi, notoriamente e ostinatamente, ha preso parte pubblicamente e in prima persona, ovvero come mandante, come collaboratore o esecutore consapevole, a crimini efferati, quali furono i massacri dei nazisti e quali sono oggi stragi, assassini, violenze, soprusi ed esecuzioni delle organizzazioni criminali e/o mafiose. Anche in questo caso, la Chiesa non si sostituisce al giudizio di Dio; tuttavia, il funerale di queste persone può essere strumentalizzato trasformandolo da momento di preghiera in occasione di gloria e di manifestazione di potere della mafia stessa, e di qui una indebita legittimazione di cui, anche senza volerlo, ci si può rendere complici e diventare motivo di scandalo per i fedeli . Ora, nel territorio, la Chiesa è tenuta ad essere sempre un segno profetico che chiama le cose per nome e sta dalla parte delle vittime. In considerazione di questo e di altre circostanze pastorali, in occasione di richieste di esequie si valuterà tutto con la dovuta intelligenza e sapienza evangelica».

Il magistrato calabrese Nicola Gratteri ha lanciato un allarme attentati: la ‘ndrangheta potrebbe reagire violentemente all’azione di pulizia di Bergoglio allo Ior, in qualche caso, si sostiene, usato dalla criminalità organizzata per riciclare soldi sporchi. Condivide questa preoccupazione?
«Gratteri, stimato magistrato, ha dati e conoscenze che io non ho e quindi non posso che prendere atto con preoccupazione di quanto da lui affermato. Tuttavia, specie in questi ultimi tempi, la Chiesa è impegnata in un coraggioso rinnovamento di se stessa, delle sue strutture e delle sue azioni di governo. Se Benedetto XVI ha denunciato con coraggio, onestà e sofferenza il male che a volte pervade la stessa istituzione ecclesiastica e i suoi membri attivi, Papa Francesco sta proseguendo energicamente in un processo di cambiamento in direzione della trasparenza, dell’onestà e della sobrietà. Le riforme in atto allo Ior ne sono testimonianza. Tuttavia, lo stesso papa ci ricorda che questa riforma ecclesiale non può avvenire se non con la santità della vita dei suoi membri. La Chiesa, prima che una semplice istituzione terrena, è una comunità vivente: quanto più i suoi membri praticano la radicalità del Vangelo.

La Chiesa di fronte alla criminalità organizzata.

P

naro porcasi

Intervista a Don Pino Demasi, parroco di Polistena e referente di Libera

(La Redazione di OLIR.it)

Il primo intervento di condanna alla criminalità organizzata dei vescovi calabresi risale al 1975. Che differenza c’è fra la situazione di ieri e quella di oggi? Perché tornare sull’argomento a distanza di quasi 40 anni?

L’episcopato calabro, forse primo rispetto ad altri episcopati, nel 1975 avvertì l’esigenza di una vera e propria condanna al crimine organizzato, elaborando il documento “L’episcopato calabro contro la mafia,disonorante piaga della società”. Da allora continui sono stati gli interventi di singoli Vescovi e dell’intero episcopato sino all’ultima dichiarazione della sessione primaverile di quest’anno della CEC. E’ stato ed è un cammino tuttora in atto, quello dei Vescovi calabresi, che in un certo qual modo sta andando di pari passo con l’evoluzione del fenomeno ndranghetistico.
Per quanto riguarda la ‘ndrangheta, si è passati, in questi anni, dalla ‘ndrangheta vissuta e percepita solo come organizzazione criminale ad una ‘ndrangheta “liquida” che si infiltra dappertutto e si interfaccia con gli altri sistemi di potere, producendo valori e cultura. Un’organizzazione globalizzata, fatta di famiglie che vivono in tutti gli angoli della terra, capace ormai essa stessa di farsi istituzione.
Gli interventi dei Pastori della Chiesa, dall’altra parte, sono stati innanzitutto di denunzia; man mano che si è andati avanti si è passati dalla semplice denuncia della ‘ndrangheta, come un “cancro”, una zavorra, un triste peso, ad indicazioni pastorali abbastanza puntuali e precise. Interessante il documento del 2007 ”Se non vi convertirete, perirete tut ti allo stesso modo”, dove si mette in evidenza che la ‘ndrangheta è soprattutto un fatto culturale e che per sconfiggerla serve un’azione incisiva che pervada ogni settore della società.
C’è da dire, però, che la ricaduta nella base di questi documenti è stata “timida”. Abbiamo assistito infatti a comportamenti di accondiscendenza nei confronti del fenomeno mafioso, ma anche a fulgidi esempi di contrasto e di grande coraggio e determinazione. E’ mancata però in questi anni una prassi pastorale collettiva e condivisa.

Il documento della Cei del 21 febbraio 2010 “Per un paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno” afferma (paragrafo 9) che le mafie “non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione”.

Come la Chiesa può concretamente educare alla legalità?

Oggi di fronte alla presa di coscienza sempre più diffusa dell’insostenibilità dell’assurdità del costume mafioso, la risposta che la Chiesa è chiamata a dare non può essere quella esclusiva di una denuncia o di una reprimenda. E’ necessario prendere sempre più sul serio il ministero della evangelizzazione e della liberazione affidato alle nostre comunità, partendo dalla presa di coscienza delle nostre responsabilità.
Com’è possibile, infatti, che terre come la Calabria, dove esiste ancora una fortissima presenza della Chiesa, dove la partecipazione popolare alle funzioni ecclesiastiche, alle processioni, alle messe, all’ora di religione è ancora fortissima rispetto ad altri territori, com’è poss ibile che una presenza così forte possa coesistere con uno dei fenomeni più violenti, più crudeli, più illegali, più contrari al bene comune, come quello della ‘ndrangheta?
E poi come abbiamo potuto permettere alle varie associazioni o famiglie mafiose di utilizzare nei loro codici d’onore il linguaggio e i simboli religiosi? O come abbiamo potuto permettere agli uomini di ‘ndrangheta di utilizzare la religiosità popolare e in particolare le sue feste come momento per trovare legittimazione sociale e spesso anche per sancire vincoli, formalizzare spartizioni, stabilire gerarchie, decretare ed eseguire sentenze mafiose? Gli stessi riti religiosi, in alcune situazioni, sono stati oggetto di manipolazione. Attraverso di essi è avvenuto lo sfoggio del potere mafioso.
Ecco questo è lo scandalo da cui dobbiamo partire, per costruire un modello ecclesiologico ed una conseguente prassi pastorale.
Nel documento Chiesa Italiana e Mezzogiorno i Vescovi italiani hanno affermato: «rivendichiamo alla dimensione educativa, umana e religiosa, un ruolo primario nella crescita del Mezzogiorno: uno sviluppo autentico ed integrale ha nell’educazione le sue fondamenta più solide, perché assicura il senso di responsabilità e l’efficacia dell’agire, cioè i requisiti essenziali del gusto e della capacità di intrapresa. I veri attori dello sviluppo non sono i mezzi economici, ma le persone» .
Le Chiese del Sud sono chiamate in questo campo a dare il loro essenziale contributo, con la loro pastorale ordinaria, trasformata in profondità, puntando soprattutto ad un nuovo protagonismo dei laici. Laici maturi, impegnati e responsabili, protagonisti del cambiamento.
Occorre, allora, restituire le comunità cristiane a uno stile pastorale evangelico superando un male atavico delle nostre parrocchie: il dualismo sa cro-profano, secondo il quale quando il fedele varca la soglia del tempio, la sfera della sua vita professionale, familiare, sessuale, civile, ecc., viene lasciata dietro le spalle e diventa importante solo in quanto lettore, catechista, accolito, ministro straordinario dell’eucaristia. Si spoglia della sua veste tra virgolette profana e acquista quella di cristiano. Quando il fedele varca in senso inverso la soglia del tempio ritorna ad essere il professionista di trecento euro a visita, l’amministratore che chiede il pizzo per poter fare andare avanti una pratica o che la fa andare avanti solo per gli amici suoi, il professore svogliato che arriva sempre tardi a scuola, il padre nervoso e distratto che se ne sta tutto il giorno fuori, insomma dentro il tempio siamo nel sacro e ci salviamo l’anima, fuori dimentichiamo di essere membri di una comunità cristiana.
Nel documento Educare alla legalit&a grave; del 1991 l’indicazione che vi è fornita appare chiarissima: «Il cristiano non può accontentarsi di enunciare l’ideale e di affermare i principi generali. Deve entrare nella storia ed affrontarla nella sua complessità, promuovendo tutte le realizzazioni possibili dei valori evangelici e umani della libertà e della giustizia».
Concetti netti, che saldano l’etica dei princìpi e l’etica della responsabilità, la dimensione spirituale con l’impegno civile, e richiamano chi si professa credente ad una coerenza che non ammette intervalli, né accomodamenti.

Basta invitare chi sbaglia al pentimento o bisogna pensare anche a delle sanzioni canoniche come ha fatto, ad esempio, il Vescovo di Acireale che ha emanato un decreto circa la Privazione delle esequie ecclesiastiche per chi è stato condannato per reati di mafia (20 giugno 2013)?

Fermo restando che la conversione per tutti i cristiani passa attraverso un reale pentimento e ravvedimento e che quindi la strada da seguire è quella indicata da Zaccheo “Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho defraudato qualcuno di qualcosa, gli restituirò quattro volte tanto” (Lc. 19,8), io personalmente mi trovo d’accordo con il Vescovo di Acireale sulla necessità di qualche sanzione quando ci troviamo in situazioni in cui manca con chiarezza il ravvedimento ed il pentimento.
E’ un modo questo per superare quel dualismo sacro- profano di cui parlavo prima e per affermare con fermezza e senza tentennamenti che la mafia è una struttura di peccato e che vivere da cristiani è un non vivere da mafiosi, rifiutarsi e sempre più potersi rifiutare di vivere da mafiosi.
Non a caso, Il decreto di Mons. Raspanti si apre c on una citazione dettata da San Giovanni Paolo II nella storica visita alla Valle dei Templi di Agrigento il 9 maggio 1993: “La fede […] esige non solo un’intima adesione personale, ma anche una coraggiosa testimonianza esteriore, che si esprime in una convinta condanna del male. Essa esige qui, nella vostra terra, una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile”.

Che lei sappia solo la Chiesa calabrese è impegnata nella lotta alla criminalità organizzata oppure questa lotta vede impegnate anche altre conferenze episcopali regionali?

Il cammino di consapevolezza della pericolosità delle mafie e quindi la conseguente ricerca di una pastorale adeguata ha visto in questi ultimi decenni come protagoniste non solo le Chiese di Calabria, ma anche le Chiese del resto del Paese e soprattutto di quelle aree maggiormente interessate al fenomeno mafioso. Le linee direttive dei vari episcopati regionali, dell’episcopato italiano e dei Sommi Pontefici non ammettono ormai più passi e ritorni indietro.
Molto di nuovo anche in questo campo sta nascendo nella Chiesa. L’ascolto del popolo, del suo malessere, della sua soggezione, l’ascolto del grido degli onesti e degli indifesi che reclamano il bisogno di dignità umana e di reale libertà sta scuotendo ormai tutte le chiese, incoraggiate anche da Papa Francesco.
E’ certamente il tempo della speranza, intesa non come un’attesa fatalistica di cambiamento, un appigliarci all’eventualità che accada qualcosa in grado di scacciare, come per incanto, paure e incertezze. E’ Il tempo di quella speranza che ha il volto dell’impegno, del mettersi in marcia (in latino la parola speranza, spes, richiama del resto il termine pes, piede) di quella speranza, stretta parente del realismo, che risveglia il desiderio di reagire, di rialzare la testa.

fiorita_mafiem

I PRETI E I MAFIOSI.STORIA DEI RAPPORTI TRA MAFIE E CHIESA CATTOLICA.


Il 2 Luglio del 1960,veniva ordinato sacerdote, dall’allora Arcivescovo di Palermo,Cardinale Ernesto Ruffini,don Pino Puglisi.Oggi compirebbe 50 anni di sacerdozio se la mano armata di Salvatore Grigoli non avesse fermato,barbaramente,la sua vita terrena il 15 settembre del 1993.L’omicidio Puglisi ha scosso fortemente le coscienze non fosse altro perché la mafia alzava il tiro contro la Chiesa. Lo stesso delitto Puglisi non può non essere letto come un giudizio di Dio sulla chiesa palermitana in primis e sulle chiese del sud Italia in relazione proprio al lungo legame tra la Chiesa,parte della gerarchia e la mafia. Proprio a questo argomento è dedicata l’ultima fatica editoriale del Prof. On.Isaia Sales dal titolo:”I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e chiesa cattolica”.L’interessante ed avvincente volume affronta il tema delle responsabilità della chiesa cattolica nell’affermazione delle organizzazioni mafiose,esaminando l’apporto culturale che direttamente o indirettamente la dottrina della Chiesa ha fornito al loro apparato ideologico. Come spiegare il fatto,si chiede l’autore,che in quattro “cattolicissime”regioni meridionali si siano sviluppate alcune delle organizzazioni criminali più spietate e potenti al mondo?Come spiegare che la maggioranza degli affiliati a queste organizzazioni criminali, con la patente di spietati assassini, si dichiarino cattolici osservanti?Che rapporto c’è tra cultura mafiosa e quella cattolica?Perchè questo rapporto non è mai stato indagato in sede storica e,invece, è stato sempre smentito o sottovalutato?Fino a pochi anni fa la Chiesa ha taciuto sulle mafie e non le ha mai considerate nemici ideologici. Personaggi come Don Ciro Vittozzi,Don Stilo,Don Agostino Coppola,Fra Giacinto sono stati fortemente collusi con essa. E ancora l’attentato a Mons.Peruzzo,l’eremo di Tagliavia,il santuario di Polsi,i frati di Mazzarino:luoghi ed ecclesiastici avvezzi a complicità e compiacenze. Dopo l’assassinio di Don Puglisi il silenzio è stato,in parte,interrotto. Il volume parla di tutto questo senza intenti scandalistici nella forte convinzione dell’autore che senza il sostegno culturale della Chiesa le mafie non si sarebbero potute radicare così profondamente nel sud del paese. Il successo delle organizzazioni mafiose rappresenta un insuccesso della Chiesa cattolica,ma,al tempo stesso,senza una Chiesa realmente e cristianamente antimafiosa la lotta per la sconfitta definitiva delle mafie sarà ancora lunga.Don Pino Puglisi,sacerdote secondo il cuore di Dio e della Chiesa,ha aperto la strada per un cammino di vera conversione e di rescissione dei legami tra Chiesa e mafie:quanti sono disposti a seguirne l’esempio?

Isaia Sales,I PRETI E I MAFIOSI.STORIA DEI RAPPORTI TRA MAFIE E CHIESA CATTOLICA.Saggi B.C.Dalai editore,pp.367.2010.

Santa Mafia…..


di Petra Reski

Definire la mafia “santa” è una chiara provocazione poiché essa non lo è stata,non lo è e non lo sarà mai. Anzi,la mafia è ciò che di più anticristiano,oltre che disumano,possa esistere. Non uccidere,sta scritto nel decalogo consegnato da Dio a Mosè!Eppure i rapporti tra Chiesa e mafia,nel mezzogiorno d’Italia hanno seguito tre momenti:
1-quello del silenzio;
2-quello della denuncia con le parole della società civile;
3-quello della denuncia elaborando un discorso cristiano di resistenza alla mafia;.
Circa il primo ,il silenzio della Chiesa non fù di stampo connivente,ma perfettamente adeguato a quello della società civile che sottovalutava il fenomeno mafioso poiché esso era radicalmente sommerso. E’ il caso della famosa definizione che il cardinale di Palermo,Ernesto Ruffini,diede della mafia rispondendo ad una domanda di un giornalista:”che cos’è una marca di detersivo?”disse Ruffini. Proveniente da Mantova,arcivescovo di Palermo dal 1945 al 1967,si trovò ad esercitare il suo ministero di vescovo e di cardinale in un periodo storico,quello del dopoguerra, in cui la mafia si stava trasformando da “agraria” a “cittadina”.Da li a poco,i corleonesi avrebbero iniziato la loro discesa su Palermo,concentrando la loro attenzione sugli appalti pubblici e sul cemento. Il “sacco” di Palermo,con i vari Vito Ciancimino,Salvo Lima,l’on.Gioia e tanti altri politici compiacenti,tutti pupi nelle mani dei corleonesi, ne è,ancora oggi, una prova provata.
Il secondo fù quello degli anni ’80 e ’90,nei quali la mafia al cemento unì il lucroso traffico della droga e gli omicidi eccellenti. Fù allora che il cardinale Salvatore Pappalardo incominciò a gridare contro di essa ma con le parole stesse della società civile. Famosa la sua omelia per i funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in cui paragonò Palermo a Sagunto: “delenda est”.Bisognerà aspettare ancora un po’ perché la coscienza ecclesiale maturasse una sua riflessione propria sul fenomeno mafioso,inteso come struttura di peccato e,dunque,da combattere con le categorie evangeliche:conversione e santità di vita.
Il terzo momento ebbe inizio con il grido storico di Giovanni Paolo II nella valle dei templi di Agrigento,nel maggio del 1992,”mafiosi convertitevi,un giorno verrà il giudizio di Dio”.La risposta della mafia non si fece attendere,nel settembre dello stesso anno fu ucciso,a Palermo, don Pino Puglisi,parroco di Brancaccio,non perché prete antimafia,ma perché,semplicemente prete.
Gli studi sulla “religiosità”dei mafiosi non si contano:dai riti di iniziazione con il bruciare le immagini sacre,all’uso della Bibbia di Bernardo Provenzano.Finalmente,però,anche da queste parti,la chiesa prende le distanze dai mafiosi e dai loro crimini efferati.Molta strada è ancora da fare…..

Il libro di Petra Reski, da vent’anni corrispondente in Italia per la stampa tedesca, è un lungo viaggio di ritorno da Palermo a Duisburg. La ricostruzione di un mosaico di luoghi, persone e vicende che parte dalla Sicilia e sale seguendo le rotte della criminalità:
Calabria, Campania, su fino al ricco nord-est. E poi ancora oltralpe, nella sua Germania, terra di elezione della mafia, dove non esiste il reato di associazione mafiosa e non sono ammessi l’uso intensivo delle intercettazioni e la confisca dei beni.
Nell’edizione originale il libro è uscito censurato per volontà dell’autorità giudiziaria tedesca, intervenuta su richiesta di alcuni personaggi i cui nomi sono ben noti perché figurano nelle informative di polizia (sia italiane che tedesche), nei documenti giudiziari, in numerosi resoconti giornalistici. Tuttavia, di loro non si può parlare in un libro; la gente deve continuare a ignorare il problema. L’edizione italiana poteva scegliere di eliminare semplicemente queste parti del testo; invece ha deciso di riportare le medesime righe nere sulle parole che sono costate a Petra Reski intimidazioni e minacce. Perché il lettore abbia una chiara immagine del bavaglio con cui il potere cerca costantemente di ridurre al silenzio il giornalismo più coraggioso.

Duisburg, agosto 2007. Davanti al ristorante Da Bruno vengono ritrovati i cadaveri di sei uomini, tutti calabresi, crivellati da 70 proiettili. Sarà chiamata la Strage di Ferragosto: il primo segno evidente della penetrazione delle mafie italiane nel mondo, della lenta ma inarrestabile colonizzazione portata avanti dai “cafoni” in Francia, Spagna e Germania. Ed è proprio qui, nel cuore produttivo d’Europa. che la mafia ha da tempo indirizzato i propri traffici, non solo per farli fruttare ma soprattutto per “ripulirli”: alberghi, pizzerie, ristoranti di lusso ma anche conti correnti e finanziarie.

Petra Reski,Santa Mafia.Da Palermo a Duisburg:sangue,affari,politica e devozione.Traduzione di Valentina Tortelli.Nuovi Mondi,2009

In memoria di Mons.Cataldo Naro….

dsc06303

MONS.CATALDO NARO

N.il 6-01-1953 a San Cataldo

M.il 29-09-2006 a Monreale.

“….Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno…..”

(Giovanni Falcone)

Foto sito 1

BannerSanMichele

InvitoSanMichele

MARTEDI’ 29 SETTEMBRE 2009,MESSA DI SUFFRAGIO

PRESSO LA CHIESA MADRE DI SAN CATALDO(CL),ORE 17.

TU,CARO ALDO,NON SEI “SCOMPARSO”…….!

Resistenza alla mafia….

Roma 5

TAVOLA ROTONDA SU SANTITA’ E LEGALITA’

 Roma

Il 15 maggio scorso,a Roma presso l’istituto “Luigi Sturzo”,si è svolta una tavola rotonda sul tema :”Resistenza alla mafia:corcevia di Santità e Legalità”,in memoria del compianto Arcivescovo di Monreale Mons.Cataldo Naro di venerata memoria.Mons.Naro volle,per la sua diocesi, il progetto denominato “Santità e Legalità”,ossia una resistenza cristiana alla mafia.L’idea di fondo del progetto era quella che la Mafia va combattuta anche con la logica evangelica e,soprattutto,con la santità della vita dei credenti.Mons.Naro era convinto che bisognava elaborare un discorso contro la mafia,ma a partire dalle categorie proprie del cristianesimo.Dire,dunque,parole cristiane contro la mafia,unitamente a quelle espresse dalla società civile attraverso il concetto di legalità.

Riportiamo di seguito una breve sintesi degli intervenuti al convegno.

 Roma 1

On.LEULUCA ORALNDO

 Dopo aver ricordato con affetto Mons.Naro dicendo quanto fosse legato a Lui,anche da alcune ricorrenze familiari che potrebbero sembrare delle pure coincidenze,ma che invece sono legate ad alcuni momenti della vita di Mons.Naro,ha affermato che non bisogna  perdere di vista l’aspetto etico-religioso-morale e che due sono gli aspetti con cui si può combattere la mafia:la LEGALITA’,ossia l’osservanza delle leggi per poter vivere ordinatamente e civilmente e,appunto, la SANTITA’  di vita dei credenti in Cristo,ossia l’incarnazione quotidiana ed esistenziale dei valori del Vangelo “sine glossa”. Orlando,ha ribadito,che,inizialmente, non riusciva a capire cosa c’entrasse la SANTITA’ contro il fenomeno mafioso.Grazie a Mons.Naro si è reso conto quanto fosse importante il cammino di santità attraverso lo specifico della missione della Chiesa:l’evangelizzazione. Roma 2

Sua Ecc.MONS. VINCENZO PAGLIA

 Ha ricordato come e quando la Chiesa ha iniziato a parlare apertamente di mafia.Prima con Ruffini,poi con Pappalardo,ma determinanti sono state le parole di Giovanni Paolo II ad Agrigento,perché per la prima volta si sono usate parole cristiane contro la mafia:pentimento,conversione,giudizio di Dio. Ha sottolineato come Mons.Naro sentiva la necessità,nell’esercizio del suo ministero episcopale,di creare un movimento di resistenza alla mafia,un intreccio tra legalità e santità. Talmente grande era la considerazione che Mons.Naro aveva delle figure di santità che ha sentito il bisogno di creare una litania per invocare quelle della diocesi monrealese e non solo,affinchè ciò potesse servire per passare dal DEVOZIONALISMO  ai santi alla VOCAZIONE ALLA SANTITA’.Grande commozione ha colpito i presenti quando Mons.Paglia ha letto il testamento spirituale di Mons.Naro,concludendo,con grande nostalgia, e tristezza:”TROPPO PRESTO CI HA LASCIATI”.

PROF.SALVATORE SCORDAMAGLIA.

E’ intervenuto dicendo che la mafia bisogna combatterla con ogni mezzo lecito e purtroppo i mezzi che la società civile ha a disposizione non bastano. Poi,come affermava spesso Cataldo Naro, ha citato alcuni scritti del pastore protestante D.BONHOEFFER, tra cui RESISTENZA E RESA. Questo titolo Mons.Naro voleva che fosse interpretato così:Resistenza al male e Resa a Dio.

 Roma 3

DOTT.SALVATORE TAORMINA

Ha ricordato mons.Naro,la sua passione per Cristo e per la storia;il suo linguaggio cristiano e la sua definizione di  legalità :”UN MEZZO PER ESERCITARE LA GIUSTIZIA PER IL BENE COMUNE”.

Roma 4

Al termine degli interventi,alcuni partecipanti hanno preso la parola ricordando Mons.Naro sotto l’aspetto storico e sociologico,definendo la vicenda di Mons.Naro ESEMPALRE DI UNA LOGICA CRISTIANA DI VITA. Infatti Egli,durante il suo breve episcopato,ha dovuto lottare. Ha lottato,come attesta il suo testamento,contro ogni voglia di cambiamento,contro i tanti problemi irrisolti che ha trovato,ma soprattutto contro le tante incomprensioni e ostilità di alcuni personaggi che gli remavano,sistematicamente,contro, finchè ogni giorno si sentiva sentire meno. Nonostante ciò,non si è arreso,ha resistito perché capiva che Dio voleva da Lui questa resa,questa sua consegna a Lui attraverso il suo episcopato. Ha continuato traendo forza da quel crocifisso che portava al collo. Adesso vive in Dio,nella Gioia piena,ma continua a pregare per la Chiesa. Sta a noi,adesso,dare una risposta al suo sacrificio d’amore,ricordandolo,facendo passare,cioè,nel nostro cuore la sua meravigliosa persona,ma soprattutto i suoi insegnamenti e la sua testimonianza evangelica. Solamente così il suo sacrificio non sarà inutile.

IMG_0522

 

HA MODERATO IL DIBATTITO IL DOTT.GIANNI RIOTTA

Resistenza alla mafia:sulle orme di Mons.Cataldo Naro.

img_0529Layout 2

Ernesto Ruffini…..

ruff

Ernesto Ruffini (1888-1967), arcivescovo di Palermo dal 1946 alla morte, è una delle maggiori e più complesse figure del cattolicesimo italiano del Novecento. Non è facile intenderla, anche a motivo degli stereotipi interpretativi che haimo preteso di fissarla in facifi e affrettati giudizi. Del resto la complessità di Ruffini deriva, oltre che dalla sua vigorosa personalità, dalla diversità delle stagioni politiche che attraversò — l’Italia liberale, il fascismo, la repubblica — e dei contesti ecclesiastici in cui si formò e poi agì: la formazione al tempo di Pio X alla scuola di mons. Tarozzi, l’insegnamento e la guida dell’Università Lateranense, la stretta collaborazione con Pio Xl nella riforma degli studi teologici, la responsabilità di arcivescovo di Palermo e la partecipazione al Concilio Vaticano II.
Sulla base di un’amplissima documentazione, l’autore di questo volume ci restituisce lo spessore umano, culturale e spirituale della sua figura e della sua azione. Dalle pagine del libro emerge la personalità robusta di un ecclesiastico che, sulla base della sua cultura “intransigente”, si confronta dinamicamente con il mondo moderno e riesce, nella diflìcile situazione della Sicilia postbellica, a promuovere un cattolicesimo attivamente attento ai bisogni dei più poveri. Come scrive Andrea Riccarcli nella Presentazione del volume, Ruflini senti di interpretare il ruolo della Sicilia cattolica su varie frontiere. E, anche per questo, il libro risulta di grande interesse non solo per lo storico della Chiesa ma anche per lo storico politico e sociale dell’Italia e della Sicilia in età contemporanea.
Angelo Romano è docente di storia e di metodoloia nella Pontificia Università Urbaniana di Roma. liene corsi di storia della Chiesa anche nella Pontificia Facoltà Teologmi di Sicilia in Palermo. Si occupa particolarmente di storia della Chiesa in età contemporanea.

Angelo Romano,Ernesto Ruffini Cardinale arcivescovo di Palermo (1946-1967).Presentazione di Andrea Riccardi. Studi del Centro “A.Cammarata”,46,Salvatore Sciascia Editore,2002.

DI FRONTE AL DOLORE DEGLI UOMINI, ANCHE IL TEMPIO È SECONDARIO…..

DI FRONTE AL DOLORE DEGLI UOMINI, ANCHE IL TEMPIO È SECONDARIO….

Il tempio e il dolore degli uomini. Il tempio come elemento di fuga dalla realtà  e di mistificazione della stessa,oppure come possibilità di uscire da esso per incontrare il dolore umano. Quello della gente del Sud,del casertano, che un Vescovo,proveniente dal nord,ha imparato a condividere e ad amare. Il tempio,per Mons. Raffaele Nogaro, è divenuto “secondario”. Il tempio come trampolino di lancio per evangelizzare le tante povertà,materiali e morali,del sud. Il tempio a servizio degli uomini e delle donne di questo tempo che,spesso,fanno a meno del tempio. Il tempio come luogo del servizio e non di privilegi otonici. Il tempio come apertura per dare qualcosa,di materiale e di spirituale  a chi non ha,piuttosto che come luogo per ricevere regali e prebende. Il tempio come stimolo per un forte impegno nel sociale e non come sinonimo d’immobilismo e di non comprensione della realtà circostante. Il tempio a servizio dell’umanità sofferente,contro i tanti e organizzati mercanti del tempio. Il tempio come “topos” della profezia sul tempo e sugli uomini di questo tempo. Il tempio come annuncio della salvezza che si storia e solidarietà con gli ultimi. Il tempio che ha il coraggio di denunciare, con i criteri evangelici, le tante nefandezze del tempio stesso. “Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo riedificherò”.

Ha salutato la “sua gente” l’ultimo giorno del 2008 il vescovo di Caserta Raffaele Nogaro, che, proprio lo scorso 31 dicembre, ha compiuto 75 anni e ha quindi presentato, secondo la norma canonica introdotta da Paolo VI le sue dimissioni, dopo 26 anni di ministero episcopale, 18 dei quali trascorsi a Caserta, dove arrivò il 20 ottobre 1990.

Un commiato che, al di là delle tanto scontate quanto formali parole di circostanza, è stato salutato con grande sollievo dai politici locali e dai poteri forti – sia legali che illegali – della città, in questi anni più volte sferzati da un vescovo schierato sempre dalla parte degli ultimi e per nulla incline a compromessi buonisti dettati da ragioni di opportunità o di galateo istituzionale. Basti pensare, limitandosi solo agli ultimi anni, alle battaglie condotte da mons. Nogaro, insieme a molti casertani, per la restituzione ai cittadini del Macrico – una ex area militare di 33 ettari di proprietà dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero da anni al centro di tentativi di speculazioni edilizie architettate da palazzinari ed enti locali (v. Adista nn. 9/01; 9, 11, 13, 15, 43, 51, 63, 73/07 e 65/08 – e contro l’apertura della nuova discarica illegale di “Lo Uttaro” (v. Adista nn. 31, 33, 37/07; 5 e 13/08) o alle parole forti del vescovo contro la discriminazione (v. Adista n.70/08), la camorra (v. Adista nn. 35 e 71/08) e la corruzione politica (v. Adista n.19/08).

E da pastore che “ama la sua gente” ha appena dato alle stampe un volumetto – Ho amato la mia gente – che è contemporaneamente testamento spirituale e bilancio di oltre un quarto di secolo di episcopato. Pubblichiamo di seguito le pagine dedicate alla Chiesa, alla nonviolenza, alla carità e alle “responsabilità verso la camorra”.

 

HO AMATO LA MIA GENTE

di Raffaele Nogaro

La mia Chiesa

(…). 1) La comprensione incondizionata dell’uomo

Più che una “dittatura del relativismo”, che potrebbe compromettere ogni ricerca della verità, oggi si avverte uno “spaesamento dei valori” (diritto, doveri, giustizia, libertà, educazione, rispetto, sicurezza sociale, pace).

L’atteggiamento della Chiesa di fronte a queste realtà è molteplice. È la spettatrice critica di fronte ai processi della società, e magari diventa arcigna e violenta di fronte ai fenomeni giudicati degenerativi della società. Si pensi come il “magistero” ha inteso la “modernità”. Essa è stata pensata come una deformazione delle coscienze, quando poteva tradursi in una grande educazione di umanità. È comprensibile la diffidenza che la Chiesa ha verso la ricerca scientifica? Forse la Chiesa non ha mai voluto ammettere il “date (rendete) a Cesare quel che è di Cesare” e il “date a Dio quel che è di Dio” (Mt. 22, 21). (…). Attualmente la Chiesa sembra voler essere l’“autovelox” della morale. Sta nascosta dietro l’angolo e quando la cultura sfreccia e magari sembra violare, per eccesso di velocità, soprattutto i temi della morale, eleva sanzioni (…).

La Chiesa certamente deve condurre gli uomini alla vita vera. Ma come fa la madre. Ella non insegna, ma educa, costruisce, con infinita comprensione, con uno spirito di riconciliazione senza limite. La sua non è sterile constatazione, o peggio controllo (“inquisizione”), ma sempre lievito, fermento di vita, promozione.

L’umanità è comunque sofferente e bisognosa, al di là di ogni forma di peccato, e la Chiesa, con l’unica sua verità, che è la misericordia di Cristo, ripete: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò” (Mt. 11, 28). Il cap. 15 di Luca potrebbe essere il “manifesto” del comportamento della Chiesa. Narra le parabole della pecora smarrita, della dramma perduta e del figlio prodigo. Si capisce in questo manifesto cosa significhi comprendere e amare l’essere umano che è sempre così debole. I primi sette versetti del capitolo sono di una emotività eccelsa ed estrema. “Pantes oi telonai cai oi amartoloi – Tutti i pubblicani e i peccatori vanno da lui”. L’appuntamento di “tutte” le persone sregolate è da Gesù. È comprensibile lo scandalo delle persone rette, i farisei e gli scribi. E Gesù, “umile di cuore” anche con loro, dice: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?”. No, nessuno userebbe questo criterio pastorale. Ma Gesù insiste e sostiene di essere nella gioia solo quando ritrova la pecora. E a conferma della arditezza del suo amore, senza parametri umani: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.

 

2) La “Cattolicità”

Deus vult omnes homines salvos fieri – Dio vuole che tutti gli uomini vengano salvati” (1 Tm. 2,4). È evidente l’affermazione biblica, perché, con l’“incarnazione”, Dio si fa uomo in ogni uomo. “Non fa preferenze di persona” (At. 10, 34). Anzi “ogni uomo a qualsiasi popolo appartenga” è bene accetto a Dio” (At. 10, 34). La consegna agli Apostoli, dopo la risurrezione, è: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc. 16, 15). Probabilmente l’assicurazione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt. 28, 20) viene fatta per garantire che la sua Chiesa “avrà le porte sempre aperte” (Ap. 21, 25), per accogliere tutte le genti.

Riservare il cristianesimo alla civiltà occidentale è tradire il Vangelo. Rivendicare le “radici cristiane” dell’Europa rischia di compromettere l’universalità del Vangelo. Il Vangelo è incarnazione attiva presso tutte le genti. Le quali sono chiamate ad esprimere il loro volto cristiano (cf. Mt. 28, 19). Gli Apostoli non sono mandati per dare alle genti un cristianesimo occidentale, ma per affidare a tutti il Vangelo quale sorgente di originalità. Il messaggio del Vangelo rimane genuino e originale presso tutti i popoli: “Costoro che parlano sono tutti Galilei. E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto, e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio” (At. 2, 7-11). (…).

 

3) L’Unità

L’unità di tutto il genere umano ha per fondamento il Vangelo. Dio si è incarnato in ogni uomo, rendendo ognuno di noi uguale al fratello. Non c’è umanità, pertanto, senza l’amore del fratello. Il quale ha tutti i diritti al mio amore, perché “nessun uomo è profano o immondo” (At. 10, 28). L’unità, in realtà, non si fa con la dottrina, non si fa con i principi, non si fa con una religione codificata, ma soltanto con l’amore.

Amos Oz riferisce un aneddoto: “Avevo dato all’amico un appuntamento al bar. Assolsi ad un piccolo impegno d’urgenza e subito raggiunsi l’amico. Con mia sorpresa vidi già seduto accanto a lui un signore dal nobile aspetto. Con qualche gesto impercettibile chiesi all’amico chi fosse. Quegli, con fare circospetto, mi disse: mi pare tanto che sia Dio. Mi sedetti accanto e, parlando, anch’io ebbi l’impressione che fosse Dio. Volli allora togliermi una curiosità. Dissi: da noi qui ci sono tante religioni: la cristiana, l’ebraica, la musulmana. Qual è quella vera? Rispose: non lo so; io non sono religioso. Sono venuto sulla terra per amare gli uomini e per salvarli”.

Invece il confronto religioso diventa facilmente violenza, dalla lotta contro gli Albigesi alle “crociate”.

Francesco nella Regula non bullata (cap. 16) ha una pagina di grande significato: “I frati coraggiosi vadano presso gli infedeli e, presentandosi come cristiani, si mettano a servizio di tutti senza mai contrasti e dispute”. Incantato dalla sua figura, il delegato papale di Damietta Jaques De Gratry riferisce che Francesco si presentò al sultano “sine armis et sine argumentis philosophicis, ma solo con l’amore di Cristo”.

Giovanni XXIII, veramente ispirato, nel discorso di apertura del Concilio, chiedeva a Dio che questo evento portasse alla costituzione dell’unica famiglia umana, “all’unità dei cristiani tra loro, all’unità dei cristiani con gli uomini di altre religioni, all’unità dei credenti con i non credenti”. L’occasione attuale della miscelatura di tutti i popoli, occidentali e arabi, cinesi e indiani, cristiani e musulmani, offre ai discepoli di Cristo la possibilità di effondere tutto l’amore di Cristo, fino alla costruzione della “Pacem in terris”.

 

4) La Carità

La carità è la Chiesa: “charitas Christi urget nos”. I tre Vangeli sinottici sono il poema della carità di Gesù. Gesù è sempre in attività, per guarire tutti gli ammalati, per dare conforto a tutti i bisognosi. Sta volentieri con le persone anonime, con le “folle”, che non hanno qualificazioni sociali, che “sono come pecore senza pastore”, e prova pietà per loro: “misereor super turbam”. Le folle sono particolarmente bisognose, sono di solito affamate. E Gesù provvede loro con la “moltiplicazione dei pani”. (…). La Chiesa pensa oggi alle “masse affamate” del mondo? Oggi, il dramma dei popoli, Iraq, Sudan, ha riscontro nella Chiesa?

Gesù scombina anche i rigorosi precetti della legge mosaica, per andare incontro alle necessità dell’uomo: “Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. Con gli Apostoli Gesù percorre tutte le strade della Palestina, non per andare a formare cenacoli e gruppi di preghiera, né per andare a costruire chiese e sinagoghe, ma per “cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc. 19, 10). Sembra quasi trascurare il culto e anche la catechesi, quando raccomanda: “Se fai l’offerta all’altare e ti ricordi che il fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì l’offerta, corri a riconciliarti con il fratello, poi torni e fai l’offerta all’altare” (Mt. 5, 23-24). Di grande provocazione è il suo identificarsi con il “Buon Samaritano” e trascurare il sacerdote e il levita, ma anche il “dottore della legge”, al quale dice in pratica che non sono necessari né il tempio, né la Torah, quando invece indispensabile è agire come il Samaritano (Lc. 10, 25-37).

Incandescente per me è l’episodio del “battesimo”. Egli, l’innocenza di Dio, vuole purificarsi come gli altri, apparire un peccatore tra i peccatori. È chiaro allora che non c’è un reietto che non sia Lui, non c’è una vittima che non sia Lui, non c’è uno straniero che non sia Lui, non c’è un disperato che non sia Lui (cf. Mt. 25).

 

5) Oscuramento di Cristo

È certo che credere nel Dio annunciato da Gesù, un Dio umile e nascosto, dischiude problemi nella Chiesa, alla ricerca del suo compito e della sua autorità. Il rischio della Chiesa di cambiare l’originalità dell’istituzione è grandissimo e sempre incombente. Da discepola e testimone del Risorto, essa si fa interprete, vicaria e sostituta di Dio. Si pone come unica titolare e depositaria del divino sulla Terra.

Gesù aveva proclamato la “giustizia superiore” delle “beatitudini”, vincendo le tentazioni della ricchezza, del prestigio e del potere. La Chiesa invece preferisce tenere in disparte Gesù e sacralizzare questi beni (“La leggenda del Grande Inquisitore”).

L’irrilevanza di Gesù è caratterizzata da quasi tutta la modernità. E sembra esplicita nella Chiesa. Nelle recenti dispute con i legislatori italiani e spagnoli e con i costituenti europei, la Chiesa fa appello alla biologia, alla natura, alla storia, alle tradizioni culturali, alla precauzione politica, non al Vangelo. Anzi ci tiene ad affermare che la sua dottrina, la verità di cui è custode, corrispondono a una visione razionale e umana a tutti comune. La trascuranza di Cristo sembra così evidente. Ma “sine me nihil potestis facere” (Gv. 15, 5). E questo oscuramento del Cristo è la ragione di tutti i nostri smarrimenti.

Per fortuna e per grazia, anche se noi trascuriamo il Signore, egli viene a noi incontro. “Gesù in persona si accosta a me e con me cammina” (Lc. 24,15). E mi confida: “Ecco, io sto alla tua porta e busso. Se tu ascolti la mia voce e mi apri la porta, io vengo da te, ceno con te e tu con me” (Ap. 3, 20).

 

6) Il “principio speranza”

“Noi diamo ragione della speranza che palpita nel nostro cuore”, perché abbiamo il Vangelo. E il Vangelo è tutta la speranza. Il Vangelo è una proiezione infinita di luce, è l’apertura e la libertà della vita, è “pieno di immortalità”. “Gesù è colui che vive e più non muore” (Ap. 1, 18). È lui il destino dell’uomo e quindi è la sua speranza infinita. Anche la Chiesa non ha nessuna verità da dare. Ha unicamente l’“amore eterno” (Ger. 31, 3), da comunicare a tutti. (…).

 

Esercizi di nonviolenza

– L’evangelizzazione oggi sembra asfittica. Occorre annunziare di nuovo le Beatitudini e il Magnificat. Se Gesù ci chiede di superare le tentazioni della ricchezza, del potere, del prestigio, il Magnificat ci assicura che lui rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili.

– Recuperare la memoria del Concilio: non dimenticare le salutari avanguardie che hanno aperto nuovi percorsi; riconoscere, come papa Giovanni XXIII, che “Ecclesia sempre reformanda”; proclamare il valore dell’Ecumenismo ad ogni costo; credere nella scelta preferenziale dei poveri; la solidarietà della Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (n. 5.1).

– Superare la neutralità: un giovane non può rimanere neutrale tra dittatura e democrazia, tra libertà e fascismo, tra pace e guerra, tra obiezione di coscienza e militarismo, tra accoglienza degli stranieri e razzismo.

– Recuperare la memoria dei Profeti: don Mazzolari, don Milani, p. Balducci, p. Turoldo, p. Dossetti, La Pira, Lazzati, Bachelet, Moro, Dorothy Day, M.L. King, mons. Romero, mons. Camara… È necessario raccontarli per poterli rivivere.

– Resistere ai “vitelli d’oro”: consumismo, telecrazia…, non rifiuto acritico, ma ragionato. Reagire al neo-nazismo, al neo-liberismo, alla xenofobia, al nazionalismo. Combattere l’integralismo e difendere la laicità della politica.

– La libertà. È una parola difficile e non deve creare equivoci. A me hanno insegnato ad amare questa parola Gandhi, Martin Luther King, Oscar Romero e Madre Teresa di Calcutta. Libertà non è liberismo sfrenato, è liberazione dall’oppressione, dalla tirannia, difesa del pluralismo, della tolleranza, dell’ascolto, del dialogo. Libertà è difesa delle minoranze politiche, religiose, culturali, sociali, etniche.

– Educazione alla condivisione delle risorse, alla redistribuzione delle risorse, per ridurre il fossato Nord-Sud, per affrontare la questione dei flussi migratori inarrestabili.

– Impegno di lotta senza quartiere contro le mafie e le camorre. Rivoltarsi contro le sottoculture dell’illegalità. Studiare catechismi di solidarietà.

– Rifondare il sindacato di tutti, non solo dei “protetti”, ma anche degli “esclusi”.

– Lotta per la libertà dell’informazione. Impegno per la crescita delle voci non omologate, locali e nazionali. Sostenere l’informazione libera e la comunicazione conviviale.

– Scelta di campo per i poveri. Non solo interiore, teologica, emotiva, ma concreta sul territorio. (…).

– Accoglienza dell’altro. Dell’immigrato e del rom. Questi dovrebbero essere accolti non dalle polizie, ma dalle amministrazioni locali o da istituzioni a ciò preposte. (…).

 

Amo la mia gente con le opere di Misericordia

Gesù è l’uomo per gli altri. Anch’io, suo apostolo, devo essere l’uomo per gli altri.

Sono personalmente convinto che oggi la Chiesa sia fortemente ancorata alla liturgia e alla evangelizzazione e meno sensibile alla carità, all’amore verso tutti gli uomini. Sogno una Chiesa piena di vangelo, che rende Gesù visibile dovunque. Gesù parla poco di questioni morali, mentre la sua condotta sembra “eccessivamente” misericordiosa. Non insiste mai sui precetti e sulle ideologie giustificatrici. Presentandosi come “Figlio dell’uomo”, non appare certo come il Dio dei poteri, delle istituzioni e dei sistemi, che creano le vittime e gli sfiduciati. Ma sta con coloro che piangono e che “hanno fame e sete di giustizia”. Non cerca i grandi templi, con lo scopo di onorare Dio, ma gli bastano “lo spirito e la verità” (Gv. 4,23).

Oggi una Chiesa autoreferenziale confonde facilmente i suoi fini con i suoi interessi. Sembra si debba pensare che Dio è nella Chiesa e pertanto il mondo esista per servire la Chiesa e questa per difendere ad ogni costo se stessa. Invece Dio è nel mondo e la Chiesa esiste per servire il mondo, creato da Dio e amato, e redento e perdonato da Lui. Questo mondo è il nostro mondo, è quello che Dio ci ha dato da amare. Non siamo qui per giudicarlo, ma per annunciargli il Vangelo, cioè la salvezza e la felicità. Per Gesù i sabati, i templi, le filatterie, i precetti diventano totalmente secondari di fronte al dolore degli uomini. Gesù lascia le curie del potere e va nell’“orto”, dove egli suda il sangue dei poveri. L’opzione della Chiesa dovrebbe ancora essere il predicare un cristianesimo di sequela, piuttosto che un cristianesimo di consumo. Non si può pensare che con più praticanti si salvano più uomini.

Se non esagero, vorrei proporre oggi una Chiesa di frontiera. La frontiera è fuori dal tempio. La frontiera è un luogo esposto. È il luogo degli arrivi e delle partenze. È il luogo dell’imprevisto, dell’inedito. È il luogo dell’originale. È il luogo dell’uomo sempre nuovo e sempre in attesa di una patria. Ma è anche il luogo di Cristo. Non si può pensare qualcosa di più urgente e di più precario della Capanna della sua nascita.

La Chiesa è artigiana della pace, non solo della pace dei cuori, ma anche della pace che passa attraverso l’azione politica. Deve pregare per la pace, ma anche difendere l’uomo dal dominio incontrollato delle istituzioni e delle corporazioni, che rischiano di renderlo puro strumento della loro volontà di potenza. Deve intervenire per allargare gli ordinamenti democratici, che esprimono la sovranità popolare, per rendere attiva sempre la libertà personale. Deve difendere l’uguaglianza tra gli uomini, impedire lo sfruttamento di una sull’altra, di un popolo su un altro e combattere apertamente l’onnipotenza del capitale e del profitto, della mafia e della camorra. Deve denunciare quelle scelte politiche che procurano la corsa agli armamenti e deve sostenere il disarmo progressivo. Deve solidarizzare con coloro che pongono gesti di doverosa protesta: obiezione di coscienza, marce per la pace, giudizi di illegalità per le spese militari. Deve combattere l’autoritarismo, le forme molteplici di violenza, la chiusura ideologica. L’esaltazione dei condottieri, il disprezzo per i vinti, il culto della razza, la magnificenza della patria, l’eurocentrismo non sono certamente elementi che rendono maturo e idoneo l’uomo del villaggio globale.

La denuncia delle inadempienze radicali degli uomini e delle intollerabili povertà di certe categorie sociali non è sufficiente. È necessario che la Chiesa difenda i diritti e le attese dei poveri e dei bisognosi, intervenendo nelle forme più attente ed efficaci. Gesù con la “moltiplicazione dei pani” nutre le folle e le fa vivere nella speranza. La Chiesa o è carità o è falsità. La Chiesa è sempre e solo amare la gente. (…).

 

Responsabilità verso la Camorra

La camorra, in Campania, impedisce le riforme strutturali, indispensabili per organizzare la speranza del futuro. Procura le dimissioni di ogni imprenditoria intelligente e produttiva. Una politica che crea progetti, stabilisca obiettivi, dia la spinta alla soluzione dei problemi è impensabile. E le dirigenze di ogni tipo confondono facilmente il bene comune con l’interesse privato. Il degrado, il sottosviluppo e la disoccupazione fanno sì che l’emigrazione dei giovani volenterosi sia enorme. I talenti migliori salgono al Nord, privando le nostre terre di quella propulsività fatta di promozione e di progresso.

Ritengo che, in particolare nel meridione, la Chiesa deve esercitare la sua forza istitutrice di etica e di civiltà. Purtroppo, l’esempio fulgido di un don Peppino Diana, che viene ucciso dopo quel documento salutare,Per amore del mio popolo non tacerò, rimane ancora controllato e isolato. Le gerarchie ecclesiastiche sono molto preoccupate di difendersi dai nemici “ideologici”, massoni, comunisti, laicisti di ogni genere, e sottovalutano l’inquinamento morale e civile causato dai poteri illegali. I camorristi, che pure sradicano il Vangelo dal cuore della nostra gente, negando ogni forma di amore del prossimo, diventano facilmente promotori delle iniziative della ritualità religiosa e della collettività. Proteggono un certo ordine stabilito, e quindi vengono corteggiati dalle istituzioni. E, per un falso amore di pace, la Chiesa tace.

(…) La storia della Campania, come la sua cronaca contemporanea, non si spiega senza tenere nel debito conto l’influenza della Chiesa. Si osserva quindi che le espressioni religiose, soprattutto quelle enfatiche, e la camorra non sono due fenomeni indipendenti. Fortunatamente non si arriva mai alla complicità. Non si può tuttavia rimanere in disparte, scaricando la realtà criminale alla competenza dello Stato.

L’esercizio del potere nel mondo della camorra si prefigge l’infiltrazione nelle istituzioni per gestirle in maniera privatistica e clientelare. E se la camorra diventa mentalità di popolo, il messaggio d’amore di Cristo non può avere vita. Per cominciare, nelle parrocchie si devono superare supporti che possono configurarsi come camorristi: gli atteggiamenti autoritari, la violenza di un potere costituito, la precettistica morale imposta come inquisizione delle coscienze, la mancanza di democrazia nella gestione comunitaria, gli accordi unidirezionali che producono i gruppi fra loro conflittuali. La Chiesa è di tutti ed è essenziale che si mantenga libera dal potere politico e di casta, e lasci trasparire lo stile di un servizio incondizionato all’uomo, “senza preferenze di persone” o di categorie sociali. Insisto perché nelle parrocchie si faccia il catechismo della legalità.

http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=43748

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Uomini contro la Mafia.

vinc

vinc1

Ernesto Ruffini,Il vero volto della Sicilia.

Ernesto Ruffini, Il vero volto della Sicilia

in:

http://terradinessuno.wordpress.com/biblioteca-di-terra-di-nessuno/ernesto-ruffini-il-vero-volto-della-sicilia/

 

Approfondimenti su CHIESA E MAFIA su http://terradinessuno.wordpress.com

“SE NON VI CONVERTIRETE, PERIRETE TUTTI ALLO STESSO MODO”

“SE NON VI CONVERTIRETE, PERIRETE TUTTI ALLO STESSO MODO”

A CURA DELLA

Conferenza episcopale calabra

 

L’annuncio del Vangelo, fonte di vita

II Vangelo della vita costituisce il cuore dell’annuncio cristiano (Gv 1,1-4). Lo proclamiamo con forza e gaudio nella domenica in cui la Chiesa celebra Cristo Re, il “Verbo della vita”, il vivente e il Risorto che porta nel suo corpo glorioso i segni dell’amore, memoria del dono della sua vita sulla croce, perché noi avessimo la vita, insieme con il perdono dei peccati.

Accolto dalla Chiesa con amore, il Vangelo della vita va annunciato e testimoniato con fedeltà, come buona novella, in questa nostra Regione afflitta dal doloroso e triste fenomeno della ‘ndrangheta.

Come Vescovi e Pastori della Chiesa di Dio in terra calabra, avvertiamo l’urgenza di incoraggiare tutti ad operare per un’autentica rinascita morale, sociale ed economica. Il nostro intervento, riflessione ad alta voce sul tema, offerta all’attenzione ed al cuore dei calabresi, è segno tangibile della manifestazione dell’identità cristiana, che nel suo essere esprime rispetto delle leggi, capacità di perdono, propensione al dialogo, costante impegno per il trionfo del bene comune, fiducia nella solidarietà sincera. Non esistono altre vie per vivere in terra e ascendere ai cieli della salvezza: in un mondo di tante presunte verità, “la verità cristiana può ancora inghiottire tutte le mezze verità del mondo” (Sergio Quinzio, La gola del leone, 91).

Un cuore che vede: la pervasività della ‘ndrangheta

Ad una criminalità dai tratti violenti, nascosti e pervasivi, tesa ad assoggettare risorse economiche, relazionali e sociali, opporremo la cultura della vita e della legalità. In questa sfida, nulla sarà d’aiuto più che la riscoperta della fede nel Figlio di Dio, che si è fatto uomo ed è venuto tra gli uomini “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

Contro un potere mafioso che permea di sé sia i singoli sia le istituzioni, deve nascere e diffondersi un senso critico capace di discernere i valori e le autentiche esigenze evangeliche. Se da un lato inquietano certe accuse di connivenza tra settori della criminalità organizzata e responsabili della cosa pubblica ai vari livelli, dall’altro risalta, specialmente per il cristiano, la necessità dell’impegno nella polis, come espressione della carità e dell’amore che il credente vive in Cristo. La carità politica, appunto, e i frequenti casi di corruzione ci spingono non solo a sollecitare la politica al recupero del valore di servizio, ma ancor più ad esortare i cristiani a non disertare questo servizio, pur quando esso significhi sacrificio e rischio per la propria vita.

La priorità della conversione

“Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13, 5). Gesù, commentando episodi di cronaca avvenuti a Gerusalemme, rimanda alla radice di tutti i mali: la peccaminosità dell’uomo, la potenziale connivenza con la violenza che si annida nel cuore umano in ogni tempo. Il suo è un chiaro invito a cercare, anzitutto dentro di noi, i segni della complicità con il peccato.

Il primo passo, quindi, è la conversione personale e comunitaria, grazie ad un cambio di mentalità nel cuore e nella vita di ogni uomo e donna, di ogni famiglia, gruppo e istituzione, che permetta di rimuovere le forme di collusione con l’ingiustizia e respingere l’ingannevole fascino del peccato. Attrazione, questa, che avvolge anche le nostre comunità ecclesiali, inducendo a minimizzare la realtà del male o ad assumere un atteggiamento fatalistico di rinuncia. Così anche per la tentazione di rifugiarsi nel privato, separando fede e prassi, o di limitarsi alla denuncia: nel male vi è una responsabilità che è propria non solo “di chi genera e favorisce l’iniquità e la sfrutta”, ma anche “di chi, potendo fare qualcosa per evitare, eliminare o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; ed anche di chi pretende di estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio, accampando ragioni di ordine superiore” (RP 16).

Richiamo alla vita coerente

Il popolo di Dio è chiamato a custodire, vivere e rilanciare l’originalità, unica ed universale, della speranza cristiana. Al riguardo, sia di stimolo l’insegnamento di papa Giovanni Paolo II: “Urge una generale mobilitazione per costruire una nuova cultura della vita (Evangelium vitae, punto 95)”. Seguendo l’unica strada percorribile, ovvero quella dell’esperienza credente, mobilitiamoci traendo dal Vangelo l’esempio cui improntare la nostra quotidianità per riaffermare, nel solco della testimonianza che diviene anima e sostanza dell’identità cristiana, il diritto alla vita. Dinanzi alla progressiva perdita dei valori di solidarietà, facciamoci strumenti di lotta ai mercanti di morte, ovunque essi si annidino e qualunque panni indossino: siano essi mafiosi o detrattori della vita, che sono negazione di Dio e dell’uomo, piaga sanguinante del corpo della Chiesa amante della vita. Al contempo, rinnoviamo l’attenzione agli ultimi ed agli emarginati, aiutando le Chiese locali a rafforzare le proprie capacità profetiche ed a porre al centro delle attività della comunità ecclesiale l’attenzione preferenziale al povero ed al suo senso sacramentale.

Ecco, allora, delinearsi la nuova cultura della vita: nuova, perché in grado di risolvere i problemi che investono il nostro territorio; nuova, perché fatta propria, con più salda e operosa convinzione, da tutti i credenti; nuova, perché capace di suscitare un serio e coraggioso confronto culturale con tutte le componenti della società che, nel suo senso più diffuso e nelle forme più o meno istituzionalizzate dell’in-tervento sociale, è la sola che possa prosciugare la linfa vitale delle organizzazioni mafiose.

È in tale ottica che collochiamo l’agire delle nostre Chiese particolari: dobbiamo dimostrarci capaci di costruire modelli culturali alternativi. Con la forza del Vangelo, potenza d’amore e annuncio di speranza, si deve agire per favorire una rottura con la cultura mafiosa, con perseveranza e pazienza, attraverso il coraggio della coerenza, della testimonianza e della speranza. Una simile rigenerazione delle coscienze deve cominciare dalle nostre comunità cristiane: troppi credenti, anche tra quanti partecipano attivamente alla vita ecclesiale, corrono il rischio d’una dissociazione tra la fede professata e l’etica che ne deriva e da attualizzare, giungendo spesso a comportamenti compromissori che contraddicono la verità del Vangelo (cf. EV 95). Dobbiamo interrogarci con lucidità sul tipo di cultura della vita e della legalità oggi percepita dai cristiani, dalle famiglie, dai gruppi e dalle comunità parrocchiali. Con altrettanta lucidità, dobbiamo individuare i passi da compiere per costruire una società più giusta e solidale, tale proprio perché finalmente sciolta dalle catene del peccato e del male imposte dalle organizzazioni criminali.

Un cuore che agisce: operiamo insieme

Un impegno consapevole è richiesto innanzitutto ai Vescovi, ai Presbiteri, ai consacrati ed a tutti gli operatori pastorali. È indispensabile, infatti, maturare una profonda coscienza della responsabilità che ci è stata affidata nel ministero dell’annuncio e dei sacramenti, ma anche nel compito di guide ed educatori, coltivando una vita di preghiera e carità e coniugando per primi, nel nostro quotidiano, autenticità, coerenza, amore per il prossimo, giustizia e legalità.

Non dimenticando, sulla scorta del documento Chiesa italiana e mezzogiorno, che “la carenza della famiglia, talvolta la connivenza o peggio l’incoraggiamento della famiglia, alimentano le faide e altre forme di devianza criminosa”, ribadiamo la centralità della pastorale familiare. E se da un lato assistiamo ad un processo di disgregazione e di crisi della famiglia, che tocca purtroppo anche la nostra regione, dall’altro abbiamo il dovere di non rimanere a guardare, sospinti dalla certezza che, ben evangelizzata e curata, la famiglia possa ancora essere lievito di una società rinnovata.

Un impegno altrettanto forte chiediamo alla scuola, laboratorio democratico di convivenza e di formazione dei cittadini di domani. La comunità scolastica si riappropri della sua peculiare funzione educatrice, coltivando negli studenti la volontà di resistere ai soprusi, alle ingiustizie e ad ogni forma di illegalità, anche strisciante, e sviluppando nei giovani il senso della responsabilità nella difesa dei diritti fondamentali e del rispetto per ogni uomo, vero antidoto alla violenza.

Chiediamo al Signore di far emergere dal popolo, in piena libertà, persone sagge che assommino in sé passione, senso di responsabilità e lungimiranza e che, al di là dell’ap-partenenza ai diversi schieramenti politici, sappiano elaborare percorsi legislativi e di amministrazione della cosa pubblica in grado di contrastare l’espansione del fenomeno mafioso, non precludendosi alcun tipo di intervento, quali ad esempio la confisca dei beni e la garanzia della certezza della pena, che mini alla base l’iscrizione e l’appartenenza mafiosa. Alle istituzioni indichiamo l’esempio di Cristo, venuto non per essere servito, ma per servire. Sollecitiamo i cittadini amministrati ad essere vigili, ma collaborativi con le istituzioni, giacché il fine comune è creare una civitas humana che attui il piano del Creatore, per il quale “la società umana è per l’uomo, non viceversa (Enciclica Divini Redemptoris, Pio XI, 1937)”.

A quanti, in particolare nella Magistratura e tra le forze dell’Ordine, sono chiamati a contrastare la mafia in campo aperto, esprimiamo vicinanza ed un plauso per l’impegno costante della loro opera, spesso nascosta o travisata, e per una dedizione che non di rado li porta a mettere a repentaglio la propria vita. Pur coscienti dei limiti umani, esortiamo la nostra gente ad avere fiducia in questa mediazione così delicata della propria sicurezza da parte di istituzioni che rappresentano, fisicamente, il presidio della legalità dello Stato.

Testimoniamo la nostra vicinanza anche agli imprenditori, perché investano con fiducia, vincendo la tentazione del puro profitto e adottando logiche solidali con le legittime aspettative di occupazione e giusta retribuzione. Invocando la tutela legislativa ed istituzionale, sosteniamo quelli che, speriamo sempre più numerosi, scelgono di difendere il loro onesto operato senza cedere a ricatti, denunziando anzi richieste di “pizzo” in cambio di protezione o invocando il rispetto della legge di fronte all’assalto di chi vorrebbe sottomettere al giogo dell’usura l’economia calabrese. Essi sappiano che non saranno abbandonati a se stessi, ma potranno contare sull’appoggio a tutto tondo dei pastori e della comunità cristiana, per garantire il quale ognuno, a cominciare dagli organi statali, farà la sua parte.

Ma è soprattutto ai giovani, futuro della nostra terra, che volgiamo lo sguardo: in famiglia, a scuola, nello sport ma pure nella ricerca di un lavoro ed in ogni occasione e giorno della vita, non perdano l’entusiasmo e neppure il generoso altruismo. Mentre ci impegniamo a tenere alta la tensione educativa e l’ascolto delle loro esigenze incentivando la pastorale giovanile, li invitiamo a lasciarsi contagiare dalla freschezza del Vangelo, a divenire protagonisti della carità e della promozione umana, coltivando valori di onestà, giustizia e legalità, per costruire assieme quel futuro che appartiene a tutti, ma specialmente a loro.

Infine, a tutti i credenti, agli uomini ed alle donne di buona volontà, diciamo apertamente che abbracciare o anche solo simpatizzare con una concezione dei valori della vita quale quella mafiosa è contrario al Vangelo ed al bene della società e dell’uomo, perché l’appartenenza o la vicinanza ai clan non sono un titolo di vanto o di forza, bensì di disonore e debolezza. Esortiamo perciò il popolo di Dio a compiere ogni sforzo per rinunciare ad atteggiamenti che possano alimentare il fenomeno mafioso. E ciò non solo mediante la condanna di tutte le forme di violenza, ma anche avendo sempre presente che la risoluzione dei problemi personali non va affidata al “padrino” di turno, ma a chi è a ciò preposto dall’Autorità dello Stato.

Conclusioni

Le mafie, di cui la ‘ndrangheta è oggi la faccia più visibile e pericolosa, costituiscono un nemico per il presente e l’avve-nire della nostra Calabria. Noi dobbiamo contrastarle, perché nemiche del Vangelo e della comunità umana. In nome del Vangelo, dobbiamo tracciare il cammino sicuro ai figli fedeli e recuperare i figli appartenenti alla mafia. Tale strada indichiamo nella Luce che da Dio promana. Egli rivela il Suo potere nella misericordia e nel perdono. L’amore è il Suo regno. È per mezzo dell’amore che costruiamo e rendiamo presente il regno di Dio in questo mondo. A Lui, fonte di speranza e verità che ci guida tra le tenebre lungo i sentieri della vita, rivolgiamo la nostra preghiera: “Tu con olio di esultanza hai consacrato Sacerdote eterno e Re dell’universo il tuo unico Figlio, Gesù Cristo nostro Signore. Egli, sacrificando se stesso, immacolata vittima di pace sull’altare della Croce, operò il mistero dell’umana redenzione; assoggettate al suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. Sostienici e guidaci perché anche noi, seguendo il Suo esempio, possiamo concorrere quotidianamente all’opera di redenzione e salvezza nostra, dei nostri fratelli e del mondo intero, combattendo con la forza della fede le armate del diavolo e spezzando le catene del peccato. Amen”.

Da http://www.adista.it

 

LA MAFIA E’ ANCHE “COSA NOSTRA”

Se è vero che tra uno o due anni si tratterà di fare il nuovo arcivescovo di Reggio Calabria, che è la città attualmente più al centro delle questioni di mafia e di mafiologia, più di Palermo o di Napoli e se è vero,così come è vero,che Mons. Bregantini è attualmente il vescovo, pur non calabrese e non meridionale, che parla di più e più efficacemente sul problema mafia.,si potrebbe pensare ad un trasferimento per non farlo Arcivescovo a Reggio Calabria? Forse hanno preferito spostarlo in tempo utile a Campobasso, che è una diocesi calma e tranquilla, a quanto si dice……

L’ALLONTANAMENTO DI MONS. BREGANTINI,
UN ALTRO SCHIAFFO ALLA CALABRIA. REAZIONI E COMMENTI

DOC-1925. ROMA-ADISTA. “Dev’essere misterioso davvero il disegno di Dio – scrive sul Manifesto l’antropologo Vito Teti -, se è ad esso che dobbiamo” l’allontanamento di mons. Giancarlo Bregantini dalla Locride: “il migliore regalo alla ‘ndrangheta che poteva essere pensato”, aggiunge sul Trentino Piergiorgio Cattani. Perché ha veramente dell’incredibile la vicenda della “promozione” del vescovo all’arcidiocesi di Cambobasso (v. Adista n. 79/07), e non farebbe differenza alcuna se, anziché di trasferimento ad una diocesi più piccola e meno popolata di quella di Locri, e di sicuro strategicamente assai meno importante, si trattasse della promozione “senza virgolette perché senza ironia” di cui parla l’Avvenire. Tanto più che il concetto stesso di promozione, vera o fasulla che sia, stride violentemente con quella che dovrebbe essere la missione di un vescovo: non a caso, come scrive a mons. Bregantini il prete genovese Paolo Farinella, lo spostamento “è pensato e letto con categorie pagane e atee: ‘è promosso’; Campobasso è più importante di Locri; fa carriera; diventa metropolita, ecc. Come siamo distanti – commenta – dal Vangelo che non ci ha mandato a cercare o realizzare carriere, ma a morire in croce per quella porzione di ‘mondo’ a cui siamo mandati”.

Pertanto, se anche non vi fosse alcun “oscuro disegno”, come insiste il quotidiano della Cei e come sostiene nel suo “doloroso e piangente saluto di congedo” alla diocesi di Locri lo stesso Bregantini (accreditando erroneamente l’ipotesi che il suo nome sia stato indicato dai vescovi dell’Abruzzo e del Molise e poi inserito nella terna di nomi presentata al papa), nessuna giustificazione potrebbe comunque darsi al fatto che una terra povera, dimenticata, malata, devastata dai tanti tradimenti e dai ripetuti abbandoni dello Stato – e di una Chiesa che troppo spesso ha fatto di silenzi ed omissioni, e di pesanti compromissioni, la sua linea di condotta – abbia subìto l’ennesima ferita, perdendo il simbolo di quella “Calabria nuova, fattiva, civile, propositiva” di cui parla Teti, la voce più tonante, tra tanti silenzi o sussurri, della resistenza e del riscatto. “Chi è agitato si rilassi”, invita Dino Boffo dalle pagine dell’Avvenire. Ma a non volersi affatto rilassare sono in tanti, dentro e fuori la Calabria, come indica la rassegna stampa che qui di seguito riportiamo, seguita da diversi comunicati di solidarietà a mons. Bregantini e preceduta da stralci del messaggio del vescovo alla diocesi di Locri, l’8 novembre scorso. (c. f.)

LA MAFIA È ANCHE “COSA NOSTRA”. ISPIRATA DA MONS. BREGANTINI
LA DENUNCIA ANTIMAFIA DEI VESCOVI CALABRESI

DOC-1924. CATANZARO-ADISTA. Il vero saluto di commiato di mons. Giancarlo Bregantini alla Calabria – ‘promosso’ dalla diocesi di Locri all’arcidiocesi di Campobasso (v. Adista n. 79/07 e documenti seguenti) – è la Nota pastorale sulla ‘ndrangheta, intitolata Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo, appena emessa dalla Conferenza episcopale calabra (Cec) ma che ha nel vescovo di Locri il suo principale ispiratore. Il documento, infatti, nonostante il valzer di date che lo accompagna, è l’esito del Convegno della Caritas regionale del 26-27 gennaio 2007 e rimanda direttamente alla relazione su Mafia e pastorale che lo stesso mons. Bregantini tenne in quell’occasione.

“Da tempo la Conferenza episcopale calabra aveva manifestato la volontà di pubblicare, dopo il Convegno della Caritas regionale sulla mafia in Calabria del gennaio scorso, un documento che in realtà ha anche preparato”, scrive nella presentazione alla Nota il presidente della Cec mons. Vittorio Mondello. Poi, prosegue, “dopo l’ultimo Consiglio Permanente della Conferenza episcopale italiana, nel quale il presidente Bagnasco ha mostrato l’intenzione di riprendere il Documento della Cei sul Mezzogiorno d’Italia, la Cec ha ritenuto più opportuno non pubblicare tale Documento che avrebbe potuto intralciare il lavoro della Cei e limitarsi, perciò, ad una semplice Nota”.

La Nota della Cec porta come data il 17 ottobre 2007. Proprio il giorno successivo, il 18, mons. Giuseppe Bertello, nunzio apostolico in Italia, convoca mons. Bregantini per comunicargli il suo imminente trasferimento a Campobasso. Il testo rimane segreto fino al 12 novembre quando il vescovo di Cosenza, mons. Salvatore Nunnari, durante la Settimana diocesana di formazione biblica, lo distribuisce ai partecipanti, avvertendo però che “ufficialmente dovrà essere consegnata alle parrocchie il giorno di Cristo Re, domenica 25 novembre”.

Ma il ‘padre’ della Nota pastorale della Cec – che Adista pubblica integralmente di seguito – è mons. Bregantini, che ne aveva ispirato i contenuti nella sua relazione al Convegno della Caritas dello scorso gennaio. Un intervento che affrontava il “rapporto tra ‘ndrangheta e pastorale” e che, come il documento della Cec, era strutturato attorno alle parole-chiave “denunciare, annunciare, rinunciare”. La mafia “è una nemica mortale della nostra terra – scriveva Bregantini nella sua relazione –, perché chiude ogni speranza e taglia le ali al futuro. Schiavizza ogni rapporto, viola ogni convivenza, distrugge il nostro territorio”. “La mafia però è anche un fenomeno che dipende, in parte, dai nostri peccati e limiti. Un peccato sociale, nel quale anche noi siamo immersi e del quale siamo in parte corresponsabili, per una serie di carenze nell’annuncio del Vangelo. È anche cosa nostra, per nostra responsabilità diretta ed indiretta. La mafia, quindi, impone un chiaro esame di coscienza!”. Pertanto la mafia, proseguiva, è “una aperta sfida, per tutti noi, per le nostre comunità cristiane, per un Vangelo più autentico, per preti più poveri ed esemplari, punti chiari di riferimento. Così il tessuto mafioso spinge i nostri consacrati e consacrate ad essere più testimonianti ed alternativi, i laici ad essere più coraggiosi, i politici più liberi, il volontariato più generoso, le scuole più qualificate, i giovani più protagonisti, questa nostra terra più amata”. (luca kocci)

Adista anno 2007Adista Documenti N°82

MAFIA STRUTTURA DI PECCATO

 

 

Mafia, “struttura di peccato”

 

Maffia, “struttura di peccato”?

GIAMPIERO TRE RE*

Pubblicato per la prima volta, con il titolo Mafia, “struttura di peccato”? in S. DIPRIMA (a cura di), Per un discorso cristiano di resistenza alla mafia. Le categorie teologico-morali di “struttura di peccato” e “peccato sociale”, Studi del Centro “A. Cammarata”, Collana diretta da C. Naro, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 1995, 21-35.

L’espressione «strutture di peccato» nasce nel contesto della “teologia della liberazione”1 e successivamente fu accolta nel frasario della dottrina sociale della Chiesa2. L’origine sudamericana del termine sembra confermata dai documenti prodotti dalla III conferenza generale dell’episcopato latino americano (Puebla, 1979)3. Lo stesso Giovanni Paolo II, proprio in quei giorni, nell’omelia tenuta nel santuario di Nostra Signora dell’Immacolata concezione di Zapopán (Messico), aveva fatto uso della formula:

«[La Vergine Maria] ci permette di superare le molteplici “strutture di peccato” in cui è avvolta la nostra vita personale, familiare e sociale. Ci permette di ottenere la grazia della vera liberazione, con quella libertà con cui il Cristo ha liberato ogni uomo»4.

Non è un caso che il contesto faccia ricorso a concetti cari alla teologia della liberazione, anche se emerge la preoccupazione di dare di essi una lettura “autentica”, rivendicandone la paternità ad una cristologia di stampo più tradizionale.
Altri documenti ecclesiastici nei quali compaiono i termini di peccato o ingiustizia “strutturale”, “situazione di peccato” o “peccato sociale” sono Reconciliatio et paenitentia, 165; e Libertatis conscientia, 426. Ma è nella lettera enciclica di Giovanni Paolo II Sollicitudo Rei Socialis (30.12.1987) che la categoria «struttura di peccato» è stata più diffusamente applicata:

«”Peccato” e “strutture di peccato” sono categorie che non sono spesso applicate alla situazione del mondo contemporaneo. Non si arriva, però, facilmente alla comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza dare un nome alla radice dei mali che ci affliggono[…] La vera natura del male a cui ci si trova di fronte nella questione dello “sviluppo dei popoli” [ è ] un male morale, frutto di molti peccati, che portano a strutture di peccato»7;

La più recente sintesi del magisteriale imperniata sulla formula di «peccato sociale» si trova nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1992):

«Il peccato è un atto personale. Inoltre abbiamo una responsabilità nei peccati commessi dagli altri, quando vi cooperiamo:
-prendendovi parte direttamente e volontariamente
-comandandoli, consigliandoli, lodandoli o approvandoli;
-non denunciandoli o non impedendoli, quando si è tenuti a farlo;
-proteggendo coloro che commettono il male;

Così il peccato rende gli uomini complici gli uni degli altri e fa regnare fra di loro la concupiscenza, la violenza e l’ingiustizia. I peccati sono all’origine di situazioni sociali ed istituzioni contrarie alla Bontà divina. Le «strutture di peccato» sono l’espressione e l’effetto dei peccati personali. Inducono le loro vittime a commettere, a loro volta, il male. In un senso analogico esse costituiscono un “peccato sociale”»8.

Già da tempo intellettuali cattolici riferiscono la categoria al fenomeno maffioso9; non senza problemi di ordine teoretico, come vedremo, dal momento che l’applicazione classica è riservata ai problemi macroeconomici e socio-politici.
Quello che forse è meno noto è che Giovanni Paolo stesso ha già in qualche modo applicato il concetto alla maffia:

«esistono purtroppo fenomeni aberranti ormai secolari. Si tratta della mentalità o struttura cosiddetta mafiosa che crea a vari livelli e con diverse manifestazioni, misfatti deleteri per il buon nome stesso della Sicilia e della sua gente»10.

La dimensione cosmica e dinamica del peccato.

Offriamo qui di seguito una rapida ricognizione biblica e una breve indagine etico-teologica che possano servire per la fondazione di un discorso cristiano di resistenza alla maffia. Lo scopo è quello di isolare gli elementi essenziali del pensiero cristiano intorno alla dimensione sociale e storica del male morale.

Potenza del peccato e mistero dell’iniquità.

Data l’ampiezza dell’insegnamento scritturistico sulla realtà del peccato non possiamo che limitarci qui al solo contributo che è possibile recepire dalle cristologie riflessive del Nuovo Testamento.
Nelle opere che la tradizione attribuisce a S. Giovanni troviamo una lettura piuttosto omogenea del peccato. Secondo Giovanni il peccato si situa a vari livelli di profondità, il che ne fa una realtà complessa. Egli preferisce parlare del peccato piuttosto che dei peccati, essendovi «un peccato che conduce alla morte» da distinguere da quello che non vi conduce (1Gv 5,16s). Nel suo vangelo il peccato è, tipicamente, quello dei “giudei” (Gv 8,21-59) ossia l’ostinata e pervicace chiusura a Cristo. Questa radicale mancanza di fede è il “peccato del mondo” (Gv 1,10; 14,17; 17,11.14.25; 1Gv 3,1), da cui perfino la comunità appare minacciata (1Gv 2,15ss; 4,3ss; cfr. anche Rm 1,24-31; 1Cor, 6,9; Gal 5,21; Ef 5,5).
Anche l’autore della lettera agli Ebrei distingue nettamente da tutti gli altri il peccato di apostasia, che egli considera gravissimo, fino al punto da ritenerne impossibile il perdono (Eb 6,4ss; 10,26ss).
Paolo matura la svolta fondamentale del proprio pensiero teologico nel quadro del contrasto tra pagani e giudeo-cristiani e nel contesto della problematica del rapporto tra fede cristiana e legge di Mosè. Per l’Apostolo, pagani e giudei condividono la medesima condizione di creaturalità e la stessa situazione esistenziale di radicale peccaminosità (Rm 2,17-23; 5,12ss). Secondo Paolo esiste una «legge scritta nel cuore», la quale vige in quanto coincide con la stessa condizione ontologica dell’immagine di Dio impressa nelle strutture spirituali e morali della persona umana mediante l’atto creativo. Questa legge morale interiore svolge per i pagani, ed ogni essere umano, la stessa funzione che la Torah riveste limitatamente al giudeo. Una rivelazione di questa legge non scritta sotto forma di norme positive, ossia la legge di Mosè, si è però resa storicamente indispensabile a causa della minaccia portata al successo dell’originario piano salvifico della creazione dal progresso storico della situazione di peccato in cui l’intera umanità si trova esistenzialmente rinchiusa (Rm 11,32).

Condizionamenti e limiti della libertà.

Dall’analisi sin qui condotta si evince il ruolo fondamentale della libertà nel peccato: «non v’è né vi può essere colpa personale davanti a Dio che sia inconscia e non libera»11. In quanto è atto personale il peccato suppone sempre un soggetto capace di attribuirsi responsabilmente un grado proporzionato di libertà d’azione. Paradossalmente il carattere personale e libero del peccato solleva un problema teoretico di una certa entità in ordine a categorie concettuali come “struttura di peccato” e “peccato sociale”. Tali concetti, infatti, non solo indicano entità intersoggettive, ma furono elaborati proprio per denunciare l’alto grado di efficienza che certe realtà mondane esprimono nell’imporre limiti e condizionamenti alla libertà morale degl’individui che vi partecipano.
Bisogna chiedersi dunque, innanzi tutto, se vi sia e donde provenga la possibilità di un indebolimento della libertà morale.
All’interno della sfera degli atteggiamenti morali, in quel livello, cioè, nel quale la persona dispone di sé come un tutto e si determina liberamente davanti a Dio, non è certamente pensabile un effettivo condizionamento esterno alla libertà stessa. Dobbiamo pertanto escludere la sfera degli atteggiamenti, quell’”area” nella quale la libertà fondamentale può essere esercitata senza alcun condizionamento, giacché essa rimane inaccessibile a qualsiasi categorizzazione, perfino concettuale12.
Per quanto riguarda i singoli concreti comportamenti le cose stanno diversamente13. Occorre considerare la costituzione storico-esistenziale della persona. A causa di questa sua strutturazione mondana, pur senza mai esaurirsi in essi, l’uomo non può non oggettivarsi nel corpo e nell’azione. Questa sua attuazione nel mezzo terrestre è «segno costitutivo» della persona. Ma questo mezzo terrestre è anche il medium della forza esercitata dal mondo sulla persona14.
La «costituzione concupiscente»15 dell’individuo e l’«oggettivazione» dei comportamenti peccaminosi nelle strutture mondane possono seriamente influire sulla libertà del comportamento16.
Oggi la teologia accentua la drammaticità di questi aspetti del peccato, sulla scorta della psicologia, della psichiatria e della sociologia, che hanno messo in luce vari modi in cui le situazioni “esterne” esercitano pressioni sull’individuo. Sviluppi psicologici errati17, convinzioni, opinioni e norme socialmente condizionate18 sono altrettanti condizionamenti che condeterminano la vita spirituale dell’uomo, così come le «cosiddette situazioni ingiuste», quali la sperequazione economica, sociale, culturale19. Ma l’influenza della situazione peccaminosa del mondo sul soggetto umano -e viceversa!- non è sfuggita neppure alla teologia del passato, specialmente nel campo dei comportamenti sociali20.

Peccato individuale e peccato formale.

Il fluire dell’esistenza credente può essere descritta come una dinamica esistenziale-teologale il cui sviluppo è la «vita nello Spirito». Il cuore di questo cammino iniziatico è il mistero pasquale di Cristo, in cui l’umanità penetra sempre più intimamente e dal quale sempre più intimamente è penetrata. Tuttavia esiste un avanzamento eversivo rispetto all’affermarsi nel mondo del mistero pasquale. Si tratta del progresso del peccato che si manifesta nel vissuto violento di una collettività umana. Le varie tappe e le svolte della storia della salvezza e, in particolare, la forma storica della morte di Dio, assunta dal Cristo sul Golgota, oltre a sancire ogni volta un’alleanza più stretta tra l’uomo e Dio, nello stesso tempo smaschera una condizione esistenziale di radicale alienazione della persona umana da Dio. Ciò vuol dire che anche il male ha una sua storia ed è pertanto una presenza misteriosa nella vicenda umana, drammatica ma proprio per questo non ineluttabile.
Così pur se dietro un peccato in senso proprio e formale non può che esserci un esplicito attuarsi della persona come tale, ciò non obbliga affatto a concepire il peccato formale esclusivamente nella figura del singolo atto esteriore e di un atto necessariamente individuale. Il peccato ha un suo modo d’essere che trascende il limitato raggio dell’agire individuale. Esso è dotato di una sua potenza che si materializza, nella misura di quanto gli è consentito da condizioni storico-culturali più o meno favorevoli, in quelle che possiamo chiamare “oggettivazioni della colpa”: strutture di peccato e peccati sociali. Perciò esso è in grado di crescere in una maniera che non risulta dalla mera somma delle colpe individuali, vuoi perché il vissuto collettivo di violenza condiziona e modella le istituzioni del vivere comune, che sono a loro volta una delle condizioni del nostro essere situati storicamente nel mondo (peccato sociale); vuoi perché il peccato personale formale tende ad esprimersi ed attuarsi nelle modalità della vita associata (struttura di peccato). Anche il peccato cresce dunque in una maniera “organica”, in un modo cioè che facilita fino a rendere spontaneo e far apparire come indispensabile l’uso di altra violenza21 .
Il progresso del mistero pasquale nel mondo conosce arresti ed involuzioni non solo a causa dell’intrinseco funzionamento delle strutture antropologiche ma soprattutto per la resistenza opposta dalla potenza del peccato.

L’impatto del fenomeno maffioso: strutture di peccato in senso proprio.

L’applicazione della formula di «struttura di peccato» al fenomeno maffioso è problematica e contestata sotto vari aspetti.
Da una parte, infatti, la dottrina dell’imputabilità personale della colpa conduce a sostenere che nessuna istituzione o realtà collettiva può rendersi responsabile di male morale; per cui si conclude che nessuna struttura può essere in sé buona o cattiva. Ciò tuttavia contrasta con l’intrinseca malizia che la ragione morale e la coscienza cristiana istintivamente scorgono22 nella specificità della struttura maffiosa come tale.
D’altra parte alcuni osservano acutamente che denominare la maffia, in maniera fin troppo facile, “struttura di peccato” rischia di dissolvere la carica drammatica della violenza maffiosa in un’impalpabile colpevolezza corporativa, la quale in sostanza impedirà di collegare la gravità morale del fenomeno alle precise cause storiche che lo determinano.
Chi vuol continuare a sostenere che la maffia sia effettivamente una struttura di peccato si vede pertanto obbligato ad una più accurata messa a punto del concetto, sviluppando la distinzione, non ignota alla teologia morale23, tra strutture di peccato in senso proprio e in senso ampio.
Sono da considerare strutture di peccato in senso largo strutture e istituzioni del vivere umano associato moralmente condizionate e condizionanti in senso indiretto, cioè attraverso la mediazione della sfera dei comportamenti. Sono peccaminose in senso proprio invece quelle strutture, direttamente condizionate dall’agire peccaminoso degli individui che ne fanno parte attraverso la sfera degli atteggiamenti, o disposizioni cattive, e di una opzione fondamentale per il male.
Nel primo caso l’uso cattivo della struttura è sempre un uso strumentale, che ne sfrutta gli inevitabili limiti, difetti e imperfezioni piegandoli ai propri scopi. Si pensi, ad esempio, ai massimi sistemi economici, capitalistico e collettivistico. Strutture del genere esisterebbero probabilmente anche a prescindere del cattivo comportamento di chi ne abusa, mentre la capacità di condizionare al male, a sua volta esercitata da parte di tale struttura, è pur sempre un condizionamento materiale, che inclina il soggetto che ne fa parte a compiere il male e ne indebolisce la responsabilità ma non giunge a determinare per ciò stesso il consenso al male, che è l’elemento formale del peccato.
Nel caso di una struttura propriamente peccaminosa, la struttura è di per sé creata e finalizzata in vista di un male morale, realizza in sé il potere di attuare un male morale ed è scelta sempre in senso proprio per i vantaggi procurati da una struttura di potere illegittimo. Una simile entità è intrinsecamente cattiva nel senso che chi ne partecipa si rende formalmente responsabile del male prodotto dall’esistenza stessa della struttura. L’aspetto più grave di una tale situazione e il suo potere moralmente devastante sta nel fatto che la struttura non può esistere senza la cooperazione formale di chi partecipa alle sue finalità malvage.
Perché si possa dire di trovarci di fronte una vera struttura di peccato non basta che essa coinvolga più di una persona, né che occasionalmente produca le sue conseguenze negative o che non produca mai altri effetti materiali se non quelli negativi, ma occorre che il peccato che la qualifica sia culturalmente strutturato24. In altre parole, in quanto è il prodotto dello strutturarsi di molte opzioni fondamentali negative e di un atteggiamento immorale collettivo, occorre che la struttura di peccato in senso proprio preveda una certa definitività del proprio universo di senso e una stabilità dei suoi codici comportamentali; che sia capace di strutturare e condizionare codici comportamentali al di fuori di essa e tenda ad affermarsi ed a crescere fino ad occupare l’intero orizzonte culturale di un determinato gruppo umano.
Naturalmente stiamo pensando alla maffia, alla sua presenza pervasiva fin dentro le istituzioni, alla sua capacità di insediamento culturale, alla volontà di proporsi come alternativa al potere legittimo delle istituzioni naturali e politiche.

Tensione escatologica, non violenza e resistenza cristiana.

La Chiesa accusa oggi un indubbio ritardo culturale sul fenomeno maffioso. Dopo la fase della denuncia all’epoca dei grandi delitti eccellenti, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80, la chiesa siciliana sembrò tornare, fino alla vigilia del martirio di Pino Puglisi, alla vecchia difesa apologetica di una astratta sicilianità, alla retorica del “siciliano onesto” di quando la gerarchia ecclesiastica siciliana, e in particolare il Card. E. Ruffini, nutriva il fondato sospetto che dietro l’uso strumentale dell’argomento-maffia si celasse un cavallo di battaglia dell’armamentario ideologico anticlericale. Così si è nuovamente instaurata, negli ambienti ecclesiastici, la tendenza a trattare Cosa Nostra come fenomeno marginale, epidemico, della società siciliana, una organizzazione criminale ed un problema tra i tanti, proprio mentre altre istituzioni e intellettuali di estrazione non cattolica, che pure in altri tempi avevano condiviso la stessa deleteria approssimazione minimalista25, compivano decisivi passi avanti nella lotta alla maffia anche sul piano dell’approfondimento teorico, cogliendo la specificità del crimine di associazione maffiosa.
Al di là delle molte precisazioni che possono aggiungersi, va detto innanzi tutto che il nostro ritardo culturale consiste proprio nella difficoltà di cogliere il carattere strutturale della devianza maffiosa. Occorre convincersi che la maffia non è solo un effetto ma principalmente una causa dei mali, anche morali, della Sicilia. Dal punto di vista teologico ciò significherebbe rendersi conto che Cosa Nostra è una forma di apostasia che persegue un progetto diametralmente opposto a quello che Cristo affida alla comunità ecclesiale.
Per un discorso di resistenza cristiana alla maffia la scelta preferenziale dei poveri26 è condizione necessaria ma non sufficiente. Occorre fare riferimento all’intera prassi di liberazione di Gesù, sull’ispirazione delle richieste avanzate da Cristo nel Discorso della Montagna. La violenza, infatti, come si è visto, è l’aspetto macroscopico del dinamismo del peccato presente nella costruzione umana del mondo. La scelta della più radicale non violenza deve mostrare con chiarezza la sua spinta propulsiva escatologica, deve saper mostrare di provenire dall’interno stesso dello sviluppo ecclesiale, vale a dire di quel progetto di convivenza umana sanata alla radice dalla presenza di Gesù Cristo. Riguardo al fenomeno maffioso, il compito dei cristiani è quello di destrutturare gradualmente la sua natura peccaminosa, facendo leva appunto sulla sua radice umana deviata, risanandola. Un lavoro assai complesso che prevede l’elaborazione di una completa strategia: lo sviluppo di tutta una cultura della responsabilità politica dei cristiani, l’elaborazione di pedagogie, metodi di lotta e persino linguaggi radicalmente liberati da ogni ombra di violenza.

1Cfr. G. GUTIERREZ, Teologia della liberazione. Prospettive, tr. it., Brescia 1972, 180-184; L. BOFF, Chiesa: carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante, tr. it., Roma 19842, 34-36. E’ da sottolineare tuttavia che il concetto è espresso in modi equivalenti già in opere di teologi degli anni ‘60; cfr. ad esempio, J. M. GONZÁLEZ RUIZ, Pobreza evangelica y promoción humana, Barcelona 1966, 29 e già nei documenti della II conferenza del CELAM (cfr. «Paz», Medellin 1969, 65), ove compaiono formule come: «situazione di peccato», applicate alle strutture economiche e altre realtà collettive.
2«Ci rallegra […] che l’evangelizzazione venga beneficiando degli aspetti costruttivi di una riflessione teologica sulla liberazione, come accadde a Medellin» (Puebla. L’evangelizzazione nel presente e nel futuro dell’America Latina, Puebla de los Angeles, 27.1-13.2.1979, 343; tr. it., EMI, Bologna 1979; la citazione è tratta da L. ACCATTOLI, Le conclusioni di Puebla, in Il Regno-attualità, n. 393, 6/ XXIV (15 marzo 1979), 104). A causa dell’esplicito riferimento alla teologia della liberazione, l’unico sopravvissuto nella redazione finale, il testo citato ebbe vita travagliata sin dalla sua prima stesura in commissione e fu inserito nel documento conclusivo, dopo due votazioni a larga maggioranza, con 126 suffragi favorevoli contro 52. Si tenga presente che il documento votato a Puebla gode di una esplicita approvazione del papa. L’accenno alla teologia della liberazione rimanda comunque al principio teoretico, «Jesucristo liberador», sul quale si sviluppa tutta la riflessione pastorale dei vescovi di Medellin e Puebla. Sul concetto di “peccato strutturale”, elaborato dalla teologia della liberazione, e sulle necessarie correzioni da apportare a tale dottrina si pronunzia anche il prefetto della Sacra Congregazione per la dottrina della fede, J. RATZINGER, Alcuni aspetti della «teologia della liberazione» (Libertatis Nuntius), in Enchiridion Vaticanum,. Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 9 (25.1.83-14.12.85), Bologna 1987, n. 899 e Prooemium, Ibid, n. 866.
3«Lo sviluppo del concetto di “peccato sociale” e di quello di “situazione di peccato”, nell’insieme del documento [che raccoglie gli atti della conferenza di Puebla], meriterebbe una ricerca a parte. “La realtà latino-americana ci fa sperimentare amaramente, fino a limiti estremi, questa forza del peccato, flagrante contraddizione del piano divino”, si legge nel paragrafo 101. Cf. anche 17 (è peccato sociale la «distanza tra ricchi e poveri»), 38, 40, 115, 166 (il «mistero dell’iniquità» opera «mediante fatti o strutture che impediscono una partecipazione più fraterna nella costruzione della società e nel godimento di beni che Dio creò per tutti», 180 (i segni del peccato nelle «strutture create dagli uomini»), 225, 836, 882 («oggettivazioni del peccato in campo economico, sociale, politico e ideologico culturale»), 1019 (L. ACCATTOLI, op. cit., 103, nota 19). Cfr. anche il Documento di consultazione in preparazione dei testi di Medellin e Puebla: «Per la Chiesa è motivo di gioia l’aumento di sensibilità di fronte ai mali sociali e alle strutture di peccato» (449); «Il peccato […] ostacolerà senza posa la crescita nell’amore e nella comunione, sia nel cuore degli uomini, sia nelle diverse strutture da essi create, nelle quali il peccato dei loro autori ha impresso la propria impronta distruttrice» (281); in G. P. SALVINI, Questioni circa l’economia, in S. BASTIANEL (ed.), Strutture di peccato. Una sfida teologica e pastorale, Casale Monferrato, 1989, 53.
4In Osservatore Romano, 1.2.1979, 5.
5Esortazione apostolica, 2.12.1984; in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 9, cit., n. 1118.
6CONGREGAZIONE DELLA FEDE, 22.3.1986, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 10 (1986-1987), Bologna 1989, n. 248.
7Sollicitudo Rei Socialis, 36-37 passim in Enchiridion Vaticanum Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 10 , cit., nn. 2639-2645; cfr. anche Sollicitudo Rei Socialis, 46 in Enchiridion Vaticanum, cit., nn. 2692-2695
8Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, 1992, nn. 1868-1869; cfr. anche n. 408.
9Cfr., a mero titolo di esempio, l’intero fascicolo di Segno, XIX (1993) n. 150; cfr. spec. E. CHIAVACCI, Mafia e responsabilità della chiesa, 12.
10Ad Siciliae episcopos occasione oblata «ad Limina» visitationis coram admissos, (11.12.1981) in Acta Apostolicae Sedis. Commentarium officiale, LXXIV (1982) 240; anche in A. CHILLURA, La posizione delle comunità ecclesiali siciliane nei confronti della mafia, in AA. VV., Mafia, politica, affari. Rapporto 1992, Palermo, 1992, 308.
11K. RAHNER, Colpa, remissione, conversione nella fede, in A. GÖRRES- K. RAHNER, Il male. Le risposte della psicoterapia e del cristianesimo, tr. it., Milano 19872, 150.
12Questa zona è inaccessibile alla riflessione concettuale sia pure dell’io: nella concettualizzazione infatti verrebbe a stabilirsi una distanza tra l’io riflettente e l’io oggettivato, cosa chiaramente contraddittoria (cfr. J. FUCHS, Peccato e conversione, in Sussidi 1980 per lo studio della teologia morale fondamentale, Roma 1980, 152-153; K. RAHNER, Verità dimenticate intorno al sacramento della penitenza, in ID., La penitenza cristiana, tr. it., Roma 1968, 164; ID., Conversione, in Sacramentum Mundi. Enciclopedia teologica, tr. it., vol. II, Brescia 1974, 623; ID., Colpa, remissione…, op. cit., 228; F. BÖCKLE, I concetti fondamentali della morale, tr. it., Brescia 19818, 118, 122).
13«E’ assai problematico se si possano distinguere tanto semplicemente gli oggetti della volontà in liberi e non liberi, o se questi due predicati, per quanto in maniere sempre diverse, non convengano ad ognuno di tali oggetti, anche se nell’atto vero e proprio della libertà l’uomo dispone di sé come di un tutto» (K. RAHNER, Verità dimenticate..,, op. cit., 231).
14K. RAHNER, Verità dimenticate…, op. cit., 158-159; cfr. anche ID., Colpa, remissione…, op. cit., 235. Anche F. Böckle sostiene qualcosa di simile: le nostre decisioni si attuano per mezzo della nostra corporalità e stanno per conseguenza in una ambiguità di natura (cfr. I concetti fondamentali…, op. cit., 122).
15J. FUCHS, Etica cristiana in una società secolarizzata, tr. it., Roma 1984, 101.
16Cfr. G. TRE RE, Profetismo, in S. LEONE – S. PRIVITERA (edd.), Dizionario di bioetica, Acireale – Bologna 1994, 765.
17B. Kiely richiama l’attenzione sulla psicologia dell’età evolutiva, sostenendo che limitazioni della libertà si possono avere per effetto delle disfunzioni psicologiche risalenti alla «memoria affettiva», che è formata per lo più nell’infanzia; agli stimoli cognitivi; alle difficoltà del rapporto genitori-figli… (B. KIELY, Psicologia e teologia morale. Linee di convergenza, tr. it, Casale Monferrato 1982, 285-286).
18K. RAHNER, Colpa, remissione…, op. cit., 227.
19J. FUCHS, Etica cristiana…, op. cit., 100.
20Ibid., 93-96.
21Così, senza voler dirimere la questione se il “peccato del mondo” sia da identificare o meno col peccato originale (Cfr. P. SCHOONENBERG, L’uomo nel peccato, in Misterium Salutis. Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza, tr. it., Brescia 1970, vol. IV, La storia della salvezza prima di Cristo, 701-715), possiamo condividere le conclusioni di J. Fuchs: «Il peccato del mondo libera la concupiscenza che rende poi necessari specifici ordinamenti ed istituzioni in una umanità caratterizzata dalla concupiscenza. Ma tramite gli uomini costituiti come concupiscenti, esso realizza anche delle oggettivazioni di se stesso: comportamenti e situazioni istituzionalizzati e non, che da parte loro in certi casi condizionano un comportamento ad essi “adattato”» (J. FUCHS, Etica cristiana…, op. cit., 97). Cfr. anche K. Rahner: «La “peccaminosità fondamentale anonima” […] quella che la tradizione chiama concupiscenza […] non appartiene semplicemente di per sé alla natura umana, bensì può essere incrementata da precedenti atti colpevoli» (Colpa, remissione…, op. cit., 238; cfr. anche ID., Verità dimenticate…, op. cit., 151).
22Sull’«istinto morale» della ragione naturale e della fede come fonte di conoscenza morale cfr. K. RAHNER, La manipolazione genetica, in ID., Nuovi saggi III, tr. it., Roma 1969 tr. it., 360-373; G. TRE RE, Ingegneria genetica: aspetti tecnici, valutazione etica, in Bioetica e cultura I (1992) 1, 81-82; ID., Conversione, in S. LEONE – S. PRIVITERA (edd.), op. cit., 191.
23Cfr. S. BASTIANEL, Strutture di peccato. Riflessione teologico-morale, in ID. (ed.), Strutture di peccato. Una sfida…, op. cit., 31-32.
24Non è senza importanza per il teologo il fatto che i più seri studiosi del fenomeno criminale in Sicilia indichino oggi tra gli aspetti peculiari nella struttura materiale dell’atto di omicidio a Palermo l’associazionismo e dunque anche la premeditazione: cfr. G. CHINNICI, Processi per omicidio a Palermo, in G. CHINNICI – U. SANTINO – G. LA FIURA – U. ADRAGNA, Gabbie vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Milano 1992, 15-96). Il grado di associazionismo, cioè il rapporto del numero di autori (mandanti, fiancheggiatori, esecutori) per singolo omicidio, è significativamente più alto a Palermo (9,8 autori per omicidio) che, per esempio, a Genova (1,27). L’omicidio a Palermo è un fenomeno così statisticamente d’eccezione da potersi spiegare solo riconoscendo che quest’insieme di dati incorpora una massa di fatti non attribuibili alla criminalità comune, ma da ricondurre all’attività e alla capillare presenza della maffia. Per calcolarne esattamente l’incidenza, Chinnici si serve del concetto di «matrice», da lui stesso elaborato in studi precedenti. Quasi la metà degli omicidi attuati a Palermo (il 45,5%) risulta così essere di matrice maffiosa, mentre solo il 28% è da addebitare alla criminalità comune.
25«Fino ai tragici fatti di sangue della prima guerra di mafia degli anni ‘62-’63, gli organismi responsabili e i mezzi d’informazione sembrano fare a gara per minimizzare il fenomeno mafioso». Queste parole di Giovanni Falcone, riportate da S. LODATO, Dieci anni di mafia, Milano 1990, 7-8, confermano, ad anni di distanza, quanto il card. Ruffini l’11 agosto del 1963, significava nella sua lettera di risposta al card. Dell’Acqua, allora segretario di Stato: «Un alto funzionario della polizia ben addentro alle segrete cose e abilissimo proponeva il dubbio: che cosa si dovesse intendere per mafia, e rispondeva egli stesso che trattasi di delinquenza comune e non di associazione a largo raggio».
26B. SORGE, Solidarietà e sviluppo, in S. BASTIANEL, Strutture di peccato. Una sfida…, op. cit., 62-63.

*GIAMPIERO TRE RE:Docente di filosofia, psicologia e scienze sociali, è dottore di ricerca in Diritti dell’Uomo presso l’Università di Palermo e licenziato in Teologia morale presso l’Università Gregoriana di Roma. Specialista di bioetica è autore di vari articoli e saggi tra cui Terra di nessuno. Bioetica dei diritti dell’embrione umano, Palermo 1999.