La pietà popolare e l’ecclesiale locale
di Michele Vilardo
Relazione al Convegno sulla “Traditio fidei e l’IRC”
organizzato da Sua Ecc.Rev.ma Mons.Cataldo Naro
Arcivescovo di Monreale
(Eletto il 18-Ottobre 2002-Deceduto il 29-Settembre 2006)
Poggio San Francesco 1-2 Luglio 2003
1. La pietà popolare
L’analisi della religione popolare, meglio identificata con le espressioni «religiosità popolare» e «pietà popolare», ha attratto l’attenzione degli studiosi del fenomeno negli ultimi decenni.
Carlo Levi nel suo affascinante racconto autobiografico intitolato Cristo si è fermato ad Eboli così scriveva:
Nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c’è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dèi del villaggio.
Cito, in apertura del mio discorso, il brano di Levi, con cui egli descrisse, negli anni quaranta, i contadini della Lucania, dov’era stato mandato al confino, poiché la realtà proposta da questo fortunato libro rifletteva in maniera significativa più che la condizione storica del nostro meridione, l’atteggiamento culturale con cui ad esso guardava il colto osservatore venuto dal profondo nord.
Affiora, nella descrizione di Levi, un’interpretazione del mondo popolare e del vissuto della sua religiosità che risulta innestata sul tronco dei luoghi comuni e dei motivi polemici ereditati da una robusta tradizione della cosiddetta “cultura alta”.
Levi è il portavoce di una ben precisa interpretazione culturale, di stampo sociologico-ideologico, ma non teologico, che ha tenuto banco, nel corso di tutto il dopoguerra. I tratti distintivi, di questa concezione della religiosità popolare, possono essere ricondotti a due nodi di fondo: l’accentuazione del dato irrazionale, magico, infantile e primitivo del fenomeno; la religiosità dei ceti popolari che viene vista, essenzialmente, come un prodotto spurio, una forma di sincretismo in cui il sacro si confonde con il santo e con il profano, quasi fossero la stessa cosa, e la fede è interpretata a partire dai bisogni materiali dell’esistenza umana al punto tale da alterare lo stesso magistero ecclesiastico.
Il problema di fondo che il testo di Levi pone chiama in causa le diverse interpretazioni date sulla religiosità popolare prevalentemente di matrice illuminista, marxista e neo-marxista, scaturenti da prospettive e preoccupazioni spesso estranee al vissuto religioso reale del popolo cristiano.
Più precisamente si può comprendere il variegato fenomeno della religiosità popolare facendo riferimento ad una serie di modelli che il sociologo della religione Enzo Pace definisce modelli della dicotomia e della contrapposizione.
I modelli dicotomici hanno posto in essere due chiavi di lettura del fenomeno:
a) il dominante-subalterno;
b) l’ufficiale/dotto contrapposto allo spontaneo/semplice.
Il modello dominante-subalterno fa riferimento ad un insieme di teorie di impianto marxista che interpretano la religiosità popolare come espressione della differenza socio-economica e culturale fra le classi subalterne e quelle dominanti. Il presupposto da cui queste teorie prendono le mosse è il fatto che la religione costituirebbe un efficace dispositivo attraverso il quale le classi sociali meno fortunate tendono ad interpretare il mondo di privazione, in cui esse vivono, ricorrendo con più frequenza alle pratiche religiose che consentirebbero agli individui di rendere più vicina la potenza del divino. Le classi sociali subalterne, per ragioni economico-culturali, porrebbero in essere delle forme di religiosità in grado di dare risposte immediate al loro disagio sociale e alle sofferenze individuali e collettive diversamente non controllabili.
A tal proposito la studiosa, di indirizzo marxista, Annabella Rossi sostiene che la gente del sud che celebra le feste religiose appartiene a quel mondo dell’Italia meridionale in impercettibile trasformazione culturale che si identifica con una «cultura della miseria» nella quale alla depressione economico-culturale si lega un sentimento religioso modulato secondo criteri magico-popolari in grado di risolvere i problemi dell’aldiquà.
Per la Rossi «questa religiosità viene vissuta principalmente come risolutrice dei problemi dell’aldiquà, un aldiquà nel quale non si può contrapporre ai concreti mali quotidiani, altro che (se non) un affidarsi magico religioso ed un invocare uno stare bene che non è pensabile come conquista civile ed è pensato come elargizione misteriosa e potente da parte del divino».
Questa lettura, da sottosviluppo economico-sociale, diviene sempre più esplicita nel pensiero della Rossi allorché essa scrive che «l’assenza di alternativa e di chiare prospettive di ordine sociale e politico, spiegano il fatto che gli appartenenti alla cultura della miseria del mezzogiorno italiano si rivolgono per la soluzione dei loro problemi alla sfera religiosa, ad un cattolicesimo, quale è, appunto, quello popolare, che offre protezione e grazie in cambio di devozioni particolari, di sacrifici, di impegni individuali come affrontare un percorso a piedi… farsi promotore di raccolte di offerte… manifestare la propria fede in modo eclatante con grida, pianti e così via».
Spesso il fenomeno viene inquadrato in un presunto sottosviluppo culturale, per cui la religiosità sarebbe paganesimo greco-romano verniciato con i contenuti del cristianesimo. A questo tipo di lettura si lega la ricerca di Ernesto Di Martino che nel suo studio, dal titolo Sud e Magia, sostiene che il clero meridionale avrebbe assolto ad una funzione di raccordo tra gli esorcismi pagani e quelli cristiani, realizzando una sorta di egemonia religiosa e culturale in una società arretrata come quella meridionale.
La religione popolare appare quasi condannata a riprodursi in maniera meccanica senza farsi scalfire in profondità dagli sviluppi della dottrina o dall’influsso delle cicliche ondate di cristianizzazione controllate dalla gerarchia ecclesiastica: cambiano le forme esteriori, cambia la scenografia teatrale della pietà collettiva ma la sostanza si perpetua nel tempo.
Lo stesso Gramsci, nei Quaderni dal Carcere, ha riflettuto sulla religiosità popolare delle classi subalterne assimilando la religione popolare al folklore, cioè ad una visione del mondo caratterizzata da anti-intellettualismo, ricerca di esperienze emotivamente forti, rappresentazione antropomorfica del sacro per meglio manipolarlo ed ottenere benefici pratici ed immediati.
Sempre nell’ambito del modello della dicotomia dominante-subalterno, si collocano le ricerche fatte da Alfonso Di Nola che «tendono ad evidenziare il significato sociale e comunitario di questa religiosità di fronte alla disgregazione culturale in atto, come esigenza di recupero di una identità collettiva in una situazione esistenziale messa in crisi da una realtà socio economica dominata dal mercato del consumismo.
Il modello della dicotomia tra le classi sociali è messo in crisi da un dato storico oggettivo: la religiosità popolare non è mai stata prodotto esclusivo delle “classi oppresse” poiché essa è stata, ed è ancora oggi, praticata da persone di ogni ceto sociale. Basti pensare al fenomeno dei pellegrinaggi che vede insieme ricchi e poveri, semplici e dotti, nobili e popolani accomunati dalla ricerca di salvezza che solo il Santo,cioè la presenza salvifica di Dio, può offrire.
Detto ciò, è possibile affermare che la gente semplice, popolare, anche nell’accezione sociologica del termine, svantaggiata sul piano della cultura, del potere e della ricchezza, abbia trovato anche nella religiosità popolare il terreno privilegiato per vivere con modi “popolari”, di un popolare teologicamente inteso, i contenuti principali della fede cattolica.
Il secondo modello, proposto da Pace, quello cioè della dicotomia tra l’ufficiale/dotto e lo spontaneo/semplice, trasferisce la dicotomia di classe in una differenziazione interna alla vita della Chiesa caratterizzandola con la logica della contrapposizione fra una ortodossia ufficiale, canonizzata in testi sacri e liturgie, riconosciuti legittimi dalla gerarchia ma contrapposti a forme non ufficiali ed extra-liturgiche di manifestazioni di fede.
Queste ultime verrebbero disciplinate e tollerate dalla religione ufficiale affinché non debordino in forme e percorsi magico-superstiziosi. In questo secondo modello la logica della contrapposizione scaturirebbe non dal fatto che la religiosità popolare sia radicalmente altro dalla religione ufficiale, bensì dal fatto che, è quest’ultima a voler stabilire i confini di tutto ciò che può essere considerato espressione di fede autentica rispetto a ciò che, invece, si colloca fuori di essa.
Tramite questa operazione, di demarcazione simbolica, la religione ufficiale tenderebbe a preservare le varie forme di religiosità popolare, ammesse ma tollerate, come espressione di autenticità del popolo, umile e semplice, non contaminato da sovrastrutture culturali e da complicate mediazioni intellettuali.
Anche questo modello della contrapposizione interna alla vita della Chiesa è smentito dai fatti: la gerarchia, il clero, i religiosi hanno sempre preso parte ai riti della religiosità popolare con la partecipazione ai pellegrinaggi e ai santuari mariani, con la recita del rosario, con la celebrazione della via crucis e di altre pie pratiche in quanto facenti parte della categoria teologica di “popolo di Dio” e, pertanto, senza nessuna logica di contrasto e contrapposizione.
La religiosità popolare, scrive mons. Cataldo Naro, non dice contrapposizione tra la Chiesa ufficiale e il popolo, non postula diversità tra la religione del vescovo e del clero, più o meno riformatore, e la religione dei fedeli.
Fin qui non ho mai usato, volutamente, l’espressione “pietà popolare” perché l’uso di questa semplice ma profonda espressione delimita il campo del discorso teologico sull’argomento.
Che cos’è, allora la pietà popolare? Nella sua realtà profonda è fede cristiana; fa, cioè, riferimento al messaggio della salvezza e alla centralità del mistero pasquale. Per una lettura teologica del fenomeno è opportuno usare la dizione di pietà popolare, anche se va detto che pietà e religiosità sono aspetti di uno stessa medaglia da cogliere dinamicamente.
Infatti di per sé, come sostiene mons. Naro, etimologicamente, pietà non dice più o diversamente da religiosità. Nell’accezione, consacrata anche da una felice espressione di Paolo vi nella Evangelii nunziandi al n. 48, la pietà dice più rapporto alla Chiesa come fatto istituzionale, mentre religiosità dice maggiormente una costante dell’animo umano, la sua apertura al divino, che si esprime in una molteplicità e varietà di espressioni e di atteggiamenti non necessariamente legati alla realtà istituzionale della Chiesa ma neppure contro di essa.
Prova ne sia che anche nelle religioni altre dal cattolicesimo esistono percorsi di religiosità popolare.
Con il termine “pietà” si intende sottolineare anche la lunga tradizione ecclesiale che definisce il rapporto con Dio e con i santi. Pietà dice il concetto, che don De Luca ha elaborato: la presenza amata di Dio nella vita dei credenti. Questa presenza amorevole viene sperimentata dal credente come salvezza, offerta dal Padre nel Figlio e testimoniata nella storia da testimoni privilegiati quali Maria di Nazareth e i santi, il credente risponde con moltissime espressioni popolari: novene, tridui, azioni extra liturgiche della settimana santa, processioni, pellegrinaggi, via crucis, rosari, venerazioni delle reliquie, culto dei defunti, edicole votive, preghiere popolari, ex voto, accensione di ceri e omaggi floreali alla vergine e ai santi, venerazione dei santi, uso di medaglie e scapolari.
Parlare di pietà significa dire il percorso di fede, la vera devozione scaturente dalla fede genuina. La pietà popolare trova la propria radice nel suo essere espressione viva della fede di un popolo e, pertanto, essa è la fede cristiana vissuta nella trama del quotidiano, nella propria esistenza personale, familiare ed ecclesiale, connotata da un consapevole rapporto con Dio colto presente nella propria esistenza ed in maniera continuativa. Una presenza che salva nell’oggi della storia. Pertanto la pietà popolare non ha nulla a che spartire con il concetto di sacro poiché essa dice proprio il passaggio dal sacro al santo.
Infatti il sacro è tutto ciò che ci mette in rapporto con il divino inteso come il fondamento dell’essere. Il santo è il divino personale, cioè Dio che si è fatto spazio e tempo entrando in un rapporto con gli uomini e facendo sì che la storia, toccata dall’irruenza di questo santo, dal Dio-Uomo, diventasse “divina” nel senso che le è stata data la possibilità di entrare in una relazione di comunione con Dio ricevendo, per partecipazione, la stessa vita di Dio. Questa relazione, tra Dio incarnato e l’umanità che lo accoglie, diventa evento di salvezza.
La pietà differisce anche dal folklore poiché esso richiama la storia del costume e della mentalità di un popolo ed ha attinenza con le forme ormai superate della società e dell’economia del passato, è residuo di usanze collettive connesse con le modalità tipiche dell’esistenza e della produzione economica della società agro-pastorale che oggi non sono più.
Il folklore è legato alla cosiddetta civiltà materiale ricordando la quale non ottengo nessuna salvezza. Può esistere un folklore religioso riecheggiante, cioè, pratiche religiose ed ecclesiali completamente desacralizzate riprese da soggetti non ecclesiali, come ad esempio le pro-loco, con intenti di chiara valorizzazione culturale o a fini di attrazione turistica.
Anche il folklore religioso proprio perché privo di un reale contenuto di “pietà”, cioè di incontro con Cristo-salvatore, e dunque non esprimente la fede, non può ritenersi pietà.
Due esempi caratteristici di folklore e di folklore religioso presenti nel territorio dell’arcidiocesi monrealesi sono: la Festa degli Schietti di Terrasini e il Ballo dei Diavoli di Prizzi: entrambi si svolgono nel giorno di Pasqua.
Alla Festa degli Schietti partecipano i celibi del paese, i quali si misurano in una gara di abilità. Sollevano con un braccio un albero d’arancio, del peso di 50 chilogrammi, addobbato con nastri e ninnole colorate, e provano a tenerlo in equilibrio sul palmo della mano per il maggior tempo possibile. L’addobbo dell’albero avviene il sabato santo. La mattina di pasqua tutti si danno appuntamento nella piazza del paese, davanti alla chiesa madre: il parroco benedice gli alberi prima di dare inzio alla gara che si protrae per tutta la mattina di pasqua. La festa è legata ad una tipica usanza locale. Nei tempi passati il giorno di pasqua si usava chiedere in moglie la propria fidanzata. A Terrasini ciò veniva fatto sollevando l’albero sotto il balcone dell’amata: se la ragazza staccava un ramoscello significava che accettava la proposta del matrimonio.
Nello spettacolo dell’abballu di li diavoli, a Prizzi, si fondono elementi desunti dalla fede e dal folklore. Alle 15 del pomeriggio, nel giorno di pasqua, le maschere dei diavoli e della morte si dividono in cinque gruppi, quanti sono i quartieri del paese, per rappresentare la loro pantomima durante l’incontro tra la Madonna e il Cristo Risorto. I figuranti, con il volto coperto da una caratteristica maschera, seguono i simulacri della Madonna e di Cristo, che vengono portati per le strade del quartiere. I diavoli cominciano a muoversi tra di esse a passo di danza ed è a questo punto che inizia il ballo vero e proprio. Il momento di maggiore suggestione si verifica quando i diavoli e la morte smettono di seguire i due simulacri: in quel preciso istante arrivano due angeli, che rappresentano il bene, e, con le spade sguainate ingaggiano battaglia contro i diavoli e la morte, simboli del male destinato ad essere sconfitto.
La mancata demarcazione, a livello teorico e pratico, del confine tra pietà e folklore è dovuta con tutta probabilità alla mancanza di chiarezza circa la fine del regime di cristianità con la drammatica conseguenza di scambio di ruoli: le pro-loco diventano parrocchie e viceversa. La diversità di natura e di funzioni tra le realtà civili e quelle ecclesiali non significa contrapposizione o conflittualità ma semplicemente chiarezza di idee, e del conseguente operato, circa la natura e la finalità di tutto ciò che va sotto il nome di pietà popolare che è altro da tutto ciò che va sotto il nome di folklore: «La coerenza tra festività esteriore e mistero celebrato si traduce nella ricerca di modalità festive conformi al contenuto del mistero celebrato e ciò può implicare, talvolta, una posizione critica verso modalità contrarie allo spirito cristiano».
La pietà differisce anche dalla magia in quanto essa intrattiene un rapporto umile e confidente con Dio, colto come trascendente e sovranamente libero e non presume di piegare la potenza di Dio con modalità coattive.
La pietà, riconoscendo la trascendenza di Dio ne richiede la grazia, ossia la sua presenza salvifica nell’oggi della storia ma con spirito di assoluta umiltà. La magia coglie, invece, il divino come immanente nel mondo e pretende, tramite la presunzione del comando, di accaparrarsi coattivamente la potenza del divino o per scopi benefici o malefici. La magia dice lucro e profitto, la pietà gratuità.
È vero comunque che possono esistere dei casi di sincretismo magico-religioso che si incontrano nella dimensione della cultualità o in atteggiamenti e comportamenti di uomini di chiesa e di comunità ecclesiali: basta però un’attenta analisi per distinguere gli ambiti. La pietà differisce anche dalla superstizione intesa, quest’ultima, come l’osservanza di taluni divieti e pratiche per irrazionale timore di imprevisti negativi. L’atteggiamento mentale del superstizioso si fonda sul principio “non è vero ma ci credo”.
La pietà differisce anche dalla concezione mitica della fede cristiana poiché la concezione mitica appella alla dimensione ciclica della storia ossia l’esperienza di Ulisse che viaggia ma per fare ritorno, alla fine, a casa sua. Mentre la pietà fa riferimento all’esperienza di Abramo il quale compie un “Viaggio” di uscita dal suo Io verso un Altro,senza sapere dove andare, sapendo solo di dover lasciare il certo ma fidandosi.
La pietà dice che l’avventura della fede non si iscrive nel cerchio dell’eterno ritorno ma nella linea retta di un cammino senza appigli e senza certezze umane, un camminare avendo come unica certezza non la propria fragilità fisica e metafisica bensì l’onnipotenza di Dio che salva.
La pietà dice che la salvezza non è nel ritorno a casa propria ma in un cammino storico-escatologico che conduce all’incontro con il Salvatore.
Sono note, al grande pubblico, alcune opere nelle quali si sostiene, appunto, questa dimensione mitica degli eventi centrali della fede cristiana e della conseguente religiosità popolare da essi scaturenti.
Anche l’aggettivo “popolare”impone un chiarimento. Esso non va letto con categorie socio-ideologiche bensì teologiche. Protagonista è il popolo in quanto “popolo di Dio” cosicché la categoria biblico-teologica di “popolo”non è discriminante, non dice contrasto né opposizione né lotta di classe, né appella a dislivelli culturali o a contrapposizioni di sorta. Dalle indagini storiche portate avanti sull’argomento da Gabriele De Rosa emerge come non è dato rilevare, in uno stesso ambito ecclesiale, diversità nella pietà del nobile e del contadino, del borghese e dell’artigiano. Popolare, dunque, come sinonimo di ecclesiale: il popolo a cui si fa riferimento è il popolo santo di Dio, cioè la Chiesa pellegrinante. Tanti problemi sul termine “popolare” nascono o da letture ideologico-politiche dello stesso o, in ambito ecclesiale, dal continuare ad identificare la comunità civile con quella ecclesiale come se fossero la stessa cosa e, quindi, l’aggettivo “popolare” sarebbe onnicomprensivo e del percorso ecclesiale e di quello civile.
Il “popolare” dice, infine, cammino del popolo di Dio quale è storicamente dato in un tempo e in uno spazio, cioè dice cammino della Chiesa locale.
Essa testimonia l’incontro tra il vangelo e la cultura di un popolo, quello credente, vivente in un dato territorio, poiché la Chiesa locale, come scrive Vincenzo Sorce, «è una Chiesa incarnata in un popolo. Una Chiesa indigena e inculturata è una Chiesa in dialogo permanente, umile e amabile con le tradizioni vive, la cultura del popolo in cui essa affonda le sue radici. La Chiesa locale cerca di condividere ciò che appartiene realmente al popolo».
Perciò si può definire la pietà popolare «la maniera in cui il cristianesimo si incarna nelle diverse culture e stati etici e viene vissuto e si manifesta nel popolo».
La pietà popolare è legata con la tradizione spirituale o specifico ecclesiale di una chiesa locale, pertanto, scrive mons. Naro, fa parte del patrimonio di esperienza di fede e di annuncio del vangelo accumulato nella comunità ecclesiale lungo il succedersi delle generazioni sotto l’azione dello Spirito Santo; la pietà, conclude mons. Naro, contribuisce a delineare la fisionomia di una determinata Chiesa e ne caratterizza la “particolarità”.
In questo contesto la pietà di una Chiesa particolare si accosta alla spiritualità di cui sono state, o sono ancora portatrici, alcune personalità spirituali eminenti del clero e del laicato locale. Non di raro è, essa stessa, fonte di nuove spiritualità come nel caso della madre Maria Rosa Zangara di cui dirò più avanti. La pietà si nutre del culto liturgico, della catechesi, delle predicazioni, fa tesoro delle fonti bibliche, dell’insegnamento del magistero, e della grande Tradizione della Chiesa. Nell’oggi della storia si misura con le trasformazioni culturali, economiche e politiche nonché con gli stessi mutamenti interni alla vita stessa della Chiesa cosicché le si può benissimo applicare l’espressione pietas semper reformanda est.
2. L’ecclesiale locale
La pietà popolare dell’arcidiocesi di Monreale credo sia, nella sua quasi totalità, di matrice post-tridentina, eredità del Seicento ma soprattutto del settecento, secolo, quest’ultimo, in cui si realizzò pienamente il concilio di Trento.
Il percorso di pietà popolare si è formato grazie all’influsso soprattutto di due ordini religiosi presenti nel territorio:i francescani e i carmelitani oltre che per l’opera del clero secolare ricca di testi teologici e catechistici che sono entrati a far parte della traditio della Chiesa monrealese.
Una pietà post-tridentina grazie soprattutto alla diffusione degli ordini religiosi con il compito specifico della predicazione e delle missioni popolari.
La presenza dei minori osservanti (1589), diede vita, a Carini, alla devozione a sant’Anna, all’Immacolata e alla via crucis.
Ai conventuali, sempre a Carini, venne affidata una chiesa nel 1576, dedicata a San Rocco protettore degli appestati. La venerazione verso questo santo fu fortissima in quel periodo in cui la peste mieteva vittime tra la popolazione.
I conventuali diffusero anche la devozione a sant’Antonio di Padova ma soprattutto all’Immacolata. Infatti a Carini,ogni anno, nella domenica in albis portavano in processione la statua dell’immacolata in matrice e pregavano per il re.
Il culto all’immacolata diede vita a Carini alla Confraternita della scopa, che aveva il compito di spazzare le strade attraverso le quali sarebbe passata la processione dell’Immacolata.
Ma l’ordine religioso che maggiormente si diffuse,sempre all’interno della grande famiglia francescana, fu quello dei frati minori cappuccini, fondato da fra Matteo da Bascio e riconosciuto da papa Clemente vii il 3 luglio del 1528, con bolla pontificia Religionis zelus, i quali furono in prima linea contro la riforma luterana. I cappuccini arrivarono, per tempo, anche nell’Isola con la fondazione del loro primo convento a Messina nel 1534. La loro diffusione in Sicilia fu rapidissima. Nel 1603 arrivarono a Carini, dove crearono il 27° convento della provincia palermitana e una chiesa dedicata alla Madonna degli Angeli. Nel 1617 arrivarono a Partinico creando il 30° convento della provincia. Nel 1633 fu costruito il convento di Bisacquino dedicato ai santi Gioacchino ed Anna. A Corleone i cappuccini arrivarono nel 1570, mentre nel 1644 iniziò la costruzione di un secondo convento dove visse anche san Bernardo da Corleone.
A Monreale i cappuccini arrivarono nel 1581 e il convento fu ampliato nel 1663. Nel 1913 i canonici e i parroci di Monreale cedettero loro gratuitamente l’uso della “Casa Santa” allo scopo di farla trasformare in convento; in cambio si chiedeva ai frati di assistere i ragazzi nella dottrina cristiana e di predicare gli esercizi spirituali, di confessare in cattedrale e in altre chiese della città.
A Giuliana furono presenti dal 1584 ed occuparono il convento di Santa Anna, in precedenza abitato dai frati minori osservanti. I cappuccini intensificarono il culto a sant’Anna, la cui festa veniva celebrata, con grande solennità, il 26 di luglio di ogni anno. Alla festa partecipavano anche fedeli provenienti da Chiusa e da Bisacquino. Diversi sommi pontefici (da Alessandro viii a Innocenzo xii, da Clemente xi a Benedetto xiii) vollero concedere l’indulgenza plenaria ai pellegrini che avessero visitato la chiesa di Santa Anna in Giuliana.
Clemente xi, nel 1706, concesse l’indulgenza plenaria ad septennium a quei devoti che il 26 luglio avrebbero visitato la chiesa di sant’Anna in Giuliana «dai primi vespri fino al tramonto del sole». La devozione a sant’Anna, a Giuliana, è legata principalmente,così come scrive il Marchese,alla difesa delle donne dalla sterilità e dai travagli del parto. Il culto alla santa «Madre Anna» veniva intensificato, dai giulianesi, in occasione di calamità collettive, come la siccità, allorché i penitenti si recavano in pellegrinaggio flagellandosi attraverso i cosiddetti capizzuna (cavezze) che usavano a mo’ di cilici. Fino agli anni settanta del secolo scorso si effettuavano i pellegrinaggi a piedi scalzi, nel giorno di sant’Anna, da Giuliana al santuario. La cerimonia liturgica veniva conclusa con la recita delle «nove allegrezze della madre sant’Anna». Il culto ai santi genitori della Madonna è diffuso anche a Corleone, Partinico e Balestrate. A Balestrate la chiesa madre è dedicata a sant’Anna e, ogni anno, il 26 di luglio si celebra una grande festa.
I cappuccini diedero vita, a Giuliana, anche al culto alla Madonna della confusione, ossia Maria addolorata. Il culto contempla Maria “confusa” nel momento della sepoltura del figlio immersa in una profonda solitudine. Il culto è stato legato anche alla devozione verso i defunti. Dal 1828 al 1868, per 60 anni, i cappuccini svolsero il loro ministero pastorale a Camporeale reggendo l’unica parrocchia esistente e nel 1832 la dedicarono a sant’Antonio di Padova. Il culto al santo di Padova è diffuso anche a Corleone e a Partinico e Montelepre. Riecheggia ancora oggi nel ricordo dei camporealesi, così come scrive padre Luigi Accardi nella sua storia di Camporeale, la figura esemplare del cappuccino padre Ambrogio che resse la parrochia dal 1828 al 1844 e morì in fama di santità.
La spiritualità francescana ha dato origine al cammino di santità anche di una donna cappuccina, la venerabile Maria di Gesù, al secolo Carolina Santocanale, nata a Palermo ma vissuta, morta e sepolta a Cinisi nel 1923. Fondatrice delle cappuccine dell’Immacolata di Lourdes.
L’altro ordine che si diffuso nel territorio dell’arcidiocesi, lasciando un notevolissimo patrimonio artistico-spirituale, è stato l’ordine dei frati carmelitani presenti, con i loro conventi a Bisacquino, Carini, Chiusa, Corleone, Giuliana, Monreale, Partinico e Prizzi. A Bisacquino arrivarono nel 1540, circa, costruendovi la chiesa, dedicata all’Annunziata, e l’attiguo convento. Da lì, nel 1563 il padre Modesto del Vecchio si partì per andare a costruire un nuovo convento a Carini, che vide tra i suoi figli l’illustre carinese padre Matteo Orlando,divenuto prima priore generale dell’ordine e poi vescovo di Cefalù. La vita carmelitana è mantenuta viva dalla devozione allo scapolare e dal terz’ordine. A Chiusa i carmelitani si insediarono nel 1587. A Corleone la presenza carmelitana è registrata già dal 1370 ma si intensificò nel 1572 e nel 1672. Ancora oggi anche a Corleone viva è la devozione alla Madonna del Carmelo. Della Confraternita del Carmine di Corleone fece parte Filippo Latini divenuto poi cappuccino con il nome di frate Bernardo. Ci è pervenuto un interessante inno alla Madonna del Carmine in lingua siciliana.
I carmelitani si stabilirono anche a Giuliana circa l’anno1537, lasciandovi il culto alla Madonna dell’udienza: da metà Ottocento di fatto divenuta la patrona della cittadina. A Monreale i carmelitani si insediarono nel 1474. Nel 1612 fu fondata la Confraternita del Carmine. Oggi è presente una parrocchia dedicata al Carmelo e un fiorente terz’ordine femminile. A Partinico nel 1633 iniziò la costruzione del maestoso convento carmelitano e dell’attigua chiesa del Carmine. I frati carmelitani vi rimasero fino al 1896, anno in cui il convento fu chiuso ed incamerato fra i beni dello Stato. Ad oggi, a Partinico, il culto alla Madonna del Carmine è fiorentissimo grazie anche alla presenza di un vivissimo terz’ordine carmelitano femminile. In ultimo, ma non certo per importanza, Prizzi dove i carmelitani arrivarono circa l’anno 1565 occupando il monastero di san Michele Arcangelo già dimora dei cistercensi. Ancor oggi, a Prizzi, a metà di agosto, si svolge una grande festa della Madonna del Carmine, divenuta patrona di fatto (san Giorgio è il patrono ufficiale) della cittadina e dove si trova un santuario intitolato alla Madonna del Carmelo.
In molti comuni della zona costiera dell’arcidiocesi, la presenza dei padri carmelitani ha lasciato anche la devozione alla Madonna di Trapani. Ancora oggi in tanti fanno il pellegrinaggio a piedi alla Madonna di Trapani partendo il 13 di agosto e arrivando a Trapani, presso il santuario, la mattina del 15, giorno in cui si celebra la solennissima festa.
La pietà popolare di derivazione carmelitana è racchiusa nel binomio “venerazione e amore” e si manifesta nella devozione verso lo scapolare. La pietà dello scapolare dice la presenza amata di Maria. Lo scapolare, pur nelle sue caratteristiche di semplicità, spontaneità e concretezza, dice l’esperienza di finitudine della vita terrena che si concluderà con l’evento-morte con la relativa intercessione a Maria, cosicché lo scapolare tiene desta la coscienza del dover morire e invita i devoti a rivolgersi alla Madre del Carmelo pregandola in punto di morte.
A Carini, nel corso del xv secolo si stabilirono anche i mercedari. Intorno al 1570 arrivarono i domenicani, i quali si dedicarono alla diffusione del rosario, fondando anche l’omonima Confraternita, e incrementarono il culto verso alcuni santi del loro ordine: san Vincenzo Ferreri e santa Rosa da Lima. Sempre a Carini, tra il 1615 e il 1631, vide la luce anche il convento femminile delle domenicane.
Nella zona del corleonese, oltre ai già citati ordini, si insediarono, sempre in epoca post-tridentina, le clarisse e i filippini a Corleone (1594 e 1626).
Da non sottovalutare anche il notevole influsso apportato, in epoca pre-tridentina, dai benedettini e dai cistercensi presenti a Bisacquino, Prizzi, Partinico e Cinisi. I monaci benedettini di San Martino delle Scale, favorirono, a Cinisi, il culto di santa Fara, una abbadessa benedettina, morta il 7 dicembre del 658, in Francia, in fama di santità. Nel 1622 la chiesa madre di Cinisi fu dedicata a santa Fara la quale è stata eletta a patrona di Cinisi. A Giuliana sono state presenti anche le benedettine. Da registrare anche la presenza dei frati agostiniani in diversi centri dell’arcidiocesi a partire già dal xiv secolo. A Campofiorito è da registrare la presenza dei gesuiti tramite la costruzione, nel 1667 di una loro casa di villeggiatura .
Ma fu il Settecento il secolo in cui si realizzarono pienamente le istanze innovatrici poste in essere dal concilio di Trento. La predicazione fu principalmente dedicata alla figura di Cristo con due nemici da fronteggiare: il vasto e variegato campo dottrinale e politico della riforma luterana e le idee dell’illuminismo.
Proprio il “secolo dei lumi” ci insegna una notevole vivacità, alimentata dalle pratiche di pietà sul mistero di Cristo semplice, povero e crocifisso e dalla necessità di garantirsi la salvezza che, sebbene eterna, deve essere sperimentata già nel quotidiano.
La pietà settecentesca è prevalentemente cristologia e perciò essa, in sostanza, è riportata agli eventi decisivi della storia della salvezza: l’incarnazione, la passione e la morte in croce, la devozione verso l’umanità di Gesù vengono radicati nel popolo grazie a preghiere, canti, quadri devozionali. Esemplificativi di tutto ciò sono due testi, uno scritto dal farmacista carinese Luigi Sarmiento e l’altro dal prete monrealese Binidittu Annuleru (Antonino Diliberto).
Il testo del Sarmiento, pubblicato in due edizioni del 1741 e del 1752, dal titolo Vita, passione e morte di Cristo Signor nostro, fu scritto per solennizzare la festa del SS. Crocifisso di Carini che si svolgeva il 3 maggio. In questo testo il Sarmiento rilegge, in chiave biblica e mistagogica, tutta la storia della salvezza cominciando proprio dalla creazione. Il testo dà espressione a un concetto di fondo: la “devozione” (ossia il dedicarsi, l’avere una relazione), nel Settecento, era immedesimarsi nel Mistero di Cristo per avere un rapporto con lui nella consapevolezza che il sangue sparso da Cristo sulla croce è sangue che salva nell’oggi della storia e l’intera storia della salvezza è stata realizzata perché il credente si salvi nel tempo e nello spazio in cui egli vive:ciò è tipico della teologia, della spiritualità e della pietà del Settecento. Infatti nei testi di pietà del secolo dei lumi si parla di peccato,di salvezza dell’anima, dei dolori di Maria e di Cristo che sono un appello alla conversione. Il testo del Sarmiento dice anche l’introduzione al Mistero: dunque mistagogia. L’autore scrive: «Quest’opera è piccola circa la disposizione ma grande in quanto al Mistero». Che cos’è il mistero per il Sarmiento? È l’intervento di Dio che nella storia umana assume uno spazio e un tempo: ossia Gesù Cristo e il suo mistero pasquale che è il Mistero che salva. Questo si rende presente ed efficace, nell’oggi della storia, grazie all’opera dello Spirito Santo, che ci aiuterà a ricordare, così come dice l’evangelista Giovanni. Noi viviamo in un tempo che continua a scorrere ma nel momento in cui “ricordiamo” ci uniamo a quel Mistero al tempo unico che è Cristo.
La devotio del Settecento è finalizzata ad un rapporto personale con Cristo, la Madonna e i santi, un rapporto motivato dall’esigenza della conversione cioè di un volgersi deciso e radicale a Dio che salva nel suo Cristo. Il ruolo di Maria è di essere madre dei dolori e i suoi dolori simboleggiano il peccato umano. Il testo del Sarmiento ha costituito l’ossatura portante della festa del SS. Crocifisso a Carini fino al 1904. Ad oggi rivive nella “processione dei misteri” di Montelepre, di cui dirò fra poco.
Contemporaneo del Sarmiento fu il prete monrealese Antonino Di Liberto il cui nome anagrammato diventa Binidittu Annuleru. L’opera del prete monrealese, dal titolo Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e di lu Patriarca san Giuseppi in Betlemmi, è stata pubblicata nel1752, ed è anch’essa un capolavoro di teologia e di pietà popolare, dove il popolare, come scrive Giampiero Boff, si presenta come luogo dell’offerta del kerygma: sia per la risposta accogliente e confessante della fede sia per il costituirsi della storia effettuale della fede e della sua comprensione. Il testo di Annuleru, diffusosi a macchia d’olio in tutta l’Isola, fu il perno per la celebrazione liturgica della novena di Natale e per la novena cantata per le strade dei comuni siciliani, per intere generazioni di credenti. Nell’oggi rivive ancora, come evento liturgico popolare, in alcuni centri della diocesi e non solo (novena di san Giuseppe a Contessa Entellina).
Altro nome di spicco del Settecento monrealese fu quello dell’arcivescovo Francesco Testa, il quale diede vita ad un’opera importantissima quale fu il catechismo titolato: Elementi di dottrina cristiana esposti in lingua siciliana ad uso della diocesi di Monreale, pubblicato nel 1764. Da sottolineare la caratteristica della “lingua siciliana”: è un catechismo scritto in lingua dialettale, il testa parla al popolo con il suo dialetto per trasmettergli la fede mediante i canali della cultura popolare. Il catechismo servì perché il popolo credente vivesse la sua pietas cristiana. Nell’opera viene sottolineata la centralità della fede come dono di Dio e fondamento di tutti gli altri doni. La catechesi è educazione progressiva, graduale alla totalità del mistero cristiano; «le feste – scriveva mons. Testa – sono state istituite dalla Chiesa per una maggiore intelligenza dei sacri misteri e per regola del cristiano costume».
Queste opere dicono anche un modello sacerdotale tipico del Settecento: il modello missionario. Il clero secolare, ha scritto Cataldo Naro, contò in Sicilia nel Settecento ed ancora nel primo Ottocento, personalità notevoli per spiritualità e dedizione pastorale. Tutto ciò fu facilitato dall’allora vigente regime di cristianità della società isolana. La società siciliana, nel suo insieme, riposava in un tranquillo possesso della sua tradizione cristiana.
Il Settecento fu un secolo caratterizzato dalla cristologia attraverso le missioni popolari ad opera dei cappuccini e dei gesuiti. Sulla scorta della loro predicazione si diffuse la festa della inventio crucis, ossia il ritrovamento, a Gerusalemme, della croce di Cristo, la cui festa fu posta liturgicamente il 3 maggio e meglio conosciuta come la festa del SS.Crocifisso. Ancora oggi la festa del crocifisso viene celebrata nei comuni di Monreale e Bisacquino, il 3 maggio, a Carini, fino al 1903 il 3 maggio, dal 1904 il 14 settembre (festa della esaltazione della croce); a Montelepre l’ultima domenica di giugno, a Giardinello in agosto, a Torretta la domenica successiva il 14 settembre. A Giuliana il venerdì dopo pasqua. Questa festa si celebrava, sempre il 3 di maggio, anche a Partinico e a Corleone.
3. La festa del Santissimo Crocifisso
La festa del SS. Crocifisso a Monreale risale alla fine del 1500. Infatti la prima data sicura dell’esistenza del Crocifisso presso la chiesa di San Salvatore è del 1575. L’effige è di scuola gaginiana. Fu l’arcivescovo Girolamo Venero (1620-1628) a dare grande impulso alla devozione al Crocifisso. Secondo una tradizione lo stesso arcivescovo, nel 1625, sarebbe stato guarito dalla peste, proprio il 3 maggio ai piedi del Crocifisso. La festa si caratterizza, a livello di pietà, per la famosa “scinnuta” (la discesa) del simulacro dalle scalinate della collegiata per essere deposto sulla vara. Di questo momento di fede e di devozione fa una descrizione dettagliata il Pitré nel suo libro Feste patronali nella Sicilia Occidentale.
Momento culminante è la processione del simulacro per le vie della cittadina normanna, durante la quale avvengono le manifestazioni del bacio dei bambini, effettuato durante le fermate, e lo sfiorare con fazzoletti e con fiori il simulacro. Fedeli provenienti dal territorio dell’arcidiocesi, ma anche da Palermo e dai paesi limitrofi, fanno il “viaggio”: molti di essi viaggiano a piedi nudi, portando in mano dei grossi ceri accesi. I confrati portano, come abitino votivo, un pantalone ed una camicia bianchi, cinti con una fascia rossa da cui pende una tovaglia arricchita da un ricamo con l’immagine di Cristo e con la scritta «Viva il SS. Crocifisso». Da antica data i confrati, durante la processione, per invocare le grazie del Patruzzu Amurusu, così come viene invocato il Cristo di Monreale, danno la cosiddetta ’a vuci ossia un grido lanciato da uno dei confrati che ripete dodici invocazioni al SS. Crocifisso mentre il gruppo risponde in coro: «Grazia Patruzzu Amurusu, grazia». La terza della dodici invocazioni dice: «E che beddu stu Crucifissu, fa li grazie sempre e spissu», per continuare con la sesta: «Grazia all’arma e u pirdunu ri piccati», quindi la nona diventa una richiesta di aiuto per i bisogni materiali: «Nostru Patri, binirici a campagna» e la dodicesima è un’invocazione in favore di chi soffre: «Binirici i malati». Tutte le dodici invocazioni si concludono sempre con lo stesso ritornello: «Grazia Patruzzu Amurusu, grazia». Il Crocifisso, il 3 maggio, diventa, come scrive Basilio Randazzo, «il tutto di tutti» cui chiedere innanzitutto la grazia: ossia la presenza amorosa e salvifica di Dio la cui massima potenza salvifica è il Figlio morto in croce.
La festa del SS. Crocifisso, a Monreale, è preceduta, ancora oggi, dal rito della Calata dei Veli. Si tratta di un rito penitenziale che si svolge durante i cinque venerdì di quaresima nella chiesa della Collegiata. Sei grandi veli con su rappresentate alcune scene della passione vengono fatti cadere, uno dopo l’altro. Questi sei grandi veli vengono collocati davanti al simulacro del Crocifisso. Alla calata del sesto velo di colore nero, su cui sta scritto expiravit, compare il Crocifisso dinnanzi al quale tutti si prostrano implorando misericordia e perdono.
Basilo Randazzo ha scritto di una probabile «eresia dell’etimasia» ossia: «Il Cristo pantocratore, centralità originaria del culto monrealese, ha mediato nell’etimasia l’alternato culto al Crocifisso, come ritrovo di contenuti e modalità assai vicini alla popolarità, essa stessa più idonea ai riflessi di comportamento esistenziale nel convergere il proprio culto al Crocifisso».
Ma la festa del Crocifisso di Monreale non dice, secondo me, nessuna contrapposizione tra la cultura colta i cui componenti esprimerebbero un’adesione elitaria al Cristo pantocratore e una cultura popolare che esprimerebbe la sua devozione al Crocifisso. A Bisacquino la spettacolare vara del SS. Crocifisso, del peso di 32 quintali, è preceduta da 31 statue di santi, i quali escono dalle chiesette dove sono custodite e raggiungono la chiesa madre inchinandosi dinnanzi al SS. Crocifisso. Apre la processione la statua di san Michele con alla fine la vara del crocifisso al cui fianco stanno la madre e san Giuseppe. Quella del SS. Crocifisso è stata la festa principale di Bisacquino fino al 1904, anno in cui incominciò a prendere il sopravvento la festa della Madonna del balzo.
Il 1904 è stato un anno importante anche per Carini poiché a decorrere da quella data venne portata in processione, per la prima volta, la statua del Crocifisso: fino ad allora durante la processione del 3 maggio non si portava in processione il simulacro del Crocifisso ma si svolgeva la sacra rappresentazione dei misteri della redenzione, seguendo il testo di Luigi Sarmiento. Nella sacra rappresentazione venivano coinvolte circa 300 persone che sfilavano portando con sé una targa su cui era scritta la scena biblica che essi impersonavano. Dal 1904 la festa a Carini venne trasferita il 14 settembre. A Carini la festa del Crocifisso ha avuto inizio nel 1532. La festa del Crocifisso è diventata la festa principale del paese già nei primi anni del Settecento, soppiantando la festa di san Vito martire, eletto patrono della città nel 1542 poiché, allora, essa ricadeva sotto la giurisdizione della diocesi di Mazara del Vallo dove il culto di san Vito era, ed è, molto diffuso.
Nel 1715 il campanile della chiesa madre di Carini veniva rivestito con mattonelle di ceramica raffiguranti il SS. Crocifisso, l’Assunta cui è intitolata la chiesa madre, san Vito e santa Rosalia.
A Montelepre il Crocifisso è il patrono della città a partire dal 1752, anno dell’arrivo della statua del Crocifisso nel piccolo centro. La festa fu celebrata il 3 maggio fino al 1835, anno in cui venne trasferita all’ultima domenica di maggio. Nei primi anni sessanta, a causa delle ripetute consultazioni elettorali che ricadevano, spesso, l’ultima domenica di maggio, la festa venne ancora una volta trasferita all’ultima domenica di giugno. Con tutta probabilità la festa del Crocifisso di Montelepre derivò dall’influenza del patronato di Carini.
A Giardinello la festa si celebra in agosto e il SS. Crocifisso è il patrono della cittadina. Anche a Torretta il culto del SS. Crocifisso occupa un posto determinante nella storia della inculturazione della fede. La devozione al Crocifisso fu introdotta dalle nobili famiglie dei Traina, una cui figlia andò in sposa a uno dei Tomasi di Lampedusa, i quali il 14 settembre del 1756 donarono a Torretta un reliquiario dominato al centro da una statua lignea di Gesù crocifisso, la quale venne deposta dentro il santuario della Madonna delle grazie. La devozione alla passione del Signore e al Crocifisso fu propugnata anche per opera del venerabile padre teatino don Carlo Tomasi, il quale compose L’orgoglio della passione che diffuse tra il popolo. L’effige del Crocifisso dal 1756 al 1933 non venne mai portata in processione. Nel 1933, per la prima volta, il Crocifisso venne portato in processione e da allora ogni anno si rinnova il sacro rito il 14 settembre.
Il culto del Crocifisso, infine, è presente anche a Camporeale dove si trova la statua del Crocifisso antico attribuita a fra Umile da Petralia ai primi del Seicento. Di notevole spessore teologico risulta una preghiera a Gesù Crocifisso di chiara impronta settecentesca.
A Corleone si celebrava il tre maggio la festa del Crocifisso della catena. Il Cristo della catena a Corleone è rimasto conosciuto come il Cristo “del pane e della fertilità dei campi”:
Cu l’acqua o senz’acqua lu pani vulemu
e ni l’aviti a dari vi vostra bontà.
La richiesta del pane non era mai disgiunta da un’altra richiesta:
Pietà e misericordia, Signuri.
A questi bisogni era legato il rito popolare che si celebrava la sera del 3 maggio quando i corleonesi si recavano in pellegrinaggio nel luogo ove era ricostruito e simulato il monte calvario, con modalità spontanee e dando vita a piccole processioni penitenziali.
A Partinico il culto al Crocifisso risale all’anno 1599 e da allora fino a metà Ottocento il 3 maggio si celebrava una grande festa, descrittaci nell’opera preziosa del carmelitano partinicese padre Daniele Lo Grasso.
Durante la processione del 3 maggio accanto all’effige del Crocifisso usciva in processione anche il quadro della madonna del Ponte, presente nella Chiesa madre già dalla domenica in albis, insieme a parecchie statue di santi. Le pie donne,scrive il Lo Grasso, che seguono la vara del crocifisso con voce armoniosa van cantando:
Decimila voti
e ludamu lu Crucifissu
e ludamulu tutti e spissu
lu santissimu Crucifissu.
E ripetevano per ben 50 volte questi versi, insieme a dossologie varie e quest’altra preghiera:
Pi li chiova ribuccati
Pruvvidenza nni mannati
E gridamulu: Viva-spissu-u santissimu crucifissu.
4. Il venerdì santo
Nella pietà popolare siciliana emerge il culto della passione e morte di Gesù nella quale la nostra gente si immedesima in partecipazione comunitaria. Ha scritto a tal proposito Randazzo che «la vera pietà di una volta all’anno, raccolta in tutto un anno, si comunica nel dolore della settimana santa, e in particolar modo il venerdì santo si celebra il «Tutto di Tutti», cioè il mistero della Passione, come «prototipo teologicamente unitario con uno stile culturalmente conforme ma con un atteggiamento che varia da comunità a comunità».
Nella pietà popolare, scrive Plumari, l’uomo di Sicilia vive ed esprime la partecipazione alla passione, morte e resurrezione di Cristo con la totalità della sua struttura antropologica, cosicché un popolo esce dalla solitudine, vive la comunione dando spazio ai suoi sentimenti alle sue emozioni con la totalità del linguaggio corporeo, con la gestualità, con il canto, i colori, il pianto, il grido.
Al venerdì santo è emblematico e paradigmatico come i siciliani si ritrovino e si identifichino nel dolore del Cristo morto, stando muti davanti alla bara, e in quello dell’Addolorata, dinnanzi ai quali sentono che il dolore umano, il loro dolore è stato assunto da Dio.
Il venerdì santo inizia con la visita ai sepolcri, poco conosciuti come altari della reposizione, poiché si continua ad identificare, così come sostiene il Plumari, l’altare della reposizione con il sepolcro del Signore creando, nella coscienza popolare, una identificazione di significati tra l’adorazione della presenza reale-ostia e il corpo-ostia, per cui il tabernacolo è, allo stesso tempo, sepolcro.
Nella notte tra giovedì e venerdì santo, a Partinico, si realizza, ad opera dei confrati della Confraternita di Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, la cosiddetta Cerca, ossia la ricerca che la madre fa del Figlio arrestato.
In molti comuni dell’arcidiocesi al venerdì santo, per tutta la mattinata, continua la visita ai sepolcri con una duplice modalità: in alcune chiese permane la centralità dell’adorazione eucaristica senza nessun segno della passione, in altre, invece, all’adorazione eucaristica si affiancano le statue del Cristo morto e dell’Addolorata poste accanto ai sepolcri.
Nel territorio dell’Arcidiocesi i riti extraliturgici del venerdì santo si svolgono secondo tre delle quattro tipologie presenti nell’Isola: le processioni funebri del Cristo morto accompagnato dalla Madre addolorata; la processione dei misteri; le processioni in cui si compie la mimesi cronologica degli eventi della passione. Manca la quarta modalità ossia la processione del Crocifisso tipica di alcuni comuni dell’ennese. Delle tre modalità la seconda, quella della processione dei misteri, si svolge solamente a Montelepre, nella cosiddetta Casazza, ossia la processione attraverso la creazione di quadri viventi piuttosto che con gruppi statuari così come avviene, invece a Trapani e a Caltanissetta. I misteri di Montelepre sono la riproposizione del testo del già citato Luigi Sarmiento. Alla fine dei misteri si svolge la processione del Cristo morto e dell’addolorata. Nella quasi totalità dei comuni dell’arcidiocesi i riti si svolgono secondo la prima e la terza tipologia: a mezzogiorno si porta il Cristo al calvario lo si crocifigge, la sera lo si va a riprendere e lo si porta in processione seguito dalla Madre addolorata.
A Bisacquino mentre si porta, a mezzogiorno, il Cristo con la croce al calvario, vengono cantate le lamentanze, canti popolari di notevole spessore teologico, risalenti al Settecento, cantati a mo’ di lamentazioni. Questo rito è stato ripreso da qualche anno.
A Corleone e Balestrate il Cristo viene accompagnato al calvario deposto in un lenzuolo. A Corleone, nella mattina del venerdì santo, si ripete uno dei riti più antichi e più suggestivi della settimana santa in Sicilia: il Cristo morto viene deposto su un tavolo coperto di drappi rossi, nella cappella dei bianchi, e i fedeli vi si recano toccando e baciando la statua. A Prizzi il Cristo viene accompagnato al calvario deposto su una lettiga e ricoperto con un lenzuolo bianco. La sera, il Cristo morto, viene portato in processione sempre sulla lettiga. A Corleone, così come a Prizzi, il Cristo viene portato al calvario e lì crocifisso dal clero locale. Anche a Borgetto avviene la mimesi cronologica della passione e la sera il Cristo morto viene tolto dalla croce da ragazze non sposate, vestite di bianco, deposto in un lenzuolo e successivamente posto dentro l’urna di vetro. Alla fine della processione sono sempre le stesse ragazze a togliere il Cristo morto dall’urna. A Partinico e a Terrasini si svolgono, in serata, le processioni del Cristo morto e dell’Addolorata senza mimesi cronologica della passione. A Torretta avviene un rito davvero singolare, la cosiddetta spartenza: verso la fine della processione l’urna del Cristo morto si distacca dall’Addolorata e viene portata nella chiesa del Sacramento dove i fedeli vanno a baciar i piedi al Cristo morto. Anche a Giuliana il venerdì santo si porta in processione l’urna con dentro il Cristo morto ad opera della Confraternita dell’Addolorata, fondata nel 1740 durante le missioni popolari tenute dai padri gesuiti.
Sino ad alcuni decenni addietro per l’occasione venivano intonati ai crocicchi delle strade e al calvario i canti della passione detti i lamenti di Maria. A Giuliana la domenica di Pasqua avveniva l’incontro tra la Madonna e Cristo risorto, denominato ’a paci piuttosto che ’u ncontru. Ad oggi l’unico comune dell’arcidiocesi dove la domenica di Pasqua si realizza ’u ncontru è Prizzi.
A Carini i simulacri del Cristo morto e dell’Addolorata vengono addobbati da ragazze non sposate chiamate virgineddi. La sera del venerdì si svolge la processione funebre denominata della sulità. In alcuni comuni venivano celebrati anche i cosiddetti sabati di quaresima nei quali si celebrava un titolo mariano venerato da diversi ceti artigiani e contadini. A Carini il primo sabato era quello dei parrini (i preti) e si venerava la Madonna Immacolata. Il secondo era quello dei galantumini (ceto borghese), i quali veneravano la Madonna del paradiso. Il terzo era ’u sabatu ri mastri (gli artigiani) dedicato alla Madonna del Carmine. Il quarto era quello dei burgisi (i ricchi proprietari terrieri), che veneravano la Madonna del rosario.Il quinto era ’u sabatu ri vurdunara (mulattieri, carrettieri, sensali) ed era dedicato all’Addolorata. Il sesto sabato era ’u sabatu ri schietti (persone non sposate) ed era dedicato alla Madonna della mercede. A Partinico sopravvivono due dei sei sabati di quaresima: il quinto, quello dei burgisi e il sesto, quello dei mastri, i quali venerano rispettivamente la Madonna del rosario e quella del carmine. In questi due sabati, i predetti ceti, prendono la piccola effige della Madonna, che si trova custodita presso una famiglia prescelta dove è rimasta per tutto l’anno, la portano in processione presso la chiesa di San Gioacchino i burgisi”, al Carmine i mastri, dove avviene la celebrazione della santa messa. Finita la celebrazione l’effige viene portata, sempre in processione, presso una nuova famiglia dove rimarrà tutto l’anno seguente e dove di riuniranno le famiglie appartenenti al ceto per pregare.
5. Il Corpus Domini a Corleone
A Corleone,ogni anno, si celebrava una grandiosa festa del Corpus Domini, meglio conosciuta come la festa del SS. Sacramento. La grandiosità con cui si svolgeva la festa portò a definire Corleone la “città del Sacramento”. La festa cadeva alla fine dell’annata agraria e costituiva un momento di grande ringraziamento soprattutto per la raccolta del grano. Infatti la festa era preceduta dalla raccolta di grano presso tutte le famiglie del paese, ognuna delle quali dava in base alle proprie possibilità. Le offerte per la festa venivano raccolte durante tutto l’anno attraverso i cosiddetti carusieddi (grossi salvadanai di terracotta) posti presso le botteghe cittadine. Il momento culminante della festa era la processione del Sacramento per partecipare alla quale uscivano dalle chiese le statue dei santi, che venivano portate dinnanzi alla chiesa madre. Ci è pervenuta la descrizione di ben 45 statue di santi, comprese quelle della Madonna e del Crocifisso della catena. Accanto all’ostensorio veniva collocata la statua di san Leoluca, patrono della città. La processione si ripeteva il giovedì successivo. Lungo il percorso ai balconi venivano esposti i migliori copriletto della dote matrimoniale e al passaggio del baldacchino venivano lanciati petali di rose. Venivano allestiti, sotto alcune edicole votive, degli altari dove avveniva la benedizione eucaristica. Nel 1954, per decisione dell’arcivescovo Francesco Carpino, venne proibita la processione dell’ottava e soprattutto il corteo dei santi. Normalizzare per purificare. Infatti ai portatori di vara venivano offerti dei bicchieri di vino, durante il tragitto, ed essi di conseguenza si ubriacavano diventando scurrili e violenti.
6. Le devozioni mariane
Il culto del Crocifisso, a Partinico, si affievolì, fino a scomparire del tutto, a partire dalla metà dell’Ottocento; a Bisacquino a fine Ottocento, lasciando la centralità del culto alla Madonna del ponte e a quella del balzo; a Giuliana, da metà Ottocento, la Madonna dell’udienza sostituì il culto a santa Giuliana, divenendone la patrona di fatto. La devozione mariana, del resto, si intensificò un po’ ovunque durante il periodo post-unitario: i cattolici d’Italia si affidavano alla sua protezione proprio in un’epoca ch’essi avvertivano come estremamente pericolosa per la fede cristiana e per la sussistenza della Chiesa. Difatti tra il 1850 e il 1950 si moltiplicarono le apparizioni mariane e si lavorò per la definizione del dogma dell’Immacolata (1854).
La pietà popolare mariana, nella Chiesa monrealese, modulandosi con la stessa intensità che si può registrare anche altrove in Italia e in Europa in quell’epoca, occupa uno spazio di primaria importanza. Essa deriva da due filoni: la grande pietà controriformista del Sei-Settecento e la pietà ultramontana dell’Otto-Novecento. La pietà di derivazione post-tridentina scaturisce dall’incontro del cattolicesimo con la cultura locale, mentre quella ultramontana è il frutto dell’incontro della tradizione locale con percorsi teologico-devozionali esterni all’ambiente. Il primo filone è debitore alle spiritualità dei cappuccini, dei carmelitani e dei domenicani che hanno ereditato anche la spiritualità, pre-tridentina, dei benedettini, che diedero inizio al culto della Madonna del romitello, a Borgetto, e della Madonna del bosco a Bisacquino, e dei cistercensi i quali diedero inizio al culto alla Madonna di Altofonte poi denominata del ponte. Risale al 1616 il santuario della madonna del Furi, a Cinisi, dove si venera la Madonna del rosario. A Torretta, nel 1712, fu costruito il santuario della Madonna delle grazie. Ma il filone più importante è quello ultramontanista così definito poiché era caratterizzato dal riferimento centralistico a Roma e alla persona del papa, secondo la tendenza di rafforzare i legami tra le Chiese nazionali e la santa sede e caratterizzato, soprattutto, dall’ansia per la difficile situazione in cui la chiesa si trovava in quel periodo. Nel 1835, in seguito ad un evento miracoloso, nacque, a Chiusa Sclafani, il culto alla Madonna delle lacrime.
Nel 1855, a Camporeale, nasce il culto alla Madonna dei peccatori anche se la costruzione del santuario iniziò nel 1905. Nei primi dell’Ottocento iniziò la costruzione del santuario di Tagliavia che sorge nei pressi del bosco della Ficuzza nel territorio di Corleone. L’attuale chiesa venne inaugurata il 1 maggio del 1845, giorno dell’ascensione; vi si venera la Madonna del rosario.
La festa della Madonna di Tagliavia si celebra due volte l’anno: il giorno dell’ascensione e l’8 settembre e in entrambe le ricorrenze migliaia di fedeli accorrono al santuario con una differenza: il giorno dell’ascensione i pellegrini arrivano da tanti comuni, mentre la festa dell’8 settembre è legata alla comunità di Corleone e di qualche comune del corleonese, i cui fedeli nella notte tra il 7 e l’8 danno vita ad un pellegrinaggio a piedi, di natura penitenziale, che si conclude all’alba dell’8 settembre presso il santuario con la celebrazione eucaristica, canti, preghiere e offerte. Pertanto i corleonesi considerano Tagliavia come il loro santuario mariano e così si rivolgono alla Madonna:
Bedda Matri ddocu siti
E li grazi ni faciti.
Facitini una a mia
Bedda Matri di Tagliavia.
Interessante risulta essere dal punto di vista teologico un componimento dialettale che canta le lodi della Vergine e ne invoca la protezione necessaria per vincere il male ed ottenere il perdono di Dio. Questa preghiera, ancora oggi recitata, è espressiva della spiritualità della pietà mariana dell’Ottocento. Esiste anche un inno che i fedeli cantavano, in processione verso il santuario, esprimente la fede in Gesù asceso al cielo. A Isola delle Femmine nacque il culto, intorno al 1860, a Maria SS. delle Grazie, la cui festa si celebra il 2 luglio.
A San Giuseppe Jato sorge il culto, con il relativo santuario, alla Madonna della provvidenza la cui festa si celebra il 21 di luglio. A Balestrate sorge il culto all’Addolorata che diventa la patrona della cittadina. A Trappeto il culto a Maria SS. Annunziata e a San Cipirello quello all’Immacolata. Oltre il santuario di Tagliavia, esistono altri tre santuari: Maria SS. del Balzo, Maria SS. del Romitello e Maria SS. del Ponte, che pur essendo di creazione e devozione pre-tridentina, videro, nell’Ottocento un rifiorire di culto e devozione popolare.
La Madonna del Balzo,il cui culto risale a metà del ‘600,divenne dal 1904 la festa più importante di Bisacquino.
Nel 1932 avvenne l’incoronazione della vergine la cui festa si celebra ogni anno il 15 di agosto preceduta da una quindicina caratterizzata da un fatto particolare:ogni mattino,prima dell’alba,i Bisacquinesi si recano a piedi verso il santuario situato a qualche chilometro dal paese.
Le sere della quindicina sono caratterizzate dalla creazione, in paese, di altari alla Madonna attorno ai quali ci si siede e si recita il rosario. Già dalla vigilia, centinaia di fedeli affluiscono al santuario portando offerte e ceri. La sera del 15 di agosto si svolge una solenne processione. Il culto alla Madonna del balzo ha dato origine ad un rosario, in lingua siciliana, che ancora oggi si recita.
Altri interessanti testi sono una salve regina e un inno popolare alla madonna del balzo. Questi testi sono di creazione ottocentesca. Il culto alla Madonna del romitello ebbe origine con l’eremita benedettino Giuliano Miali, che costruì il primo santuario nel 1464, dedicato alla Vergine addolorata che tiene sopra le ginocchia il Figlio morto. Il santuario ebbe il suo massimo splendore dal 1904 al 1926 allorché fu affidato alla cura pastorale del canonico mazzarese Baldassare Safina che si prodigò tantissimo per divulgare il culto alla Madonna. Nel 1896 l’arcivescovo Lancia Di Brolo diede autorevole riconoscimento al culto popolare dichiarando «prodigiosa» l’effige della Vergine. Nel 1906 padre Safina costruì la Via Matris dolorosae che fu inaugurata l’8 maggio. Ancora oggi, in quella data, i confrati dell’Addolorata salgono al santuario in pellegrinaggio.
Momento di grande fede e devozione fu l’incoronazione avvenuta il 27 agosto del 1922 cui presero parte mons.Intreccialagli e il card. Lualdi. Il padre Safina scrisse anche un manuale dei devoti della Madonna del romitello dove sono riportati i pii esercizi: la corona dei sette dolori, la via matris dolorosae, la novena dell’Addolorata, i sette venerdì in onore dell’Addolorata, la coroncina delle 5 piaghe, il pio esercizio della desolata che si praticava la notte del venerdì santo in memoria della desolazione della Madonna. Altra caratteristica sono gli ex voto, costituiti, fino a qualche tempo fa, da trecce di capelli che le donne offrivano alla Madonna e oggi da abitini di battesimo, di prime comunioni ed abiti da sposa nonché abiti civili.
Il culto alla Madonna del romitello è stato diffuso dai romiti del santuario, cioè dai custodi che andavano in giro per le campagne per la questua. La festa principale si svolge ogni anno il 10 maggio, giorno in cui l’effige della madonna viene portata, in processione, dal santuario in paese. A fine agosto si svolge un’altra festa in ricordo dell’incoronazione e per dare la possibilità agli emigrati, presenti in paese, di poter partecipare alla festa. Il culto alla madonna del Romitello è diffuso anche tra gli emigrati borgetani che vivono negli Stati Uniti. Dal 1920 la cura del santuario è stata affidata ai padri passionisti.
Il culto alla Madonna del ponte, a Partinico, ebbe origine con i monaci cistercensi dell’abbazia di Altofonte costruita nel 1306. L’attuale santuario fu eretto nel xiv secolo ad opera degli abati cistercensi. Una bolla di Innocenzo x, del 1648, ordinava si svolgessero pubbliche processioni in onore di Maria SS. del ponte per venire in aiuto al re Filippo iv. Risale ad allora l’usanza della processione.
La festa della Madonna del ponte è stata sempre celebrata nella domenica in albis, nella quale la tela della Madonna viene portata in processione dal santuario a Partinico, dove si svolge una seconda solenne processione che si conclude a tarda notte alla fine della quale il quadro della Madonna viene deposto sull’altare maggiore della chiesa madre dove rimarrà fino alla prima domenica di novembre quando verrà riportato al santuario. Il giovedì precedente la domenica in albis si svolge il pellegrinaggio a piedi da Partinico al santuario. La strada che porta dalla città al santuario, circa 9 km, è costellata di cappelle votive con dentro l’immagine della Madonna del ponte che, nella settimana precedente la festa, vengono adornate con fiori e con lumini accesi . Il giorno della festa, alle ore 12, il quadro viene deposto sulla vara ed inizia il lento cammino verso la città dove il quadro arriva intorno alle ore 20. All’arrivo in paese la vara sosta fino al calar del sole e nel frattempo avviene la cosiddetta vistuta, cioè l’immagine viene rivestita con delle vesti argentee ed auree, create a fine Settecento e restaurate nel 1879, e viene omaggiata dal clero e dalle autorità civili e militari nonché da una grande folla di fedeli. Fino al 1923 la vara veniva portata a spalla da più di 60 deputati, così si chiamano i confrati. Nei tre giorni successivi alla festa si svolgono, presso la chiesa madre di Partinico, le quarantore eucaristiche. Una data importante nella storia di questa devozione è il 1861, anno in cui avvenne l’incoronazione della Madonna del ponte il 13 di agosto.
Da allora in poi, a ricordo di quella solenne incoronazione, si istituì una festa in agosto della Madonna del ponte. Ad oggi la festa estiva permane e si celebra l’8 di agosto.
Il culto alla Madonna del ponte ha dato vita, nel tempo, a diversi istituti religiosi femminili. Sul finire del Settecento una certa suor Benedetta Campo Lo Iacono, partinicese, diede inizio ad un reclusorio cioè alla consacrazione semi-claustrale di alcune ragazze che coltivavano anche ala devozione alla Madonna del ponte. Verso la fine dell’Ottocento l’esperienza del reclusorio fu ripetuta: da questa seconda esperienza venne fuori la vocazione della partinicese Maria Rosa Zangara che fondò, il 15 agosto del 1891, l’istituto delle Figlie della Misericordia e della Croce. Ad oggi il culto alla Madonna del ponte è vivissimo a Partinico: esiste un rosario alla Madonna del ponte e altre preghiere sempre in lingua dialettale.
Infine il culto alla Madonna dell’udienza a Giuliana. Nel 1837 i giulianesi iniziarono a venerare la Madonna dell’udienza come loro patrona per averli liberati dal colera. Quello della Madonna dell’udienza è un patronato di fatto associato a quella della patrona ufficiale santa Giuliana di Nicodemia. La festa di santa Giuliana iniziò a declinare sul finire dell’Ottocento, cessando del tutto ai primi del Novecento, lasciando posto alla devozione alla Madonna dell’udienza. Giuliana è l’unico comune della diocesi in cui è presente questo culto. Giuliana nel 1837, anno di inizio del culto, ricadeva sotto la giurisdizione della diocesi di Agrigento, dove il culto era, ed è, presente in alcuni comuni dell’agrigentino, eredità della presenza dei padri carmelitani. La festa si celebrava il 2 di luglio, ma agli inizi del Novecento fu trasportata al tre settembre per non intralciare i lavori di mietitura dei contadini di Giuliana. La chiesa del Carmine, dove risiede la statua alabastrina della Madonna dell’udienza, fu elevata, nel 1987, da mons. Salvatore Cassisa, a santuario con il titolo di Maria SS. dell’udienza. Nel 1997 è avvenuta l’incoronazione. La festa è preceduta da un novenario durante il quale si recita il rosario della Bedda Matri di Giuliana. Il rosario è seguito dalla recita delle sette allegrezze di Maria SS. dell’udienza. I portatori della vara, man mano che entrano nel santuario, indossano un camice di colore azzurro in ricordo dei monatti che per primi, nel 1837, portarono la vara della Madonna. Su 113 parrocchie esistenti nell’arcidiocesi ben 46 sono titolate alla Madonna.
7. La devozione a san Giuseppe
In tutto il territorio dell’arcidiocesi il culto al santo patriarca è diffusissimo e vivissimo. Anche questo culto è di derivazione ottocentesca, periodo in cui il culto a san Giuseppe ebbe il suo massimo splendore. Il fatto più importante fu la proclamazione, l’8 dicembre del 1870, ad opera di Pio ix, di san Giuseppe a patrono di tutta la Chiesa. Già nel 1847, lo stesso pontefice, aveva esteso a tutta la Chiesa la festa del patrocinio del santo fino ad allora celebrata solo da alcuni grandi ordini religiosi come i carmelitani.
Il culto al santo patriarca assume lo stesso significato di quello della sua sposa: proteggere la Chiesa. La festa fu fissata per il 19 di marzo. Il 15 agosto del 1889 Leone xiii con l’enciclica Quamquam pluries dichiarò san Giuseppe patrono speciale della Chiesa cattolica. Lo stesso papa, il 3 marzo del 1891, dichiarò il 19 marzo essere festa di precetto. Nacquero le litanie del santo, la pratica dei sette dolori e delle sette allegrezze, il rosario di san Giuseppe, lo scapolare, il mercoledì a lui dedicato e il mese di marzo a lui dedicato. Nacquero anche confraternite a lui intitolate, pie unioni, sodalizi, congregazioni religiose a lui intitolate.
Il culto a san Giuseppe si esprime, nella quasi totalità dei comuni dell’arcidiocesi monrealese, con la creazione delle mense per i poveri, degli altari o delle tavolate in suo onore. Le mense o altari sono quasi sempre degli ex voto per grazie ricevute. L’elemento dominante è il pane, insieme all’offerta delle primizie e all’ostentazione di prodotti vari (generi alimentari, vestiti, ecc.) che alla fine del banchetto vengono distribuite ai “santi”, cioè ai ragazzi invitati al banchetto, poiché appartenenti a famiglie bisognose. In qualche comune dell’arcidiocesi i santi sono tre, in altri cinque o addirittura sette come a Chiusa Sclafani. I santi simboleggiano la sacra famiglia, se sono solo tre, cinque anche due angeli, sette anche alcuni santi protettori cui è devota la famiglia che crea la mensa. I pani votivi, chiamati con nomi diversi a secondo dei paesi (cuddure, cucciddati, ucchialeddu), sono preparati dalle donne con varietà di forme e dimensioni e dopo essere stati benedetti vengono posti sulle mense per essere distribuiti nel giorno della festa.
Sulle tavolate di Prizzi si usa mettere le coffe, cioè dei grandi pani di forma diversa. Quello dedicato alla Madonna si chiama pupa e su di esso si scolpisce una borsa, un bracciale, una collana, la treccia e un mazzetto di fiori. Quello dedicato a san Giuseppe si chiama varva, mentre quello dedicato a Gesù si chiama, a Prizzi, cuffitedda e su di esso si pone un pane a forma di scala, uno a forma di martello e un altro a forma di sega, che simboleggiano gli arnesi del lavoro di san Giuseppe e il fatto che Gesù aiutò il suo padre putativo nel suo lavoro.
In tutte le mense dei comuni dell’arcidiocesi non vi è presenza di piatti a base di carne e di pesce. In molti comuni si usa fare il cosiddetto San Giuseppi addumannaatu o mezzu addumannatu: chi ha fatto il voto va in giro per il paese a chiedere l’elemosina per allestire la mensa mentre il mezzu addumannatu comporta che metà delle spese vengano affrontate dalla famiglie e l’altra metà vengano elemosinate. La questua di soldi, in qualche comune come Prizzi, viene fatta a piedi scalzi. Anche a Bisacquino,Borgetto e Corleone si fanno i santi addumannati.
A Giuliana, come altrove, ci si prepara alla festa con una novena, durante la quale si recita la coroncina dei sette dolori e delle sette allegrezze di san Giuseppe e il seguente rosario:
San Giusippuzzu vui siti lu patri,
virgini siti comu la matri,
Maria è la rosa.
Vui siti lu gigliu.
Datimi aiutu, riparu e cunsigliu.
Pi lu nomi di Maria sarvati l’arma mia.
Al rosario si uniscono anche delle giaculatorie:
San Giusippuzzu unn’abbannunati
nn’è nostri bisogni e nicissitati
e ludatu e binidittu sia
’u nomi di Gesù, Giuseppi e Maria.
La festa di san Giuseppe, a Giuliana, è preceduta dalla festa du bamminu che si svolge nei tre giorni precedenti il 19 marzo. La statua di Gesù adolescente viene staccata dalla mano del padre putativo e viene portata in pellegrinaggio presso alcune famiglie del paese, per poi ricongiungersi con il simulacro del santo prima della processione del 19 sera.
A Giuliana, ancora oggi, i devoti recitano i sei misteri del rosario di san Giuseppe. I misteri, come scrive Governali, «evocano vari momenti della vita del santo, al quale si attribuiscono sentimenti, paure, sospetti e risentimenti propri di ogni essere umano».
I racconti del rosario di Giuliana si ispirano ai racconti dei vangeli apocrifi. Le mense di Balestrate sono caratterizzate per la grande quantità, oltre che di pane anche di agrumi. Anche a Corleone, così come a Partinico, fino a qualche tempo, fa si creavano le tavolate e le mense: oggi sono molto ridotte. A Corleone si invitavano 5 santi i quali si riunivano il mattino della festa, vestiti con delle tuniche di colore diverso, viola o verde san Giuseppe, rosa la Madonna e bianco Gesù bambino. Anche i due angeli indossavano delle tuniche bianche. Venivano accompagnati in chiesa dal suono del tammurinaru, e quindi partecipavano alla messa. All’uscita i santi si recavano nella propria mensa dove iniziava il lauto pranzo. I santi venivano serviti dai padroni di casa e dovevano essere i primi a mangiare assaggiando un po’ di tutte le pietanze preparate. Tutto ciò avviene ancora oggi a Borgetto, dove ogni anno, vengono allestite così tante mense che in certi anni hanno superato anche le trenta unità. Le mense di Borgetto sono davvero uniche nel loro genere. I santi sono tre. A Borgetto, prima di iniziare il pranzo, vengono recitate, davanti alle mense, le cosiddette parti in dialetto siciliano. Dopo la recita delle parti tutti entrano nella casa, la padrona di casa fa salire il bambino che interpreta la parte di Gesù su una sedia, gli fa intingere due dita in un bicchiere d’acqua e gli fa benedire la mensa. Poi inizia il pranzo dei santi. Da qualche anno a Borgetto la novena di san Giuseppe viene celebrata al mattino presto con la straordinaria partecipazione di fedeli adulti.
Le mense di san Giuseppe sono preparate da tutti i ceti sociali. In alcuni comuni, come ad esempio Partinico e Corleone, dove le mense presso le famiglie sono in via di estinzione, la tradizione delle mense e delle tavolate rivive grazie all’opera preziosa di docenti, alunni e delle loro famiglie che accettano di fare le mense a scuola.
8. Conclusione
Una Chiesa particolare deriva molti tratti specifici della sua identità dalla pietà popolare unitamente alle attività caritativo-assistenziali. La pietà popolare ha avuto una grande importanza per la configurazione del cattolicesimo anche nel caso della Chiesa monrealese. Infatti, essa raggruppa in sé le tre caratteristiche che lo storico francese Poulat individua come motivi ricorrenti nella storia del cristianesimo: la testimonianza, il simbolo e la dottrina.
La testimonianza di Cristo morto e risorto è l’elemento cardine della fede cristiana e anche della pietà. Essa dice anche le modalità di trasmissione dell’evento cristo attraverso i segni, le rappresentazioni, le raffigurazioni, liturgiche ed extraliturgiche, che hanno tramandato Cristo da una generazione all’altra. La pietà dice anche il dogma, le grandi verità di fede che vengono accettate e credute dal cristiano. Iniziazione e trasmissione, ricezione e appropriazione, imitazione e rappresentazione della fede: cosa sarebbe la vita della Chiesa senza il rosario, la via crucis, le novene, i tridui, la venerazione della Maria e dei santi, i pellegrinaggi, il culto dei morti.
Cosa sarebbe pure la Chiesa monrealese senza il crocifisso di Monreale, di Bisacquino, di Carini, Torretta, Montelepre, Giardinello, Camporeale e Giuliana? Cosa sarebbe senza i suoi santuari mariani e le devozioni con cui è venerata la madre di Dio? Senza le sue tante confraternite?
Concludo facendo mie le parole di Basilio Randazzo: «La pietà popolare è feconda dizione del mistero di salvezza, celebra la Trinità, venera la Madre di Dio e i santi, esercita fede, speranza e carità, ripone certezza nelle verità rivelate, si nutre dei sette doni dello Spirito Santo, e tra questi doni puntualizza la pietas, quel dono che perfeziona la virtù di religione, producendo nel cuore affetto filiale a Dio Uno e Trino e tenera devozione alla madre di Dio e alla Chiesa.
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