UN OMAGGIO A GAETANO PORCASI


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i 841.jpgdi Pverro_grande.jpg75-borsellino.jpg58-scudo-crociato.jpg67-dalla-chiesa.jpg66-mattarella.jpg65-francese.jpgalermo, Sezione Pittura, ; Dopo aver studiato con i maggiori artisti riconosciuti in campo

Nato a Partinico (PA) nel 1965, diplomato presso l’Istituto Statale d’Arte per il Mosaico di Monreale, ne! 1991 ha conseguito ì! Diploma di Laurea con 110 e lode presso l’Accademia dele

Belle Arti di Palermo, Sezione Pittura, ; Dopo aver studiato con i maggiori artisti riconosciuti in campo nazionale ed interna­zionale, quali Salvatore Provino,. Salvatore Modica, Di Raco ecc, intraprende l’attività di insegnamento presso l’Istituto Stataie d’Arte dì Sassari, il Liceo Artistico di Tempio Pausania SS, l’Istituto Statale d’Arte di Alghero ed ha insegnato discipline pìttoriche presso l’Istituto Stataie d’Arte “M. D’Aie©” di Monreale, attualmente è impegnato in attività di docenza presso ii Liceo Scientifico “S. Savarino” di Partinico, Ha partecipato a diverse mostre personali e collettive ad Alghero, Milano, Sassari, Oibia, Roma, Palermo e Partinico dove vive ed opera, ottenendo significativi riconoscimenti. Ha partecipato alla realizzazione di un murales a tema religioso presso i! Palazzo Ducale di Maddaloni (CE), ha restaurato ie volte delia Chiesa Madre di Termini Imerese e della Chiesa di Torretta, si è occupato de! restauro delia Via Crucis all’interno deiia Chiesa Madre di Trappeto, Alcune sue opere si trovano in collezioni private oltre che in Italia -anche JieLpaesi d’oltralpe in special modo in gran parte dell’Europa e negli U.S.A.

Quando si guarda un’opera d’arte di un pittore,più o meno famoso,di solito ci si trova a vedere tematiche di varia natura,dalla “Vucciria” di guttusiana memoria ai quadri surrealisti di Picasso e Dalì e si rimane incantati per la loro sovrumana bellezza. Se guardi,invece,uno o più quadri dell’artista partinicese Gaetano Porcasi, a primo acchito ti chiedi:ma cosa sono queste rappresentazioni? Infatti le opere di Porcasi hanno come oggetto un tema desueto cioè quello della pittura storica. Non di una storia comune e ordinaria bensì straordinaria poiché rappresenta fatti e personaggi che si preferirebbe rimuovere,quanto prima possibile,dalla memoria collettiva. Fatti e personaggi,quelli dipinti dal Porcasi,che al vederli su tela non possono non inquietare le coscienze civili per il forte potere evocativo e di denuncia che essi assumono. La denuncia pittorica del Porcasi però non è fine a se stessa, ma funge da leva per sollevare in chi guarda il mondo dei ricordi e della memoria. Scrive il Porcasi:” so bene,in qualità di artista che le tradizioni non muoiono mai se affidate alla forza dell’immagine che le fissa cogliendo momenti di vita destinati altrimenti ad essere fagocitati dal tempo”. Inoltre,altra tematica interessante nella pittura di Gaetano è quella di rappresentare la “sicilianità” ossia scene e particolari che sfuggono all’uomo moderno.Si può applicare alla pittura storica di Porcasi quanto dice uno storico francese,il De Certò,che per vivere il presente bisogna seppellire il passato non nel senso di obliarlo ma di metabolizzarlo. Il nostro presente è legato al passato solamente nella misura in cui esso diventa parte viva della nostra storia attuale. Il tutto utilizzando colori vivaci e attraenti che vogliono comunicare una precisa identità:quella siciliana,connotata dalla triste dialettica vita-morte, bellezza-bruttezza del crimine,santi e mafiosi,uomini del vero onore e quelli del verissimo disonore. Ma il Porcasi si serve della sua pittura anche per avvalorare il percorso della solidarietà.

Traccerò,se pur brevemente, un profilo di queste tre caratteristiche del pittore partinicese.

La pittura storica.

Le tele del Porcasi rappresentano eventi storici che vanno dallo sbarco degli americani in Sicilia sino alla cattura di Binnu Provenzano. Cinquant’anni di storia siciliana connotata da una “politica” stragista, a partire da Portella della ginestra,considerata non a caso la madre di tutte le stragi dell’era repubblicana,posta in essere dal triste connubio tra la mafia,la politica servile ad essa e i poteri devianti. A Porcasi non manca dunque la materia prima per la sua pittura di fatti tragici e dolorosi. Alcune di queste opere fanno parte dell’interessante volume “la Sicilia delle Stragi” a cura di Giuseppe Carlo Marino,in libreria da pochi giorni. Due di esse mi hanno particolarmente colpito poiché sono un omaggio a due persone uccise dalla mafia e ancora poco conosciute:il quadro dedicato al sindaco di Cattolica Eraclea,Giuseppe Spagnolo,ucciso nella notte tra il 13-14 agosto del 1955 e quello dedicato a Rita Atria,una ragazza di Partanna,figlia di una famiglia di mafiosi che rinnega la sua appartenenza e decide di collaborare con il giudice Borsellino. Ma Gaetano Porcasi sembra avere la passione per i personaggi,vittime di mafia,cosiddetti “minori” nel senso che non facilmente assurgono agli onori delle cronache e non c’è il regista di turno che attenzioni il loro sacrificio. Intendo riferirmi ai quadri che rappresentano tre partinicesi uccisi in epoche diverse:i sindacalisti Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Iacono uccisi dalla mafia la sera del 22 giugno del 1947 presso la sede della camera del lavoro di Partinico,tramite il lancio di una bomba, e l’avvocato Giuseppe La Franca ucciso il 9-01-1997 ,dai Vitale-Fardazza di Partinico, perché voleva proteggere le sue proprietà terriere dall’invadenza di quest’ultimi. Dunque una visione della storia,quella di Porcasi,che non trascura i cosiddetti “ultimi”,quelli che non hanno voce. Inoltre è da sottolineare come la pittura di Porcasi ha voluto ritrarre un momento fondamentale del triste rapporto tra la mafia e la chiesa in Sicilia,ossia l’uccisione di padre Puglisi. L’uccisione di don Pino,avvenuto il 15 settembre del 1992, seguì alle durissime parole pronunciate, lo stesso anno nel mese di maggio,nella valle dei templi di Agrigento da Papa Giovanni Paolo II contro i Mafiosi:”convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio”. L’assassinio di Pugliesi non può che essere letto come la risposta della Mafia alla Chiesa che,finalmente,aveva deciso di prenderne le distanza. Con il martirio di Don Puglisi,inizia,finalmente, un distacco della religione cattolica dalla “religione “mafia e un cammino di elaborazione di un percorso di purificazione e di resistenza alla mafia compiuto con le categorie proprie del cristianesimo,quelli del Vangelo e della tradizione della Chiesa con i Santi in prima linea come modelli da imitare.In stretta collaborazione con l’impegno della società civile contro il male comune:la mafia. Purtroppo,nei decenni passati,parecchi sono stati i sacerdoti uccisi in Sicilia nei primi decenni del 1900 poichè creatori delle prime casse rurali per sottrarre i contadini alla feroce piaga dei tassi usurai. Di alcuni di essi(don Stella di Santa Caterina Villarmosa,Don Cananella di Mussomeli) ad oggi si conosce poco o nulla, e non regge il confronto con i pochi e indegni servitori “in nigris” della mafia,da don Teotista Panzeca,arciprete di Caccamo al partinicese Padre Agostino Coppola che sposò Riina in clandestinità. Qualcuno di essi,tutt’ora vivo e vegeto, non contento di essere stato un catorcio del malaffare per parecchi decenni ,servo indegno della mafia e della truffa e mercenario del Vangelo,si sta organizzando per festeggiare il suo peccaminoso servilismo a Cosa Nostra insieme a chi, dopo aver passato una vita nell’illegalità e nel latrocinio sistematico, usando la pubblica amministrazione, ha deciso di vendere i “pizzini della legalità”:per rifarsi la “verginità”?. Il giorno della Giustizia di Dio,però, non è poi così lontano!

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La Sicilianità. A far da contrappunto alle opere pittoriche che raccontano gli assassini di Mafia,così come scrive Cosmo Di Carlo,i paesaggi di una Sicilia solare con i fichi d’India, agavi,ginestre,ulivi,arance e limoni patrimonio di una terra baciata da Dio e calpestata dagli uomini. A ciò si uniscono le tele raffiguranti i contadini e le donne siciliani. I contadini a simboleggiare il lavoro onesto e duro dei campi;le donne che,in Sicilia,sono l’anima del focolare domestico ma che negli anni passati non hanno disdegnato di aiutare i loro mariti nel duro lavoro della terra.

Inoltre Porcasi sottolinea un grande valore cui le donne siciliane sono particolarmente attaccate:la maternità. Le tele del Porcasi veicolano i veri valori dell’identità siciliana:il lavoro onesto,la famiglia e i figli,la fede,il rispetto della dignità della persona umana,delle donne,degli anziani e soprattutto dei bambini verso cui il siciliano stravede al punto tale da chiamare figli e nipoti non con il loro nome ma “sangu meu” e “vita mea”(sangue mio e vita mia!). Veicolano anche alcuni disvalori come l’omicidio,l’uccisione di donne e bambini,l’uccisione di rappresentanti delle istituzioni. Espressione non della vera identità del siciliano,che ama la vita,ma della devianza sociale che i mafiosi hanno scelto come loro percorso di vita. Ma i mafiosi non rappresentano i Siciliani e la Sicilianità!

Su questa scelta della rappresentazione della vera identità siciliana,vanno inserite anche le opere che il Porcasi ha realizzato in difesa dall’inquinamento dell’aria,del suolo e delle falde acquifere che tormentano ad oggi Partinico.

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Il percorso della Solidarietà. Alcune tele sono state dedicate ad illustrare realtà della vita africana e sono state donate per un progetto di sviluppo e di solidarietà che la Facoltà di Agraria di Palermo sta portando avanti in uno dei paese del centro Africa. Un grande insegnamento per chi si dimena,da queste parti, come un coccodrillo affamato,cercando di “sbranare” più tasche possibili per aiutare l’Africa: pretestuosamente o realmente?.

Un grazie sentito all’amico e collega “Tanuzzu” per il suo impegno in favore della sana denuncia,della voglia di non-dimenticare le tante vittime della mafia e di consegnare alle generazioni future la vera identità siciliana.

“INCATENATI”IN CERCA DI GIUSTIZIA

Ricevo dall’amico Pippo Di Vita*

Cari Amici,

dalle ore 19,00 di giovedì 15 Novembre, io e Lucia, insieme ad altri familiari di vittime uccise dalla mafia, ci siamo “virtualmente” incatenati ai cancelli della Prefettura di Palermo. Il gesto, dall’evidente carattere simbolico, è stato il frutto di una sofferta decisione, che scaturisce dalla volontà di contestare un grave provvedimento legislativo, inserito nell’attuale finanziaria, che discrimina le vittime della mafia rispetto alle vittime del terrorismo.

Soprattutto a partire dagli eccidi di Falcone e Borsellino, nella società civile si è diffusa la giusta consuetudine di parlare di antimafia e di legalità . Sono nati i cortei, “le lenzuola”, le marce, i concerti, le navi e tutte le scuole hanno in qualche modo partecipato o manifestato la propria solidarietà. In una di queste occasioni sono stato personalmente testimone di un fatto,a mio parere, estremamente grave. Nel chiedere a due ragazzi di circa 16/17 anni se conoscessero gli uomini che hanno combattuto la mafia, mi sono sentito rispondere con piglio deciso: “Certo, Falcone e Borsellino”. La loro risposta è stata agghiacciante proprio per la sua ingenuità e semplicità: questi giovani sono prigionieri di una voragine di oblio, da cui i loro adulti di riferimento non li aiutano certo ad uscire. Decine di uomini (civili e militari) sono stati cancellati dalla memoria storica di questa città e di questa regione e, nell’immaginario collettivo dei giovani e degli adulti, solo raramente è presente qualche traccia del contesto che ha preparato ed ha circondato il lavoro dei due magistrati sopra citati. Decine di libri di storia della mafia ricordano che,a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, centinaia sono state le persone uccise dalla mafia; dal 1977 al 1992 (epoca delle stragi Falcone e Borsellino) tanti uomini e donne sono morti o per affermare i valori della legalità e della democrazia o per essere divenuti casualmente vittime di vendette o strategie del terrore. Eppure, quando si parla di vittime della mafia o di lotta alla mafia, pochi nomi vengono ricordati ed esaltati.

Nell’epoca dei “testimonial”, stranamente ci si dimentica di cercare e di dare voce ai testimoni di questa guerra della mafia contro lo stato, ci si dimentica di interpellare i familiari delle vittime della mafia. Vi assicuro che, se qualcuno intendesse farlo, si troverebbe di fronte alla difficoltà di individuarli tutti e di avere tutto il tempo necessario per farli parlare tutti. Nelle manifestazioni antimafia, al massimo si rammentano i nomi di alcune vittime, ma non si chiede di guardare in faccia e di ascoltare le loro famiglie. La credibilità degli “esperti di mafia”andrebbe sostenuta e rafforzata dalla presenza di chi ha vissuto la mafia sulla sua pelle ed è stato costretto -spesso da solo- a tollerare la vicinanza e la “boria” dei mafiosi in una stessa aula di tribunale. La nascita delle diverse associazioni antimafia e antiracket non è servita a contrastare l’idea che ci siano vittime di mafia di serie A, di serie B e, talora, anche di serie D. Questa colpevole ed ingiustificabile discriminazione, che finora è stata propagandata e diffusa a livello mediatico e giornalistico, adesso è divenuta realtà anche livello legislativo. Uomini del Parlamento, del Senato e del Governo, rappresentanti dei cittadini democraticamente eletti, hanno sancito e sottoscritto questa vergognosa distinzione, senza avere neppure il coraggio di dare una plausibile motivazione del loro operato. Noi familiari delle vittime della mafia non intendiamo accettare questa discriminazione e la combattiamo davanti agli occhi della società civile perchè sia chiaro a tutti che coloro che sono morti per servire e difendere lo Stato sono e devono essere considerati uguali. Dall’attuale Finaziaria è stato stralciato un emendamento, che equipara le vittime del terrorismo alle vittime della mafia. Tutto ciò è avvenuto in silenzio, senza spiegazioni e motivazioni, usando la tattica della “sparizione”, che è senz’altro prova dell’imbarazzo in cui numerosi politici si trovano nel dovere “inventare” qualche strana ragione che possa giustificare questa scelta politica.

Cari amici, non pensiate che si tratti di una questione di soldi; è una questione di dignità e di giustizia. Piuttosto che subire quest’onta, preferiamo che sia negato a tutti qualunque tipo di beneficio.

D giovedì stazioniamo davnti alla Prefettura ed abbiamo ricevuto la solidarietà del Prefetto, del SIULP, di Ammazzatecitutti, degli Onorevoli Lumia e Dioguardi, della Protezione civile (Bertolaso in persona); abbiamo incontrato Marco Travaglio ed i giornalisti di Anno Zero. Ma nessuno della società civile, neanche dell’Antimafia, si è fatto vivo. L’On. Rita Borsellino ci ha fatto una breve visita ed ha tenuto a precisare che “è una come noi”.

Dove sono gli altri, dove siete tutti voi che riempite cortei e manifestazioni antimafia?

Ieri “La Repubblica” ha pubblicato la foto di alcuni di noi incatenati, sovrastata da un titolo a caratteri cubitali, che faceva riferimento alla Finanziaria ed ai precari; l’impostazione grafica e mediatica sembrava assimilarci a questa categoria e nel corpo dell’articolo poche righe (peraltro non ben esplicative) richiamavano la nostra vicenda; un lettore distratto o culturalmente poco attrezzato, con grande facilità, avrebbe potuto identificarci con “senza tetto” o disoccupati.

Era necessario che vi chiarissi lo stato reale della questione. Lascio a voi le opportune valutazioni e le conseguenti decisioni.

Informazione sullo stato delle cose.

– Ieri, domenica 18 Novembre, Domenica In, nella persona di Simona Izzo, con l’autorizzazione del capo struttura di Rai1, ha dato la notizia delle trenta famiglie incatenate alla Prefettura di Palermo.

– La prefettura di Palermo ha dato iol massimo appoggio psicologico e logistico ai familiari delle vittime della mafia.

– Il Signor Ferdico ha fornito appoggio personale.

 

Oggi 19 Novembre

– Incontro con il Presidente della Regione Cuffaro che ha garantito appoggio politico e legislativo per la soluzione della questione.

– Riunione con Rita Borsellino sulle strategie future. L’On. Borsellino, che si è riconosciuta “una di noi”, ha aderito alla nascita della Associazione delle famiglie delle vittime e dei superstiti della mafia.

– Incontro con varie testate giornalistiche.

– L’On Orlando ha dato il suo Pieno appoggio.

Pippo Di Vita *
genero del Maresciallo dei Carabinieri Vito Ievolella ucciso dalla Mafia

“La libertà religiosa pietra miliare della nuova Europa”.

Intervento del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, in occasione di un convegno organizzato dall’Istituto Superiore di Studi Religiosi-Fondazione Ambrosiana Paolo VI sul tema “La libertà religiosa pietra miliare della nuova Europa”. L’incontro si è svolto il 19 ottobre scorso presso il Centro Convegno Villa Gagnola di Gazzada (Varese), a conclusione delle celebrazioni per il 60° della donazione di Villa Gagnola alla Santa Sede e per il 30° della Fondazione Ambrosiana Paolo VI.

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CONVEGNO ORGANIZZATO DALL’ISTITUTO SUPERIORE
DI STUDI RELIGIOSI – FONDAZIONE AMBROSIANA PAOLO VI
SU “LA LIBERTÀ RELIGIOSA PIETRA MILIARE DELLA NUOVA EUROPA”

DISCORSO DEL CARDINALE TARCISIO BERTONE

Centro Convegno Villa Gagnola
(Gazzada – Varese)

Venerdì, 19 ottobre 2007

 

Eccellenze,
Illustri Autorità,
Distinti Signore e Signori,

Sono lieto d’intervenire a questo Convegno, su: La libertà religiosa, pietra miliare della nuova Europa, per celebrare due anniversari che hanno unito in modo particolare la storia di Villa Cagnola a quella della Sede Apostolica: il 60° della donazione della stessa villa alla Santa Sede ed il 30° della Fondazione Ambrosiana Paolo VI. Ringrazio, pertanto, Mons. Mistò ed i Presuli lombardi per il cortese invito, saluto con deferenza le illustri Personalità e tutti i presenti.

1) La libertà religiosa nel Magistero della Chiesa e nel panorama europeo

Con la Dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, il Magistero ecclesiale ha messo in nuova luce il tema della libertà religiosa. In realtà, non si è trattato di “rivoluzionare” – e nemmeno di correggere l’insegnamento precedente – ma piuttosto di svilupparlo. Già nel 300 d.C., infatti, Lattanzio affermava: Religio sola est, in qua libertas domicilium conlocavit (1) ed il Codice di Diritto Canonico del 1917 dettava lapidariamente: ad amplexandam fidem catholicam nemo invitus cogatur (can. 1351).

So che, più tardi, sarà Mons. Mistò a soffermarsi sulla Dichiarazione Dignitatis Humanae. Pertanto, mi limito a ricordare che essa sottolinea come la libertà religiosa si radichi nella dignità e, quindi, nella natura stessa della persona umana (2). Di conseguenza, è un diritto soggettivo insopprimibile, inalienabile ed inviolabile, con una dimensione privata ed un’altra pubblica; una individuale, un’altra collettiva ed una anche istituzionale (3).

Desidero poi sottolineare come la libertà religiosa non sia soltanto uno dei diritti umani fondamentali; ben di più, essa è preminente fra tali diritti. Preminente perché, come ricordò Papa Giovanni Paolo II l’11 ottobre 2003 (4), la sua difesa è la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri; preminente perché storicamente è stato fra i primi diritti umani ad essere rivendicato; preminente, infine, perché altri fondamentali diritti sono ad esso connessi in modo singolare. Dove la libertà religiosa fiorisce, germogliano e si sviluppano anche tutti gli altri diritti; quando è in pericolo, anch’essi vacillano. Proprio per questo, essa dovrebbe essere, per antonomasia, una pietra miliare della nuova Europa!

Quest’ultima, ha vissuto trasformazioni di grande portata: il crollo dei regimi comunisti, la crescita dell’immigrazione e l’accentuazione della multiculturalità, l’indebolimento dei sistemi di previdenza sociale, il tramonto di stili di vita e di modelli culturali consolidati sotto l’impatto della globalizzazione e del confronto con un mondo “a reti”, fatto cioè di interdipendenze, integrazioni e interazioni che legano i diversi sistemi in un mosaico globale.

A livello comunitario, la libertà religiosa è riconosciuta dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani e dalla Carta dei Diritti Fondamentali. Sotto il profilo istituzionale, le relazioni tra Stati e confessioni religiose si fondano sul presupposto, reso esplicito in alcuni testi normativi e nel futuro “Trattato di Riforma” dell’Unione Europea, che dette relazioni sono di competenza dei singoli Stati. La situazione europea, del resto, è assai variegata: dalla Chiesa di stato dell’ortodossia greca alle Chiese “stabilite” di alcuni Paesi nordici, dal “separatismo” francese ai sistemi concordatari e pattizi di numerosi Stati, fra cui quelli latini. Ciò non vuol dire che nella normativa e nella giurisprudenza europea non si rinvengano prese di posizione che interessano la libertà religiosa. Attualmente, ciò avviene soprattutto in alcuni ambiti eticamente sensibili, dove il Cristianesimo propone comportamenti diversi da quelli prescritti o ammessi dalle trasformazioni del sistema giuridico europeo. In linea generale, pertanto, nella disciplina europea della libertà religiosa non mancano ferite da sanare, incrostazioni da togliere e garanzie da estendere: la promozione di questo diritto fondamentale va ancora affinata, consolidata e potenziata.

In tale prospettiva, credo utile soffermarmi su alcune sfide, di maggiore portata.

2) Apertura alla trascendenza

La sfida forse più radicale, consiste nella negazione del fondamento stesso della libertà religiosa, ossia dell’apertura della persona alla trascendenza. La cultura contemporanea è solita considerare il bisogno di libertà come quello fondamentale per l’uomo; di conseguenza, la cultura si è costruita più su rivendicazioni di libertà, che di verità e di giustizia. Tuttavia, si fa sempre più evidente come la soluzione kantiana di garantire a tutti pari libertà, a condizione che non si rechi danno all’altro, è una clausola insufficiente e vaga, perché diventa sempre più controverso ed arduo stabilire chi sia l'”altro”, oppure lo diventa chi si stabilisce che sia tale.

La libertà, pertanto, ha bisogno di un fondamento, che le permetta di svilupparsi, senza tuttavia mettere a rischio la dignità umana e la coesione sociale. Tale fondamento non può che essere trascendente, perché soltanto esso è così “alto” da consentire alla libertà di espandersi al massimo e, contemporaneamente, così “saldo” da poterla orientare e qualificare in qualunque circostanza. Laddove, invece, la trascendenza è negata o relativizzata – quando cioè Dio è considerato una grandezza secondaria, che si può temporaneamente o stabilmente mettere da parte in nome di valori erroneamente considerati più importanti – allora falliscono proprio questi presunti valori più importanti. Lo dimostra l’esito tragico delle ideologie politiche del secolo scorso, che, negando Dio, hanno oltraggiato la verità dell’uomo e hanno “incatenato” la sua libertà.

Spesso, però, Dio non viene negato in modo diretto, ma in nome di una concezione assoluta della tolleranza, oppure di una visone privatistica della libertà religiosa o, ancora, congedando la religione dalla ragione e relegando la prima esclusivamente nel mondo dei sentimenti. Di conseguenza, stimo utile spendere qualche parola anche su tali sfide.

3) Il concetto di tolleranza

Ciò che conferisce alla tolleranza il suo valore è la sacralità della coscienza. Questa tende sempre al bene ed alla verità, rispetto ai quali è, pertanto, un valore secondario. Se, invece, la tolleranza diventa il valore supremo, allora ogni convinzione autenticamente veritativa, che escluda le altre, è intolleranza. Per giunta, se ogni convinzione è altrettanto buona di un’altra, si finisce per essere tolleranti anche nei confronti dell’immoralità. Portando all’estremo quest’aporia, Engelshardt è giunto a denunciare il seguente paradosso: “se non si riesce a dimostrare l’immoralità di certe linee di condotta, allora l’assistenza sanitaria fornita da Albert Schweitzer e quella prestata nei campi di concentramento nazisti saranno ugualmente difendibili […] il comportamento degli individui moralmente repellenti sarà giustificabile o ingiustificabile, né più ne meno di quello dei santi” (5).

La dignità dell’uomo si fonda sulla sua capacità di verità. Assolutizzare la tolleranza è, invece, ritirarsi davanti a tale dignità. Laddove le convinzioni sono proscritte e chi ne possiede e non è pronto a trasformarle in semplici ipotesi viene considerato inabile al dialogo, allora quest’ultimo diventa impossibile. Esso, infatti, non può avvenire ed essere efficace nella rinuncia o nella relativizzazione della verità, in nome di un presunto rispetto delle convinzioni altrui. La rinuncia alla verità ed alla convinzione non unisce e non innalza l’uomo, ma lo consegna al calcolo dell’utile o dell’immediato, privandolo della sua grandezza.

Il dialogo interreligioso, pertanto, dovrà incoraggiare il rispetto profondo per la fede dell’altro e la disponibilità a cercare, in ciò che s’incontra come estraneo, la verità che può aiutare ogni persona a progredire. D’altra parte, non può consistere nell’aiutarsi reciprocamente a divenire migliori Cristiani, Ebrei, Musulmani, Induisti o Buddisti. Questa sarebbe la più completa assenza di convinzioni, in cui – con il pretesto di convalidare ciò che ciascuno ha di meglio – non prenderemmo sul serio né noi né gli altri e rinunceremmo definitivamente alla verità (6).

4) Il dialogo con la ragione

La più alta tolleranza consiste, pertanto, nel rispetto della verità; fondandosi su tale rispetto, la libertà religiosa si apre alle esigenze della ragione umana, che è, appunto, capace di verità. La libertà religiosa esige allora discernimento: sia fra le forme di religione, per identificare quelle che rispondono pienamente alla sete di verità di ogni persona, sia all’interno stesso della religione, in direzione della sua altezza più vera. Non bisogna, infatti, nascondersi che l’uomo contemporaneo, spesso, non segue la ragione, ma vive di istinti. Ciò rappresenta una sfida per ogni religione, perché potrebbe indurla a cedere a tali debolezze, per soddisfare i capricci o, peggio, gli egoismi dei suoi fedeli. Una religione “secolarizzata”, però, finisce per avere un “volto” così solcato dalle “rughe” delle incoerenze umane, da non riuscire più a far trasparire il divino.

In linea generale, pertanto, i protagonisti della nuova Europa e tutti i suoi cittadini dovrebbero considerare la religione per ciò che è, evitando le pressioni volte a trasformarla in “religione civile”, oppure a ridurre le Chiese a semplici agenzie di solidarietà sociale. Solov’ëv attribuisce all’Anticristo un libro, La via aperta alla pace ed al benessere del mondo, che ha come contenuto essenziale l’adorazione del benessere e della pianificazione razionale. La religione certamente non può non svolgere una funzione sociale. Tuttavia, ciò avviene, anzitutto, tenendo vivo il senso di Dio e della trascendenza. La solidarietà, l’accoglienza ed i valori civili sono cioè fattori essenziali, che la religione da sempre promuove, proprio perché vive del senso di Dio. Riferendosi alla Chiesa Cattolica, Papa Benedetto XVI ha scritto: La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile (…) Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare (7).

5) La dimensione pubblica della libertà religiosa

Tale contributo della religione, presuppone ovviamente il riconoscimento della dimensione pubblica della libertà religiosa. Al riguardo, negli ultimi anni i Sommi Pontefici ed i loro Collaboratori, come pure autorevoli pensatori, anche non credenti, si sono soffermati più volte.

Una sana laicità comporta la distinzione tra religione e politica, tra Chiesa e Stato, senza che ciò renda Dio un’ipotesi privata, o escluda la religione e la comunità ecclesiale dalla vita pubblica. Una sana laicità, pertanto, non procede sistematicamente, a livello pubblico, etsi Deus non daretur. Al contrario, come ha suggerito più volte l’allora Card. Ratzinger, sarebbe più razionale che si configurasse etsi Deus daretur. All’epoca dell’Illuminismo, si cercò di assicurare le basi della convivenza tenendo i valori essenziali della morale indipendenti dalla religione. Ciò sembrava realizzabile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal Cristianesimo resistevano e parevano innegabili. Ma non è più così. Per giunta, la ricerca di una certezza che rimanesse incontestata al di là delle convinzioni religiose, è fallita.

Pertanto, nella celebre Conferenza tenuta a Subiaco alla vigilia della morte del Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, il Card. Ratzinger disse: “Il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita “veluti si Deus daretur”, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così tutte le nostre cose troverebbero un sostegno ed un criterio di cui hanno urgentemente bisogno” (8).

In un recente Simposio della Società Italiana di Filosofia Politica, su “Religione e politica nella società post-secolare”, anche il noto filosofo Habermas ha sottolineato come sia errato scambiare la tendenza a privatizzare il fatto religioso per una perdita di rilevanza e di influenza del medesimo, sia nell’arena politica e nella cultura di una società, sia nella condotta personale.

Va poi aggiunto che il criterio di uguaglianza civile non è rispettato, laddove ai credenti s’impone l’onere aggiuntivo di argomentare etsi Deus non daretur. Mentre le ragioni teiste non potrebbero essere invocate pubblicamente, lo potrebbero gli argomenti razionalisti e secolari, con chiara violazione del criterio di eguaglianza e di reciprocità che sta alla base del concetto di giustizia politica.

In senso positivo, mi pare che una concezione più aperta e moderna di laicità, inclusiva e rispettosa di tutte le istanze, sia espressa dall’art. 52 del trattato costituzionale europeo, conservato nell’attuale “Trattato di Riforma” dell’Unione Europea. Tale disposizione prevede un dialogo costante fra le istituzioni di Bruxelles e le comunità religiose, riconoscendo l’identità ed il contributo specifico di queste ultime. Tale dialogo è necessario, tra l’altro, per rispettare i principi di un autentico pluralismo e per costruire una vera democrazia. Del resto, non fu de Tocqueville a sottolineare che il dispotismo non ha bisogno della religione, la libertà e la democrazia sì? (9). Per salvaguardare l’apertura del citato articolo al ruolo delle confessioni religiose, sarà ovviamente importante che esse continuino a presentare anche individualmente le proprie posizioni alle istituzioni comunitarie. Inoltre, bisognerà tenere in adeguata considerazione la loro diversa consistenza, analogamente a come si tiene conto delle differenze fra i Paesi dell’Unione, nel sistema di voto delle istituzioni.

6) La libertà di educazione

In merito al contributo sociale della religione, desidero poi accennare al tema dell’educazione, sul quale ci si sofferma anche in questo Convegno. La concezione privatistica della libertà religiosa spiega, almeno in parte, l’ostilità di alcune correnti del pensiero laico nei confronti delle istituzioni scolastiche dei Cattolici, considerate uno strumento con cui la Chiesa manterrebbe la sua influenza nella società. Tale ostilità, in realtà, non ha vere ragioni dalla sua parte, soprattutto dopo che la rete scolastica si è molto estesa, in tutti i Paesi europei, e dopo che essi hanno stabilito norme generali a cui debbono adeguarsi le scuole pubbliche non statali e, pertanto, anche le scuole cattoliche, per essere equiparate a quelle statali.

La concezione privatistica della libertà religiosa influisce, inoltre, sull’ostilità verso l’insegnamento religioso nella scuola pubblica statale, nonostante esso sia impartito nel rispetto della volontà delle famiglie e dei ragazzi (10). Se, tuttavia, si considera l’educazione come capacità di mettere la persona in relazione consapevole con la realtà, ossia come “provocazione” della libertà con la verità, allora risulta chiaro che la libertà di educazione è irrinunciabile, sia per una società realmente libera, sia per le istituzioni religiose, le quali, per antonomasia, manifestano una visione complessiva e trascendente della realtà.

7) La multiculturalità

Fra i fenomeni che, oggi, mettono in difficoltà la concezione privatistica della libertà religiosa va annoverata, infine, la cosiddetta multiculturalità.

È noto che la globalizzazione spinge gli uomini ad avvicinarsi e ad amalgamarsi. L’Europa, in particolare, è terra d’incontro di diverse culture e religioni e ciò costituisce una nuova sfida anche per la libertà religiosa. Questo continente deve infatti evitare che si formino comunità di fede nelle quali si entra ma da dove non si può uscire, e deve impedire che soltanto alcune religioni si diffondano liberamente, mentre ad altre non vengono riconosciuti pari diritti. Qualsiasi tradizione religiosa solida esige l’esibizione della propria identità; non vuole, cioè, restare nascosta o essere mimetizzata. D’altra parte, il volto migliore della laicità sa accogliere e tutelare il patrimonio di spiritualità e di umanesimo presente nelle varie religioni, respingendo quanto in esse dovesse essere in contrasto con la dignità umana.

La nuova Europa, pertanto, deve distinguere con chiarezza i necessari provvedimenti di accoglienza degli immigrati e di pieno rispetto per l’esercizio della loro libertà religiosa, dalle ingiustificate concessioni che mettono a rischio l’identità culturale e religiosa delle società che li ricevono. Sarebbe infatti strano e contraddittorio esigere visibilità per simboli e pratiche di religioni minoritarie e, al contempo, cercare di nascondere o relativizzare i simboli e le pratiche del Cristianesimo, che è la religione maggioritaria e tradizionale di questo continente.

Desidero poi aggiungere che, senza società plurali e coesi al loro interno, in forza di una sana laicità, intere fasce di popolazione potrebbero convincersi che non esista alternativa efficace al conflitto di civiltà. La salvaguardia della libertà religiosa, invece, è garanzia di pace e premessa di sviluppo solidale: essa, infatti, depotenzia la logica dello scontro promuovendo il dialogo e, prima ancora, il rispetto di ogni persona e delle sue convinzioni religiose.

8) Il Cristianesimo e la nuova Europa

Concludendo, desidero riferirmi alla convinzione di alcuni cittadini europei, per i quali la Chiesa cattolica, con la sua pretesa di verità, sarebbe incapace di dialogo e, persino, caratterizzata da una certa dose di fanatismo. In realtà, la Chiesa è ferma sui principi, perché crede; nella pratica è sempre tollerante e benevola, perché, nonostante i difetti dei suoi membri, ama ogni persona. Viceversa, gli accoliti della secolarizzazione sono spesso tolleranti per principio, perché non credono a valori irrinunciabili; d’altra parte, capita che siano incoerenti nella pratica, perché non sanno sempre amare.

Se i cittadini della nuova Europa vogliono vivere in modo responsabile, non dovranno sottrarsi allo sforzo di cercare la verità: in particolare la verità su se stessi e, quindi, su Dio, quale fine ultimo dell’esistenza. Fin dai suoi albori il Cristianesimo ha assunto, elaborato ed approfondito il meglio della sapienza greca e romana, presentandosi proprio come la vittoria del pensiero umano sul mondo delle mitologie e dei fanatismi religiosi. In un certo senso, pertanto, nel Cristianesimo la razionalità è divenuta religione: Dio non ha respinto la conoscenza filosofica, ma la ha assunta. S. Giustino, per esempio, dopo aver studiato tutti i sistemi di pensiero, aveva riconosciuto nel Cristianesimo la vera philosophia. Era convinto che, diventando cristiano, non aveva rinnegato la filosofia, ma anzi, soltanto allora era diventato pienamente filosofo. La forza che ha trasformato il Cristianesimo in una religione mondiale sta proprio nella sua sintesi fra ragione, fede e vita. Questa combinazione, così potente da rendere vera la religione che la manifesta, è anche quella che può consentire alla verità del Cristianesimo di risplendere, non soltanto nella nuova Europa, ma – più in generale – nell’odierno mondo globalizzato.

Il Cristianesimo, infatti, non si accontenta di mostrare “quella parte della faccia che Dio tiene rivolta verso l’Europa”; non si considera, cioè, la “religione degli Europei”, ma del mondo, perché risponde perfettamente al desiderio di verità che alberga nel cuore di ogni uomo, a prescindere dalla latitudine in cui vive. Non soltanto, quindi, la libertà religiosa è la “pietra miliare” della nuova Europa: voglio concludere, aggiungendo che il Cristianesimo è la “via” lungo la quale l’Europa può diventare veramente “nuova”. Il Cristianesimo, infatti, ha proposto all’Europa la promozione della libertà religiosa come misura di civiltà e sviluppo, capace di sottrarre il nostro amato continente ad una “giungla” di egoismi pressoché inestricabile, perché impenetrabile alla luce della dignità umana. Il “cammino” cristiano, dunque, garantisce il rispetto della libertà religiosa ed aiuta a costruire una nuova Europa.


 


Note:

1) Lattanzio, Epitome Divinarum Institutionum, 54.

2) Cfr Concilio Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis Humanae, n. 2.

3) Cfr Concilio Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis Humanae, nn. 3 e 4.

4) Giovanni Paolo II, Udienza ai Membri dell’Assemblea Parlamentare dell’OSCE, 11 ottobre 2003.

5) H.T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Milano 1999, p. 22.

6) J. Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Ed. San Paolo 2000, pag. 73.

7) Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, n. 28.

8) Joseph Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture, Subiaco, 1° aprile 2005.

9) Cfr Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, I, 9.

10) Cfr Carlo Cardia, Le sfide della laicità, pagg. 92-100.

“SE NON VI CONVERTIRETE, PERIRETE TUTTI ALLO STESSO MODO”

“SE NON VI CONVERTIRETE, PERIRETE TUTTI ALLO STESSO MODO”

A CURA DELLA

Conferenza episcopale calabra

 

L’annuncio del Vangelo, fonte di vita

II Vangelo della vita costituisce il cuore dell’annuncio cristiano (Gv 1,1-4). Lo proclamiamo con forza e gaudio nella domenica in cui la Chiesa celebra Cristo Re, il “Verbo della vita”, il vivente e il Risorto che porta nel suo corpo glorioso i segni dell’amore, memoria del dono della sua vita sulla croce, perché noi avessimo la vita, insieme con il perdono dei peccati.

Accolto dalla Chiesa con amore, il Vangelo della vita va annunciato e testimoniato con fedeltà, come buona novella, in questa nostra Regione afflitta dal doloroso e triste fenomeno della ‘ndrangheta.

Come Vescovi e Pastori della Chiesa di Dio in terra calabra, avvertiamo l’urgenza di incoraggiare tutti ad operare per un’autentica rinascita morale, sociale ed economica. Il nostro intervento, riflessione ad alta voce sul tema, offerta all’attenzione ed al cuore dei calabresi, è segno tangibile della manifestazione dell’identità cristiana, che nel suo essere esprime rispetto delle leggi, capacità di perdono, propensione al dialogo, costante impegno per il trionfo del bene comune, fiducia nella solidarietà sincera. Non esistono altre vie per vivere in terra e ascendere ai cieli della salvezza: in un mondo di tante presunte verità, “la verità cristiana può ancora inghiottire tutte le mezze verità del mondo” (Sergio Quinzio, La gola del leone, 91).

Un cuore che vede: la pervasività della ‘ndrangheta

Ad una criminalità dai tratti violenti, nascosti e pervasivi, tesa ad assoggettare risorse economiche, relazionali e sociali, opporremo la cultura della vita e della legalità. In questa sfida, nulla sarà d’aiuto più che la riscoperta della fede nel Figlio di Dio, che si è fatto uomo ed è venuto tra gli uomini “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

Contro un potere mafioso che permea di sé sia i singoli sia le istituzioni, deve nascere e diffondersi un senso critico capace di discernere i valori e le autentiche esigenze evangeliche. Se da un lato inquietano certe accuse di connivenza tra settori della criminalità organizzata e responsabili della cosa pubblica ai vari livelli, dall’altro risalta, specialmente per il cristiano, la necessità dell’impegno nella polis, come espressione della carità e dell’amore che il credente vive in Cristo. La carità politica, appunto, e i frequenti casi di corruzione ci spingono non solo a sollecitare la politica al recupero del valore di servizio, ma ancor più ad esortare i cristiani a non disertare questo servizio, pur quando esso significhi sacrificio e rischio per la propria vita.

La priorità della conversione

“Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13, 5). Gesù, commentando episodi di cronaca avvenuti a Gerusalemme, rimanda alla radice di tutti i mali: la peccaminosità dell’uomo, la potenziale connivenza con la violenza che si annida nel cuore umano in ogni tempo. Il suo è un chiaro invito a cercare, anzitutto dentro di noi, i segni della complicità con il peccato.

Il primo passo, quindi, è la conversione personale e comunitaria, grazie ad un cambio di mentalità nel cuore e nella vita di ogni uomo e donna, di ogni famiglia, gruppo e istituzione, che permetta di rimuovere le forme di collusione con l’ingiustizia e respingere l’ingannevole fascino del peccato. Attrazione, questa, che avvolge anche le nostre comunità ecclesiali, inducendo a minimizzare la realtà del male o ad assumere un atteggiamento fatalistico di rinuncia. Così anche per la tentazione di rifugiarsi nel privato, separando fede e prassi, o di limitarsi alla denuncia: nel male vi è una responsabilità che è propria non solo “di chi genera e favorisce l’iniquità e la sfrutta”, ma anche “di chi, potendo fare qualcosa per evitare, eliminare o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; ed anche di chi pretende di estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio, accampando ragioni di ordine superiore” (RP 16).

Richiamo alla vita coerente

Il popolo di Dio è chiamato a custodire, vivere e rilanciare l’originalità, unica ed universale, della speranza cristiana. Al riguardo, sia di stimolo l’insegnamento di papa Giovanni Paolo II: “Urge una generale mobilitazione per costruire una nuova cultura della vita (Evangelium vitae, punto 95)”. Seguendo l’unica strada percorribile, ovvero quella dell’esperienza credente, mobilitiamoci traendo dal Vangelo l’esempio cui improntare la nostra quotidianità per riaffermare, nel solco della testimonianza che diviene anima e sostanza dell’identità cristiana, il diritto alla vita. Dinanzi alla progressiva perdita dei valori di solidarietà, facciamoci strumenti di lotta ai mercanti di morte, ovunque essi si annidino e qualunque panni indossino: siano essi mafiosi o detrattori della vita, che sono negazione di Dio e dell’uomo, piaga sanguinante del corpo della Chiesa amante della vita. Al contempo, rinnoviamo l’attenzione agli ultimi ed agli emarginati, aiutando le Chiese locali a rafforzare le proprie capacità profetiche ed a porre al centro delle attività della comunità ecclesiale l’attenzione preferenziale al povero ed al suo senso sacramentale.

Ecco, allora, delinearsi la nuova cultura della vita: nuova, perché in grado di risolvere i problemi che investono il nostro territorio; nuova, perché fatta propria, con più salda e operosa convinzione, da tutti i credenti; nuova, perché capace di suscitare un serio e coraggioso confronto culturale con tutte le componenti della società che, nel suo senso più diffuso e nelle forme più o meno istituzionalizzate dell’in-tervento sociale, è la sola che possa prosciugare la linfa vitale delle organizzazioni mafiose.

È in tale ottica che collochiamo l’agire delle nostre Chiese particolari: dobbiamo dimostrarci capaci di costruire modelli culturali alternativi. Con la forza del Vangelo, potenza d’amore e annuncio di speranza, si deve agire per favorire una rottura con la cultura mafiosa, con perseveranza e pazienza, attraverso il coraggio della coerenza, della testimonianza e della speranza. Una simile rigenerazione delle coscienze deve cominciare dalle nostre comunità cristiane: troppi credenti, anche tra quanti partecipano attivamente alla vita ecclesiale, corrono il rischio d’una dissociazione tra la fede professata e l’etica che ne deriva e da attualizzare, giungendo spesso a comportamenti compromissori che contraddicono la verità del Vangelo (cf. EV 95). Dobbiamo interrogarci con lucidità sul tipo di cultura della vita e della legalità oggi percepita dai cristiani, dalle famiglie, dai gruppi e dalle comunità parrocchiali. Con altrettanta lucidità, dobbiamo individuare i passi da compiere per costruire una società più giusta e solidale, tale proprio perché finalmente sciolta dalle catene del peccato e del male imposte dalle organizzazioni criminali.

Un cuore che agisce: operiamo insieme

Un impegno consapevole è richiesto innanzitutto ai Vescovi, ai Presbiteri, ai consacrati ed a tutti gli operatori pastorali. È indispensabile, infatti, maturare una profonda coscienza della responsabilità che ci è stata affidata nel ministero dell’annuncio e dei sacramenti, ma anche nel compito di guide ed educatori, coltivando una vita di preghiera e carità e coniugando per primi, nel nostro quotidiano, autenticità, coerenza, amore per il prossimo, giustizia e legalità.

Non dimenticando, sulla scorta del documento Chiesa italiana e mezzogiorno, che “la carenza della famiglia, talvolta la connivenza o peggio l’incoraggiamento della famiglia, alimentano le faide e altre forme di devianza criminosa”, ribadiamo la centralità della pastorale familiare. E se da un lato assistiamo ad un processo di disgregazione e di crisi della famiglia, che tocca purtroppo anche la nostra regione, dall’altro abbiamo il dovere di non rimanere a guardare, sospinti dalla certezza che, ben evangelizzata e curata, la famiglia possa ancora essere lievito di una società rinnovata.

Un impegno altrettanto forte chiediamo alla scuola, laboratorio democratico di convivenza e di formazione dei cittadini di domani. La comunità scolastica si riappropri della sua peculiare funzione educatrice, coltivando negli studenti la volontà di resistere ai soprusi, alle ingiustizie e ad ogni forma di illegalità, anche strisciante, e sviluppando nei giovani il senso della responsabilità nella difesa dei diritti fondamentali e del rispetto per ogni uomo, vero antidoto alla violenza.

Chiediamo al Signore di far emergere dal popolo, in piena libertà, persone sagge che assommino in sé passione, senso di responsabilità e lungimiranza e che, al di là dell’ap-partenenza ai diversi schieramenti politici, sappiano elaborare percorsi legislativi e di amministrazione della cosa pubblica in grado di contrastare l’espansione del fenomeno mafioso, non precludendosi alcun tipo di intervento, quali ad esempio la confisca dei beni e la garanzia della certezza della pena, che mini alla base l’iscrizione e l’appartenenza mafiosa. Alle istituzioni indichiamo l’esempio di Cristo, venuto non per essere servito, ma per servire. Sollecitiamo i cittadini amministrati ad essere vigili, ma collaborativi con le istituzioni, giacché il fine comune è creare una civitas humana che attui il piano del Creatore, per il quale “la società umana è per l’uomo, non viceversa (Enciclica Divini Redemptoris, Pio XI, 1937)”.

A quanti, in particolare nella Magistratura e tra le forze dell’Ordine, sono chiamati a contrastare la mafia in campo aperto, esprimiamo vicinanza ed un plauso per l’impegno costante della loro opera, spesso nascosta o travisata, e per una dedizione che non di rado li porta a mettere a repentaglio la propria vita. Pur coscienti dei limiti umani, esortiamo la nostra gente ad avere fiducia in questa mediazione così delicata della propria sicurezza da parte di istituzioni che rappresentano, fisicamente, il presidio della legalità dello Stato.

Testimoniamo la nostra vicinanza anche agli imprenditori, perché investano con fiducia, vincendo la tentazione del puro profitto e adottando logiche solidali con le legittime aspettative di occupazione e giusta retribuzione. Invocando la tutela legislativa ed istituzionale, sosteniamo quelli che, speriamo sempre più numerosi, scelgono di difendere il loro onesto operato senza cedere a ricatti, denunziando anzi richieste di “pizzo” in cambio di protezione o invocando il rispetto della legge di fronte all’assalto di chi vorrebbe sottomettere al giogo dell’usura l’economia calabrese. Essi sappiano che non saranno abbandonati a se stessi, ma potranno contare sull’appoggio a tutto tondo dei pastori e della comunità cristiana, per garantire il quale ognuno, a cominciare dagli organi statali, farà la sua parte.

Ma è soprattutto ai giovani, futuro della nostra terra, che volgiamo lo sguardo: in famiglia, a scuola, nello sport ma pure nella ricerca di un lavoro ed in ogni occasione e giorno della vita, non perdano l’entusiasmo e neppure il generoso altruismo. Mentre ci impegniamo a tenere alta la tensione educativa e l’ascolto delle loro esigenze incentivando la pastorale giovanile, li invitiamo a lasciarsi contagiare dalla freschezza del Vangelo, a divenire protagonisti della carità e della promozione umana, coltivando valori di onestà, giustizia e legalità, per costruire assieme quel futuro che appartiene a tutti, ma specialmente a loro.

Infine, a tutti i credenti, agli uomini ed alle donne di buona volontà, diciamo apertamente che abbracciare o anche solo simpatizzare con una concezione dei valori della vita quale quella mafiosa è contrario al Vangelo ed al bene della società e dell’uomo, perché l’appartenenza o la vicinanza ai clan non sono un titolo di vanto o di forza, bensì di disonore e debolezza. Esortiamo perciò il popolo di Dio a compiere ogni sforzo per rinunciare ad atteggiamenti che possano alimentare il fenomeno mafioso. E ciò non solo mediante la condanna di tutte le forme di violenza, ma anche avendo sempre presente che la risoluzione dei problemi personali non va affidata al “padrino” di turno, ma a chi è a ciò preposto dall’Autorità dello Stato.

Conclusioni

Le mafie, di cui la ‘ndrangheta è oggi la faccia più visibile e pericolosa, costituiscono un nemico per il presente e l’avve-nire della nostra Calabria. Noi dobbiamo contrastarle, perché nemiche del Vangelo e della comunità umana. In nome del Vangelo, dobbiamo tracciare il cammino sicuro ai figli fedeli e recuperare i figli appartenenti alla mafia. Tale strada indichiamo nella Luce che da Dio promana. Egli rivela il Suo potere nella misericordia e nel perdono. L’amore è il Suo regno. È per mezzo dell’amore che costruiamo e rendiamo presente il regno di Dio in questo mondo. A Lui, fonte di speranza e verità che ci guida tra le tenebre lungo i sentieri della vita, rivolgiamo la nostra preghiera: “Tu con olio di esultanza hai consacrato Sacerdote eterno e Re dell’universo il tuo unico Figlio, Gesù Cristo nostro Signore. Egli, sacrificando se stesso, immacolata vittima di pace sull’altare della Croce, operò il mistero dell’umana redenzione; assoggettate al suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. Sostienici e guidaci perché anche noi, seguendo il Suo esempio, possiamo concorrere quotidianamente all’opera di redenzione e salvezza nostra, dei nostri fratelli e del mondo intero, combattendo con la forza della fede le armate del diavolo e spezzando le catene del peccato. Amen”.

Da http://www.adista.it

 

LA MAFIA E’ ANCHE “COSA NOSTRA”

Se è vero che tra uno o due anni si tratterà di fare il nuovo arcivescovo di Reggio Calabria, che è la città attualmente più al centro delle questioni di mafia e di mafiologia, più di Palermo o di Napoli e se è vero,così come è vero,che Mons. Bregantini è attualmente il vescovo, pur non calabrese e non meridionale, che parla di più e più efficacemente sul problema mafia.,si potrebbe pensare ad un trasferimento per non farlo Arcivescovo a Reggio Calabria? Forse hanno preferito spostarlo in tempo utile a Campobasso, che è una diocesi calma e tranquilla, a quanto si dice……

L’ALLONTANAMENTO DI MONS. BREGANTINI,
UN ALTRO SCHIAFFO ALLA CALABRIA. REAZIONI E COMMENTI

DOC-1925. ROMA-ADISTA. “Dev’essere misterioso davvero il disegno di Dio – scrive sul Manifesto l’antropologo Vito Teti -, se è ad esso che dobbiamo” l’allontanamento di mons. Giancarlo Bregantini dalla Locride: “il migliore regalo alla ‘ndrangheta che poteva essere pensato”, aggiunge sul Trentino Piergiorgio Cattani. Perché ha veramente dell’incredibile la vicenda della “promozione” del vescovo all’arcidiocesi di Cambobasso (v. Adista n. 79/07), e non farebbe differenza alcuna se, anziché di trasferimento ad una diocesi più piccola e meno popolata di quella di Locri, e di sicuro strategicamente assai meno importante, si trattasse della promozione “senza virgolette perché senza ironia” di cui parla l’Avvenire. Tanto più che il concetto stesso di promozione, vera o fasulla che sia, stride violentemente con quella che dovrebbe essere la missione di un vescovo: non a caso, come scrive a mons. Bregantini il prete genovese Paolo Farinella, lo spostamento “è pensato e letto con categorie pagane e atee: ‘è promosso’; Campobasso è più importante di Locri; fa carriera; diventa metropolita, ecc. Come siamo distanti – commenta – dal Vangelo che non ci ha mandato a cercare o realizzare carriere, ma a morire in croce per quella porzione di ‘mondo’ a cui siamo mandati”.

Pertanto, se anche non vi fosse alcun “oscuro disegno”, come insiste il quotidiano della Cei e come sostiene nel suo “doloroso e piangente saluto di congedo” alla diocesi di Locri lo stesso Bregantini (accreditando erroneamente l’ipotesi che il suo nome sia stato indicato dai vescovi dell’Abruzzo e del Molise e poi inserito nella terna di nomi presentata al papa), nessuna giustificazione potrebbe comunque darsi al fatto che una terra povera, dimenticata, malata, devastata dai tanti tradimenti e dai ripetuti abbandoni dello Stato – e di una Chiesa che troppo spesso ha fatto di silenzi ed omissioni, e di pesanti compromissioni, la sua linea di condotta – abbia subìto l’ennesima ferita, perdendo il simbolo di quella “Calabria nuova, fattiva, civile, propositiva” di cui parla Teti, la voce più tonante, tra tanti silenzi o sussurri, della resistenza e del riscatto. “Chi è agitato si rilassi”, invita Dino Boffo dalle pagine dell’Avvenire. Ma a non volersi affatto rilassare sono in tanti, dentro e fuori la Calabria, come indica la rassegna stampa che qui di seguito riportiamo, seguita da diversi comunicati di solidarietà a mons. Bregantini e preceduta da stralci del messaggio del vescovo alla diocesi di Locri, l’8 novembre scorso. (c. f.)

LA MAFIA È ANCHE “COSA NOSTRA”. ISPIRATA DA MONS. BREGANTINI
LA DENUNCIA ANTIMAFIA DEI VESCOVI CALABRESI

DOC-1924. CATANZARO-ADISTA. Il vero saluto di commiato di mons. Giancarlo Bregantini alla Calabria – ‘promosso’ dalla diocesi di Locri all’arcidiocesi di Campobasso (v. Adista n. 79/07 e documenti seguenti) – è la Nota pastorale sulla ‘ndrangheta, intitolata Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo, appena emessa dalla Conferenza episcopale calabra (Cec) ma che ha nel vescovo di Locri il suo principale ispiratore. Il documento, infatti, nonostante il valzer di date che lo accompagna, è l’esito del Convegno della Caritas regionale del 26-27 gennaio 2007 e rimanda direttamente alla relazione su Mafia e pastorale che lo stesso mons. Bregantini tenne in quell’occasione.

“Da tempo la Conferenza episcopale calabra aveva manifestato la volontà di pubblicare, dopo il Convegno della Caritas regionale sulla mafia in Calabria del gennaio scorso, un documento che in realtà ha anche preparato”, scrive nella presentazione alla Nota il presidente della Cec mons. Vittorio Mondello. Poi, prosegue, “dopo l’ultimo Consiglio Permanente della Conferenza episcopale italiana, nel quale il presidente Bagnasco ha mostrato l’intenzione di riprendere il Documento della Cei sul Mezzogiorno d’Italia, la Cec ha ritenuto più opportuno non pubblicare tale Documento che avrebbe potuto intralciare il lavoro della Cei e limitarsi, perciò, ad una semplice Nota”.

La Nota della Cec porta come data il 17 ottobre 2007. Proprio il giorno successivo, il 18, mons. Giuseppe Bertello, nunzio apostolico in Italia, convoca mons. Bregantini per comunicargli il suo imminente trasferimento a Campobasso. Il testo rimane segreto fino al 12 novembre quando il vescovo di Cosenza, mons. Salvatore Nunnari, durante la Settimana diocesana di formazione biblica, lo distribuisce ai partecipanti, avvertendo però che “ufficialmente dovrà essere consegnata alle parrocchie il giorno di Cristo Re, domenica 25 novembre”.

Ma il ‘padre’ della Nota pastorale della Cec – che Adista pubblica integralmente di seguito – è mons. Bregantini, che ne aveva ispirato i contenuti nella sua relazione al Convegno della Caritas dello scorso gennaio. Un intervento che affrontava il “rapporto tra ‘ndrangheta e pastorale” e che, come il documento della Cec, era strutturato attorno alle parole-chiave “denunciare, annunciare, rinunciare”. La mafia “è una nemica mortale della nostra terra – scriveva Bregantini nella sua relazione –, perché chiude ogni speranza e taglia le ali al futuro. Schiavizza ogni rapporto, viola ogni convivenza, distrugge il nostro territorio”. “La mafia però è anche un fenomeno che dipende, in parte, dai nostri peccati e limiti. Un peccato sociale, nel quale anche noi siamo immersi e del quale siamo in parte corresponsabili, per una serie di carenze nell’annuncio del Vangelo. È anche cosa nostra, per nostra responsabilità diretta ed indiretta. La mafia, quindi, impone un chiaro esame di coscienza!”. Pertanto la mafia, proseguiva, è “una aperta sfida, per tutti noi, per le nostre comunità cristiane, per un Vangelo più autentico, per preti più poveri ed esemplari, punti chiari di riferimento. Così il tessuto mafioso spinge i nostri consacrati e consacrate ad essere più testimonianti ed alternativi, i laici ad essere più coraggiosi, i politici più liberi, il volontariato più generoso, le scuole più qualificate, i giovani più protagonisti, questa nostra terra più amata”. (luca kocci)

Adista anno 2007Adista Documenti N°82

Antonio Rosmini proclamato beato a NOVARA


Il teologo e filosofo Antonio Rosmini è stato proclamato beato con una cerimonia seguita da 8.000 persone a Novara. A celebrare il rito è stato il cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Tra i fedeli c’erano il presidente del Senato Franco Marini, il ministro Arturo Parisi, in rappresentanza del governo, il presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. La cerimonia si è svolta nel nuovo palasport di Novara, trasformato per l’occasione in luogo di culto.

In tal modo si conclude positivamente il lungo iter della causa di beatificazione che ha proceduto parallelamente alla complessa riabilitazione di Rosmini, ”assertore convinto del binomio fede-ragione”, come sottolinea oggi Gianfranco Ravasi sulle pagine del domenicale de ‘Il Sole 24 Ore’. Uomo dell’800 aperto al nuovo, Rosmini chiedeva il rinnovamento della Chiesa guardando con fiducia al processo di unificazione risorgimentale.

Nel 1882 ebbe inizio la raccolta di testimonianze utili per la causa, ma il processo non venne aperto. In quel periodo, infatti, il Sant’Uffizio stava compiendo un’analisi delle opere di Rosmini, culminata nel 1887 con la condanna Post obitum (pubblicata soltanto il 7 luglio 1888) di 40 proposizioni rosminiane ritenute erronee. In particolare fu il volume ‘Delle cinque piaghe della Santa Chiesa’ a finire nell’Indice dei libri proibiti nel 1849 (insieme a ‘La costituzione civile secondo la giustizia sociale’), per poi essere prosciolata nel 1854 dalla stessa Congregazione dell’Indice con il decreto ‘Dimittantur’.

Nell’opera Rosmini faceva una lucida disamina dei mali che affliggevano la Chiesa cattolica già nella prima metà del XIX secolo: ”la divisione del popolo dal clero nel pubblico culto”; ”la insufficiente educazione del clero”; ”la disunione dei vescovi”; ”la nomina dei vescovi abbandonata al potere del clero”; e ”la servitù dei beni ecclesiastici”.

Nella turbolenta stagione del 1848 erano state poi le riflessioni politico-ecclesiastiche di Rosmini e il suo entusiasmo per le nascenti democrazie liberali a catalizzare l’attenzione e a destare timori fra coloro che vedevano nella dottrina di Rosmini il pericolo per uno stravolgimento del dogma cattolico e il tentativo di introdurre la democrazia nella Chiesa. Neppure la scomparsa nel 1855 del filosofo di Rovereto pose fine alle polemiche sulla sua opera, tanto che lo scontro tra sostenitori e detrattori tornò a inasprirsi.

Nel 1928, padre Bernardino Balsari, il Superiore Generale dell’Istituto della Carità, fondato da Rosmini, ritenne opportuno provare a dare inizio alla causa. Ricorreva quell’anno il centenario della fondazione dell’Istituto, si erano verificate guarigioni miracolose ricondotte all’intercessione del futuro beato e non si volevano perdere le testimonianze di chi lo aveva conosciuto.Tuttavia il processo si arrestò. Dal pontificato di Giovanni XXIII in poi però le cose, sia pure gradualmente, cominciarono a cambiare.

E’ stato infine il cardinale Joseph Ratzinger a sbloccare la causa di beatificazione di don Antonio Rosmini , fondatore di due ordini religiosi, amico del Manzoni e del Tommaseo, espressione del cattolicesimo liberale nel nostro Risorgimento e antesignano di riforme della Chiesa che trovarono attuazione nel Concilio Vaticano II.

Fra l’altro ha trovato conferma nel corso della causa la notizia circa il possibile avvelenamento del religioso da parte di alcuni suoi familiari, della nobile famiglia Bossi Fedrigotti, legata agli austriaci.

ROSMINI/ NAPOLITANO: APERTURA E TOLLERANZA SONO IL SUO MESSAGGIO

Roma, 18 nov. (Apcom) – Antonio Rosmini ha rappresentato “una figura di indubbio spessore e rilievo” nel “panorama e nella storia del cattolicesimo e della cultura filosofica italiana dell’ottocento”. Lo scrive il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della cerimonia di beatificazione di Antonio Rosmini, che si terrà questo pomeriggio a Novara.

Nel messaggio inviato a monsignor Renato Corti, vescovo di Novara, il capo dello Stato ha sottolineato che “il pensiero di Rosmini, che si collega alla grande tradizione cattolica, si confronta in un’impegnativa discussione con le correnti filosofiche europee del Settecento: nella filosofia morale e politica – sottolinea- le riflessioni di Rosmini, ampiamente dibattute sia nel corso della sua vita sia negli anni successivi alla sua morte, hanno contribuito a diffondere un messaggio di apertura e tolleranza, incarnando per il nostro paese, nell’epoca del Risorgimento e dei primi passi verso la costruzione di uno Stato italiano, le migliori tendenze del cattolicesimo liberale”.

“Non minore rilevanza – prosegue Napolitano – hanno avuto l’influenza e l’attenzione di Rosmini verso gli aspetti educativi e di diffusione del messaggio cristiano, testimoniate, oltre che dalla sua vita, anche dalla fondazione e dall’attività dell’Istituto della carità e delle suore della provvidenza. La beatificazione di questo importante pensatore italiano dell’Ottocento, che giunge dopo lunghe e travagliate vicende – conclude il capo dello Stato – sarà anche l’occasione per mettere in luce e valorizzare il senso della sua presenza storica e per approfondire gli apporti della sua opera alla migliore comprensione dei difficili problemi posti di fronte all’uomo contemporaneo”.

ROSMINI/ CATTOLICI DISSIDENTI: CHIESA LO BEATIFICA,SERVE…

Il movimento cattolico dissidente ‘Noi Siamo Chiesa’ ritiene che”, per essere credibile”, la beatificazione di Antonio Rosmini “esiga riflessioni autocritiche ed impegni riformatori da parte della Chiesa italiana oggi”.

“La beatificazione di Antonio Rosmini raccoglie consensi tra i cattolici di base che si ispirano al Concilio anche se sono in radicale disaccordo col vigente sistema delle canonizzazioni e con gli abusi che di esso sono stati fatti, soprattutto negli ultimi anni”, precisa il portavoce, Vittorio Bellavite, in un comunicato.

“Rosmini fu la massima espressione di quei cattolici che si impegnarono per una soluzione non traumatica del rapporto tra il potere temporale della Chiesa e la nascente nazione italiana. Il suo intervento si fondava su principi di democrazia e di laicità che sorprendono per la loro attualità e che, se fossero stati praticati, avrebbero potuto cambiare nel nostro paese la storia della Chiesa e dello Stato. Molte delle sue proposte per una radicale riforma della Chiesa cattolica furono alla base di orientamenti e decisioni del Concilio Vaticano II”. Per questo motivo ‘Noi siamo chiesa, auspica che quella di domani non sia una “beatificazione solo d’immagine senza alcuna riflessione autocritica”.

NOVARA, MARTINS: ROSMINI ECO MODERNA DEI GRANDI PADRI DELLA CHIESA

Le parole di Antonio Rosmini come un’eco moderna di quella dei grandi Padri della Chiesa. Così si è espresso il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi José Saraiva Martins durante l’Omelia per la beatificazione di Rosmini. “La voce del Rosmini è un’eco moderna di quella dei grandi Padri della Chiesa a cui può essere tranquillamente affiancato, per l’acutezza e la vastità degli interessi speculativi, ben sposati con l’ardore evangelico dei pastori d’anime…In Antonio Rosmini si trova il filosofo, il pedagogo, il teorico della politica, l’apostolo della fede, il profeta, il gigante della cultura…La Chiesa oggi proclama beato questo sacerdote perché ha riconosciuto nella sua operosa esistenza i segni della virtù, che egli praticò in modo eroico…Nel novello Beato si riscontra un costante filo unificatore fra il suo pensare, il suo credere e il vissuto quotidiano. Ne risulta una testimonianza di vita all’insegna di codesta unità che è ascesi, mistica, santità. L’abate Rosmini visse una vita teologale, in cui la fede implicava la speranza e la carità, con quel dialogo di amore confidente nella Provvidenza, tale da portarlo a non intraprendere nulla, nel grande e nel piccolo ‘se non vi siamo come tirati dalla Provvidenza’”.

Martins ha anche ricordato un passo dell’Enciclica “Fides et Ratio” di Giovanni Paolo II, nel quale il Rosmini veniva citato: “Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per l’ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Etienne Gilson, Edith Stein”.

MAFIA STRUTTURA DI PECCATO

 

 

Mafia, “struttura di peccato”

 

Maffia, “struttura di peccato”?

GIAMPIERO TRE RE*

Pubblicato per la prima volta, con il titolo Mafia, “struttura di peccato”? in S. DIPRIMA (a cura di), Per un discorso cristiano di resistenza alla mafia. Le categorie teologico-morali di “struttura di peccato” e “peccato sociale”, Studi del Centro “A. Cammarata”, Collana diretta da C. Naro, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 1995, 21-35.

L’espressione «strutture di peccato» nasce nel contesto della “teologia della liberazione”1 e successivamente fu accolta nel frasario della dottrina sociale della Chiesa2. L’origine sudamericana del termine sembra confermata dai documenti prodotti dalla III conferenza generale dell’episcopato latino americano (Puebla, 1979)3. Lo stesso Giovanni Paolo II, proprio in quei giorni, nell’omelia tenuta nel santuario di Nostra Signora dell’Immacolata concezione di Zapopán (Messico), aveva fatto uso della formula:

«[La Vergine Maria] ci permette di superare le molteplici “strutture di peccato” in cui è avvolta la nostra vita personale, familiare e sociale. Ci permette di ottenere la grazia della vera liberazione, con quella libertà con cui il Cristo ha liberato ogni uomo»4.

Non è un caso che il contesto faccia ricorso a concetti cari alla teologia della liberazione, anche se emerge la preoccupazione di dare di essi una lettura “autentica”, rivendicandone la paternità ad una cristologia di stampo più tradizionale.
Altri documenti ecclesiastici nei quali compaiono i termini di peccato o ingiustizia “strutturale”, “situazione di peccato” o “peccato sociale” sono Reconciliatio et paenitentia, 165; e Libertatis conscientia, 426. Ma è nella lettera enciclica di Giovanni Paolo II Sollicitudo Rei Socialis (30.12.1987) che la categoria «struttura di peccato» è stata più diffusamente applicata:

«”Peccato” e “strutture di peccato” sono categorie che non sono spesso applicate alla situazione del mondo contemporaneo. Non si arriva, però, facilmente alla comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza dare un nome alla radice dei mali che ci affliggono[…] La vera natura del male a cui ci si trova di fronte nella questione dello “sviluppo dei popoli” [ è ] un male morale, frutto di molti peccati, che portano a strutture di peccato»7;

La più recente sintesi del magisteriale imperniata sulla formula di «peccato sociale» si trova nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1992):

«Il peccato è un atto personale. Inoltre abbiamo una responsabilità nei peccati commessi dagli altri, quando vi cooperiamo:
-prendendovi parte direttamente e volontariamente
-comandandoli, consigliandoli, lodandoli o approvandoli;
-non denunciandoli o non impedendoli, quando si è tenuti a farlo;
-proteggendo coloro che commettono il male;

Così il peccato rende gli uomini complici gli uni degli altri e fa regnare fra di loro la concupiscenza, la violenza e l’ingiustizia. I peccati sono all’origine di situazioni sociali ed istituzioni contrarie alla Bontà divina. Le «strutture di peccato» sono l’espressione e l’effetto dei peccati personali. Inducono le loro vittime a commettere, a loro volta, il male. In un senso analogico esse costituiscono un “peccato sociale”»8.

Già da tempo intellettuali cattolici riferiscono la categoria al fenomeno maffioso9; non senza problemi di ordine teoretico, come vedremo, dal momento che l’applicazione classica è riservata ai problemi macroeconomici e socio-politici.
Quello che forse è meno noto è che Giovanni Paolo stesso ha già in qualche modo applicato il concetto alla maffia:

«esistono purtroppo fenomeni aberranti ormai secolari. Si tratta della mentalità o struttura cosiddetta mafiosa che crea a vari livelli e con diverse manifestazioni, misfatti deleteri per il buon nome stesso della Sicilia e della sua gente»10.

La dimensione cosmica e dinamica del peccato.

Offriamo qui di seguito una rapida ricognizione biblica e una breve indagine etico-teologica che possano servire per la fondazione di un discorso cristiano di resistenza alla maffia. Lo scopo è quello di isolare gli elementi essenziali del pensiero cristiano intorno alla dimensione sociale e storica del male morale.

Potenza del peccato e mistero dell’iniquità.

Data l’ampiezza dell’insegnamento scritturistico sulla realtà del peccato non possiamo che limitarci qui al solo contributo che è possibile recepire dalle cristologie riflessive del Nuovo Testamento.
Nelle opere che la tradizione attribuisce a S. Giovanni troviamo una lettura piuttosto omogenea del peccato. Secondo Giovanni il peccato si situa a vari livelli di profondità, il che ne fa una realtà complessa. Egli preferisce parlare del peccato piuttosto che dei peccati, essendovi «un peccato che conduce alla morte» da distinguere da quello che non vi conduce (1Gv 5,16s). Nel suo vangelo il peccato è, tipicamente, quello dei “giudei” (Gv 8,21-59) ossia l’ostinata e pervicace chiusura a Cristo. Questa radicale mancanza di fede è il “peccato del mondo” (Gv 1,10; 14,17; 17,11.14.25; 1Gv 3,1), da cui perfino la comunità appare minacciata (1Gv 2,15ss; 4,3ss; cfr. anche Rm 1,24-31; 1Cor, 6,9; Gal 5,21; Ef 5,5).
Anche l’autore della lettera agli Ebrei distingue nettamente da tutti gli altri il peccato di apostasia, che egli considera gravissimo, fino al punto da ritenerne impossibile il perdono (Eb 6,4ss; 10,26ss).
Paolo matura la svolta fondamentale del proprio pensiero teologico nel quadro del contrasto tra pagani e giudeo-cristiani e nel contesto della problematica del rapporto tra fede cristiana e legge di Mosè. Per l’Apostolo, pagani e giudei condividono la medesima condizione di creaturalità e la stessa situazione esistenziale di radicale peccaminosità (Rm 2,17-23; 5,12ss). Secondo Paolo esiste una «legge scritta nel cuore», la quale vige in quanto coincide con la stessa condizione ontologica dell’immagine di Dio impressa nelle strutture spirituali e morali della persona umana mediante l’atto creativo. Questa legge morale interiore svolge per i pagani, ed ogni essere umano, la stessa funzione che la Torah riveste limitatamente al giudeo. Una rivelazione di questa legge non scritta sotto forma di norme positive, ossia la legge di Mosè, si è però resa storicamente indispensabile a causa della minaccia portata al successo dell’originario piano salvifico della creazione dal progresso storico della situazione di peccato in cui l’intera umanità si trova esistenzialmente rinchiusa (Rm 11,32).

Condizionamenti e limiti della libertà.

Dall’analisi sin qui condotta si evince il ruolo fondamentale della libertà nel peccato: «non v’è né vi può essere colpa personale davanti a Dio che sia inconscia e non libera»11. In quanto è atto personale il peccato suppone sempre un soggetto capace di attribuirsi responsabilmente un grado proporzionato di libertà d’azione. Paradossalmente il carattere personale e libero del peccato solleva un problema teoretico di una certa entità in ordine a categorie concettuali come “struttura di peccato” e “peccato sociale”. Tali concetti, infatti, non solo indicano entità intersoggettive, ma furono elaborati proprio per denunciare l’alto grado di efficienza che certe realtà mondane esprimono nell’imporre limiti e condizionamenti alla libertà morale degl’individui che vi partecipano.
Bisogna chiedersi dunque, innanzi tutto, se vi sia e donde provenga la possibilità di un indebolimento della libertà morale.
All’interno della sfera degli atteggiamenti morali, in quel livello, cioè, nel quale la persona dispone di sé come un tutto e si determina liberamente davanti a Dio, non è certamente pensabile un effettivo condizionamento esterno alla libertà stessa. Dobbiamo pertanto escludere la sfera degli atteggiamenti, quell’”area” nella quale la libertà fondamentale può essere esercitata senza alcun condizionamento, giacché essa rimane inaccessibile a qualsiasi categorizzazione, perfino concettuale12.
Per quanto riguarda i singoli concreti comportamenti le cose stanno diversamente13. Occorre considerare la costituzione storico-esistenziale della persona. A causa di questa sua strutturazione mondana, pur senza mai esaurirsi in essi, l’uomo non può non oggettivarsi nel corpo e nell’azione. Questa sua attuazione nel mezzo terrestre è «segno costitutivo» della persona. Ma questo mezzo terrestre è anche il medium della forza esercitata dal mondo sulla persona14.
La «costituzione concupiscente»15 dell’individuo e l’«oggettivazione» dei comportamenti peccaminosi nelle strutture mondane possono seriamente influire sulla libertà del comportamento16.
Oggi la teologia accentua la drammaticità di questi aspetti del peccato, sulla scorta della psicologia, della psichiatria e della sociologia, che hanno messo in luce vari modi in cui le situazioni “esterne” esercitano pressioni sull’individuo. Sviluppi psicologici errati17, convinzioni, opinioni e norme socialmente condizionate18 sono altrettanti condizionamenti che condeterminano la vita spirituale dell’uomo, così come le «cosiddette situazioni ingiuste», quali la sperequazione economica, sociale, culturale19. Ma l’influenza della situazione peccaminosa del mondo sul soggetto umano -e viceversa!- non è sfuggita neppure alla teologia del passato, specialmente nel campo dei comportamenti sociali20.

Peccato individuale e peccato formale.

Il fluire dell’esistenza credente può essere descritta come una dinamica esistenziale-teologale il cui sviluppo è la «vita nello Spirito». Il cuore di questo cammino iniziatico è il mistero pasquale di Cristo, in cui l’umanità penetra sempre più intimamente e dal quale sempre più intimamente è penetrata. Tuttavia esiste un avanzamento eversivo rispetto all’affermarsi nel mondo del mistero pasquale. Si tratta del progresso del peccato che si manifesta nel vissuto violento di una collettività umana. Le varie tappe e le svolte della storia della salvezza e, in particolare, la forma storica della morte di Dio, assunta dal Cristo sul Golgota, oltre a sancire ogni volta un’alleanza più stretta tra l’uomo e Dio, nello stesso tempo smaschera una condizione esistenziale di radicale alienazione della persona umana da Dio. Ciò vuol dire che anche il male ha una sua storia ed è pertanto una presenza misteriosa nella vicenda umana, drammatica ma proprio per questo non ineluttabile.
Così pur se dietro un peccato in senso proprio e formale non può che esserci un esplicito attuarsi della persona come tale, ciò non obbliga affatto a concepire il peccato formale esclusivamente nella figura del singolo atto esteriore e di un atto necessariamente individuale. Il peccato ha un suo modo d’essere che trascende il limitato raggio dell’agire individuale. Esso è dotato di una sua potenza che si materializza, nella misura di quanto gli è consentito da condizioni storico-culturali più o meno favorevoli, in quelle che possiamo chiamare “oggettivazioni della colpa”: strutture di peccato e peccati sociali. Perciò esso è in grado di crescere in una maniera che non risulta dalla mera somma delle colpe individuali, vuoi perché il vissuto collettivo di violenza condiziona e modella le istituzioni del vivere comune, che sono a loro volta una delle condizioni del nostro essere situati storicamente nel mondo (peccato sociale); vuoi perché il peccato personale formale tende ad esprimersi ed attuarsi nelle modalità della vita associata (struttura di peccato). Anche il peccato cresce dunque in una maniera “organica”, in un modo cioè che facilita fino a rendere spontaneo e far apparire come indispensabile l’uso di altra violenza21 .
Il progresso del mistero pasquale nel mondo conosce arresti ed involuzioni non solo a causa dell’intrinseco funzionamento delle strutture antropologiche ma soprattutto per la resistenza opposta dalla potenza del peccato.

L’impatto del fenomeno maffioso: strutture di peccato in senso proprio.

L’applicazione della formula di «struttura di peccato» al fenomeno maffioso è problematica e contestata sotto vari aspetti.
Da una parte, infatti, la dottrina dell’imputabilità personale della colpa conduce a sostenere che nessuna istituzione o realtà collettiva può rendersi responsabile di male morale; per cui si conclude che nessuna struttura può essere in sé buona o cattiva. Ciò tuttavia contrasta con l’intrinseca malizia che la ragione morale e la coscienza cristiana istintivamente scorgono22 nella specificità della struttura maffiosa come tale.
D’altra parte alcuni osservano acutamente che denominare la maffia, in maniera fin troppo facile, “struttura di peccato” rischia di dissolvere la carica drammatica della violenza maffiosa in un’impalpabile colpevolezza corporativa, la quale in sostanza impedirà di collegare la gravità morale del fenomeno alle precise cause storiche che lo determinano.
Chi vuol continuare a sostenere che la maffia sia effettivamente una struttura di peccato si vede pertanto obbligato ad una più accurata messa a punto del concetto, sviluppando la distinzione, non ignota alla teologia morale23, tra strutture di peccato in senso proprio e in senso ampio.
Sono da considerare strutture di peccato in senso largo strutture e istituzioni del vivere umano associato moralmente condizionate e condizionanti in senso indiretto, cioè attraverso la mediazione della sfera dei comportamenti. Sono peccaminose in senso proprio invece quelle strutture, direttamente condizionate dall’agire peccaminoso degli individui che ne fanno parte attraverso la sfera degli atteggiamenti, o disposizioni cattive, e di una opzione fondamentale per il male.
Nel primo caso l’uso cattivo della struttura è sempre un uso strumentale, che ne sfrutta gli inevitabili limiti, difetti e imperfezioni piegandoli ai propri scopi. Si pensi, ad esempio, ai massimi sistemi economici, capitalistico e collettivistico. Strutture del genere esisterebbero probabilmente anche a prescindere del cattivo comportamento di chi ne abusa, mentre la capacità di condizionare al male, a sua volta esercitata da parte di tale struttura, è pur sempre un condizionamento materiale, che inclina il soggetto che ne fa parte a compiere il male e ne indebolisce la responsabilità ma non giunge a determinare per ciò stesso il consenso al male, che è l’elemento formale del peccato.
Nel caso di una struttura propriamente peccaminosa, la struttura è di per sé creata e finalizzata in vista di un male morale, realizza in sé il potere di attuare un male morale ed è scelta sempre in senso proprio per i vantaggi procurati da una struttura di potere illegittimo. Una simile entità è intrinsecamente cattiva nel senso che chi ne partecipa si rende formalmente responsabile del male prodotto dall’esistenza stessa della struttura. L’aspetto più grave di una tale situazione e il suo potere moralmente devastante sta nel fatto che la struttura non può esistere senza la cooperazione formale di chi partecipa alle sue finalità malvage.
Perché si possa dire di trovarci di fronte una vera struttura di peccato non basta che essa coinvolga più di una persona, né che occasionalmente produca le sue conseguenze negative o che non produca mai altri effetti materiali se non quelli negativi, ma occorre che il peccato che la qualifica sia culturalmente strutturato24. In altre parole, in quanto è il prodotto dello strutturarsi di molte opzioni fondamentali negative e di un atteggiamento immorale collettivo, occorre che la struttura di peccato in senso proprio preveda una certa definitività del proprio universo di senso e una stabilità dei suoi codici comportamentali; che sia capace di strutturare e condizionare codici comportamentali al di fuori di essa e tenda ad affermarsi ed a crescere fino ad occupare l’intero orizzonte culturale di un determinato gruppo umano.
Naturalmente stiamo pensando alla maffia, alla sua presenza pervasiva fin dentro le istituzioni, alla sua capacità di insediamento culturale, alla volontà di proporsi come alternativa al potere legittimo delle istituzioni naturali e politiche.

Tensione escatologica, non violenza e resistenza cristiana.

La Chiesa accusa oggi un indubbio ritardo culturale sul fenomeno maffioso. Dopo la fase della denuncia all’epoca dei grandi delitti eccellenti, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80, la chiesa siciliana sembrò tornare, fino alla vigilia del martirio di Pino Puglisi, alla vecchia difesa apologetica di una astratta sicilianità, alla retorica del “siciliano onesto” di quando la gerarchia ecclesiastica siciliana, e in particolare il Card. E. Ruffini, nutriva il fondato sospetto che dietro l’uso strumentale dell’argomento-maffia si celasse un cavallo di battaglia dell’armamentario ideologico anticlericale. Così si è nuovamente instaurata, negli ambienti ecclesiastici, la tendenza a trattare Cosa Nostra come fenomeno marginale, epidemico, della società siciliana, una organizzazione criminale ed un problema tra i tanti, proprio mentre altre istituzioni e intellettuali di estrazione non cattolica, che pure in altri tempi avevano condiviso la stessa deleteria approssimazione minimalista25, compivano decisivi passi avanti nella lotta alla maffia anche sul piano dell’approfondimento teorico, cogliendo la specificità del crimine di associazione maffiosa.
Al di là delle molte precisazioni che possono aggiungersi, va detto innanzi tutto che il nostro ritardo culturale consiste proprio nella difficoltà di cogliere il carattere strutturale della devianza maffiosa. Occorre convincersi che la maffia non è solo un effetto ma principalmente una causa dei mali, anche morali, della Sicilia. Dal punto di vista teologico ciò significherebbe rendersi conto che Cosa Nostra è una forma di apostasia che persegue un progetto diametralmente opposto a quello che Cristo affida alla comunità ecclesiale.
Per un discorso di resistenza cristiana alla maffia la scelta preferenziale dei poveri26 è condizione necessaria ma non sufficiente. Occorre fare riferimento all’intera prassi di liberazione di Gesù, sull’ispirazione delle richieste avanzate da Cristo nel Discorso della Montagna. La violenza, infatti, come si è visto, è l’aspetto macroscopico del dinamismo del peccato presente nella costruzione umana del mondo. La scelta della più radicale non violenza deve mostrare con chiarezza la sua spinta propulsiva escatologica, deve saper mostrare di provenire dall’interno stesso dello sviluppo ecclesiale, vale a dire di quel progetto di convivenza umana sanata alla radice dalla presenza di Gesù Cristo. Riguardo al fenomeno maffioso, il compito dei cristiani è quello di destrutturare gradualmente la sua natura peccaminosa, facendo leva appunto sulla sua radice umana deviata, risanandola. Un lavoro assai complesso che prevede l’elaborazione di una completa strategia: lo sviluppo di tutta una cultura della responsabilità politica dei cristiani, l’elaborazione di pedagogie, metodi di lotta e persino linguaggi radicalmente liberati da ogni ombra di violenza.

1Cfr. G. GUTIERREZ, Teologia della liberazione. Prospettive, tr. it., Brescia 1972, 180-184; L. BOFF, Chiesa: carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante, tr. it., Roma 19842, 34-36. E’ da sottolineare tuttavia che il concetto è espresso in modi equivalenti già in opere di teologi degli anni ‘60; cfr. ad esempio, J. M. GONZÁLEZ RUIZ, Pobreza evangelica y promoción humana, Barcelona 1966, 29 e già nei documenti della II conferenza del CELAM (cfr. «Paz», Medellin 1969, 65), ove compaiono formule come: «situazione di peccato», applicate alle strutture economiche e altre realtà collettive.
2«Ci rallegra […] che l’evangelizzazione venga beneficiando degli aspetti costruttivi di una riflessione teologica sulla liberazione, come accadde a Medellin» (Puebla. L’evangelizzazione nel presente e nel futuro dell’America Latina, Puebla de los Angeles, 27.1-13.2.1979, 343; tr. it., EMI, Bologna 1979; la citazione è tratta da L. ACCATTOLI, Le conclusioni di Puebla, in Il Regno-attualità, n. 393, 6/ XXIV (15 marzo 1979), 104). A causa dell’esplicito riferimento alla teologia della liberazione, l’unico sopravvissuto nella redazione finale, il testo citato ebbe vita travagliata sin dalla sua prima stesura in commissione e fu inserito nel documento conclusivo, dopo due votazioni a larga maggioranza, con 126 suffragi favorevoli contro 52. Si tenga presente che il documento votato a Puebla gode di una esplicita approvazione del papa. L’accenno alla teologia della liberazione rimanda comunque al principio teoretico, «Jesucristo liberador», sul quale si sviluppa tutta la riflessione pastorale dei vescovi di Medellin e Puebla. Sul concetto di “peccato strutturale”, elaborato dalla teologia della liberazione, e sulle necessarie correzioni da apportare a tale dottrina si pronunzia anche il prefetto della Sacra Congregazione per la dottrina della fede, J. RATZINGER, Alcuni aspetti della «teologia della liberazione» (Libertatis Nuntius), in Enchiridion Vaticanum,. Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 9 (25.1.83-14.12.85), Bologna 1987, n. 899 e Prooemium, Ibid, n. 866.
3«Lo sviluppo del concetto di “peccato sociale” e di quello di “situazione di peccato”, nell’insieme del documento [che raccoglie gli atti della conferenza di Puebla], meriterebbe una ricerca a parte. “La realtà latino-americana ci fa sperimentare amaramente, fino a limiti estremi, questa forza del peccato, flagrante contraddizione del piano divino”, si legge nel paragrafo 101. Cf. anche 17 (è peccato sociale la «distanza tra ricchi e poveri»), 38, 40, 115, 166 (il «mistero dell’iniquità» opera «mediante fatti o strutture che impediscono una partecipazione più fraterna nella costruzione della società e nel godimento di beni che Dio creò per tutti», 180 (i segni del peccato nelle «strutture create dagli uomini»), 225, 836, 882 («oggettivazioni del peccato in campo economico, sociale, politico e ideologico culturale»), 1019 (L. ACCATTOLI, op. cit., 103, nota 19). Cfr. anche il Documento di consultazione in preparazione dei testi di Medellin e Puebla: «Per la Chiesa è motivo di gioia l’aumento di sensibilità di fronte ai mali sociali e alle strutture di peccato» (449); «Il peccato […] ostacolerà senza posa la crescita nell’amore e nella comunione, sia nel cuore degli uomini, sia nelle diverse strutture da essi create, nelle quali il peccato dei loro autori ha impresso la propria impronta distruttrice» (281); in G. P. SALVINI, Questioni circa l’economia, in S. BASTIANEL (ed.), Strutture di peccato. Una sfida teologica e pastorale, Casale Monferrato, 1989, 53.
4In Osservatore Romano, 1.2.1979, 5.
5Esortazione apostolica, 2.12.1984; in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 9, cit., n. 1118.
6CONGREGAZIONE DELLA FEDE, 22.3.1986, in Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 10 (1986-1987), Bologna 1989, n. 248.
7Sollicitudo Rei Socialis, 36-37 passim in Enchiridion Vaticanum Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 10 , cit., nn. 2639-2645; cfr. anche Sollicitudo Rei Socialis, 46 in Enchiridion Vaticanum, cit., nn. 2692-2695
8Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, 1992, nn. 1868-1869; cfr. anche n. 408.
9Cfr., a mero titolo di esempio, l’intero fascicolo di Segno, XIX (1993) n. 150; cfr. spec. E. CHIAVACCI, Mafia e responsabilità della chiesa, 12.
10Ad Siciliae episcopos occasione oblata «ad Limina» visitationis coram admissos, (11.12.1981) in Acta Apostolicae Sedis. Commentarium officiale, LXXIV (1982) 240; anche in A. CHILLURA, La posizione delle comunità ecclesiali siciliane nei confronti della mafia, in AA. VV., Mafia, politica, affari. Rapporto 1992, Palermo, 1992, 308.
11K. RAHNER, Colpa, remissione, conversione nella fede, in A. GÖRRES- K. RAHNER, Il male. Le risposte della psicoterapia e del cristianesimo, tr. it., Milano 19872, 150.
12Questa zona è inaccessibile alla riflessione concettuale sia pure dell’io: nella concettualizzazione infatti verrebbe a stabilirsi una distanza tra l’io riflettente e l’io oggettivato, cosa chiaramente contraddittoria (cfr. J. FUCHS, Peccato e conversione, in Sussidi 1980 per lo studio della teologia morale fondamentale, Roma 1980, 152-153; K. RAHNER, Verità dimenticate intorno al sacramento della penitenza, in ID., La penitenza cristiana, tr. it., Roma 1968, 164; ID., Conversione, in Sacramentum Mundi. Enciclopedia teologica, tr. it., vol. II, Brescia 1974, 623; ID., Colpa, remissione…, op. cit., 228; F. BÖCKLE, I concetti fondamentali della morale, tr. it., Brescia 19818, 118, 122).
13«E’ assai problematico se si possano distinguere tanto semplicemente gli oggetti della volontà in liberi e non liberi, o se questi due predicati, per quanto in maniere sempre diverse, non convengano ad ognuno di tali oggetti, anche se nell’atto vero e proprio della libertà l’uomo dispone di sé come di un tutto» (K. RAHNER, Verità dimenticate..,, op. cit., 231).
14K. RAHNER, Verità dimenticate…, op. cit., 158-159; cfr. anche ID., Colpa, remissione…, op. cit., 235. Anche F. Böckle sostiene qualcosa di simile: le nostre decisioni si attuano per mezzo della nostra corporalità e stanno per conseguenza in una ambiguità di natura (cfr. I concetti fondamentali…, op. cit., 122).
15J. FUCHS, Etica cristiana in una società secolarizzata, tr. it., Roma 1984, 101.
16Cfr. G. TRE RE, Profetismo, in S. LEONE – S. PRIVITERA (edd.), Dizionario di bioetica, Acireale – Bologna 1994, 765.
17B. Kiely richiama l’attenzione sulla psicologia dell’età evolutiva, sostenendo che limitazioni della libertà si possono avere per effetto delle disfunzioni psicologiche risalenti alla «memoria affettiva», che è formata per lo più nell’infanzia; agli stimoli cognitivi; alle difficoltà del rapporto genitori-figli… (B. KIELY, Psicologia e teologia morale. Linee di convergenza, tr. it, Casale Monferrato 1982, 285-286).
18K. RAHNER, Colpa, remissione…, op. cit., 227.
19J. FUCHS, Etica cristiana…, op. cit., 100.
20Ibid., 93-96.
21Così, senza voler dirimere la questione se il “peccato del mondo” sia da identificare o meno col peccato originale (Cfr. P. SCHOONENBERG, L’uomo nel peccato, in Misterium Salutis. Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza, tr. it., Brescia 1970, vol. IV, La storia della salvezza prima di Cristo, 701-715), possiamo condividere le conclusioni di J. Fuchs: «Il peccato del mondo libera la concupiscenza che rende poi necessari specifici ordinamenti ed istituzioni in una umanità caratterizzata dalla concupiscenza. Ma tramite gli uomini costituiti come concupiscenti, esso realizza anche delle oggettivazioni di se stesso: comportamenti e situazioni istituzionalizzati e non, che da parte loro in certi casi condizionano un comportamento ad essi “adattato”» (J. FUCHS, Etica cristiana…, op. cit., 97). Cfr. anche K. Rahner: «La “peccaminosità fondamentale anonima” […] quella che la tradizione chiama concupiscenza […] non appartiene semplicemente di per sé alla natura umana, bensì può essere incrementata da precedenti atti colpevoli» (Colpa, remissione…, op. cit., 238; cfr. anche ID., Verità dimenticate…, op. cit., 151).
22Sull’«istinto morale» della ragione naturale e della fede come fonte di conoscenza morale cfr. K. RAHNER, La manipolazione genetica, in ID., Nuovi saggi III, tr. it., Roma 1969 tr. it., 360-373; G. TRE RE, Ingegneria genetica: aspetti tecnici, valutazione etica, in Bioetica e cultura I (1992) 1, 81-82; ID., Conversione, in S. LEONE – S. PRIVITERA (edd.), op. cit., 191.
23Cfr. S. BASTIANEL, Strutture di peccato. Riflessione teologico-morale, in ID. (ed.), Strutture di peccato. Una sfida…, op. cit., 31-32.
24Non è senza importanza per il teologo il fatto che i più seri studiosi del fenomeno criminale in Sicilia indichino oggi tra gli aspetti peculiari nella struttura materiale dell’atto di omicidio a Palermo l’associazionismo e dunque anche la premeditazione: cfr. G. CHINNICI, Processi per omicidio a Palermo, in G. CHINNICI – U. SANTINO – G. LA FIURA – U. ADRAGNA, Gabbie vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Milano 1992, 15-96). Il grado di associazionismo, cioè il rapporto del numero di autori (mandanti, fiancheggiatori, esecutori) per singolo omicidio, è significativamente più alto a Palermo (9,8 autori per omicidio) che, per esempio, a Genova (1,27). L’omicidio a Palermo è un fenomeno così statisticamente d’eccezione da potersi spiegare solo riconoscendo che quest’insieme di dati incorpora una massa di fatti non attribuibili alla criminalità comune, ma da ricondurre all’attività e alla capillare presenza della maffia. Per calcolarne esattamente l’incidenza, Chinnici si serve del concetto di «matrice», da lui stesso elaborato in studi precedenti. Quasi la metà degli omicidi attuati a Palermo (il 45,5%) risulta così essere di matrice maffiosa, mentre solo il 28% è da addebitare alla criminalità comune.
25«Fino ai tragici fatti di sangue della prima guerra di mafia degli anni ‘62-’63, gli organismi responsabili e i mezzi d’informazione sembrano fare a gara per minimizzare il fenomeno mafioso». Queste parole di Giovanni Falcone, riportate da S. LODATO, Dieci anni di mafia, Milano 1990, 7-8, confermano, ad anni di distanza, quanto il card. Ruffini l’11 agosto del 1963, significava nella sua lettera di risposta al card. Dell’Acqua, allora segretario di Stato: «Un alto funzionario della polizia ben addentro alle segrete cose e abilissimo proponeva il dubbio: che cosa si dovesse intendere per mafia, e rispondeva egli stesso che trattasi di delinquenza comune e non di associazione a largo raggio».
26B. SORGE, Solidarietà e sviluppo, in S. BASTIANEL, Strutture di peccato. Una sfida…, op. cit., 62-63.

*GIAMPIERO TRE RE:Docente di filosofia, psicologia e scienze sociali, è dottore di ricerca in Diritti dell’Uomo presso l’Università di Palermo e licenziato in Teologia morale presso l’Università Gregoriana di Roma. Specialista di bioetica è autore di vari articoli e saggi tra cui Terra di nessuno. Bioetica dei diritti dell’embrione umano, Palermo 1999.

La Traditio fidei e l’IRC:La Pieta’ Popolare nell’Arcidiocesi di Monreale

 

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La pietà popolare e l’ecclesiale locale

 

di Michele Vilardo*

Relazione al Convegno sulla “Traditio fidei e l’IRC”

organizzato da Sua Ecc.Rev.ma Mons.Cataldo Naro

Arcivescovo di Monreale

(Eletto il 18-Ottobre 2002-Deceduto il 29-Settembre 2006)

Poggio San Francesco 1-2 Luglio 2003

 

 

1. La pietà popolare

 

L’analisi della religione popolare, meglio identificata con le espressioni «religiosità popolare» e «pietà popolare», ha attratto l’attenzione degli studiosi del fenomeno negli ultimi decenni.

Carlo Levi nel suo affascinante racconto autobiografico intitolato Cristo si è fermato ad Eboli così scriveva:

Nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c’è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dèi del villaggio.

 

Cito, in apertura del mio discorso, il brano di Levi, con cui egli descrisse, negli anni quaranta, i contadini della Lucania, dov’era stato mandato al confino, poiché la realtà proposta da questo fortunato libro rifletteva in maniera significativa più che la condizione storica del nostro meridione, l’atteggiamento culturale con cui ad esso guardava il colto osservatore venuto dal profondo nord.

Affiora, nella descrizione di Levi, un’interpretazione del mondo popolare e del vissuto della sua religiosità che risulta innestata sul tronco dei luoghi comuni e dei motivi polemici ereditati da una robusta tradizione della cosiddetta “cultura alta”.

Levi è il portavoce di una ben precisa interpretazione culturale, di stampo sociologico-ideologico, ma non teologico, che ha tenuto banco, nel corso di tutto il dopoguerra. I tratti distintivi, di questa concezione della religiosità popolare, possono essere ricondotti a due nodi di fondo: l’accentuazione del dato irrazionale, magico, infantile e primitivo del fenomeno; la religiosità dei ceti popolari che viene vista, essenzialmente, come un prodotto spurio, una forma di sincretismo in cui il sacro si confonde con il santo e con il profano, quasi fossero la stessa cosa, e la fede è interpretata a partire dai bisogni materiali dell’esistenza umana al punto tale da alterare lo stesso magistero ecclesiastico.<!–[if !supportFootnotes]–>[1]<!–[endif]–>

Il problema di fondo che il testo di Levi pone chiama in causa le diverse interpretazioni date sulla religiosità popolare prevalentemente di matrice illuminista, marxista e neo-marxista, scaturenti da prospettive e preoccupazioni spesso estranee al vissuto religioso reale del popolo cristiano.

Più precisamente si può comprendere il variegato fenomeno della religiosità popolare facendo riferimento ad una serie di modelli che il sociologo della religione Enzo Pace definisce modelli della dicotomia e della contrapposizione.

I modelli dicotomici hanno posto in essere due chiavi di lettura del fenomeno:

a) il dominante-subalterno;

b) l’ufficiale/dotto contrapposto allo spontaneo/semplice.

Il modello dominante-subalterno fa riferimento ad un insieme di teorie di impianto marxista che interpretano la religiosità popolare come espressione della differenza socio-economica e culturale fra le classi subalterne e quelle dominanti. Il presupposto da cui queste teorie prendono le mosse è il fatto che la religione costituirebbe un efficace dispositivo attraverso il quale le classi sociali meno fortunate tendono ad interpretare il mondo di privazione, in cui esse vivono, ricorrendo con più frequenza alle pratiche religiose che consentirebbero agli individui di rendere più vicina la potenza del divino. Le classi sociali subalterne, per ragioni economico-culturali, porrebbero in essere delle forme di religiosità in grado di dare risposte immediate al loro disagio sociale e alle sofferenze individuali e collettive diversamente non controllabili.<!–[if !supportFootnotes]–>[2]<!–[endif]–>

A tal proposito la studiosa, di indirizzo marxista, Annabella Rossi sostiene che la gente del sud che celebra le feste religiose appartiene a quel mondo dell’Italia meridionale in impercettibile trasformazione culturale che si identifica con una «cultura della miseria» nella quale alla depressione economico-culturale si lega un sentimento religioso modulato secondo criteri magico-popolari in grado di risolvere i problemi dell’aldiquà.

Per la Rossi «questa religiosità viene vissuta principalmente come risolutrice dei problemi dell’aldiquà, un aldiquà nel quale non si può contrapporre ai concreti mali quotidiani, altro che (se non) un affidarsi magico religioso ed un invocare uno stare bene che non è pensabile come conquista civile ed è pensato come elargizione misteriosa e potente da parte del divino».<!–[if !supportFootnotes]–>[3]<!–[endif]–>

Questa lettura, da sottosviluppo economico-sociale, diviene sempre più esplicita nel pensiero della Rossi allorché essa scrive che «l’assenza di alternativa e di chiare prospettive di ordine sociale e politico, spiegano il fatto che gli appartenenti alla cultura della miseria del mezzogiorno italiano si rivolgono per la soluzione dei loro problemi alla sfera religiosa, ad un cattolicesimo, quale è, appunto, quello popolare, che offre protezione e grazie in cambio di devozioni particolari, di sacrifici, di impegni individuali come affrontare un percorso a piedi… farsi promotore di raccolte di offerte… manifestare la propria fede in modo eclatante con grida, pianti e così via».<!–[if !supportFootnotes]–>[4]<!–[endif]–>

Spesso il fenomeno viene inquadrato in un presunto sottosviluppo culturale, per cui la religiosità sarebbe paganesimo greco-romano verniciato con i contenuti del cristianesimo. A questo tipo di lettura si lega la ricerca di Ernesto Di Martino che nel suo studio, dal titolo Sud e Magia, sostiene che il clero meridionale avrebbe assolto ad una funzione di raccordo tra gli esorcismi pagani e quelli cristiani, realizzando una sorta di egemonia religiosa e culturale in una società arretrata come quella meridionale.<!–[if !supportFootnotes]–>[5]<!–[endif]–>

La religione popolare appare quasi condannata a riprodursi in maniera meccanica senza farsi scalfire in profondità dagli sviluppi della dottrina o dall’influsso delle cicliche ondate di cristianizzazione controllate dalla gerarchia ecclesiastica: cambiano le forme esteriori, cambia la scenografia teatrale della pietà collettiva ma la sostanza si perpetua nel tempo.

Lo stesso Gramsci, nei Quaderni dal Carcere, ha riflettuto sulla religiosità popolare delle classi subalterne assimilando la religione popolare al folklore, cioè ad una visione del mondo caratterizzata da anti-intellettualismo, ricerca di esperienze emotivamente forti, rappresentazione antropomorfica del sacro per meglio manipolarlo ed ottenere benefici pratici ed immediati.

Sempre nell’ambito del modello della dicotomia dominante-subalterno, si collocano le ricerche fatte da Alfonso Di Nola che «tendono ad evidenziare il significato sociale e comunitario di questa religiosità di fronte alla disgregazione culturale in atto, come esigenza di recupero di una identità collettiva in una situazione esistenziale messa in crisi da una realtà socio economica dominata dal mercato del consumismo.<!–[if !supportFootnotes]–>[6]<!–[endif]–>

Il modello della dicotomia tra le classi sociali è messo in crisi da un dato storico oggettivo: la religiosità popolare non è mai stata prodotto esclusivo delle “classi oppresse” poiché essa è stata, ed è ancora oggi, praticata da persone di ogni ceto sociale. Basti pensare al fenomeno dei pellegrinaggi che vede insieme ricchi e poveri, semplici e dotti, nobili e popolani accomunati dalla ricerca di salvezza che solo il Santo,cioè la presenza salvifica di Dio, può offrire.

Detto ciò, è possibile affermare che la gente semplice, popolare, anche nell’accezione sociologica del termine, svantaggiata sul piano della cultura, del potere e della ricchezza, abbia trovato anche nella religiosità popolare il terreno privilegiato per vivere con modi “popolari”, di un popolare teologicamente inteso, i contenuti principali della fede cattolica.

Il secondo modello, proposto da Pace, quello cioè della dicotomia tra l’ufficiale/dotto e lo spontaneo/semplice, trasferisce la dicotomia di classe in una differenziazione interna alla vita della Chiesa caratterizzandola con la logica della contrapposizione fra una ortodossia ufficiale, canonizzata in testi sacri e liturgie, riconosciuti legittimi dalla gerarchia ma contrapposti a forme non ufficiali ed extra-liturgiche di manifestazioni di fede.

Queste ultime verrebbero disciplinate e tollerate dalla religione ufficiale affinché non debordino in forme e percorsi magico-superstiziosi. In questo secondo modello la logica della contrapposizione scaturirebbe non dal fatto che la religiosità popolare sia radicalmente altro dalla religione ufficiale, bensì dal fatto che, è quest’ultima a voler stabilire i confini di tutto ciò che può essere considerato espressione di fede autentica rispetto a ciò che, invece, si colloca fuori di essa.

Tramite questa operazione, di demarcazione simbolica, la religione ufficiale tenderebbe a preservare le varie forme di religiosità popolare, ammesse ma tollerate, come espressione di autenticità del popolo, umile e semplice, non contaminato da sovrastrutture culturali e da complicate mediazioni intellettuali.<!–[if !supportFootnotes]–>[7]<!–[endif]–>

Anche questo modello della contrapposizione interna alla vita della Chiesa è smentito dai fatti: la gerarchia, il clero, i religiosi hanno sempre preso parte ai riti della religiosità popolare con la partecipazione ai pellegrinaggi e ai santuari mariani, con la recita del rosario, con la celebrazione della via crucis e di altre pie pratiche in quanto facenti parte della categoria teologica di “popolo di Dio” e, pertanto, senza nessuna logica di contrasto e contrapposizione.

La religiosità popolare, scrive mons. Cataldo Naro, non dice contrapposizione tra la Chiesa ufficiale e il popolo, non postula diversità tra la religione del vescovo e del clero, più o meno riformatore, e la religione dei fedeli.<!–[if !supportFootnotes]–>[8]<!–[endif]–>

Fin qui non ho mai usato, volutamente, l’espressione “pietà popolare” perché l’uso di questa semplice ma profonda espressione delimita il campo del discorso teologico sull’argomento.

Che cos’è, allora la pietà popolare? Nella sua realtà profonda è fede cristiana; fa, cioè, riferimento al messaggio della salvezza e alla centralità del mistero pasquale. Per una lettura teologica del fenomeno è opportuno usare la dizione di pietà popolare, anche se va detto che pietà e religiosità sono aspetti di uno stessa medaglia da cogliere dinamicamente.

Infatti di per sé, come sostiene mons. Naro, etimologicamente, pietà non dice più o diversamente da religiosità. Nell’accezione, consacrata anche da una felice espressione di Paolo vi nella Evangelii nunziandi al n. 48, la pietà dice più rapporto alla Chiesa come fatto istituzionale, mentre religiosità dice maggiormente una costante dell’animo umano, la sua apertura al divino, che si esprime in una molteplicità e varietà di espressioni e di atteggiamenti non necessariamente legati alla realtà istituzionale della Chiesa ma neppure contro di essa.

Prova ne sia che anche nelle religioni altre dal cattolicesimo esistono percorsi di religiosità popolare.

Con il termine “pietà” si intende sottolineare anche la lunga tradizione ecclesiale che definisce il rapporto con Dio e con i santi. Pietà dice il concetto, che don De Luca ha elaborato: la presenza amata di Dio nella vita dei credenti. Questa presenza amorevole viene sperimentata dal credente come salvezza, offerta dal Padre nel Figlio e testimoniata nella storia da testimoni privilegiati quali Maria di Nazareth e i santi, il credente risponde con moltissime espressioni popolari: novene, tridui, azioni extra liturgiche della settimana santa, processioni, pellegrinaggi, via crucis, rosari, venerazioni delle reliquie, culto dei defunti, edicole votive, preghiere popolari, ex voto, accensione di ceri e omaggi floreali alla vergine e ai santi, venerazione dei santi, uso di medaglie e scapolari.

Parlare di pietà significa dire il percorso di fede, la vera devozione scaturente dalla fede genuina. La pietà popolare trova la propria radice nel suo essere espressione viva della fede di un popolo e, pertanto, essa è la fede cristiana vissuta nella trama del quotidiano, nella propria esistenza personale, familiare ed ecclesiale, connotata da un consapevole rapporto con Dio colto presente nella propria esistenza ed in maniera continuativa. Una presenza che salva nell’oggi della storia. Pertanto la pietà popolare non ha nulla a che spartire con il concetto di sacro poiché essa dice proprio il passaggio dal sacro al santo.

Infatti il sacro è tutto ciò che ci mette in rapporto con il divino inteso come il fondamento dell’essere. Il santo è il divino personale, cioè Dio che si è fatto spazio e tempo entrando in un rapporto con gli uomini e facendo sì che la storia, toccata dall’irruenza di questo santo, dal Dio-Uomo, diventasse “divina” nel senso che le è stata data la possibilità di entrare in una relazione di comunione con Dio ricevendo, per partecipazione, la stessa vita di Dio. Questa relazione, tra Dio incarnato e l’umanità che lo accoglie, diventa evento di salvezza.<!–[if !supportFootnotes]–>[9]<!–[endif]–>

La pietà differisce anche dal folklore poiché esso richiama la storia del costume e della mentalità di un popolo ed ha attinenza con le forme ormai superate della società e dell’economia del passato, è residuo di usanze collettive connesse con le modalità tipiche dell’esistenza e della produzione economica della società agro-pastorale che oggi non sono più.

Il folklore è legato alla cosiddetta civiltà materiale ricordando la quale non ottengo nessuna salvezza. Può esistere un folklore religioso riecheggiante, cioè, pratiche religiose ed ecclesiali completamente desacralizzate riprese da soggetti non ecclesiali, come ad esempio le pro-loco, con intenti di chiara valorizzazione culturale o a fini di attrazione turistica.

Anche il folklore religioso proprio perché privo di un reale contenuto di “pietà”, cioè di incontro con Cristo-salvatore, e dunque non esprimente la fede, non può ritenersi pietà.

Due esempi caratteristici di folklore e di folklore religioso presenti nel territorio dell’arcidiocesi monrealesi sono: la Festa degli Schietti di Terrasini e il Ballo dei Diavoli di Prizzi: entrambi si svolgono nel giorno di Pasqua.

Alla Festa degli Schietti partecipano i celibi del paese, i quali si misurano in una gara di abilità. Sollevano con un braccio un albero d’arancio, del peso di 50 chilogrammi, addobbato con nastri e ninnole colorate, e provano a tenerlo in equilibrio sul palmo della mano per il maggior tempo possibile. L’addobbo dell’albero avviene il sabato santo. La mattina di pasqua tutti si danno appuntamento nella piazza del paese, davanti alla chiesa madre: il parroco benedice gli alberi prima di dare inzio alla gara che si protrae per tutta la mattina di pasqua. La festa è legata ad una tipica usanza locale. Nei tempi passati il giorno di pasqua si usava chiedere in moglie la propria fidanzata. A Terrasini ciò veniva fatto sollevando l’albero sotto il balcone dell’amata: se la ragazza staccava un ramoscello significava che accettava la proposta del matrimonio.<!–[if !supportFootnotes]–>[10]<!–[endif]–>

Nello spettacolo dell’abballu di li diavoli, a Prizzi, si fondono elementi desunti dalla fede e dal folklore. Alle 15 del pomeriggio, nel giorno di pasqua, le maschere dei diavoli e della morte si dividono in cinque gruppi, quanti sono i quartieri del paese, per rappresentare la loro pantomima durante l’incontro tra la Madonna e il Cristo Risorto. I figuranti, con il volto coperto da una caratteristica maschera, seguono i simulacri della Madonna e di Cristo, che vengono portati per le strade del quartiere. I diavoli cominciano a muoversi tra di esse a passo di danza ed è a questo punto che inizia il ballo vero e proprio. Il momento di maggiore suggestione si verifica quando i diavoli e la morte smettono di seguire i due simulacri: in quel preciso istante arrivano due angeli, che rappresentano il bene, e, con le spade sguainate ingaggiano battaglia contro i diavoli e la morte, simboli del male destinato ad essere sconfitto.<!–[if !supportFootnotes]–>[11]<!–[endif]–>

La mancata demarcazione, a livello teorico e pratico, del confine tra pietà e folklore è dovuta con tutta probabilità alla mancanza di chiarezza circa la fine del regime di cristianità con la drammatica conseguenza di scambio di ruoli: le pro-loco diventano parrocchie e viceversa. La diversità di natura e di funzioni tra le realtà civili e quelle ecclesiali non significa contrapposizione o conflittualità ma semplicemente chiarezza di idee, e del conseguente operato, circa la natura e la finalità di tutto ciò che va sotto il nome di pietà popolare che è altro da tutto ciò che va sotto il nome di folklore: «La coerenza tra festività esteriore e mistero celebrato si traduce nella ricerca di modalità festive conformi al contenuto del mistero celebrato e ciò può implicare, talvolta, una posizione critica verso modalità contrarie allo spirito cristiano».<!–[if !supportFootnotes]–>[12]<!–[endif]–>

La pietà differisce anche dalla magia in quanto essa intrattiene un rapporto umile e confidente con Dio, colto come trascendente e sovranamente libero e non presume di piegare la potenza di Dio con modalità coattive.

La pietà, riconoscendo la trascendenza di Dio ne richiede la grazia, ossia la sua presenza salvifica nell’oggi della storia ma con spirito di assoluta umiltà. La magia coglie, invece, il divino come immanente nel mondo e pretende, tramite la presunzione del comando, di accaparrarsi coattivamente la potenza del divino o per scopi benefici o malefici. La magia dice lucro e profitto, la pietà gratuità.

È vero comunque che possono esistere dei casi di sincretismo magico-religioso che si incontrano nella dimensione della cultualità o in atteggiamenti e comportamenti di uomini di chiesa e di comunità ecclesiali: basta però un’attenta analisi per distinguere gli ambiti. La pietà differisce anche dalla superstizione intesa, quest’ultima, come l’osservanza di taluni divieti e pratiche per irrazionale timore di imprevisti negativi. L’atteggiamento mentale del superstizioso si fonda sul principio “non è vero ma ci credo”.

La pietà differisce anche dalla concezione mitica della fede cristiana poiché la concezione mitica appella alla dimensione ciclica della storia ossia l’esperienza di Ulisse che viaggia ma per fare ritorno, alla fine, a casa sua. Mentre la pietà fa riferimento all’esperienza di Abramo il quale compie un “Viaggio” di uscita dal suo Io verso un Altro,senza sapere dove andare, sapendo solo di dover lasciare il certo ma fidandosi.

La pietà dice che l’avventura della fede non si iscrive nel cerchio dell’eterno ritorno ma nella linea retta di un cammino senza appigli e senza certezze umane, un camminare avendo come unica certezza non la propria fragilità fisica e metafisica bensì l’onnipotenza di Dio che salva.

La pietà dice che la salvezza non è nel ritorno a casa propria ma in un cammino storico-escatologico che conduce all’incontro con il Salvatore.<!–[if !supportFootnotes]–>[13]<!–[endif]–>

Sono note, al grande pubblico, alcune opere nelle quali si sostiene, appunto, questa dimensione mitica degli eventi centrali della fede cristiana e della conseguente religiosità popolare da essi scaturenti.

Anche l’aggettivo “popolare”impone un chiarimento. Esso non va letto con categorie socio-ideologiche bensì teologiche. Protagonista è il popolo in quanto “popolo di Dio” cosicché la categoria biblico-teologica di “popolo”non è discriminante, non dice contrasto né opposizione né lotta di classe, né appella a dislivelli culturali o a contrapposizioni di sorta. Dalle indagini storiche portate avanti sull’argomento da Gabriele De Rosa emerge come non è dato rilevare, in uno stesso ambito ecclesiale, diversità nella pietà del nobile e del contadino, del borghese e dell’artigiano. Popolare, dunque, come sinonimo di ecclesiale: il popolo a cui si fa riferimento è il popolo santo di Dio, cioè la Chiesa pellegrinante. Tanti problemi sul termine “popolare” nascono o da letture ideologico-politiche dello stesso o, in ambito ecclesiale, dal continuare ad identificare la comunità civile con quella ecclesiale come se fossero la stessa cosa e, quindi, l’aggettivo “popolare” sarebbe onnicomprensivo e del percorso ecclesiale e di quello civile.

Il “popolare” dice, infine, cammino del popolo di Dio quale è storicamente dato in un tempo e in uno spazio, cioè dice cammino della Chiesa locale.

Essa testimonia l’incontro tra il vangelo e la cultura di un popolo, quello credente, vivente in un dato territorio, poiché la Chiesa locale, come scrive Vincenzo Sorce, «è una Chiesa incarnata in un popolo. Una Chiesa indigena e inculturata è una Chiesa in dialogo permanente, umile e amabile con le tradizioni vive, la cultura del popolo in cui essa affonda le sue radici. La Chiesa locale cerca di condividere ciò che appartiene realmente al popolo».<!–[if !supportFootnotes]–>[14]<!–[endif]–>

Perciò si può definire la pietà popolare «la maniera in cui il cristianesimo si incarna nelle diverse culture e stati etici e viene vissuto e si manifesta nel popolo».<!–[if !supportFootnotes]–>[15]<!–[endif]–>

La pietà popolare è legata con la tradizione spirituale o specifico ecclesiale di una chiesa locale, pertanto, scrive mons. Naro, fa parte del patrimonio di esperienza di fede e di annuncio del vangelo accumulato nella comunità ecclesiale lungo il succedersi delle generazioni sotto l’azione dello Spirito Santo; la pietà, conclude mons. Naro, contribuisce a delineare la fisionomia di una determinata Chiesa e ne caratterizza la “particolarità”.<!–[if !supportFootnotes]–>[16]<!–[endif]–>

In questo contesto la pietà di una Chiesa particolare si accosta alla spiritualità di cui sono state, o sono ancora portatrici, alcune personalità spirituali eminenti del clero e del laicato locale. Non di raro è, essa stessa, fonte di nuove spiritualità come nel caso della madre Maria Rosa Zangara di cui dirò più avanti. La pietà si nutre del culto liturgico, della catechesi, delle predicazioni, fa tesoro delle fonti bibliche, dell’insegnamento del magistero, e della grande Tradizione della Chiesa. Nell’oggi della storia si misura con le trasformazioni culturali, economiche e politiche nonché con gli stessi mutamenti interni alla vita stessa della Chiesa cosicché le si può benissimo applicare l’espressione pietas semper reformanda est.<!–[if !supportFootnotes]–>[17]<!–[endif]–>

 

 

2. L’ecclesiale locale

 

La pietà popolare dell’arcidiocesi di Monreale credo sia, nella sua quasi totalità, di matrice post-tridentina, eredità del Seicento ma soprattutto del settecento, secolo, quest’ultimo, in cui si realizzò pienamente il concilio di Trento.

Il percorso di pietà popolare si è formato grazie all’influsso soprattutto di due ordini religiosi presenti nel territorio:i francescani e i carmelitani oltre che per l’opera del clero secolare ricca di testi teologici e catechistici che sono entrati a far parte della traditio della Chiesa monrealese.

Una pietà post-tridentina grazie soprattutto alla diffusione degli ordini religiosi con il compito specifico della predicazione e delle missioni popolari.

La presenza dei minori osservanti (1589), diede vita, a Carini, alla devozione a sant’Anna, all’Immacolata e alla via crucis.

Ai conventuali, sempre a Carini, venne affidata una chiesa nel 1576, dedicata a San Rocco protettore degli appestati. La venerazione verso questo santo fu fortissima in quel periodo in cui la peste mieteva vittime tra la popolazione.

I conventuali diffusero anche la devozione a sant’Antonio di Padova ma soprattutto all’Immacolata. Infatti a Carini,ogni anno, nella domenica in albis portavano in processione la statua dell’immacolata in matrice e pregavano per il re.

Il culto all’immacolata diede vita a Carini alla Confraternita della scopa, che aveva il compito di spazzare le strade attraverso le quali sarebbe passata la processione dell’Immacolata.<!–[if !supportFootnotes]–>[18]<!–[endif]–>

Ma l’ordine religioso che maggiormente si diffuse,sempre all’interno della grande famiglia francescana, fu quello dei frati minori cappuccini, fondato da fra Matteo da Bascio e riconosciuto da papa Clemente vii il 3 luglio del 1528, con bolla pontificia Religionis zelus, i quali furono in prima linea contro la riforma luterana. I cappuccini arrivarono, per tempo, anche nell’Isola con la fondazione del loro primo convento a Messina nel 1534. La loro diffusione in Sicilia fu rapidissima. Nel 1603 arrivarono a Carini, dove crearono il 27° convento della provincia palermitana e una chiesa dedicata alla Madonna degli Angeli. Nel 1617 arrivarono a Partinico creando il 30° convento della provincia. Nel 1633 fu costruito il convento di Bisacquino dedicato ai santi Gioacchino ed Anna. A Corleone i cappuccini arrivarono nel 1570, mentre nel 1644 iniziò la costruzione di un secondo convento dove visse anche san Bernardo da Corleone.

A Monreale i cappuccini arrivarono nel 1581 e il convento fu ampliato nel 1663. Nel 1913 i canonici e i parroci di Monreale cedettero loro gratuitamente l’uso della “Casa Santa” allo scopo di farla trasformare in convento; in cambio si chiedeva ai frati di assistere i ragazzi nella dottrina cristiana e di predicare gli esercizi spirituali, di confessare in cattedrale e in altre chiese della città.<!–[if !supportFootnotes]–>[19]<!–[endif]–>

A Giuliana furono presenti dal 1584 ed occuparono il convento di Santa Anna, in precedenza abitato dai frati minori osservanti. I cappuccini intensificarono il culto a sant’Anna, la cui festa veniva celebrata, con grande solennità, il 26 di luglio di ogni anno. Alla festa partecipavano anche fedeli provenienti da Chiusa e da Bisacquino. Diversi sommi pontefici (da Alessandro viii a Innocenzo xii, da Clemente xi a Benedetto xiii) vollero concedere l’indulgenza plenaria ai pellegrini che avessero visitato la chiesa di Santa Anna in Giuliana.

Clemente xi, nel 1706, concesse l’indulgenza plenaria ad septennium a quei devoti che il 26 luglio avrebbero visitato la chiesa di sant’Anna in Giuliana «dai primi vespri fino al tramonto del sole». La devozione a sant’Anna, a Giuliana, è legata principalmente,così come scrive il Marchese,alla difesa delle donne dalla sterilità e dai travagli del parto. Il culto alla santa «Madre Anna» veniva intensificato, dai giulianesi, in occasione di calamità collettive, come la siccità, allorché i penitenti si recavano in pellegrinaggio flagellandosi attraverso i cosiddetti capizzuna (cavezze) che usavano a mo’ di cilici. Fino agli anni settanta del secolo scorso si effettuavano i pellegrinaggi a piedi scalzi, nel giorno di sant’Anna, da Giuliana al santuario. La cerimonia liturgica veniva conclusa con la recita delle «nove allegrezze della madre sant’Anna».<!–[if !supportFootnotes]–>[20]<!–[endif]–> Il culto ai santi genitori della Madonna è diffuso anche a Corleone, Partinico e Balestrate. A Balestrate la chiesa madre è dedicata a sant’Anna e, ogni anno, il 26 di luglio si celebra una grande festa.

I cappuccini diedero vita, a Giuliana, anche al culto alla Madonna della confusione, ossia Maria addolorata. Il culto contempla Maria “confusa” nel momento della sepoltura del figlio immersa in una profonda solitudine. Il culto è stato legato anche alla devozione verso i defunti.<!–[if !supportFootnotes]–>[21]<!–[endif]–> Dal 1828 al 1868, per 60 anni, i cappuccini svolsero il loro ministero pastorale a Camporeale reggendo l’unica parrocchia esistente e nel 1832 la dedicarono a sant’Antonio di Padova. Il culto al santo di Padova è diffuso anche a Corleone e a Partinico e Montelepre. Riecheggia ancora oggi nel ricordo dei camporealesi, così come scrive padre Luigi Accardi nella sua storia di Camporeale, la figura esemplare del cappuccino padre Ambrogio che resse la parrochia dal 1828 al 1844 e morì in fama di santità.<!–[if !supportFootnotes]–>[22]<!–[endif]–>

La spiritualità francescana ha dato origine al cammino di santità anche di una donna cappuccina, la venerabile Maria di Gesù, al secolo Carolina Santocanale, nata a Palermo ma vissuta, morta e sepolta a Cinisi nel 1923. Fondatrice delle cappuccine dell’Immacolata di Lourdes.

L’altro ordine che si diffuso nel territorio dell’arcidiocesi, lasciando un notevolissimo patrimonio artistico-spirituale, è stato l’ordine dei frati carmelitani presenti, con i loro conventi a Bisacquino, Carini, Chiusa, Corleone, Giuliana, Monreale, Partinico e Prizzi. A Bisacquino arrivarono nel 1540, circa, costruendovi la chiesa, dedicata all’Annunziata, e l’attiguo convento. Da lì, nel 1563 il padre Modesto del Vecchio si partì per andare a costruire un nuovo convento a Carini, che vide tra i suoi figli l’illustre carinese padre Matteo Orlando,divenuto prima priore generale dell’ordine e poi vescovo di Cefalù. La vita carmelitana è mantenuta viva dalla devozione allo scapolare e dal terz’ordine. A Chiusa i carmelitani si insediarono nel 1587. A Corleone la presenza carmelitana è registrata già dal 1370 ma si intensificò nel 1572 e nel 1672. Ancora oggi anche a Corleone viva è la devozione alla Madonna del Carmelo. Della Confraternita del Carmine di Corleone fece parte Filippo Latini divenuto poi cappuccino con il nome di frate Bernardo. Ci è pervenuto un interessante inno alla Madonna del Carmine in lingua siciliana.<!–[if !supportFootnotes]–>[23]<!–[endif]–>

I carmelitani si stabilirono anche a Giuliana circa l’anno1537, lasciandovi il culto alla Madonna dell’udienza: da metà Ottocento di fatto divenuta la patrona della cittadina. A Monreale i carmelitani si insediarono nel 1474. Nel 1612 fu fondata la Confraternita del Carmine. Oggi è presente una parrocchia dedicata al Carmelo e un fiorente terz’ordine femminile. A Partinico nel 1633 iniziò la costruzione del maestoso convento carmelitano e dell’attigua chiesa del Carmine. I frati carmelitani vi rimasero fino al 1896, anno in cui il convento fu chiuso ed incamerato fra i beni dello Stato. Ad oggi, a Partinico, il culto alla Madonna del Carmine è fiorentissimo grazie anche alla presenza di un vivissimo terz’ordine carmelitano femminile. In ultimo, ma non certo per importanza, Prizzi dove i carmelitani arrivarono circa l’anno 1565 occupando il monastero di san Michele Arcangelo già dimora dei cistercensi.<!–[if !supportFootnotes]–>[24]<!–[endif]–> Ancor oggi, a Prizzi, a metà di agosto, si svolge una grande festa della Madonna del Carmine, divenuta patrona di fatto (san Giorgio è il patrono ufficiale) della cittadina e dove si trova un santuario intitolato alla Madonna del Carmelo.

In molti comuni della zona costiera dell’arcidiocesi, la presenza dei padri carmelitani ha lasciato anche la devozione alla Madonna di Trapani. Ancora oggi in tanti fanno il pellegrinaggio a piedi alla Madonna di Trapani partendo il 13 di agosto e arrivando a Trapani, presso il santuario, la mattina del 15, giorno in cui si celebra la solennissima festa.

La pietà popolare di derivazione carmelitana è racchiusa nel binomio “venerazione e amore” e si manifesta nella devozione verso lo scapolare. La pietà dello scapolare dice la presenza amata di Maria. Lo scapolare, pur nelle sue caratteristiche di semplicità, spontaneità e concretezza, dice l’esperienza di finitudine della vita terrena che si concluderà con l’evento-morte con la relativa intercessione a Maria, cosicché lo scapolare tiene desta la coscienza del dover morire e invita i devoti a rivolgersi alla Madre del Carmelo pregandola in punto di morte.<!–[if !supportFootnotes]–>[25]<!–[endif]–>

A Carini, nel corso del xv secolo si stabilirono anche i mercedari. Intorno al 1570 arrivarono i domenicani, i quali si dedicarono alla diffusione del rosario, fondando anche l’omonima Confraternita, e incrementarono il culto verso alcuni santi del loro ordine: san Vincenzo Ferreri e santa Rosa da Lima. Sempre a Carini, tra il 1615 e il 1631, vide la luce anche il convento femminile delle domenicane.<!–[if !supportFootnotes]–>[26]<!–[endif]–>

Nella zona del corleonese, oltre ai già citati ordini, si insediarono, sempre in epoca post-tridentina, le clarisse e i filippini a Corleone (1594 e 1626).

Da non sottovalutare anche il notevole influsso apportato, in epoca pre-tridentina, dai benedettini e dai cistercensi presenti a Bisacquino, Prizzi, Partinico e Cinisi. I monaci benedettini di San Martino delle Scale, favorirono, a Cinisi, il culto di santa Fara, una abbadessa benedettina, morta il 7 dicembre del 658, in Francia, in fama di santità. Nel 1622 la chiesa madre di Cinisi fu dedicata a santa Fara la quale è stata eletta a patrona di Cinisi. A Giuliana sono state presenti anche le benedettine.<!–[if !supportFootnotes]–>[27]<!–[endif]–> Da registrare anche la presenza dei frati agostiniani in diversi centri dell’arcidiocesi a partire già dal xiv secolo. A Campofiorito è da registrare la presenza dei gesuiti tramite la costruzione, nel 1667 di una loro casa di villeggiatura .

Ma fu il Settecento il secolo in cui si realizzarono pienamente le istanze innovatrici poste in essere dal concilio di Trento. La predicazione fu principalmente dedicata alla figura di Cristo con due nemici da fronteggiare: il vasto e variegato campo dottrinale e politico della riforma luterana e le idee dell’illuminismo.

Proprio il “secolo dei lumi” ci insegna una notevole vivacità, alimentata dalle pratiche di pietà sul mistero di Cristo semplice, povero e crocifisso e dalla necessità di garantirsi la salvezza che, sebbene eterna, deve essere sperimentata già nel quotidiano.<!–[if !supportFootnotes]–>[28]<!–[endif]–>

La pietà settecentesca è prevalentemente cristologia e perciò essa, in sostanza, è riportata agli eventi decisivi della storia della salvezza: l’incarnazione, la passione e la morte in croce, la devozione verso l’umanità di Gesù vengono radicati nel popolo grazie a preghiere, canti, quadri devozionali. Esemplificativi di tutto ciò sono due testi, uno scritto dal farmacista carinese Luigi Sarmiento e l’altro dal prete monrealese Binidittu Annuleru (Antonino Diliberto).

Il testo del Sarmiento, pubblicato in due edizioni del 1741 e del 1752, dal titolo Vita, passione e morte di Cristo Signor nostro, fu scritto per solennizzare la festa del SS. Crocifisso di Carini che si svolgeva il 3 maggio. In questo testo il Sarmiento rilegge, in chiave biblica e mistagogica, tutta la storia della salvezza cominciando proprio dalla creazione. Il testo dà espressione a un concetto di fondo: la “devozione” (ossia il dedicarsi, l’avere una relazione), nel Settecento, era immedesimarsi nel Mistero di Cristo per avere un rapporto con lui nella consapevolezza che il sangue sparso da Cristo sulla croce è sangue che salva nell’oggi della storia e l’intera storia della salvezza è stata realizzata perché il credente si salvi nel tempo e nello spazio in cui egli vive:ciò è tipico della teologia, della spiritualità e della pietà del Settecento. Infatti nei testi di pietà del secolo dei lumi si parla di peccato,di salvezza dell’anima, dei dolori di Maria e di Cristo che sono un appello alla conversione. Il testo del Sarmiento dice anche l’introduzione al Mistero: dunque mistagogia. L’autore scrive: «Quest’opera è piccola circa la disposizione ma grande in quanto al Mistero». Che cos’è il mistero per il Sarmiento? È l’intervento di Dio che nella storia umana assume uno spazio e un tempo: ossia Gesù Cristo e il suo mistero pasquale che è il Mistero che salva. Questo si rende presente ed efficace, nell’oggi della storia, grazie all’opera dello Spirito Santo, che ci aiuterà a ricordare, così come dice l’evangelista Giovanni. Noi viviamo in un tempo che continua a scorrere ma nel momento in cui “ricordiamo” ci uniamo a quel Mistero al tempo unico che è Cristo.

La devotio del Settecento è finalizzata ad un rapporto personale con Cristo, la Madonna e i santi, un rapporto motivato dall’esigenza della conversione cioè di un volgersi deciso e radicale a Dio che salva nel suo Cristo. Il ruolo di Maria è di essere madre dei dolori e i suoi dolori simboleggiano il peccato umano. Il testo del Sarmiento ha costituito l’ossatura portante della festa del SS. Crocifisso a Carini fino al 1904. Ad oggi rivive nella “processione dei misteri” di Montelepre, di cui dirò fra poco.

Contemporaneo del Sarmiento fu il prete monrealese Antonino Di Liberto il cui nome anagrammato diventa Binidittu Annuleru. L’opera del prete monrealese, dal titolo Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e di lu Patriarca san Giuseppi in Betlemmi, è stata pubblicata nel1752, ed è anch’essa un capolavoro di teologia e di pietà popolare, dove il popolare, come scrive Giampiero Boff, si presenta come luogo dell’offerta del kerygma: sia per la risposta accogliente e confessante della fede sia per il costituirsi della storia effettuale della fede e della sua comprensione.<!–[if !supportFootnotes]–>[29]<!–[endif]–> Il testo di Annuleru, diffusosi a macchia d’olio in tutta l’Isola, fu il perno per la celebrazione liturgica della novena di Natale e per la novena cantata per le strade dei comuni siciliani, per intere generazioni di credenti. Nell’oggi rivive ancora, come evento liturgico popolare, in alcuni centri della diocesi e non solo (novena di san Giuseppe a Contessa Entellina).

Altro nome di spicco del Settecento monrealese fu quello dell’arcivescovo Francesco Testa, il quale diede vita ad un’opera importantissima quale fu il catechismo titolato: Elementi di dottrina cristiana esposti in lingua siciliana ad uso della diocesi di Monreale, pubblicato nel 1764. Da sottolineare la caratteristica della “lingua siciliana”: è un catechismo scritto in lingua dialettale, il testa parla al popolo con il suo dialetto per trasmettergli la fede mediante i canali della cultura popolare. Il catechismo servì perché il popolo credente vivesse la sua pietas cristiana. Nell’opera viene sottolineata la centralità della fede come dono di Dio e fondamento di tutti gli altri doni. La catechesi è educazione progressiva, graduale alla totalità del mistero cristiano; «le feste – scriveva mons. Testa – sono state istituite dalla Chiesa per una maggiore intelligenza dei sacri misteri e per regola del cristiano costume».

Queste opere dicono anche un modello sacerdotale tipico del Settecento: il modello missionario. Il clero secolare, ha scritto Cataldo Naro, contò in Sicilia nel Settecento ed ancora nel primo Ottocento, personalità notevoli per spiritualità e dedizione pastorale. Tutto ciò fu facilitato dall’allora vigente regime di cristianità della società isolana. La società siciliana, nel suo insieme, riposava in un tranquillo possesso della sua tradizione cristiana.<!–[if !supportFootnotes]–>[30]<!–[endif]–>

Il Settecento fu un secolo caratterizzato dalla cristologia attraverso le missioni popolari ad opera dei cappuccini e dei gesuiti. Sulla scorta della loro predicazione si diffuse la festa della inventio crucis, ossia il ritrovamento, a Gerusalemme, della croce di Cristo, la cui festa fu posta liturgicamente il 3 maggio e meglio conosciuta come la festa del SS.Crocifisso. Ancora oggi la festa del crocifisso viene celebrata nei comuni di Monreale e Bisacquino, il 3 maggio, a Carini, fino al 1903 il 3 maggio, dal 1904 il 14 settembre (festa della esaltazione della croce); a Montelepre l’ultima domenica di giugno, a Giardinello in agosto, a Torretta la domenica successiva il 14 settembre. A Giuliana il venerdì dopo pasqua. Questa festa si celebrava, sempre il 3 di maggio, anche a Partinico e a Corleone.

 

 

3. La festa del Santissimo Crocifisso

 

La festa del SS. Crocifisso a Monreale risale alla fine del 1500. Infatti la prima data sicura dell’esistenza del Crocifisso presso la chiesa di San Salvatore è del 1575. L’effige è di scuola gaginiana. Fu l’arcivescovo Girolamo Venero (1620-1628) a dare grande impulso alla devozione al Crocifisso. Secondo una tradizione lo stesso arcivescovo, nel 1625, sarebbe stato guarito dalla peste, proprio il 3 maggio ai piedi del Crocifisso. La festa si caratterizza, a livello di pietà, per la famosa “scinnuta” (la discesa) del simulacro dalle scalinate della collegiata per essere deposto sulla vara. Di questo momento di fede e di devozione fa una descrizione dettagliata il Pitré nel suo libro Feste patronali nella Sicilia Occidentale.

Momento culminante è la processione del simulacro per le vie della cittadina normanna, durante la quale avvengono le manifestazioni del bacio dei bambini, effettuato durante le fermate, e lo sfiorare con fazzoletti e con fiori il simulacro. Fedeli provenienti dal territorio dell’arcidiocesi, ma anche da Palermo e dai paesi limitrofi, fanno il “viaggio”: molti di essi viaggiano a piedi nudi, portando in mano dei grossi ceri accesi. I confrati portano, come abitino votivo, un pantalone ed una camicia bianchi, cinti con una fascia rossa da cui pende una tovaglia arricchita da un ricamo con l’immagine di Cristo e con la scritta «Viva il SS. Crocifisso». Da antica data i confrati, durante la processione, per invocare le grazie del Patruzzu Amurusu, così come viene invocato il Cristo di Monreale, danno la cosiddetta ’a vuci ossia un grido lanciato da uno dei confrati che ripete dodici invocazioni al SS. Crocifisso mentre il gruppo risponde in coro: «Grazia Patruzzu Amurusu, grazia». La terza della dodici invocazioni dice: «E che beddu stu Crucifissu, fa li grazie sempre e spissu», per continuare con la sesta: «Grazia all’arma e u pirdunu ri piccati», quindi la nona diventa una richiesta di aiuto per i bisogni materiali: «Nostru Patri, binirici a campagna» e la dodicesima è un’invocazione in favore di chi soffre: «Binirici i malati». Tutte le dodici invocazioni si concludono sempre con lo stesso ritornello: «Grazia Patruzzu Amurusu, grazia». Il Crocifisso, il 3 maggio, diventa, come scrive Basilio Randazzo, «il tutto di tutti» cui chiedere innanzitutto la grazia: ossia la presenza amorosa e salvifica di Dio la cui massima potenza salvifica è il Figlio morto in croce.<!–[if !supportFootnotes]–>[31]<!–[endif]–>

La festa del SS. Crocifisso, a Monreale, è preceduta, ancora oggi, dal rito della Calata dei Veli. Si tratta di un rito penitenziale che si svolge durante i cinque venerdì di quaresima nella chiesa della Collegiata. Sei grandi veli con su rappresentate alcune scene della passione vengono fatti cadere, uno dopo l’altro. Questi sei grandi veli vengono collocati davanti al simulacro del Crocifisso. Alla calata del sesto velo di colore nero, su cui sta scritto expiravit, compare il Crocifisso dinnanzi al quale tutti si prostrano implorando misericordia e perdono.

Basilo Randazzo ha scritto di una probabile «eresia dell’etimasia» ossia: «Il Cristo pantocratore, centralità originaria del culto monrealese, ha mediato nell’etimasia l’alternato culto al Crocifisso, come ritrovo di contenuti e modalità assai vicini alla popolarità, essa stessa più idonea ai riflessi di comportamento esistenziale nel convergere il proprio culto al Crocifisso».<!–[if !supportFootnotes]–>[32]<!–[endif]–>

Ma la festa del Crocifisso di Monreale non dice, secondo me, nessuna contrapposizione tra la cultura colta i cui componenti esprimerebbero un’adesione elitaria al Cristo pantocratore e una cultura popolare che esprimerebbe la sua devozione al Crocifisso. A Bisacquino la spettacolare vara del SS. Crocifisso, del peso di 32 quintali, è preceduta da 31 statue di santi, i quali escono dalle chiesette dove sono custodite e raggiungono la chiesa madre inchinandosi dinnanzi al SS. Crocifisso. Apre la processione la statua di san Michele con alla fine la vara del crocifisso al cui fianco stanno la madre e san Giuseppe. Quella del SS. Crocifisso è stata la festa principale di Bisacquino fino al 1904, anno in cui incominciò a prendere il sopravvento la festa della Madonna del balzo.

Il 1904 è stato un anno importante anche per Carini poiché a decorrere da quella data venne portata in processione, per la prima volta, la statua del Crocifisso: fino ad allora durante la processione del 3 maggio non si portava in processione il simulacro del Crocifisso ma si svolgeva la sacra rappresentazione dei misteri della redenzione, seguendo il testo di Luigi Sarmiento. Nella sacra rappresentazione venivano coinvolte circa 300 persone che sfilavano portando con sé una targa su cui era scritta la scena biblica che essi impersonavano. Dal 1904 la festa a Carini venne trasferita il 14 settembre. A Carini la festa del Crocifisso ha avuto inizio nel 1532. La festa del Crocifisso è diventata la festa principale del paese già nei primi anni del Settecento, soppiantando la festa di san Vito martire, eletto patrono della città nel 1542 poiché, allora, essa ricadeva sotto la giurisdizione della diocesi di Mazara del Vallo dove il culto di san Vito era, ed è, molto diffuso.

Nel 1715 il campanile della chiesa madre di Carini veniva rivestito con mattonelle di ceramica raffiguranti il SS. Crocifisso, l’Assunta cui è intitolata la chiesa madre, san Vito e santa Rosalia.

A Montelepre il Crocifisso è il patrono della città a partire dal 1752, anno dell’arrivo della statua del Crocifisso nel piccolo centro. La festa fu celebrata il 3 maggio fino al 1835, anno in cui venne trasferita all’ultima domenica di maggio. Nei primi anni sessanta, a causa delle ripetute consultazioni elettorali che ricadevano, spesso, l’ultima domenica di maggio, la festa venne ancora una volta trasferita all’ultima domenica di giugno. Con tutta probabilità la festa del Crocifisso di Montelepre derivò dall’influenza del patronato di Carini.

A Giardinello la festa si celebra in agosto e il SS. Crocifisso è il patrono della cittadina. Anche a Torretta il culto del SS. Crocifisso occupa un posto determinante nella storia della inculturazione della fede. La devozione al Crocifisso fu introdotta dalle nobili famiglie dei Traina, una cui figlia andò in sposa a uno dei Tomasi di Lampedusa, i quali il 14 settembre del 1756 donarono a Torretta un reliquiario dominato al centro da una statua lignea di Gesù crocifisso, la quale venne deposta dentro il santuario della Madonna delle grazie. La devozione alla passione del Signore e al Crocifisso fu propugnata anche per opera del venerabile padre teatino don Carlo Tomasi, il quale compose L’orgoglio della passione che diffuse tra il popolo. L’effige del Crocifisso dal 1756 al 1933 non venne mai portata in processione. Nel 1933, per la prima volta, il Crocifisso venne portato in processione e da allora ogni anno si rinnova il sacro rito il 14 settembre.<!–[if !supportFootnotes]–>[33]<!–[endif]–>

Il culto del Crocifisso, infine, è presente anche a Camporeale dove si trova la statua del Crocifisso antico attribuita a fra Umile da Petralia ai primi del Seicento. Di notevole spessore teologico risulta una preghiera a Gesù Crocifisso di chiara impronta settecentesca.<!–[if !supportFootnotes]–>[34]<!–[endif]–>

A Corleone si celebrava il tre maggio la festa del Crocifisso della catena. Il Cristo della catena a Corleone è rimasto conosciuto come il Cristo “del pane e della fertilità dei campi”:

 

Cu l’acqua o senz’acqua lu pani vulemu

e ni l’aviti a dari vi vostra bontà.

 

La richiesta del pane non era mai disgiunta da un’altra richiesta:

 

Pietà e misericordia, Signuri.

 

A questi bisogni era legato il rito popolare che si celebrava la sera del 3 maggio quando i corleonesi si recavano in pellegrinaggio nel luogo ove era ricostruito e simulato il monte calvario, con modalità spontanee e dando vita a piccole processioni penitenziali.

A Partinico il culto al Crocifisso risale all’anno 1599 e da allora fino a metà Ottocento il 3 maggio si celebrava una grande festa, descrittaci nell’opera preziosa del carmelitano partinicese padre Daniele Lo Grasso.

Durante la processione del 3 maggio accanto all’effige del Crocifisso usciva in processione anche il quadro della madonna del Ponte, presente nella Chiesa madre già dalla domenica in albis, insieme a parecchie statue di santi. Le pie donne,scrive il Lo Grasso, che seguono la vara del crocifisso con voce armoniosa van cantando:

 

Decimila voti

e ludamu lu Crucifissu

e ludamulu tutti e spissu

lu santissimu Crucifissu.

 

E ripetevano per ben 50 volte questi versi, insieme a dossologie varie e quest’altra preghiera:

 

Pi li chiova ribuccati

Pruvvidenza nni mannati

E gridamulu: Viva-spissu-u santissimu crucifissu.<!–[if !supportFootnotes]–>[35]<!–[endif]–>

 

4. Il venerdì santo

 

Nella pietà popolare siciliana emerge il culto della passione e morte di Gesù nella quale la nostra gente si immedesima in partecipazione comunitaria. Ha scritto a tal proposito Randazzo che «la vera pietà di una volta all’anno, raccolta in tutto un anno, si comunica nel dolore della settimana santa, e in particolar modo il venerdì santo si celebra il «Tutto di Tutti», cioè il mistero della Passione, come «prototipo teologicamente unitario con uno stile culturalmente conforme ma con un atteggiamento che varia da comunità a comunità».

Nella pietà popolare, scrive Plumari, l’uomo di Sicilia vive ed esprime la partecipazione alla passione, morte e resurrezione di Cristo con la totalità della sua struttura antropologica, cosicché un popolo esce dalla solitudine, vive la comunione dando spazio ai suoi sentimenti alle sue emozioni con la totalità del linguaggio corporeo, con la gestualità, con il canto, i colori, il pianto, il grido.<!–[if !supportFootnotes]–>[36]<!–[endif]–>

Al venerdì santo è emblematico e paradigmatico come i siciliani si ritrovino e si identifichino nel dolore del Cristo morto, stando muti davanti alla bara, e in quello dell’Addolorata, dinnanzi ai quali sentono che il dolore umano, il loro dolore è stato assunto da Dio.

Il venerdì santo inizia con la visita ai sepolcri, poco conosciuti come altari della reposizione, poiché si continua ad identificare, così come sostiene il Plumari, l’altare della reposizione con il sepolcro del Signore creando, nella coscienza popolare, una identificazione di significati tra l’adorazione della presenza reale-ostia e il corpo-ostia, per cui il tabernacolo è, allo stesso tempo, sepolcro.

Nella notte tra giovedì e venerdì santo, a Partinico, si realizza, ad opera dei confrati della Confraternita di Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, la cosiddetta Cerca, ossia la ricerca che la madre fa del Figlio arrestato.

In molti comuni dell’arcidiocesi al venerdì santo, per tutta la mattinata, continua la visita ai sepolcri con una duplice modalità: in alcune chiese permane la centralità dell’adorazione eucaristica senza nessun segno della passione, in altre, invece, all’adorazione eucaristica si affiancano le statue del Cristo morto e dell’Addolorata poste accanto ai sepolcri.

Nel territorio dell’Arcidiocesi i riti extraliturgici del venerdì santo si svolgono secondo tre delle quattro tipologie presenti nell’Isola: le processioni funebri del Cristo morto accompagnato dalla Madre addolorata; la processione dei misteri; le processioni in cui si compie la mimesi cronologica degli eventi della passione. Manca la quarta modalità ossia la processione del Crocifisso tipica di alcuni comuni dell’ennese. Delle tre modalità la seconda, quella della processione dei misteri, si svolge solamente a Montelepre, nella cosiddetta Casazza, ossia la processione attraverso la creazione di quadri viventi piuttosto che con gruppi statuari così come avviene, invece a Trapani e a Caltanissetta. I misteri di Montelepre sono la riproposizione del testo del già citato Luigi Sarmiento. Alla fine dei misteri si svolge la processione del Cristo morto e dell’addolorata. Nella quasi totalità dei comuni dell’arcidiocesi i riti si svolgono secondo la prima e la terza tipologia: a mezzogiorno si porta il Cristo al calvario lo si crocifigge, la sera lo si va a riprendere e lo si porta in processione seguito dalla Madre addolorata.

A Bisacquino mentre si porta, a mezzogiorno, il Cristo con la croce al calvario, vengono cantate le lamentanze, canti popolari di notevole spessore teologico, risalenti al Settecento, cantati a mo’ di lamentazioni. Questo rito è stato ripreso da qualche anno.

A Corleone e Balestrate il Cristo viene accompagnato al calvario deposto in un lenzuolo. A Corleone, nella mattina del venerdì santo, si ripete uno dei riti più antichi e più suggestivi della settimana santa in Sicilia: il Cristo morto viene deposto su un tavolo coperto di drappi rossi, nella cappella dei bianchi, e i fedeli vi si recano toccando e baciando la statua. A Prizzi il Cristo viene accompagnato al calvario deposto su una lettiga e ricoperto con un lenzuolo bianco. La sera, il Cristo morto, viene portato in processione sempre sulla lettiga. A Corleone, così come a Prizzi, il Cristo viene portato al calvario e lì crocifisso dal clero locale. Anche a Borgetto avviene la mimesi cronologica della passione e la sera il Cristo morto viene tolto dalla croce da ragazze non sposate, vestite di bianco, deposto in un lenzuolo e successivamente posto dentro l’urna di vetro. Alla fine della processione sono sempre le stesse ragazze a togliere il Cristo morto dall’urna.<!–[if !supportFootnotes]–>[37]<!–[endif]–> A Partinico e a Terrasini si svolgono, in serata, le processioni del Cristo morto e dell’Addolorata senza mimesi cronologica della passione. A Torretta avviene un rito davvero singolare, la cosiddetta spartenza: verso la fine della processione l’urna del Cristo morto si distacca dall’Addolorata e viene portata nella chiesa del Sacramento dove i fedeli vanno a baciar i piedi al Cristo morto. Anche a Giuliana il venerdì santo si porta in processione l’urna con dentro il Cristo morto ad opera della Confraternita dell’Addolorata, fondata nel 1740 durante le missioni popolari tenute dai padri gesuiti.

Sino ad alcuni decenni addietro per l’occasione venivano intonati ai crocicchi delle strade e al calvario i canti della passione detti i lamenti di Maria.<!–[if !supportFootnotes]–>[38]<!–[endif]–> A Giuliana la domenica di Pasqua avveniva l’incontro tra la Madonna e Cristo risorto, denominato ’a paci piuttosto che ’u ncontru. Ad oggi l’unico comune dell’arcidiocesi dove la domenica di Pasqua si realizza ’u ncontru è Prizzi.

A Carini i simulacri del Cristo morto e dell’Addolorata vengono addobbati da ragazze non sposate chiamate virgineddi. La sera del venerdì si svolge la processione funebre denominata della sulità. In alcuni comuni venivano celebrati anche i cosiddetti sabati di quaresima nei quali si celebrava un titolo mariano venerato da diversi ceti artigiani e contadini. A Carini il primo sabato era quello dei parrini (i preti) e si venerava la Madonna Immacolata. Il secondo era quello dei galantumini (ceto borghese), i quali veneravano la Madonna del paradiso. Il terzo era ’u sabatu ri mastri (gli artigiani) dedicato alla Madonna del Carmine. Il quarto era quello dei burgisi (i ricchi proprietari terrieri), che veneravano la Madonna del rosario.Il quinto era ’u sabatu ri vurdunara (mulattieri, carrettieri, sensali) ed era dedicato all’Addolorata. Il sesto sabato era ’u sabatu ri schietti (persone non sposate) ed era dedicato alla Madonna della mercede.<!–[if !supportFootnotes]–>[39]<!–[endif]–> A Partinico sopravvivono due dei sei sabati di quaresima: il quinto, quello dei burgisi e il sesto, quello dei mastri, i quali venerano rispettivamente la Madonna del rosario e quella del carmine. In questi due sabati, i predetti ceti, prendono la piccola effige della Madonna, che si trova custodita presso una famiglia prescelta dove è rimasta per tutto l’anno, la portano in processione presso la chiesa di San Gioacchino i burgisi”, al Carmine i mastri, dove avviene la celebrazione della santa messa. Finita la celebrazione l’effige viene portata, sempre in processione, presso una nuova famiglia dove rimarrà tutto l’anno seguente e dove di riuniranno le famiglie appartenenti al ceto per pregare.

 

 

5. Il Corpus Domini a Corleone

 

A Corleone,ogni anno, si celebrava una grandiosa festa del Corpus Domini, meglio conosciuta come la festa del SS. Sacramento. La grandiosità con cui si svolgeva la festa portò a definire Corleone la “città del Sacramento”. La festa cadeva alla fine dell’annata agraria e costituiva un momento di grande ringraziamento soprattutto per la raccolta del grano. Infatti la festa era preceduta dalla raccolta di grano presso tutte le famiglie del paese, ognuna delle quali dava in base alle proprie possibilità. Le offerte per la festa venivano raccolte durante tutto l’anno attraverso i cosiddetti carusieddi (grossi salvadanai di terracotta) posti presso le botteghe cittadine. Il momento culminante della festa era la processione del Sacramento per partecipare alla quale uscivano dalle chiese le statue dei santi, che venivano portate dinnanzi alla chiesa madre. Ci è pervenuta la descrizione di ben 45 statue di santi, comprese quelle della Madonna e del Crocifisso della catena. Accanto all’ostensorio veniva collocata la statua di san Leoluca, patrono della città. La processione si ripeteva il giovedì successivo. Lungo il percorso ai balconi venivano esposti i migliori copriletto della dote matrimoniale e al passaggio del baldacchino venivano lanciati petali di rose. Venivano allestiti, sotto alcune edicole votive, degli altari dove avveniva la benedizione eucaristica. Nel 1954, per decisione dell’arcivescovo Francesco Carpino, venne proibita la processione dell’ottava e soprattutto il corteo dei santi.<!–[if !supportFootnotes]–>[40]<!–[endif]–> Normalizzare per purificare. Infatti ai portatori di vara venivano offerti dei bicchieri di vino, durante il tragitto, ed essi di conseguenza si ubriacavano diventando scurrili e violenti.

 

 

6. Le devozioni mariane

 

Il culto del Crocifisso, a Partinico, si affievolì, fino a scomparire del tutto, a partire dalla metà dell’Ottocento; a Bisacquino a fine Ottocento, lasciando la centralità del culto alla Madonna del ponte e a quella del balzo; a Giuliana, da metà Ottocento, la Madonna dell’udienza sostituì il culto a santa Giuliana, divenendone la patrona di fatto. La devozione mariana, del resto, si intensificò un po’ ovunque durante il periodo post-unitario: i cattolici d’Italia si affidavano alla sua protezione proprio in un’epoca ch’essi avvertivano come estremamente pericolosa per la fede cristiana e per la sussistenza della Chiesa. Difatti tra il 1850 e il 1950 si moltiplicarono le apparizioni mariane e si lavorò per la definizione del dogma dell’Immacolata (1854).

La pietà popolare mariana, nella Chiesa monrealese, modulandosi con la stessa intensità che si può registrare anche altrove in Italia e in Europa in quell’epoca, occupa uno spazio di primaria importanza. Essa deriva da due filoni: la grande pietà controriformista del Sei-Settecento e la pietà ultramontana dell’Otto-Novecento. La pietà di derivazione post-tridentina scaturisce dall’incontro del cattolicesimo con la cultura locale, mentre quella ultramontana è il frutto dell’incontro della tradizione locale con percorsi teologico-devozionali esterni all’ambiente. Il primo filone è debitore alle spiritualità dei cappuccini, dei carmelitani e dei domenicani che hanno ereditato anche la spiritualità, pre-tridentina, dei benedettini, che diedero inizio al culto della Madonna del romitello, a Borgetto, e della Madonna del bosco a Bisacquino, e dei cistercensi i quali diedero inizio al culto alla Madonna di Altofonte poi denominata del ponte. Risale al 1616 il santuario della madonna del Furi, a Cinisi, dove si venera la Madonna del rosario. A Torretta, nel 1712, fu costruito il santuario della Madonna delle grazie. Ma il filone più importante è quello ultramontanista così definito poiché era caratterizzato dal riferimento centralistico a Roma e alla persona del papa, secondo la tendenza di rafforzare i legami tra le Chiese nazionali e la santa sede e caratterizzato, soprattutto, dall’ansia per la difficile situazione in cui la chiesa si trovava in quel periodo. Nel 1835, in seguito ad un evento miracoloso, nacque, a Chiusa Sclafani, il culto alla Madonna delle lacrime.

Nel 1855, a Camporeale, nasce il culto alla Madonna dei peccatori anche se la costruzione del santuario iniziò nel 1905. Nei primi dell’Ottocento iniziò la costruzione del santuario di Tagliavia che sorge nei pressi del bosco della Ficuzza nel territorio di Corleone. L’attuale chiesa venne inaugurata il 1 maggio del 1845, giorno dell’ascensione; vi si venera la Madonna del rosario.

La festa della Madonna di Tagliavia si celebra due volte l’anno: il giorno dell’ascensione e l’8 settembre e in entrambe le ricorrenze migliaia di fedeli accorrono al santuario con una differenza: il giorno dell’ascensione i pellegrini arrivano da tanti comuni, mentre la festa dell’8 settembre è legata alla comunità di Corleone e di qualche comune del corleonese, i cui fedeli nella notte tra il 7 e l’8 danno vita ad un pellegrinaggio a piedi, di natura penitenziale, che si conclude all’alba dell’8 settembre presso il santuario con la celebrazione eucaristica, canti, preghiere e offerte. Pertanto i corleonesi considerano Tagliavia come il loro santuario mariano e così si rivolgono alla Madonna:

 

Bedda Matri ddocu siti

E li grazi ni faciti.

Facitini una a mia

Bedda Matri di Tagliavia.<!–[if !supportFootnotes]–>[41]<!–[endif]–>

 

Interessante risulta essere dal punto di vista teologico un componimento dialettale che canta le lodi della Vergine e ne invoca la protezione necessaria per vincere il male ed ottenere il perdono di Dio. Questa preghiera, ancora oggi recitata, è espressiva della spiritualità della pietà mariana dell’Ottocento. Esiste anche un inno che i fedeli cantavano, in processione verso il santuario, esprimente la fede in Gesù asceso al cielo. A Isola delle Femmine nacque il culto, intorno al 1860, a Maria SS. delle Grazie, la cui festa si celebra il 2 luglio.

A San Giuseppe Jato sorge il culto, con il relativo santuario, alla Madonna della provvidenza la cui festa si celebra il 21 di luglio. A Balestrate sorge il culto all’Addolorata che diventa la patrona della cittadina. A Trappeto il culto a Maria SS. Annunziata e a San Cipirello quello all’Immacolata. Oltre il santuario di Tagliavia, esistono altri tre santuari: Maria SS. del Balzo, Maria SS. del Romitello e Maria SS. del Ponte, che pur essendo di creazione e devozione pre-tridentina, videro, nell’Ottocento un rifiorire di culto e devozione popolare.

La Madonna del Balzo,il cui culto risale a metà del ‘600,divenne dal 1904 la festa più importante di Bisacquino.

Nel 1932 avvenne l’incoronazione della vergine la cui festa si celebra ogni anno il 15 di agosto preceduta da una quindicina caratterizzata da un fatto particolare:ogni mattino,prima dell’alba,i Bisacquinesi si recano a piedi verso il santuario situato a qualche chilometro dal paese.

Le sere della quindicina sono caratterizzate dalla creazione, in paese, di altari alla Madonna attorno ai quali ci si siede e si recita il rosario. Già dalla vigilia, centinaia di fedeli affluiscono al santuario portando offerte e ceri. La sera del 15 di agosto si svolge una solenne processione. Il culto alla Madonna del balzo ha dato origine ad un rosario, in lingua siciliana, che ancora oggi si recita.

Altri interessanti testi sono una salve regina e un inno popolare alla madonna del balzo. Questi testi sono di creazione ottocentesca. Il culto alla Madonna del romitello ebbe origine con l’eremita benedettino Giuliano Miali, che costruì il primo santuario nel 1464, dedicato alla Vergine addolorata che tiene sopra le ginocchia il Figlio morto. Il santuario ebbe il suo massimo splendore dal 1904 al 1926 allorché fu affidato alla cura pastorale del canonico mazzarese Baldassare Safina che si prodigò tantissimo per divulgare il culto alla Madonna. Nel 1896 l’arcivescovo Lancia Di Brolo diede autorevole riconoscimento al culto popolare dichiarando «prodigiosa» l’effige della Vergine. Nel 1906 padre Safina costruì la Via Matris dolorosae che fu inaugurata l’8 maggio. Ancora oggi, in quella data, i confrati dell’Addolorata salgono al santuario in pellegrinaggio.

Momento di grande fede e devozione fu l’incoronazione avvenuta il 27 agosto del 1922 cui presero parte mons.Intreccialagli e il card. Lualdi. Il padre Safina scrisse anche un manuale dei devoti della Madonna del romitello dove sono riportati i pii esercizi: la corona dei sette dolori, la via matris dolorosae, la novena dell’Addolorata, i sette venerdì in onore dell’Addolorata, la coroncina delle 5 piaghe, il pio esercizio della desolata che si praticava la notte del venerdì santo in memoria della desolazione della Madonna. Altra caratteristica sono gli ex voto, costituiti, fino a qualche tempo fa, da trecce di capelli che le donne offrivano alla Madonna e oggi da abitini di battesimo, di prime comunioni ed abiti da sposa nonché abiti civili.

Il culto alla Madonna del romitello è stato diffuso dai romiti del santuario, cioè dai custodi che andavano in giro per le campagne per la questua. La festa principale si svolge ogni anno il 10 maggio, giorno in cui l’effige della madonna viene portata, in processione, dal santuario in paese. A fine agosto si svolge un’altra festa in ricordo dell’incoronazione e per dare la possibilità agli emigrati, presenti in paese, di poter partecipare alla festa. Il culto alla madonna del Romitello è diffuso anche tra gli emigrati borgetani che vivono negli Stati Uniti. Dal 1920 la cura del santuario è stata affidata ai padri passionisti.<!–[if !supportFootnotes]–>[42]<!–[endif]–>

Il culto alla Madonna del ponte, a Partinico, ebbe origine con i monaci cistercensi dell’abbazia di Altofonte costruita nel 1306. L’attuale santuario fu eretto nel xiv secolo ad opera degli abati cistercensi. Una bolla di Innocenzo x, del 1648, ordinava si svolgessero pubbliche processioni in onore di Maria SS. del ponte per venire in aiuto al re Filippo iv. Risale ad allora l’usanza della processione.<!–[if !supportFootnotes]–>[43]<!–[endif]–>

La festa della Madonna del ponte è stata sempre celebrata nella domenica in albis, nella quale la tela della Madonna viene portata in processione dal santuario a Partinico, dove si svolge una seconda solenne processione che si conclude a tarda notte alla fine della quale il quadro della Madonna viene deposto sull’altare maggiore della chiesa madre dove rimarrà fino alla prima domenica di novembre quando verrà riportato al santuario. Il giovedì precedente la domenica in albis si svolge il pellegrinaggio a piedi da Partinico al santuario. La strada che porta dalla città al santuario, circa 9 km, è costellata di cappelle votive con dentro l’immagine della Madonna del ponte che, nella settimana precedente la festa, vengono adornate con fiori e con lumini accesi . Il giorno della festa, alle ore 12, il quadro viene deposto sulla vara ed inizia il lento cammino verso la città dove il quadro arriva intorno alle ore 20. All’arrivo in paese la vara sosta fino al calar del sole e nel frattempo avviene la cosiddetta vistuta, cioè l’immagine viene rivestita con delle vesti argentee ed auree, create a fine Settecento e restaurate nel 1879, e viene omaggiata dal clero e dalle autorità civili e militari nonché da una grande folla di fedeli. Fino al 1923 la vara veniva portata a spalla da più di 60 deputati, così si chiamano i confrati. Nei tre giorni successivi alla festa si svolgono, presso la chiesa madre di Partinico, le quarantore eucaristiche. Una data importante nella storia di questa devozione è il 1861, anno in cui avvenne l’incoronazione della Madonna del ponte il 13 di agosto.

Da allora in poi, a ricordo di quella solenne incoronazione, si istituì una festa in agosto della Madonna del ponte. Ad oggi la festa estiva permane e si celebra l’8 di agosto.

Il culto alla Madonna del ponte ha dato vita, nel tempo, a diversi istituti religiosi femminili. Sul finire del Settecento una certa suor Benedetta Campo Lo Iacono, partinicese, diede inizio ad un reclusorio cioè alla consacrazione semi-claustrale di alcune ragazze che coltivavano anche ala devozione alla Madonna del ponte. Verso la fine dell’Ottocento l’esperienza del reclusorio fu ripetuta: da questa seconda esperienza venne fuori la vocazione della partinicese Maria Rosa Zangara che fondò, il 15 agosto del 1891, l’istituto delle Figlie della Misericordia e della Croce.<!–[if !supportFootnotes]–>[44]<!–[endif]–> Ad oggi il culto alla Madonna del ponte è vivissimo a Partinico: esiste un rosario alla Madonna del ponte e altre preghiere sempre in lingua dialettale.

Infine il culto alla Madonna dell’udienza a Giuliana. Nel 1837 i giulianesi iniziarono a venerare la Madonna dell’udienza come loro patrona per averli liberati dal colera. Quello della Madonna dell’udienza è un patronato di fatto associato a quella della patrona ufficiale santa Giuliana di Nicodemia. La festa di santa Giuliana iniziò a declinare sul finire dell’Ottocento, cessando del tutto ai primi del Novecento, lasciando posto alla devozione alla Madonna dell’udienza. Giuliana è l’unico comune della diocesi in cui è presente questo culto. Giuliana nel 1837, anno di inizio del culto, ricadeva sotto la giurisdizione della diocesi di Agrigento, dove il culto era, ed è, presente in alcuni comuni dell’agrigentino, eredità della presenza dei padri carmelitani. La festa si celebrava il 2 di luglio, ma agli inizi del Novecento fu trasportata al tre settembre per non intralciare i lavori di mietitura dei contadini di Giuliana. La chiesa del Carmine, dove risiede la statua alabastrina della Madonna dell’udienza, fu elevata, nel 1987, da mons. Salvatore Cassisa, a santuario con il titolo di Maria SS. dell’udienza. Nel 1997 è avvenuta l’incoronazione. La festa è preceduta da un novenario durante il quale si recita il rosario della Bedda Matri di Giuliana. Il rosario è seguito dalla recita delle sette allegrezze di Maria SS. dell’udienza. I portatori della vara, man mano che entrano nel santuario, indossano un camice di colore azzurro in ricordo dei monatti che per primi, nel 1837, portarono la vara della Madonna. Su 113 parrocchie esistenti nell’arcidiocesi ben 46 sono titolate alla Madonna.

 

 

7. La devozione a san Giuseppe

 

In tutto il territorio dell’arcidiocesi il culto al santo patriarca è diffusissimo e vivissimo. Anche questo culto è di derivazione ottocentesca, periodo in cui il culto a san Giuseppe ebbe il suo massimo splendore. Il fatto più importante fu la proclamazione, l’8 dicembre del 1870, ad opera di Pio ix, di san Giuseppe a patrono di tutta la Chiesa. Già nel 1847, lo stesso pontefice, aveva esteso a tutta la Chiesa la festa del patrocinio del santo fino ad allora celebrata solo da alcuni grandi ordini religiosi come i carmelitani.

Il culto al santo patriarca assume lo stesso significato di quello della sua sposa: proteggere la Chiesa. La festa fu fissata per il 19 di marzo. Il 15 agosto del 1889 Leone xiii con l’enciclica Quamquam pluries dichiarò san Giuseppe patrono speciale della Chiesa cattolica. Lo stesso papa, il 3 marzo del 1891, dichiarò il 19 marzo essere festa di precetto. Nacquero le litanie del santo, la pratica dei sette dolori e delle sette allegrezze, il rosario di san Giuseppe, lo scapolare, il mercoledì a lui dedicato e il mese di marzo a lui dedicato. Nacquero anche confraternite a lui intitolate, pie unioni, sodalizi, congregazioni religiose a lui intitolate.

Il culto a san Giuseppe si esprime, nella quasi totalità dei comuni dell’arcidiocesi monrealese, con la creazione delle mense per i poveri, degli altari o delle tavolate in suo onore. Le mense o altari sono quasi sempre degli ex voto per grazie ricevute. L’elemento dominante è il pane, insieme all’offerta delle primizie e all’ostentazione di prodotti vari (generi alimentari, vestiti, ecc.) che alla fine del banchetto vengono distribuite ai “santi”, cioè ai ragazzi invitati al banchetto, poiché appartenenti a famiglie bisognose. In qualche comune dell’arcidiocesi i santi sono tre, in altri cinque o addirittura sette come a Chiusa Sclafani. I santi simboleggiano la sacra famiglia, se sono solo tre, cinque anche due angeli, sette anche alcuni santi protettori cui è devota la famiglia che crea la mensa. I pani votivi, chiamati con nomi diversi a secondo dei paesi (cuddure, cucciddati, ucchialeddu), sono preparati dalle donne con varietà di forme e dimensioni e dopo essere stati benedetti vengono posti sulle mense per essere distribuiti nel giorno della festa.

Sulle tavolate di Prizzi si usa mettere le coffe, cioè dei grandi pani di forma diversa. Quello dedicato alla Madonna si chiama pupa e su di esso si scolpisce una borsa, un bracciale, una collana, la treccia e un mazzetto di fiori. Quello dedicato a san Giuseppe si chiama varva, mentre quello dedicato a Gesù si chiama, a Prizzi, cuffitedda e su di esso si pone un pane a forma di scala, uno a forma di martello e un altro a forma di sega, che simboleggiano gli arnesi del lavoro di san Giuseppe e il fatto che Gesù aiutò il suo padre putativo nel suo lavoro.

In tutte le mense dei comuni dell’arcidiocesi non vi è presenza di piatti a base di carne e di pesce. In molti comuni si usa fare il cosiddetto San Giuseppi addumannaatu o mezzu addumannatu: chi ha fatto il voto va in giro per il paese a chiedere l’elemosina per allestire la mensa mentre il mezzu addumannatu comporta che metà delle spese vengano affrontate dalla famiglie e l’altra metà vengano elemosinate. La questua di soldi, in qualche comune come Prizzi, viene fatta a piedi scalzi. Anche a Bisacquino,Borgetto e Corleone si fanno i santi addumannati.

A Giuliana, come altrove, ci si prepara alla festa con una novena, durante la quale si recita la coroncina dei sette dolori e delle sette allegrezze di san Giuseppe e il seguente rosario:

 

San Giusippuzzu vui siti lu patri,

virgini siti comu la matri,

Maria è la rosa.

Vui siti lu gigliu.

Datimi aiutu, riparu e cunsigliu.

Pi lu nomi di Maria sarvati l’arma mia.

 

Al rosario si uniscono anche delle giaculatorie:

 

San Giusippuzzu unn’abbannunati

nn’è nostri bisogni e nicissitati

e ludatu e binidittu sia

’u nomi di Gesù, Giuseppi e Maria.

 

La festa di san Giuseppe, a Giuliana, è preceduta dalla festa du bamminu che si svolge nei tre giorni precedenti il 19 marzo. La statua di Gesù adolescente viene staccata dalla mano del padre putativo e viene portata in pellegrinaggio presso alcune famiglie del paese, per poi ricongiungersi con il simulacro del santo prima della processione del 19 sera.

A Giuliana, ancora oggi, i devoti recitano i sei misteri del rosario di san Giuseppe. I misteri, come scrive Governali, «evocano vari momenti della vita del santo, al quale si attribuiscono sentimenti, paure, sospetti e risentimenti propri di ogni essere umano».<!–[if !supportFootnotes]–>[45]<!–[endif]–>

I racconti del rosario di Giuliana si ispirano ai racconti dei vangeli apocrifi. Le mense di Balestrate sono caratterizzate per la grande quantità, oltre che di pane anche di agrumi. Anche a Corleone, così come a Partinico, fino a qualche tempo, fa si creavano le tavolate e le mense: oggi sono molto ridotte. A Corleone si invitavano 5 santi i quali si riunivano il mattino della festa, vestiti con delle tuniche di colore diverso, viola o verde san Giuseppe, rosa la Madonna e bianco Gesù bambino. Anche i due angeli indossavano delle tuniche bianche. Venivano accompagnati in chiesa dal suono del tammurinaru, e quindi partecipavano alla messa. All’uscita i santi si recavano nella propria mensa dove iniziava il lauto pranzo. I santi venivano serviti dai padroni di casa e dovevano essere i primi a mangiare assaggiando un po’ di tutte le pietanze preparate. Tutto ciò avviene ancora oggi a Borgetto, dove ogni anno, vengono allestite così tante mense che in certi anni hanno superato anche le trenta unità. Le mense di Borgetto sono davvero uniche nel loro genere. I santi sono tre. A Borgetto, prima di iniziare il pranzo, vengono recitate, davanti alle mense, le cosiddette parti in dialetto siciliano. Dopo la recita delle parti tutti entrano nella casa, la padrona di casa fa salire il bambino che interpreta la parte di Gesù su una sedia, gli fa intingere due dita in un bicchiere d’acqua e gli fa benedire la mensa. Poi inizia il pranzo dei santi. Da qualche anno a Borgetto la novena di san Giuseppe viene celebrata al mattino presto con la straordinaria partecipazione di fedeli adulti.

Le mense di san Giuseppe sono preparate da tutti i ceti sociali. In alcuni comuni, come ad esempio Partinico e Corleone, dove le mense presso le famiglie sono in via di estinzione, la tradizione delle mense e delle tavolate rivive grazie all’opera preziosa di docenti, alunni e delle loro famiglie che accettano di fare le mense a scuola.

 

 

8. Conclusione

 

Una Chiesa particolare deriva molti tratti specifici della sua identità dalla pietà popolare unitamente alle attività caritativo-assistenziali. La pietà popolare ha avuto una grande importanza per la configurazione del cattolicesimo anche nel caso della Chiesa monrealese. Infatti, essa raggruppa in sé le tre caratteristiche che lo storico francese Poulat individua come motivi ricorrenti nella storia del cristianesimo: la testimonianza, il simbolo e la dottrina.

La testimonianza di Cristo morto e risorto è l’elemento cardine della fede cristiana e anche della pietà. Essa dice anche le modalità di trasmissione dell’evento cristo attraverso i segni, le rappresentazioni, le raffigurazioni, liturgiche ed extraliturgiche, che hanno tramandato Cristo da una generazione all’altra. La pietà dice anche il dogma, le grandi verità di fede che vengono accettate e credute dal cristiano. Iniziazione e trasmissione, ricezione e appropriazione, imitazione e rappresentazione della fede: cosa sarebbe la vita della Chiesa senza il rosario, la via crucis, le novene, i tridui, la venerazione della Maria e dei santi, i pellegrinaggi, il culto dei morti.

Cosa sarebbe pure la Chiesa monrealese senza il crocifisso di Monreale, di Bisacquino, di Carini, Torretta, Montelepre, Giardinello, Camporeale e Giuliana? Cosa sarebbe senza i suoi santuari mariani e le devozioni con cui è venerata la madre di Dio? Senza le sue tante confraternite?

Concludo facendo mie le parole di Basilio Randazzo: «La pietà popolare è feconda dizione del mistero di salvezza, celebra la Trinità, venera la Madre di Dio e i santi, esercita fede, speranza e carità, ripone certezza nelle verità rivelate, si nutre dei sette doni dello Spirito Santo, e tra questi doni puntualizza la pietas, quel dono che perfeziona la virtù di religione, producendo nel cuore affetto filiale a Dio Uno e Trino e tenera devozione alla madre di Dio e alla Chiesa.<!–[if !supportFootnotes]–>[46]<!–[endif]–>

<!–[if !supportFootnotes]–>


<!–[endif]–>

* Docente di IRC presso il Liceo Scientifico “S.Savarino” di Partinico (PA) e studioso della Pietà poplare.

<!–[if !supportFootnotes]–>[1]<!–[endif]–> Cf. D. Zardin, La “religione popolare”: interpretazioni storiografiche e ipotesi di ricerca, in http://www.fafich.ufmg.br.

<!–[if !supportFootnotes]–>[2]<!–[endif]–> Cf. E. Pace, Pietà popolare e società, in Aa.Vv., Evangelizzare e lasciarsi evangelizzare dalla pietà popolare, a cura di G. Panteghini, Messaggero, Padova ,1996 pp. 11-30.

<!–[if !supportFootnotes]–>[3]<!–[endif]–> G. Agostino, Le feste religiose nel sud, Lettera Pastorale per la Quaresima 1976, pp. 13-14.

<!–[if !supportFootnotes]–>[4]<!–[endif]–> Ib., pp. 14-15.

<!–[if !supportFootnotes]–>[5]<!–[endif]–> Cf., ib., p. 15.

<!–[if !supportFootnotes]–>[6]<!–[endif]–> Cf. E. Pace, op. cit., pp. 11-30.

<!–[if !supportFootnotes]–>[7]<!–[endif]–> G. Panteghini, La religiosità popolare, provocazioni culturali ed ecclesiali, Messaggero, Padova,1996, p. 18.

<!–[if !supportFootnotes]–>[8]<!–[endif]–> Cf. C. Naro, Momenti e figure della Chiesa nissena dell’Otto e del Novecento, Centro Studi Cammarata, San Cataldo 1989, pp. 596-597.

<!–[if !supportFootnotes]–>[9]<!–[endif]–> Cf. C. Naro, Relazione svolta al convegno su La processione dei Misteri: la storia della salvezza attraverso i quadri dell’Antico e del Nuovo Testamento, Montelepre, Cripta Parrocchia Santa Rosalia, 6 aprile 2003.

<!–[if !supportFootnotes]–>[10]<!–[endif]–> Cf. M.A. Di Leo, Le feste popolari di Sicilia, Newton e Compton Editori,Roma 1997, pp. 216-217.

<!–[if !supportFootnotes]–>[11]<!–[endif]–> Cf. ib., pp. 214-251.

<!–[if !supportFootnotes]–>[12]<!–[endif]–> Così afferma Crispino Valenziano riportato in C. Naro, op. cit., p. 614.

<!–[if !supportFootnotes]–>[13]<!–[endif]–> F. Gentiloni, Abramo contro Ulisse. Un itinerario alla ricerca di Dio, Claudiana, Torino 2003.

<!–[if !supportFootnotes]–>[14]<!–[endif]–> V. Sorce, Inculturazione e fede, l’esperienza della Sicilia, SEI, Torino 1996, p. 38.

<!–[if !supportFootnotes]–>[15]<!–[endif]–> Ib., p. 18.

<!–[if !supportFootnotes]–>[16]<!–[endif]–> Cf. C. Naro, op. cit., p. 620.

<!–[if !supportFootnotes]–>[17]<!–[endif]–> Cf. ib., p. 599.

<!–[if !supportFootnotes]–>[18]<!–[endif]–> Cf. V. Badalamenti, Carini nella storia, Edizioni Bellanca, Carini 1992, pp. 185-218.

<!–[if !supportFootnotes]–>[19]<!–[endif]–> Cf. Storia dei Frati Minori Cappuccini della provincia di Palermo, a cura di Padre Antonio da Castellammare, Scuola Tipografica Salesiana, Roma1914.

<!–[if !supportFootnotes]–>[20]<!–[endif]–> A.G. Marchese, Il Convento di Sant’Anna di Giuliana dei Minori Osservanti Riformati e il Santo Nero di Palermo,ila palma,Palermo 2001, pp. 138-140.

<!–[if !supportFootnotes]–>[21]<!–[endif]–> Cf. ib., p. 53.

<!–[if !supportFootnotes]–>[22]<!–[endif]–> Cf. L. Accardi, Camporeale.,Origini,usi,costumi,mentalità,proverbi,canti popolari,Edizioni Campo,Alcamo 1995, p. 150.

<!–[if !supportFootnotes]–>[23]<!–[endif]–> Cf. Aa.Vv., Costume, società, cultura. Corleone: gli usi, le tradizioni, il dialetto, a cura della Scuola elementare statale “C. Finocchiaro Aprile”di Corleone, A.S. 2001-2002.

<!–[if !supportFootnotes]–>[24]<!–[endif]–> Cf. C. Nicotra, Il Carmelo siciliano nella storia, Samperi, Messina.

<!–[if !supportFootnotes]–>[25]<!–[endif]–> Cf. Aa.Vv., Maria icona della tenerezza del Padre, la spiritualità mariana nell’esperienza del carmelo.Augustinus, Palermo 1992.

<!–[if !supportFootnotes]–>[26]<!–[endif]–> V. Badalamenti, Carini nella storia,Edizioni Bellanca,Palermo 1992, p. 199.

<!–[if !supportFootnotes]–>[27]<!–[endif]–> Cf. A.G. Marchese, Inventario corleonese, Palermo, ila palma, pp. 27-77.

<!–[if !supportFootnotes]–>[28]<!–[endif]–> Cf. Aa.Vv., Il Cristo siciliano, a cura di G. Savoca – G. Ruggieri, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000.

<!–[if !supportFootnotes]–>[29]<!–[endif]–> Narrazione, teologia, spiritualità del Natale. Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca S. Giuseppi in Betlemmi. Canzunetti siciliani di Binidittu Annuleru […], a cura di F. Conigliaro – A. Lipari – C. Scordato, L.I.S. Publisher, Palermo 1987.

<!–[if !supportFootnotes]–>[30]<!–[endif]–> C. Naro, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre. 3: Ideale sacerdotale e prassi pastorale, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1991, pp. 25-40.

<!–[if !supportFootnotes]–>[31]<!–[endif]–> B. Randazzo, Religiosità. Mistagogia e pietà popolare, Biblioteca Francescana, Palermo 1992, p. 89.

<!–[if !supportFootnotes]–>[32]<!–[endif]–> Ib.

<!–[if !supportFootnotes]–>[33]<!–[endif]–> N. Caruso, Figure e fatti di Torretta, T.e.a.Mazzone/ila palma,Palermo 1990 pp. 103-107.

<!–[if !supportFootnotes]–>[34]<!–[endif]–> Cf. L. Accardi, Camporeale ,,Origini,usi,costumi,mentalità,proverbi,canti popolari,Edizioni Campo,Alcamo 1995, pp. 176-178.

<!–[if !supportFootnotes]–>[35]<!–[endif]–> P.D. Lo Grasso, Partinico e il culto di Maria SS.ma di Altofonte e del Ponte sua patrona celeste e del SS.mo Crocifisso,Tipografia Gaspare Puccio,Partinico 1935, pp. 390-391.

<!–[if !supportFootnotes]–>[36]<!–[endif]–>Cf. A. Plumari, La Settimana Santa in Sicilia. Guida ai riti e alle tradizioni popolari, Città Aperta Edizioni,Troina 2003.

<!–[if !supportFootnotes]–>[37]<!–[endif]–> Cf. E. Liparoto, Borgetto: un percorso storico-etnografico, Tesi di Laurea in Scienze della Formazione, Università degli Studi di Palermo, Anno Accademico 1995-96, p. 65.

<!–[if !supportFootnotes]–>[38]<!–[endif]–> Cf. A.G. Marchese, La festa della Patrona di Giuliana “Maria SS. dell’Udienza”, Ila Palma, Palermo 1998, pp. 52-53.

<!–[if !supportFootnotes]–>[39]<!–[endif]–> Cf. V. Badalamenti, Carini nelle tradizioni popolari, cit., p. 263.

<!–[if !supportFootnotes]–>[40]<!–[endif]–> Cf. G. Governali, Come in cielo, così in terra,Edizioni Eleusi, Corleone 1996, pp. 45-52.

<!–[if !supportFootnotes]–>[41]<!–[endif]–> Riportata in G. Governali, op.cit., p. 34.

<!–[if !supportFootnotes]–>[42]<!–[endif]–> Cf. P.I. Bellia, Il Santuario della Madonna di Romitello, storia, culto, messaggio, Ed.C.I.P.I., Palermo 1989.

<!–[if !supportFootnotes]–>[43]<!–[endif]–> Cf. R.D. Parra, Fenomenologia religiosa del culto di iperdulia in Partinico, Tesi di Magistero in Scienze Religiose, Facoltà Teologica di Sicilia, Anno Accademico 1993-94, pp. 56-57.

<!–[if !supportFootnotes]–>[44]<!–[endif]–> Cf. D. Lo Grasso, op.cit., pp. 390-391.

<!–[if !supportFootnotes]–>[45]<!–[endif]–> G. Governali, op. cit., pp. 61-66.

<!–[if !supportFootnotes]–>[46]<!–[endif]–> B. Randazzo, op. cit., pp. 20-21.

La Madonna Nera di Vallelunga Pratameno

 

LA MADONNA NERA

OSSIA

 

LA BEDDRA MATRI DI LURITU”

a cura del

Prof.Michele Vilardo

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La storia del culto alla Madonna Nera

Una Madonna Nera è una rappresentazione (statua o quadro) della Vergine Maria, eventualmente accompagnata dal Bambino, il cui volto ha un colorito scuro, se non proprio nero. Le “madonne nere” sono molto diffuse. Ci sono diverse centinaia di madonne nere in luoghi pubblici di culto in Francia, Spagna, Italia e in molte altre nazioni europee.

Già nell’antichità alcune dee, come Cerere/Demetra (dal greco “ghe-mater”, cioè madre-terra) e Iside, potevano essere rappresentate con il volto scuro. L’immagine di Iside, addolorata per la tragica morte di Osiride e spesso ritratta con il grembo il figlio Horus, ha più di un motivo di sovrapposizione con il culto mariano. Anche Cerere era addolorata per la perdita di Proserpina. Il colore nero, inoltre, è quello della terra fertile, simboleggiata dalle dee. L’iconografia, quindi, della madonna nera avrebbe le sue lontane radici nell’antichissimo culto della Grande Madre. In alcuni santuari l’inizio del culto è attribuito al ritrovamento di una statua della madonna nera: potrebbe trattarsi (se il racconto è credibile) del ritrovamento di una statua di Iside, il cui culto si diffuse in tutto l’impero romano.

Il culto delle madonne nere, se queste ipotesi sono vere, sarebbe un esempio dell’opera di inculturazione della fede cristiana, seguita dalla Chiesa Cattolica e teorizzata esplicitamente in una lettera di papa Gregorio Magno nel 601, cioè sostituire,gradualmente,ai culti pagani le verità di fede del cristianesimo. Così ad esempio avvenne già nel IV sec. per il 25 dicembre,festa pagana del Dio-Sole,a cui i cristiani sostituirono la festa della Natività di Gesù-Cristo.

Qualunque ne sia stata la valenza simbolica, la finalità evangelica o la giustificazione teologica, la diffusione in occidente di immagini di madonne nere è molto antica ed è spesso associata a legami con l’Oriente. Secondo la leggenda Sant’ Eusebio di Vercelli, primo vescovo del Piemonte, esiliato in Cappadocia per le persecuzioni ariane, avrebbe portato tre madonne nere (statue), tuttora venerate rispettivamente nei santuari di Oropa e di Crea, in Piemonte e nella cattedrale di Cagliari (quella di Crea, come altre madonne nere, è però stata sbiancata nei restauri). In realtà la diffusione delle madonne nere sembra essersi fatta particolarmente intensa all’epoca delle crociate, sia perché diversi crociati portarono in patria icone orientali, sia perché il culto di madonne scure venne diffuso in occidente dagli ordini cavallereschi, soprattutto da quello dei templari, che disponevano di proprie chiese nelle principali città europee. I templari e gli altri ordini cavallereschi erano legati alla figura di San Bernardo di Chiaravalle, che predicò la seconda crociata. San Bernardo scrisse un commento al Cantico dei Cantici, in cui la sposa nigra sed formosa, principale personaggio del libro, è considerata una delle figure femminili dell’Antico Testamento che possono essere interpretate come profezie della Vergine Maria. Il colore scuro di alcune statue potrebbe essere stato scelto per identificare la Madonna con la donna del Cantico dei Cantici (vv. 5 e 6: “bruciata dal sole”, “scura come le tende dei beduini”) . La predicazione di San Bernardo, quindi, potrebbe essere una delle cause della diffusione delle madonne nere. La controriforma, ha valorizzato il colore nero come segno dell’antichità del culto mariano, in opposizione alle obiezioni protestanti.

Oettingen per la Baviera,
HaI per i belgi
Montserrat per la Spagna,
il Alba per i magiari.
Per l’Italia Loreto,
Ma in Francia, Liesse
È e sempre sarà la nostra gioia.

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Questo verso, che risale al 1629, elenca alcuni dei santuari nazionali d’Europa. Ciascuno trova origine in un’antica tradizione di devozione verso una statua della Madonna nera. Il poeta avrebbe potuto includere anche Chartres, Le Puy e Rocamadour in Francia, Einsiedeln in Svizzera, Oropa in Piemonte, Nostra Signora del Pilar a Saragozza e Nostra Signora di Guadalupe e di tutte le Spagne. Sono solo alcune delle più famose tra le innumerevoli Madonne nere sopravvissute a secoli di guerra e rivoluzione, alcune in grandi basiliche, altre in minuscole chiese di paese, altre ancora nei musei e nelle collezioni private. Se è vero che un’ampia porzione delle antiche Madonne miracolose del mondo sono nere, perché un fenomeno tanto sorprendente è cosi poco conosciuto, e quali ne sono le cause? La discrezione degli studiosi è proverbiale, specialmente in questioni che esulano dalla loro disciplina accademica, e questo argomento si inserisce a fatica tra la storia dell’arte e l’ecclesiologia. Agli storici dell’arte molte Madonne nere devono apparire rozze, persino grottesche, antiquate, restaurate o sostituite, di dubbia provenienza, difficili da esaminare o datare. Laddove appartengono a una classe riconoscibile, come i Seggi del Giudizio in Catalogna o l’Alvernia, la loro pelle scura ha attirato scarsa attenzione. La Madonna nera di Padova è ben documentata perché è di Donatello.
I teologi dimostrano per l’argomento, semmai, un entusiasmo anche più scarso di quello degli storici dell’arte. Il culto tuttora popolare delle immagini taumaturgiche non solo è reazionario e contrario alle Scritture, ma evoca anche ricordi di argomenti scomodi che è meglio lasciare nell’ombra, come le origini pre-cristiane di gran parte del cristianesimo, la storia dei templari, il catarismo e altre eresie, nonché segreti riguardanti la dinastia merovingia. Perciò, la pelle nera nelle statue della Vergine tende a essere ignorata e, laddove viene riconosciuta, è attribuita agli effetti del fumo delle candele, al sotterramento, all’immersione nell’acqua o al capriccio passeggero della moda. Inoltre, la tesi della Chiesa cattolica sostiene che in origine la maggior parte di tali statue non fu intenzionalmente concepita con la pelle nera, ma la acquisì solo in seguito accidentalmente. Rimane il fatto che sono nere e discutere il fenomeno soltanto in termini visuali significa mascherare il loro significato più profondo.
Nel corso dell’800, tuttavia, si è verificata un’impennata nell’interesse letterario e storico verso le Madonne nere, per quanto ampiamente confinata alla Francia. Forse è per questa ragione che è stato dato grande rilievo alle origini del culto e delle statue risalenti al XII secolo. Tutto ciò ha comportato un’arbitraria esclusione di diversi esemplari di questo tipo da una valutazione che li considerasse Madonne nere originali.

Tuttavia, da qualunque punto di vista si affronti l’argomento, e quali che siano le cause del fenomeno, è incontestabile il fatto che alcune delle più famose statue della Madonna nell’Europa occidentale hanno volti e mani intenzionalmente neri e si sa che li hanno da molti secoli. Esistono anche all’incirca quattrocentocinquanta immagini della Vergine in tutto il mondo, senza contare quelle presenti in Africa a sud del litorale mediterraneo, che sono state definite nere, scure, marroni o grigie.

La Santa Casa di Nazareth e il culto alla Madonna di Loreto

 

Il mistero della Madonna Nera di Loreto.

Merita un’attenzione la vicenda della “Santa Casa” che Maria, madre di Gesù, avrebbe posseduta a Nazareth. Secondo la tradizione la casa fu trasportata dalla Galilea fin sulle colline marchigiane «per ministero angelico».

A Nazareth si pensa che l’abitazione di Maria era costituita da una grotta scavata nella roccia e da una casa in pietre attigua come le altre del luogo. Sulla grotta sorse dopo la famosa basilica dell’Annunciazione, mentre sparì la parte in muratura dell’abitazione per ricomparire poi a Loreto.

Ma la dimora di Maria non era a Nazareth, venerata dai pellegrini nella Basilica dell’Annunciazione?
Per chiarire il mistero ci voleva l’ostinazione di uno studioso ,padre Giuseppe Santarelli frate cappuccino, che ha dedicato la vita a indagare sulla vera origine delle pietre della casetta conservata nel Santuario di Loreto; ha pubblicato libri ed è giunto alla conclusione che la Casa di Maria fu trasportata non via cielo dagli angeli, ma per mare. Questo può spiegare anche la mancanza di fonti scritte nei primi anni: un carico di sassi nella stiva di una nave non fa notizia quanto una casa portata dagli angeli.
Punto di partenza gli scavi archeologici che aiutano a ricostruire la storia della Casa di Maria.
A Nazareth gli scavi hanno appurato che l’abitazione della Vergine, come altre del luogo, era costituita da una grotta scavata nella roccia, luogo di deposito, e da una casa in muratura antistante, luogo della vita quotidiana.
Per proteggere la Santa Casa i bizantini edificarono una basilica poi ampliata dai crociati.
La data del “trasferimento” della Santa Casa è tra il 9 e il 10 maggio 1291, in una località istriana, a Tersatto, prima di essere nuovamente rimossa e riedificata in una località di lauri (da cui il nome di Loreto) presso Porto Recanati cui approdarono le navi dei Templari nella notte del 10 dicembre 1294.
Nel maggio del 1291 i crociati persero definitivamente la Terrasanta, nonostante l’estrema difesa dei Templari nel porto fortificato di San Giovanni d’Acri.
C’era il rischio che i musulmani si accanissero su uno dei principali simboli della Cristianità: la Casa dove Maria ebbe l’Annunciazione e dove Gesù trascorse l’infanzia.
La testimonianza di un pellegrino, Riccardo da Montecroce, nel 1289 conferma che fino a quella data la Casa di Maria si trovava a Nazareth. Ma nel 1348, quando si reca in Terrasanta un altro pellegrino, Nicolò da Poggibonsi, la Casa non c’è più: resta la grotta contro cui erano appoggiate le tre pareti e che tuttora si venera a Nazareth.
Anche la Santa Casa di Loreto ha solo tre pareti e gli studi archeologici hanno dimostrato che si inseriscono perfettamente con ciò che resta a Nazareth. Le pietre sono le stesse di quelle rimaste a Nazareth e con la stessa datazione.
Chi erano, dunque, materialmente gli angeli che la trasferirono dove ora si trova? Furono I templari a salvare la casa di Nazareth e a trasportarla in Italia,a Loreto. Immaginiamo l’ultima grande impresa dei monaci cavalieri Templari superstiti che smontano pietra su pietra la Casa di Maria, circondati da un nemico che non dà tregua e la fanno partire via mare alla volta dell’Europa.
Ma perché poi finì a Loreto e non rimase in Istria?
Fu trasferita nelle Marche il 10 dicembre del 1294 sotto il pontificato di Papa Celestino V “colui che per viltà fece il gran rifiuto” e non mise mai piede a Roma. Il potere effettivo era esercitato dal suo vicario – Salvo – che, guarda caso, era vescovo di Recanati. Nulla di più probabile, quindi, che questi abbia voluto far approdare le Sacre pietre a Porto Recanati, uno dei principali scali vaticani, ed abbia preteso che la Casa della Sacra Famiglia si fermasse nella sua diocesi. Questa fu solo l’ultima delle imprese leggendarie dei Templari, monaci cavalieri dal mantello bianco, come gli angeli, con sopra delle grandi croci rosse,alcune delle quali furono ritrovate fra le mura della casa di Loreto.

L’introduzione e la diffusione del culto alla Vergine Lauretana a Vallelunga.

Il primo vero nucleo abitativo di Vallelunga, sorge solo nella prima metà del XV sec.ad opera di con Don Pietro Marino, nobile termitano, che, ottenendo dal viceré Duca di Ayala la “ Licentia Populandi ” nel 1633, diede vita ad un forte movimento migratorio trasformandolo in un feudo nobile e popolato, con il nome di “T erra Marini ”. Con la dinastia dei Papè, principi di Valdina (1645- 1812), il feudo riprendeva la sua originaria denominazione di Vallislonge . Nel 1671 Don Giacinto Papè, con privilegio del Re Carlo II di Spagna, ottenne il titolo di Duca sulla terra della baronia Vallelunga da denominarsi “Prato Ameno”: questo titolo comprendeva il feudo con un ameno giardino e casa signorile posta in un fondovalle nel feudo Magazzenacci, nella parte nord ovest, oggi l’attuale contrada “Giardino”.

L’arrivo dei Papè-Valdina,può darci,con tutta probabilità, una chiave di lettura della diffusione,per loro iniziativa,del culto della Vergine nera,quella della casa di Loreto,a Vallleunga.

La famiglia nobiliare dei Papè , è originaria di Anversa. Stabilitisi a Palermo nella prima metà del Cinquecento, i Papè detennero in Sicilia l’ufficio di Protonotaro del Regno (acquistato da Cristoforo Papè nel 1624) sino al 1819. Dal matrimonio, a metà Seicento, tra Paola Vignolo Papè e Andrea Valdina, marchese della Rocca e principe di Valdina, ebbe origine il ramo Papè-Valdina. Tale ramo ebbe oltre questo titolo quelli di duchi di Pratoameno e Rebuttone sul feudo di Vallelunga, e marchese della Scaletta.

La nobile famiglia dei VALDINA,imparentatasi con i Papè,deriva dalla nobiltà spagnola e fu portata in Sicilia da Andrea Valdina.

Che cosa c’entrano queste due nobili famiglie con il culto alla Madonna di Loreto?

Bisogna richiamare due città una Francese,quella di Chartres, dove è fervente il culto alla madonna nera,introdotto dai Templari,e la città spagnola di Montserrat,dove sin dal IX secolo si venera la Madonna Nera,denominata la MORENETA

 

Dunque i Papè e i Valdina,quando arrivarono in Sicilia, avevano già una grande familiarità con il culto alla Madonna nera.

A ciò si aggiunga,l’elemento storico-teologico,non secondario,dato dall’impulso delle istanze innovatrici poste in essere dal concilio di Trento circa il culto alla Madre di Dio e all’Eucarestia in opposizione alla nuova teologia antiprotestante che ormai si era diffusa in tutt’europa. Tali istanze incominciano a realizzarsi a partire dalla metà del 1600. Fu proprio a metà del 1600 che in italia si diffuse la tradizione devozionale lauretana che coinvolse numerose manifestazioni religiose, artistiche e letterarie, e la Santa Casa di Loreto divenne meta di pellegrinaggio, oltre che centro spirituale e culturale tra i più importanti e noti d’Europa. Dunque,verosimilmente, i Papè-Valdina,fecero leva sul culto alla Madonna nera di Loreto(che richiamava loro quello di Chartres e di Monserrat) per introdurlo a Vallelunga con il titolo di Patrona del paese. E sempre nel 1656 fu costituita a Valleunga la confraternita del SS.Sacramento. E’ davvero straordinario poter notare come le istanze innovatrici del Concilio di Trento arrivarono sino al cuore della Sicilia.

La festa liturgica della Madonna di Loreto si celebre il 10 Dicembre di ogni anno. A Vallelunga,invece,la Beddra Matri di Luritu ( i Vallelunghesi così la chiamano) viene festeggiata da sempre la quarta domenica di Settembre. Perchè? Probabilmente ciò è dovuto a fattori climatici,innanzitutto,( il 10 di Dicembre fa molto freddo, a Settembre c’è ancora caldo). Ma la festa di Settembre è legata alla storia del lavoro dei contadini di Vallelunga,i quali un tempo passavano tutta l’estate in campagna per compiere la mietitura dei campi di grano(luglio e agosto) e la raccolta delle mandorle(settembre).Pertanto rientravano in paese a fine settembre. Infatti uno dei dolci tipici della tradizione Vallelunghese legato alla festa della Madonna di Luritu è la cosiddetta “cubaita” ossia il torrone casereccio che veniva fatto dalle donne grazie alla raccolta delle mandorle,un tempo coltivazione molto diffusa a Vallelunga. Ciò favoriva ai “chianchieri”(i carnezzieri) di poter vendere la prima carne stagionale del maiale,facendo la salsiccia,in epoche in cui la carne era davvero una rarità.

Ad oggi,nonostante i tentativi di trasportare la festa in agosto,la tradizione rimane sempre di natura settembrina.

Di particolare suggestione è il momento della “scinnuta da Madonna” dall’altare maggiore per deporla sopra “a vara”. La statua pesa circa 400 chili ed è di legno massiccio,per cui necessitano almeno dieci persone per scendere il pesante percolo e issarlo sopra la vara dove viene resa ferma da quattro grandi bulloni di ferro. Dopodichè viene addobbata con il manto ricamato,con la corona in testa e sopra la testa del Bambino e le vengono messi addosso,per la sola processione,tutti gli ex voto consistenti in oggetti d’oro donati dai fedeli,unitamente a dei bei fiori e a quattro lanterne elettriche che la illuminano durante la processione. La vara,anticamente,veniva portata a spalla per tutto il tragitto della processione. Con il cambiare dei tempi si fece ricorso ad un mezzo agricolo che la trainasse. Di recente viene spinta a mano dai devoti. Alla processione,partecipa l’intero popolo vallelunghese e molte donne devote,giovani e meno giovani,fanno il tragitto della processione a piedi scalzi per grazia ricevuta. Da dieci anni a questa parte è stata organizzata,la sera del sabato sera, la manifestazione folcloristica della sagra dell’uva,per sponsorizzare un prodotto tipico dell’economia vallelunghese. Le vie principali del paese si riempiono di bancarelle piene di varie cose:dai giocattoli agli attrezzi agricoli. E’ un grande momento di festa,allietata dalle musiche del corpo bandistico locale,”Vincenzo Bellini”, che vanta una lunga tradizione nell’arte musicale.

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La Settimana Santa a Vallelunga

 

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(Foto panoramiche tratte dahttp://digilander.libero.it/vallelungapratameno/)

 

 

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LA SETTIMANA SANTA A VALLELUNGA PRATAMENO (CL)

Vallelunga Pratameno è un piccolo paese a vocazione agricola, come dimostra il suo stemma civico con due grappoli di uva, uno bianca e l’altra nera, fra bionde spighe di grano. I Vallelunghesi sono stati sempre gente laboriosa e onesta. Ancorati ai veri valori della vita,al rispetto della famiglia,delle donne ,dei bambini e degli anziani

Le sue origini affondano le radici tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, e fanno parte di quelle manifestazioni che subirono nuovi impulsi dopo il Concilio di Trento (1545-1563), che con la Controriforma avviò un rafforzamento dei principi religiosi intorno alla rivitalizzazione dei riti della tradizione cattolica.

L’identità civile è coincisa,per secoli,con quella religiosa i cui valori di riferimento affondano le loro radici nel crisitianesimo-cattolico. Infatti i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio culturale e artisitico,oltre che religioso,del popolo italiano. Cosicché la fede dei Valleunghesi è rimasta saldamente ancorata,sino ad oggi,nella tradizione cattolica. Nonostante l’imperversare del fenomeno della secolarizzazione e,ad oggi,di quello del relativismo etico-culturale,che mina alle radici le identità delle nostre comunità,quella vallelunghese ha conservato intatta la sua di identità,civile e religiosa,che si esprime ogni anno anche con determinati avvenimenti religiosi che hanno anche il compito principale,dal punto di vista sociologico, di cementare la comunità vallelunghese.Uno di questi momenti fondamentali è la Settimana Santa.

In Sicilia,come scrive G.Cammareri di simani santi ce ne sono davvero tante. “Se ne possono incontrare di meste,chiassose,nevrotiche,follemente amate e disprezzate,profumate dal vino che lava le notti e dall’acre odore dei ceri che le sporca dolcemente,profumate da tanti fiori e illuminate da tantissime luci. Simani gonfiate con l’elio dei palloncini,fatte di mille macchine fotografiche al collo ,di bambini vestiti da angioletti e di mamme che li accompagnano,di vecchietti piangenti ai balconi al passaggio di Cristi e Madonne….Croci,pennacchi,spade attaccate alla vita da centurioni più o meno baffuti e ancora il gesto per un altro e un altro ancora “clic” di quelle mille macchine fotografiche il cui piccolo rumore annega,miseramente,in un mare di note scandite da suonatori infiocchettati nella divisa di questa o quella banda”.

I riti,liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa vallelunghese servono a tramandare quella che gli israeliti chiamarono Pesach che significa passaggio. Dal “passare oltre” della tradizione biblica dell’A.T. che testimonia la mano potente di Dio-salvatore che ,nella notte tra il 14 e il 15 del mese di Abib,quella dell’uccisione dei primogeniti,risparmiò i bambini ebrei,al “passare oltre” di Cristo dalla morte alla resurrezione.

La Pasqua cristiana se, da un lato, integra quella ebraica,dall’altro le si contrappone divenendo,dal II secolo D.C.,la più solenne delle feste cristiane e divenendo il fulcro dell’anno liturgico nella storia della Chiesa.

Questo mio modesto contributo vuole essere un momento di riflessione sulla Settimana Santa e sulla Pasqua a Vallelunga, perché,spero, avvenga,nei miei cinque lettori,anche una comprensione del passato e del presente,della storia civile e religiosa della nostra comunità. Infatti tutti noi abbiamo bisogno di coglierci come uomini del presente ma fortemente legati al nostro passato per seppellirlo, come dice lo storico francese De Certò. Per vivere il presente è necessario seppellire il passato non nel senso di obliarlo,di oscurarlo o, peggio ancora, di cancellarlo ma di metabolizzarlo.

Questo mio contributo,per citare una espressione del predetto storico francese, è un voler “seppellire” il nostro passato,cioè un riconoscerci nel nostro presente come dipendenti e,nello stesso tempo, ormai distanti da un passato che è inevitabilmente tramontato. Un passato, che pur essendo già tramontato, ha lasciato, però, una eredità civile e religiosa fondamentale, consentendo a tutti noi di coglierci come presente, legati al passato e proiettati al futuro.

In questo contesto,come quello attuale, che non vede più una coincidenza tra la comunità civile e quella ecclesiale, si sente il bisogno di cogliere sempre meglio la propria identità, civile e religiosa,cioè le nostre radici,come antidoto ad ogni forma di relativismo culturale ed etico che distrugge ogni identità anche di natura locale.

Possiamo sostenere, grazie anche al supporto del contributo fotografico,che la Settimana Santa,a Vallelunga è un momento nel quale la nostra comunità pone in essere oltre che una identità cattolica forte anche una forte identificazione.

I riti extraliturgici della Settimana Santa, non vanno considerati come momenti staccati, o addirittura opposti, rispetto alle celebrazioni liturgiche. La testimonianza di tutto ciò è data proprio da ciò che avviene,ogni anno, durante il triduo pasquale anche a Vallelunga.

Tutti noi siamo inseriti in una “traditio” composta da valori civili,sociali,familiari e religiosi, mediati e trasmessi dall’importantissimo processo educativo, connotandoci, appunto, come “civis” e, per chi crede,come credenti.

Lo stesso identico meccanismo avviene per l’esperienza religiosa,quando si entra a far parte di una determinata religione si entra in un solco già tracciato da altri, si entra in una “traditio fidei” con la quale si sono tramandate, di generazione in generazione, le grandi verità di fede credute,celebrate e vissute da una determinata religione,soprattutto se essa ha un fondamento storico,una forte dimensione salvifica e una finalità escatologica, come appunto è l’intero messaggio del cristianesimo.

Il cristianesimo,infatti, ha tutte e tre queste caratteristiche ed ha una sua specificità,che altre religioni non hanno:la fede in Dio fattosi Uomo.

I fatti e le vicende storiche della prima Settimana Santa, documentate minuziosamente dai Vangeli e dal Nuovo Testamento, non si ripeteranno mai più, dal punto di vista della loro storicità ma continuano a ripetersi,da duemila anni circa, dal punto di vista del Mistero Salvifico.

Che cos’è il mistero salvifico?La presenza di Dio-Salvatore nella storia degli uomini, cosicchè ogni anno, durante i riti liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa, viene data al credente la possibilità di partecipare al mistero di salvezza,in chiave liturgico- sacramentale- mistagogica, e di ottenere questa salvezza nell’oggi della storia attraverso la presenza della comunità credente,la Chiesa,cioè la comunità di tutti i battezzati che credono in Gesù-Cristo sofferente,morto e risorto,che continua nella storia la celebrazione del Mistero pasquale.

Nel contemplare le foto , che hanno “immortalato” alcuni momenti di alcuni riti extraliturgici della Settimana Santa a Vallelunga, non si può prescindere da quanto detto fin ora. La Settimana Santa,cioè, è espressione della l’inculturazione della fede cattolica nelle nostre popolazioni. L’inculturazione è l’incontro tra la fede annunciata nei secoli e il recepimento della stessa da parte del popolo credente.

Essa,come scrive V.Sorce, “ha una forte valenza teologica fondata sugli eventi dell’Incarnazione e della Chiesa locale”, e si inserisce in un solco già dato,si inserisce nella cattolicità e all’interno di essa ,attraverso la “traditio fidei”,cioè,appunto, il tramandare la fede, si ricollega, attraverso il ricordo liturgico, ai fatti storici della prima Settimana Santa e della prima Pasqua.

Potremmo dire che la Settimana Santa,a Vallelunga è la stessa,per esempio, di quella di altri comuni presenti in altre regioni d’Italia?Assolutamente no. In che senso c’è diversità?Non nella sostanza dell’Evento e della celebrazione dello stesso, ma nelle modalità di recezione del messaggio del cristianesimo e nel modo con cui ogni comunità credente ha vissuto e vive, nell’oggi della storia, il mistero salvifico di Gesù-Cristo morto e risorto. Tutto ciò si chiama inculturazione della fede.

La Settimana Santa, in Sicilia, è il frutto di una duplice tradizione:

la prima legata alle sviluppo della inculturazione della fede in Sicilia: per cui è possibile parlare di una sorta di “Cristo Siciliano”.

la seconda legata alla sviluppo del cattolicesimo in questo territorio che ha fatto propri gli influssi derivanti: dal concilio di Trento e dall’influsso bizantino e spagnolo.

In che senso si può parlare,allora, di un Cristo “siciliano”?

Nella cultura e nella pietà popolare siciliana esiste una interpretazione e un vissuto della figura di Gesù-Cristo che è caratterizzata da tratti propri. L’aggettivo “siciliano” ci dice qualcosa di culturalmente significativo,cioè a dire la cultura siciliana ha “segnato” la figura del Cristo con alcuni suoi tratti specifici. Questo “Cristo siciliano” sarebbe in opposizione a quello della predicazione ufficiale della Chiesa, dei dogmi e della liturgia?Addirittura lo si potrebbe considerare un Cristo fuori dalla Chiesa cattolica o,addirittura, contro di essa?Un “Evangelium extra ecclesiam?”

Secondo le tesi di alcuni studiosi il “Cristo siciliano” potrebbe benissimo essere considerato il Cristo delle classi deboli e oppresse o, come dice Gramsci, delle classi popolari che sono “strumentali e subalterne”. Molti studiosi,di indirizzo marxista, infatti, sostengono che la religiosità popolare ,che trova il proprio culmine nei riti della Settimana Santa, sarebbe l’espressione di un cristianesimo vissuto fuori dalla Chiesa e di un “Cristo-popolare” oggetto di un conflitto esistente, di fatto, tra la gerarchia cattolica e il popolo credente.

Stanno davvero così le cose? La risposta negativa si evince, meravigliosamente, da ciò che avviene ogni anno a Vallelunga che ci aiuta a cogliere il fatto che la pietà popolare,quella legata,anche, ai riti della Settimana Santa e della Pasqua, in Sicilia, ha un’anima teologica;cioè l’humsus,il terreno in cui essa affonda le radici è costituito dalle grandi verità proprie del cattolicesimo credute,comprese (attraverso un cammino di “intellectus fidei”),celebrate e vissute.

Non c’è,dunque, nessun conflitto tra la Chiesa “gerarchica” e il popolo credente, per il semplice motivo che anche la gerarchia cattolica partecipa ai riti extraliturgici della Settimana Santa.

Dove sta allora l’equivoco?proprio nel significato che si dà al termine “pietà popolare” intesa non come esperienza di fede del popolo credente ma come momento di opposizione delle classi subalterne alle classi colte e,soprattutto,alla religione “ufficiale”. Dunque una lettura sociologica e non teologica del fenomeno.

Quali sono,allora, le caratteristiche del “Cristo siciliano”in relazione agli eventi della Settimana Santa e della Pasqua?

Il siciliano è uno che vuole vedere e toccare,è fondamentale per il siciliano la RES,la cosa,(pensiamo alla tematica verghiana della roba) e tutto ciò perché il siciliano ha alle sue spalle una esperienza storica tragica, poichè ha visto decine e decine di colonizzatori venire nell’isola e, spesso, maltrattare il popolo. Tutto ciò lo ha spinto a proiettare questa sofferenza, accumulata nei secoli, nell’attaccamento alla res,spesso anche con modalità eccessive e devianti, come si configura il fenomeno mafioso. Come se la “materialità” delle cose lo salvasse dall’insicurezza e dalla sofferenza accumulate nei secoli.

Questa mentalità della Res,nel senso migliore del termine , cioè cosa vissuta,esperienza fatta, viene applicata anche nel vissuto religioso del siciliano. In questa cementificazione di quotidianità sofferta,la Sicilia celebra la cultura della sofferenza e in tutti i paesi dell’isola la Settimana Santa costituisce l’approdo di un modello irrepetibile verace,insostituibile salvataggio. Il Siciliano trova, negli eventi,liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa, la teologia della kènosis,ossia il fatto che Dio non ha disdegnato di farsi Uomo e di assumere su di se’ tutta la sofferenza,fisica e morale,del genere umano.

Infatti in Sicilia è forte la concentrazione sul “Corpo di Cristo”. L’attenzione,la contemplazione del corpo di Cristo va dal Gesù-Bambino a tutta la vicenda della passione-morte-resurrezione, con particolare attenzione al corpo di Cristo deposto dalla croce e sepolto.

Il corpo di Gesù-Cristo non è mai solo, ma viene associato a quello della madre,dalla culla alla tomba. E’ l’insieme dei due corpi che costituisce il cuore della Pietas proprio del Venerdì Santo,al punto tale che in alcune circostanze i due simulacri si fondono quasi a divenire una sola cosa,cosicché il siciliano non concepisce il corpo di Gesù-Cristo se non associato a quello della madre. I due corpi vengono associati nel dolore del Venerdì Santo e nella gioia della Domenica di Pasqua, allorquando la Madre ritrova il figlio risorto:l’Incontro che si celebra in molti comuni dell’isola proprio la mattina di Pasqua.

Da che cosa scaturisce questa concentrazione sulla tematica del Corpo di Cristo?

Le origini sono lontane,bisogna risalire al 1700,secolo in cui si realizzarono in Sicilia,come sostiene lo storico Cataldo Naro,le istanze innovatrici del concilio di Trento,prima fra tutte la predicazione al popolo ad opera soprattutto degli ordini religiosi. Nacque, proprio dalla predicazione itinerante dei Cappuccini,dei Gesuiti e dei Redentoristi, l’attenzione al Corpo di Cristo.

Fu il francescanesimo ad introdurre la pietas verso Gesù Bambino(la creazione del primo presepe vivente,a Greccio,la notte di Natale del 1223, ad opera di Francesco D’Assisi),ripresa nel 1700 da sant’Alfonso de Liguori. I religiosi,grazie ai quaresimali,le 40 ore,i panegirici,gli esercizi spirituali,le missioni popolari,la creazione di tante confraternite, diffusero la pietas,cioè il rapporto tra il credente e “U Signori”,inteso, come Dio padre a volte (U Signori fici u munnu”), ma quasi sempre riferito a Cristo: “U signori murì pi nuatri poveri piccatura”.

Tutto ciò avvenne proprio nel 1700. Proprio il “secolo dei lumi” ci insegna una notevole vivacità, alimentata dalle pratiche di pietà sul mistero di Cristo semplice, povero e crocifisso e dalla necessità di garantirsi la salvezza che, sebbene eterna, deve essere sperimentata già nel quotidiano.

La pietà settecentesca è prevalentemente cristologia. Vanno ricordati, a tal proposito, i componimenti di Sant’Alfonso sul Natale e i crocifissi scolpiti da fra Umile da Petraia. Essa, in sostanza, è riportata agli eventi decisivi della storia della salvezza: l’incarnazione, la passione e la morte in croce, la devozione verso l’umanità di Gesù, vengono radicati nel popolo grazie a preghiere, canti, quadri devozionali.

Essenzialmente,dunque, gli influssi maggiori che hanno caratterizzato la Settimana Santa in Sicilia sono di duplice derivazione:

  • l’influsso bizantino,

con la nascita delle devozioni popolari e all’interno di esso il movimento francescano con la devozione verso Gesù bambino e, per il nostro tema, verso il Cristo sofferente e il tenero amore verso Maria Addolorata. Il periodo che va dal XIII al XV secolo vide la comparsa delle prime statue dei crocifissi che esprimono la sofferenza e la morte di Cristo.

Il devozionismo a partire proprio da questo periodo si è insinuato profondamente nella coscienza e nelle espressioni di fede dei credenti ponendo le premesse per il nascere e lo svilupparsi anche delle tradizioni popolari siciliane della Settimana Santa.

  • L’influsso spagnolo,

il periodo che va dalla fine del XVI secolo fino al XVIII secolo. Il dominio degli spagnoli ha contribuito alla strutturazione definitiva dei riti della Settimana Santa in Sicilia.

Per il nostro discorso lo spagnolismo diede vita all’ anticipazione del cosidetto “Sepolcro”(tecnicamente Altare della reposizione) del Signore alla sera del giovedì santo. Risale, al XVI secolo, l’usanza di deporre nel sepolcro l’immagine del Cristo morto,esponendo sopra il sepolcro il SS. Sacramento nell’ostensorio coperto da un velo.

Nacque,così come documentato dal Plumari, l’identificazione dell’altare della reposizione con il Sepolcro. Infatti,sino ad oggi,nella coscienza popolare vi è una dissolvenza di significati tra l’adorazione della “presenza reale-ostia”conservata nel tabernacolo-custodia e del corpo-ostia del Signore conservato nel tabernacolo-sepolcro.

I riti liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa trovano il loro culmine nel triduo pasquale in cui avviene un meraviglioso connubio tra liturgia e pietà popolare.

La pietà polare,come scrive Vincenzo Sorce,accentua di più l’immagine, la liturgia, il segno.

Continua il Sorce, è lo stesso popolo,il popolo di Dio,che vive lo stesso mistero e lo esprime con linguaggi diversi.

Nella pietà popolare,l’uomo di Sicilia,in modo particolare nella Settimana Santa,vive ed esprime la partecipazione alla passione ,morte e resurrezione di Cristo,con la totalità della sua struttura antropologica,che è simbolista,fortemente sensoriale:vivendo la dimensione della festività e della tragicità.

Attraverso le foto si coglie “un popolo che esce dalla solitudine,vive la comunione. Dando spazio ai suoi sentimenti,alle sue emozioni,con la totalità del linguaggio corporeo,la gestualità,il canto,gli aromi,i colori,il pianto,il grido”.

L’uomo di Sicilia si rimette in marcia. Si libera dal pianto,grida il suo dolore,la sua angoscia,la sua paura davanti alla morte. Si identifica con l’uomo dei dolori ,appeso alla croce.Da spazio ai suoi sentimenti,piange. Prende contatto con i suoi vissuti,li esprime,li condivide,li grida,li urla. Psicoterapia e salvezza radicale s’incrociano nel Crocifisso,l’uomo dei dolori,l’uomo ferito e la risposta di Dio”.

Il Giovedì Santo,a Vallelunga, vede la creazione,ad opera dei confrati delle tre Confraternite esistenti in paese,(quella del SS.Sacramento,della Madonna del Rosario e di Maria SS. Addolorata) ,nei rispettivi oratori,delle cosiddette CENE. Una creazione che si ripete da decenni e che ha ereditato la tradizione dei “pupi di zucchero” tipica del palermitano.

Vengono create,da ogni confraternita, delle mense su cui vengono deposti 13 agnelli di zucchero di media grandezza,raffiguranti Cristo e i dodici apostoli che celebrano l’ultima cena, accompagnate da 13 pani da cena(dolce tipico pasquale Vallelunghese) insieme a 13 lattughe , cedri, arance e finocchi.

Al centro della tavola,troneggia una statua,sempre di zucchero opera di artigiani palermitani cui le confraternite si rivolgono ogni anno, raffigurante il Cristo Risorto,insieme al pane e al vino,simboli dell’Eucarestia. Ogni anno,per ogni confraternita, vengono sorteggiati 12 confrati tra quelli che hanno pagato l’annualità,ossia la quota associativa.

Quattro dei dodici sorteggiati,per ogni confraternita,vanno a svolgere il ruolo che fù dei 12 apostoli nella messa vespertina “In Cena Domini”,nella quale si ricorda l’istituzione dell’Eucarestia e la carità fraterna. Saranno i protagonisti della lavanda dei piedi. Alla fine della Messa, i dodoci confrati sorteggiati da ogni confraternita,unitamente agli altri confrati e alle loro famiglie ,si riuniscono presso la loro chiesa di riferimento e dopo aver contemplato la bellezza della Cena,ricevono in dono l’ Agnello di zucchero,un pane da cena,un cedro,una lattuga,un finocchio e un arancio che portano a casa. Ai confrati non sorteggiati viene dato un piccolo agnello di zucchero. La sera del giovedì santo si conclude con la visita all’unico “Sepolcro”creato nella cappella del SS.Sacramento della Chiesa madre .L’adorazione eucaristica si protrae sino alla mezzanotte.Chiusa la chiesa avviene,notte tempo,la spogliazione del sepolcro e la preparazione del simulacro del Cristo morto.

 

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Il Venerdì Santo, nella pietà popolare siciliana, emerge il culto della passione e morte di Gesù nella quale la nostra gente si immedesima in partecipazione comunitaria. Ha scritto a tal proposito il Prof. Basilio Randazzo che «la vera pietà di una volta all’anno, raccolta in tutto un anno, si comunica nel dolore della settimana santa, e in particolar modo il venerdì santo si celebra il «Tutto di Tutti», cioè il mistero della Passione, come «prototipo teologicamente unitario con uno stile culturalmente conforme ma con un atteggiamento che varia da comunità a comunità».

Nella pietà popolare del Venerdì Santo, scrive Angelo Plumari, l’uomo di Sicilia vive ed esprime la partecipazione alla passione, morte e resurrezione di Cristo con la totalità della sua struttura antropologica, cosicché un popolo esce dalla solitudine, vive la comunione dando spazio ai suoi sentimenti alle sue emozioni con la totalità del linguaggio corporeo, con la gestualità, con il canto, i colori, il pianto, il grido.

Il venerdì santo è emblematico e paradigmatico come i siciliani si ritrovino e si identifichino nel dolore del Cristo morto, stando muti davanti alla bara, e in quello dell’Addolorata, dinnanzi ai quali sentono che il dolore umano, il loro dolore è stato assunto da Dio.

Durante le processioni del Venerdì santo,il popolo che partecipa “esplode con il linguaggio dei segni:piedi scalzi,canti lancinanti,incensi che bruciano,fiaccole accese,

silenzio pieno di mistero,intensa commozione,profonda meditazione. Si ricompongono celebrazione,gestualità,simbolismo,sensorialità. E’il trionfo dell’opera mistagogica”.

Inoltre la mistagogia dei simboli del Venerdì Santo è estremamente interessante oltre che variegata:la presenza delle confraternite incappucciate o a volto coperto,indacano,secondo B.Randazzo,la perdita di personalità o la comunione nel dolore; Il passo professionale a due passi avanti e uno indietro,ansia di sofferenza,i cilii o candele accese,l’umanità;

la fiamma,la purificazione e la luce della Resurrezione; le marce funebri,l’accentuazione sensibilizzata di stati d’animo in pianto del peccato di Deicidio.

Tutto ciò comunica il fatto che “l’uomo siciliano è celebrante simbolista”. Il Venerdì santo inizia con la visita ai sepolcri, poco conosciuti come altari della reposizione, poiché si continua ad identificare, così come sostiene il Plumari, l’altare della reposizione con il sepolcro del Signore creando, nella coscienza popolare, una identificazione di significati tra l’adorazione della presenza reale-ostia e il corpo-ostia, per cui il tabernacolo è, allo stesso tempo, sepolcro.

I riti extraliturgici del venerdì santo si svolgono secondo quattro tipologie presenti nell’Isola:

  1. le processioni funebri del Cristo morto accompagnato dalla Madre addolorata;
  2. la processione dei misteri;
  3. le processioni in cui si compie la mimesi cronologica degli eventi della passione;
  4. la processione del solo Crocifisso

Anche a Vallulunga i riti si svolgono secondo la prima e la terza tipologia: a mezzogiorno si porta il Cristo al calvario,che si trova all’uscita del paese in direzione per Palermo, lo si crocifigge, la sera lo si va a riprendere,lo si mette dentro l’urna e lo si porta,in processione, presso l’oratorio del SS.Sacramento,sito in piazza, seguito dalla Madre addolorata.

In molti comuni dell’isola,tra cui Vallelunga, nella mattina del Venerdì Santo, si ripete uno dei riti più antichi e più suggestivi della Settimana Santa in Sicilia. L’effige del Cristo morto viene deposto su un tavolo coperto di drappi rossi, e i fedeli si recano,presso la Chiesa madre,quella intitolata alle Anime Sante del purgatorio e quella del SS.crocifisso, toccando e baciando la statua del Cristo morto.,con una preghiera corale:

Pietà e misericordia Signuri.

Un via vai di persone,in assoluto silenzio e con grande fede e devozione,si nota per le strade di Vallelunga sin dalle prime ore dell’alba. Questo gesto di pietà dura tutta la mattinata e si conclude a mezzogiorno del Venerdì Santo. Nel pomeriggio si svolge la celebrazione liturgica della commemorazione della morte del Signore.

La preparazione dell’urna dove la sera verrà deposto il simulacro del Cristo morto avviene ad opera dei confrati del SS.Sacramento,mentre la vara dell’Addolorata ad opera dell’omonima confraternita che ha sede presso la chiesa del SS.Crocifisso. Alla processione serale,vi partecipa un grandissimo numero di fedeli,con in testa il clero locale e i confrati vestiti con i loro abitini tradizionali. La banda musicale suona marce funebri. Arrivati in piazza,un predicatore rivolge un sermone penitenziale al popolo.

Il Sabato santo,tutta la comunità credente si prepara alla celebrazione della solenne Veglia Pasquale.

Da quest’anno ho iniziato ad introdurre la tradizione delle Cene,nella città dove vivo,Partinico.Nella Parrocchia di Maria SS.del Carmine.Un successo!

Prof.Michele Vilardo

Vallelunghese

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