I vescovi calabresi: “La ‘ndrangheta non è cristiana”.

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“Testimoniare la verità del Vangelo” è la nuova nota pastorale diffusa dalla Conferenza episcopale della Calabria

(ANSA) – REGGIO CALABRIA, 2 GEN – La ‘ndrangheta “è contro la vita dell’uomo e la sua terra. E’, in tutta evidenza, opera del male e del Maligno”. Così si esprime la Conferenza episcopale della Calabria in una pastorale sulla ‘ndrangheta “Testimoniare la verità del Vangelo”. “La ‘ndrangheta non ha nulla – scrivono i vescovi – di cristiano. Attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule che scimmiottano il sacro, si pone come una forma di religiosità capovolta, sacralità atea e negazione dell’unico vero Dio. “La ‘ndrangheta – scrivono ancora i vescovi nella pastorale presentata stamani a Reggio Calabria dal presidente e dal vice presidente della Cec, mons. Salvatore Nunnari e mons. Francesco Milito – è un’organizzazione criminale fra le più pericolose e violente. Essa si poggia su legami familiari, che rendono più solidi sia l’omertà, sia i veli di copertura. Utilizzando vincoli di sangue, o costruiti attraverso una religiosità deviata, nonché lo stesso linguaggio di atti sacramentali (si pensi alla figura dei ‘padrini’), i boss cercano di garantirsi obbedienza, coperture e fedeltà. Lì dove attecchisce e prospera svolge un profondo condizionamento della vita sociale, politica e imprenditoriale nella nostra terra”.
“Con la forza del denaro e delle armi – sostengono ancora i vescovi calabresi – esercita il suo potere e, come una piovra, stende i suoi tentacoli dove può, con affari illeciti, riciclando denaro, schiavizzando le persone e ritagliandosi spazi di potere. E’ l’antistato, con le sue forme di dipendenza, che essa crea nei paesi e nelle città. È l’anti-religione, insomma, con i suoi simbolismi e i suoi atteggiamenti utilizzati al fine di guadagnare consenso. È una struttura pubblica di peccato, perché stritola i suoi figli”. “L’appartenenza ad ogni forma di criminalità organizzata – è scritto nella pastorale – non è titolo di vanto o di forza, ma titolo di disonore e di debolezza, oltre che di offesa esplicita alla religione cristiana. L’incompatibilità non è solo con la vita religiosa, ma con l’essere umano in generale. La ‘ndrangheta è una struttura di peccato che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale”.
“La Calabria – sostengono ancora i Vescovi – è una terra meravigliosa, ricca di uomini e donne dal cuore aperto ed accogliente, capaci di grandi sacrifici. D’altra parte, però, la disoccupazione, la corruzione diffusa, una politica che tante volte sembra completamente distante dai veri bisogni della gente, sono tra i mali più frequenti di questa nostra terra, segnata, anche per questo, dalla triste presenza della criminalità organizzata, che le fa pagare un prezzo durissimo in termini di sviluppo economico, di crisi della speranza e di prospettive per il futuro”. (ANSA)
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“L’Eucarestia mafiosa”.

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Cos’hanno in comune le organizzazioni criminali e la Chiesa di Roma? Com’è possibile che proprio nelle quattro regioni più devote di Italia – Sicilia, Calabria, Puglia e Campania – siano nati questi fenomeni criminali così feroci?
L’eucaristia mafiosa – La voce dei preti, opera prima di Salvo Ognibene, affronta il controverso rapporto tra mafia e Chiesa cattolica, una storia che va dal dopoguerra ai giorni nostri. Una storia di silenzi e di mancate condanne che dura da decenni e che è stata interrotta da rari moniti di alti prelati, dall’impegno di pochi ecclesiastici e da alcune morti tristemente illustri come padre Pino Puglisi e don Peppe Diana.
La riflessione prende il via dal tema della ritualità come manifestazione di potere: la processione come compiacenza; l’affiliazione come nuova religione; uomini che indossano la divisa di Dio per esercitare il loro potere in terra. Uomini di morte e di pistola con i santi sulla spalla. La fede di Provenzano nel libro di Dio, la Bibbia, ma anche l’ateismo di Matteo Messina Denaro. Le due facce della mafia nello scontro con i mezzi di Dio. Pur percorrendo la linea già segnata da due grandi studiosi come Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, L’eucaristia mafiosa – La voce dei preti si presenta con un taglio diverso: non si basa su strutture, non dialoga con i sistemi, ma indaga la realtà di prima mano, interroga i protagonisti di questo dualismo e cattura le ‘voci’, gli esempi concreti del presente per rivalutare la missione e la posizione della Chiesa di oggi. Le voci dei religiosi-testimoni all’interno del libro ripercorrono tutta l’Italia: Monsignor Pennisi; Don Giacomo Ribaudo; Monsignor Silvagni; Don Giacomo Panizza; Don Pino Strangio, Suor Carolina Iavazzo. Preti e suore che hanno preso posizione e hanno fatto del Cattolicesimo, ognuno a modo proprio, uno strumento di lotta alle mafie.
In una nazione in cui l’azione cattolica è ancora fortemente coinvolta nel tessuto politico e sociale, questo lavoro si pone come strumento essenziale di ‘pratica civile’ e di informazione sull’uso della liturgia della fede come strumento di propaganda mafiosa.
Maggiori informazioni nel sito http://www.eucaristiamafiosa.it/

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Indice

Prefazione

1. Storia dei rapporti tra Chiesa, mafia e religione
2. Il Dio dei mafiosi
3. La Chiesa tra peccato, ritardi e giustizia
4. Il Vangelo contro la lupara
5. La voce dei preti
6. Biografie

Salvo Ognibene,
L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti

Navarra Editore, Marsala (TP)
Categoria: Saggistica
Anno: 2014
Pagine: 144
Prezzo: 12,00 €
ISBN: 978-88-98865-11-6
Formato: 14×21

L’Arcivescovo di Aleppo(Siria) a Monreale.

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Arcidiocesi di Monreale

Ufficio Comunicazioni Sociali

L’ARCIVESCOVO DI ALEPPO (SIRIA) A MONREALE

RACCONTA LA SUA CHIESA PERSEGUITATA

Divina Liturgia nel Duomo con Russia Cristiana e

Incontro Interreligioso con il Rabbino Capo di Sicilia e l’Imam della grande moschea di Roma

Monreale 14.01.2015 – Al termine della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e nel mese della pace, due importanti momenti di riflessione e preghiera consentiranno di approfondire il tema della pace attraverso la testimonianza preziosa dell’Arcivescovo di Aleppo.

La Siria, infatti, è oggi una terra insanguinata, in cui i cristiani e altre minoranze religiose sono perseguitati a causa della loro fede dal fondamentalismo del sedicente Stato Islamico dell’Iraq e della Grande Siria (ISIS).

Una tavola rotonda con l’arcivescovo di Aleppo, il rabbino capo di Sicilia e l’imam della grande moschea di Roma rifletterà sul tema: “Libertà religiosa, via per la pace”, che verrà preceduta dal gesto simbolico della piantumazione di un albero di ulivo, simbolo della pace.

Il 24 Gennaio alle 10.30 presso il palazzo Arcivescovile di Monreale, S.E. Mons. Jean-Clément Jeanbart, Arcivescovo greco-melkita di Aleppo, su invito di Mons. Michele Pennisi, Arcivescovo di Monreale, darà una testimonianza della tragica situazione della sua Chiesa. Nel pomeriggio, alle 17.00, Mons. Jeanbart terrà una Lectio Magistralis: I Cristiani in Medio Oriente, per il conferimento del titolo di Accademico Ordinario dell’Accademia Teutonica Enrico VI di Hohenstaufen.
La giornata si chiuderà alle ore 20.00 in Cattedrale con un Concerto per Organo offerto dal Maestro Diego Cannizzaro per la Siria.

Domenica 25 Gennaio, l’Arcivescovo di Aleppo, alle 11.30, presiederà la Divina Liturgia in rito Bizantino-Slavo, nel Duomo di Monreale, con la partecipazione del coro dell’Associazione Russia Cristiana di Roma, del presidente Mons. Francesco Braschi e di Padre Rostislav Kolupaev, sacerdote Russo Cattolico di rito Bizantino.

Il pomeriggio del 25 Gennaio, alle 16.00, presso il giardino del Seminario verrà piantumato un albero d’ulivo, simbolo di pace, subito dopo al Palazzo Arcivescovile, si terrà una Tavola Rotonda Interreligiosa a cui siederanno oltre L’ARCIVESCOVO greco-melkita Mons. Jeanbart, anche il RABBINO capo del Centro Sefardico Siciliano, Prof. Stefano Di Mauro, Itzaak Ben Avraham e l’IMAM della grande moschea di Roma, Sami Salem.

L’incontro, promosso anche dall’Azione Cattolica Diocesana, servirà a riflettere sul tema: “Libertà religiosa, via per la Pace” che pur essendo stato organizzato già da tempo, pare rispondere alle domande e alle paure di questi giorni all’indomani delle stragi di Parigi e di Baga in Nigeria.

Il Direttore

Don Antonio Chimenti

Cento Passi Ancora…..

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Il volume “Cento Passi Ancora,Peppino Impastato,I Compagni,Felicia,L’Inchiesta” è l’ultima fatica letteraria di Salvo Vitale. Ripercorre,con la forza dei ricordi e dei fatti storicamente accaduti,la vicenda umana e politica di Peppino Impastato,di Cinisi,che è stato barbaramente ucciso dalla mafia nella notte del 9 Maggio 1978.Peppino,militante di Dp,aveva osato puntare il dito contro il boss indiscusso di Cinisi,don Tano Badalamenti,ridicolizzando lui e i suoi “striscia quacina”(seguaci)in pubblico e con l’aiuto di radio AUT.La morte cruenta ed inaspettata di Peppino non scoraggio i suoi compagni che iniziarono a cercare la verità insieme al fratello e soprattutto alla madre di lui:Felicia Bartolotta. Dunque pagine di un diario scritte da chi ha vissuto direttamente questa storia, iniziata subito dopo la morte di Peppino Impastato. Il depistaggio delle indagini, la controinchiesta dei compagni, le vicende processuali, la vita di Radio Aut, la lunga notte di Felicia e la sua ostinata richiesta di giustizia. 22 anni di lotta contro la mafia e uno slogan, scritto in uno striscione portato ai funerali, che ha accompagnato, da allora ad oggi, ogni scelta dei suoi compagni: ”con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo”.
Il volume sarà presentato Sabato 17 Gennaio 2015,presso l’auditorium “Maria Grazia Alotta”del Liceo Scientifico “Santi Savarino” di Partinico.Interverranno:la Prof.ssa Chiara Gibilaro,DS del Liceo;le Prof.sse Caterina Brigati e Silvana Appresti; il sostituto procuratore la Dott.ssa Franca Imbergamo;l’autore Prof.Salvo Vitale;Coordinerà i lavori Lorenzo Baldo vice-direttore di Antimafia Duemila.

Presentazione del volume:”De Gasperi uno studio,la politica,la fede,gli affetti familiari.

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Libri, “De Gasperi, uno studio”. Intervista all’autore Giuseppe Sangiorgi: questa Europa è profondamente lontana da quella da lui concepita
La vita e gli ideali di De Gasperi come spunto per analizzare l’Europa di oggi e fare il punto sulla strada ancora da percorrere è filo conduttore che Giuseppe Sangiorgi, 66 anni, giornalista, saggista e segretario generale dell’Istituto Luigi Sturzo, ha proposto nel suo libro, dal titolo ‘De Gasperi. Uno studio’, pubblicato recentemente.
Erano le 2 del mattino del 19 agosto del 1954, 60 anni fa: a Sella di Valsugana, nel Trentino, moriva Alcide De Gasperi. Dagli storici è considerato uno dei più grandi statisti italiani, l’uomo a cui si legano gli anni della ricostruzione dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Sulla sua figura, il segretario generale dell’Istituto Sturzo, Giuseppe Sangiorgi, ha scritto il libro “De Gasperi, uno studio”, edito da Rubbettino. Alessandro Guarasci lo ha intervistato:
R. – Il messaggio di De Gasperi è duplice. Uno è rivolto, diciamo, alla comunità politica nella sua interezza e questo significa quindi avere una visione della politica prevalentemente di carattere internazionale e capire che la politica interna è un di cui della politica internazionale e non viceversa. E poi c’è il messaggio di De Gasperi rivolto al mondo politico cattolico: i cattolici possono fare semplicemente una politica da cattolici, quindi con un di più di moralità, di onestà, di attenzione alle classi più disagiate, oppure possono fare una politica di ispirazione cristiana, che è un’altra cosa, più complicata, molto più impegnativa e anche molto più affascinante. De Gasperi faceva e ha fatto una politica di ispirazione cristiana, con quella quasi impossibile mediazione tra cielo e terra, tra giustizia divina e giustizia umana.
D. – Secondo lei, De Gasperi che cosa direbbe oggi di questa Europa, molto lacerata e molto fondata sui parametri finanziari?
R. – Che questa è un’Europa estremamente lontana – perché è ancora un’Europa degli Stati – da quella che aveva concepito lui, che era quella degli Stati Uniti d’Europa. Però, avrebbe fatto anche una annotazione positiva: con la Prima Guerra Mondiale e la Seconda Guerra Mondiale l’Europa è stata un immenso campo di battaglia. Oggi, da oltre mezzo secolo, l’Europa è un’enorme area, la più grande area strutturata del mondo, pacifica, che attrae e che espande un’idea pacifica della politica. Stare dentro l’Europa è anche stare dentro un enorme sogno e guai a svegliarsi e a perdere quel sogno lì…
D. – Secondo lei, ci sono delle aree inesplorate nei rapporti di De Gasperi con la Chiesa? Insomma, un rapporto non sempre idilliaco…
R. – E’ stato sempre difficilissimo il rapporto di De Gasperi con la Chiesa, perché De Gasperi compie una trasformazione che la Chiesa non aveva mai accettato fino in fondo fino a quel momento. La Chiesa aveva finalmente condiviso l’idea di una democrazia sociale, ma De Gasperi trasforma l’idea di una democrazia sociale in democrazia politica: è un salto di qualità che la Chiesa ha sempre fatto con una certa difficoltà. Leone XIII aveva parlato sì di democrazia cristiana, ma con un valore sociale e Murri era stato scomunicato perché aveva fatto una prima democrazia cristiana come partito politico. Quell’antico problema è rimasto soprattutto nei rapporti tra De Gasperi e Pio XII. Alessandro Guarasci, Radio Vaticana, Radiogiornale del 19 agosto 2014.
Quale era l’idea di Europa di De Gasperi e come si coniuga con la situazione attuale?
“Il libro è la ricostruzione della vita di De Gasperi ma anche un pretesto per parlare di oggi. De Gasperi è uno dei padri dell’Unione Europea ma immaginava di raggiungere gli Stati Uniti d’Europa. Un traguardo federativo che è ancora lontano, la strada è ancora molto lunga. Emblematico, ai tempi di De Gasperi, il caso della Ced, la Comunità europea della difesa. In Corea la parte comunista aggredisce la parte libera e in Ue molti hanno paura che la Russia possa fare altrettanto. Quindi molti, a partire dai francesi, pensano ad un sistema di difesa comune. Al suo interno il progetto prevedeva un ente sovranazionale. Nel ’54, quando De Gasperi muore, il progetto del Ced naufraga e quello che sembrava essere un grande successo anche di De Gasperi si blocca. Quindi bisogna ripartire da lì, dal superamento dell’Europa degli Stati in favore degli Stati Uniti d’Europa. Questo implica almeno un sistema economico, fiscale e di diritti di cittadinanza civili più omogeneo”.
Cosa è cambiato per l’Italia con il voto alle ultime elezioni europee e cosa potrà fare l’Italia durante il semestre di presidenza?
“Bisogna fare in modo che ci si senta cittadini europei. Questa è la scommessa, questa è la via: chi la segue farà del bene all’Ue. Anche perché l’Europa ha già vinto un sfida, è l’area stabilizzata e pacifica più grande del mondo”.
Come vede l’ascesa degli euroscettici?
“Ogni crisi ha in sè una chance. Anche l’euroscetticismo può essere una chance, una spinta per portare avanti questo progetto. Ovviamente ci deve essere una convenienza per gli Stati, ad esempio in termini di affermazione e opportunità. Lo sforzo delle istituzioni, quindi, è proprio coniugare idealità e convenienza”.
Cosa si aspetta dal premier Matteo Renzi in ambito europeo?
“Mi auguro che porti pochi punti ma che abbiano risvolti concreti. Anche perché se si è attenti alle scadenze il tempo a disposizione è davvero poco. Considerando il mese di agosto, che è tutto fermo, si arriverà ad ottobre. Da qui si capisce come i tempi siano particolarmente stretti. L’ideale sarebbero solo due o tre decisioni. Una di carattere fiscale come un tetto minimo e massimo alla tassazione dei singoli Paesi per evitare disparità così enormi. Il secondo riguarda i diritti di cittadinanza e in particolare l’immigrazione. A fronte di 800 milioni di cittadini in Ue nel 2050 si stima che in Africa ci saranno 3 miliardi di persone. Quindi 3 individui di colore ogni bianco. Sarà la demografia a prendere il sopravvento. Ci vogliono politiche continentali per governare questo cambiamento, interventi sul posto per risolvere i problemi che o si affrontano o ci travolgeranno. Non possiamo fare finta di nulla e chiudere gli occhi”.
“Con la sua vita attraversa tre secoli di storia italiana. Nella prima parte è figlio della pace di Vienna, dell’Ottocento. Infatti è cittadino austriaco ma vuole essere italiano. La seconda parte è pienamente calata nel ‘900 con il ruolo che ha ricoperto per la politica italiana. La terza, invece, attraversa il secolo che stiamo vivendo per la sua idea di Europa. Ha molte cose da dirci in termini di sviluppo e amore per la libertà”.
Sangiorgi, attuale segretario generale dell’Istituto Luigi Sturzo, è stato direttore responsabile del Popolo, presidente dell’Istituto Luce e commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Giornalista, è autore di varie pubblicazioni tra le quali ‘Il romanzo del Popolo’, ‘Piazza del Gesù un diario politico’, ‘Rivoluzione Quirinale’.

Il Natale dei poeti evento eterno presente.

Presepe
Presepe 1
I versi di Luzi e Turoldo escono dai luoghi comuni sul Presepio per entrare nell’incontro con la Storia.
Testo di Massimo Naro.
estratto Luoghi dell’Infinito

“La mafia è contro il Vangelo: non basta la scomunica”.

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L’arcivescovo Vincenzo Bertolone, postulatore del martire anti-clan don Puglisi, riapre la discussione sulla sanzione canonica per i mafiosi

giacomo galleazzi
città del vaticano

“La mafia è contro il Vangelo”. Dopo il monito di papa Francesco ai clan (“offendono gravemente Dio”) nel messaggio del 1° gennaio alla Giornata mondiale della pace, a riaprire con questa intervista a “Vatican Insider” il dibattito sulla scomunica dei mafiosi è l’arcivescovo di Catanzaro, Vincenzo Bertolone (postulatore della causa di beatificazione del martire anti-mafia don Pino Puglisi). Secondo il presule della congregazione Missionari Servi dei Poveri “Boccone del Povero”(S.d.P) ed ex viceministro vaticano degli Istituti di Vita consacrata e delle Società di vita apostolica, prima della pena canonica serve un radicale cambiamento “educativo e pastorale”.

Può essere utile un decreto di scomunica dei mafiosi?
«E’ una questione che va affrontata. Negli ultimi decenni, e in particolare dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha usato sempre meno il provvedimento della scomunica. Non che esso sia scomparso o che la Chiesa abbia scelto la strada del buonismo, ma il popolo dei credenti e i suoi pastori hanno scelto di abbracciare il mondo in un modo diverso, con tutte le sue ombre e le sue luci. Da una Chiesa che si limitava a denunciare il male e associare la pena canonica di riferimento si è passati ad una Chiesa che “esce da se stessa”, che si impegna a creare una nuova coscienza, che sceglie la strada dell’incontro umano e dell’evangelizzazione come risposta al male. Papa Francesco, ultimamente, ci sta esortando ad essere una Chiesa aperta che si sporca e si ferisce le mani per accompagnare l’uomo offrendogli la luce del Vangelo. Ora, nel caso della mafia – e il ministero di padre Puglisi lo dimostra – sono tante le cose che la Chiesa può e deve fare, prima e al di là di una pena canonica. Inoltre poi, mi chiedo: oggi c’è una sensibilità ed una formazione religiosa tale che faccia comprendere la gravità di un tale provvedimento? Detto ciò, restiamo fermi nella condanna assoluta della mafia e di ogni organizzazione in contrasto palese col Vangelo. Resta prioritario invece che la Chiesa prosegua nella sua opera pastorale educativa e preventiva, in un comune sforzo di nuova evangelizzazione che comporta attività pastorale, annuncio biblico, dottrinale ed esercizio di opere di misericordia».

Per i funerali dei mafiosi, si può applicare il modello seguito a Roma per il nazista Priebke, cioè una benedizione privata della salma senza pubbliche esequie?
«Va anzitutto detto che dinanzi al mistero della morte bisogna imparare a far tacere i giudizi umani e restare in rispettoso silenzio. Anche la morte di un criminale o di un mafioso non deve diventare occasione di giudizio. La Chiesa ha sempre creduto e crede che il giudizio ultimo e fondamentale spetti a Dio. Dunque, il funerale non è una benedizione delle opere e della vita del defunto, e con la preghiera la Chiesa lo affida, al di là di tutto, al giudizio misericordioso di Dio Padre. Inoltre, il funerale è un atto comunitario che accompagna i parenti e gli amici del defunto in un momento di dolore. Da questo punto di vista, non dovrebbe essere negato. Si dà però il caso di chi, notoriamente e ostinatamente, ha preso parte pubblicamente e in prima persona, ovvero come mandante, come collaboratore o esecutore consapevole, a crimini efferati, quali furono i massacri dei nazisti e quali sono oggi stragi, assassini, violenze, soprusi ed esecuzioni delle organizzazioni criminali e/o mafiose. Anche in questo caso, la Chiesa non si sostituisce al giudizio di Dio; tuttavia, il funerale di queste persone può essere strumentalizzato trasformandolo da momento di preghiera in occasione di gloria e di manifestazione di potere della mafia stessa, e di qui una indebita legittimazione di cui, anche senza volerlo, ci si può rendere complici e diventare motivo di scandalo per i fedeli . Ora, nel territorio, la Chiesa è tenuta ad essere sempre un segno profetico che chiama le cose per nome e sta dalla parte delle vittime. In considerazione di questo e di altre circostanze pastorali, in occasione di richieste di esequie si valuterà tutto con la dovuta intelligenza e sapienza evangelica».

Il magistrato calabrese Nicola Gratteri ha lanciato un allarme attentati: la ‘ndrangheta potrebbe reagire violentemente all’azione di pulizia di Bergoglio allo Ior, in qualche caso, si sostiene, usato dalla criminalità organizzata per riciclare soldi sporchi. Condivide questa preoccupazione?
«Gratteri, stimato magistrato, ha dati e conoscenze che io non ho e quindi non posso che prendere atto con preoccupazione di quanto da lui affermato. Tuttavia, specie in questi ultimi tempi, la Chiesa è impegnata in un coraggioso rinnovamento di se stessa, delle sue strutture e delle sue azioni di governo. Se Benedetto XVI ha denunciato con coraggio, onestà e sofferenza il male che a volte pervade la stessa istituzione ecclesiastica e i suoi membri attivi, Papa Francesco sta proseguendo energicamente in un processo di cambiamento in direzione della trasparenza, dell’onestà e della sobrietà. Le riforme in atto allo Ior ne sono testimonianza. Tuttavia, lo stesso papa ci ricorda che questa riforma ecclesiale non può avvenire se non con la santità della vita dei suoi membri. La Chiesa, prima che una semplice istituzione terrena, è una comunità vivente: quanto più i suoi membri praticano la radicalità del Vangelo.

La Chiesa di fronte alla criminalità organizzata.

P

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Intervista a Don Pino Demasi, parroco di Polistena e referente di Libera

(La Redazione di OLIR.it)

Il primo intervento di condanna alla criminalità organizzata dei vescovi calabresi risale al 1975. Che differenza c’è fra la situazione di ieri e quella di oggi? Perché tornare sull’argomento a distanza di quasi 40 anni?

L’episcopato calabro, forse primo rispetto ad altri episcopati, nel 1975 avvertì l’esigenza di una vera e propria condanna al crimine organizzato, elaborando il documento “L’episcopato calabro contro la mafia,disonorante piaga della società”. Da allora continui sono stati gli interventi di singoli Vescovi e dell’intero episcopato sino all’ultima dichiarazione della sessione primaverile di quest’anno della CEC. E’ stato ed è un cammino tuttora in atto, quello dei Vescovi calabresi, che in un certo qual modo sta andando di pari passo con l’evoluzione del fenomeno ndranghetistico.
Per quanto riguarda la ‘ndrangheta, si è passati, in questi anni, dalla ‘ndrangheta vissuta e percepita solo come organizzazione criminale ad una ‘ndrangheta “liquida” che si infiltra dappertutto e si interfaccia con gli altri sistemi di potere, producendo valori e cultura. Un’organizzazione globalizzata, fatta di famiglie che vivono in tutti gli angoli della terra, capace ormai essa stessa di farsi istituzione.
Gli interventi dei Pastori della Chiesa, dall’altra parte, sono stati innanzitutto di denunzia; man mano che si è andati avanti si è passati dalla semplice denuncia della ‘ndrangheta, come un “cancro”, una zavorra, un triste peso, ad indicazioni pastorali abbastanza puntuali e precise. Interessante il documento del 2007 ”Se non vi convertirete, perirete tut ti allo stesso modo”, dove si mette in evidenza che la ‘ndrangheta è soprattutto un fatto culturale e che per sconfiggerla serve un’azione incisiva che pervada ogni settore della società.
C’è da dire, però, che la ricaduta nella base di questi documenti è stata “timida”. Abbiamo assistito infatti a comportamenti di accondiscendenza nei confronti del fenomeno mafioso, ma anche a fulgidi esempi di contrasto e di grande coraggio e determinazione. E’ mancata però in questi anni una prassi pastorale collettiva e condivisa.

Il documento della Cei del 21 febbraio 2010 “Per un paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno” afferma (paragrafo 9) che le mafie “non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione”.

Come la Chiesa può concretamente educare alla legalità?

Oggi di fronte alla presa di coscienza sempre più diffusa dell’insostenibilità dell’assurdità del costume mafioso, la risposta che la Chiesa è chiamata a dare non può essere quella esclusiva di una denuncia o di una reprimenda. E’ necessario prendere sempre più sul serio il ministero della evangelizzazione e della liberazione affidato alle nostre comunità, partendo dalla presa di coscienza delle nostre responsabilità.
Com’è possibile, infatti, che terre come la Calabria, dove esiste ancora una fortissima presenza della Chiesa, dove la partecipazione popolare alle funzioni ecclesiastiche, alle processioni, alle messe, all’ora di religione è ancora fortissima rispetto ad altri territori, com’è poss ibile che una presenza così forte possa coesistere con uno dei fenomeni più violenti, più crudeli, più illegali, più contrari al bene comune, come quello della ‘ndrangheta?
E poi come abbiamo potuto permettere alle varie associazioni o famiglie mafiose di utilizzare nei loro codici d’onore il linguaggio e i simboli religiosi? O come abbiamo potuto permettere agli uomini di ‘ndrangheta di utilizzare la religiosità popolare e in particolare le sue feste come momento per trovare legittimazione sociale e spesso anche per sancire vincoli, formalizzare spartizioni, stabilire gerarchie, decretare ed eseguire sentenze mafiose? Gli stessi riti religiosi, in alcune situazioni, sono stati oggetto di manipolazione. Attraverso di essi è avvenuto lo sfoggio del potere mafioso.
Ecco questo è lo scandalo da cui dobbiamo partire, per costruire un modello ecclesiologico ed una conseguente prassi pastorale.
Nel documento Chiesa Italiana e Mezzogiorno i Vescovi italiani hanno affermato: «rivendichiamo alla dimensione educativa, umana e religiosa, un ruolo primario nella crescita del Mezzogiorno: uno sviluppo autentico ed integrale ha nell’educazione le sue fondamenta più solide, perché assicura il senso di responsabilità e l’efficacia dell’agire, cioè i requisiti essenziali del gusto e della capacità di intrapresa. I veri attori dello sviluppo non sono i mezzi economici, ma le persone» .
Le Chiese del Sud sono chiamate in questo campo a dare il loro essenziale contributo, con la loro pastorale ordinaria, trasformata in profondità, puntando soprattutto ad un nuovo protagonismo dei laici. Laici maturi, impegnati e responsabili, protagonisti del cambiamento.
Occorre, allora, restituire le comunità cristiane a uno stile pastorale evangelico superando un male atavico delle nostre parrocchie: il dualismo sa cro-profano, secondo il quale quando il fedele varca la soglia del tempio, la sfera della sua vita professionale, familiare, sessuale, civile, ecc., viene lasciata dietro le spalle e diventa importante solo in quanto lettore, catechista, accolito, ministro straordinario dell’eucaristia. Si spoglia della sua veste tra virgolette profana e acquista quella di cristiano. Quando il fedele varca in senso inverso la soglia del tempio ritorna ad essere il professionista di trecento euro a visita, l’amministratore che chiede il pizzo per poter fare andare avanti una pratica o che la fa andare avanti solo per gli amici suoi, il professore svogliato che arriva sempre tardi a scuola, il padre nervoso e distratto che se ne sta tutto il giorno fuori, insomma dentro il tempio siamo nel sacro e ci salviamo l’anima, fuori dimentichiamo di essere membri di una comunità cristiana.
Nel documento Educare alla legalit&a grave; del 1991 l’indicazione che vi è fornita appare chiarissima: «Il cristiano non può accontentarsi di enunciare l’ideale e di affermare i principi generali. Deve entrare nella storia ed affrontarla nella sua complessità, promuovendo tutte le realizzazioni possibili dei valori evangelici e umani della libertà e della giustizia».
Concetti netti, che saldano l’etica dei princìpi e l’etica della responsabilità, la dimensione spirituale con l’impegno civile, e richiamano chi si professa credente ad una coerenza che non ammette intervalli, né accomodamenti.

Basta invitare chi sbaglia al pentimento o bisogna pensare anche a delle sanzioni canoniche come ha fatto, ad esempio, il Vescovo di Acireale che ha emanato un decreto circa la Privazione delle esequie ecclesiastiche per chi è stato condannato per reati di mafia (20 giugno 2013)?

Fermo restando che la conversione per tutti i cristiani passa attraverso un reale pentimento e ravvedimento e che quindi la strada da seguire è quella indicata da Zaccheo “Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho defraudato qualcuno di qualcosa, gli restituirò quattro volte tanto” (Lc. 19,8), io personalmente mi trovo d’accordo con il Vescovo di Acireale sulla necessità di qualche sanzione quando ci troviamo in situazioni in cui manca con chiarezza il ravvedimento ed il pentimento.
E’ un modo questo per superare quel dualismo sacro- profano di cui parlavo prima e per affermare con fermezza e senza tentennamenti che la mafia è una struttura di peccato e che vivere da cristiani è un non vivere da mafiosi, rifiutarsi e sempre più potersi rifiutare di vivere da mafiosi.
Non a caso, Il decreto di Mons. Raspanti si apre c on una citazione dettata da San Giovanni Paolo II nella storica visita alla Valle dei Templi di Agrigento il 9 maggio 1993: “La fede […] esige non solo un’intima adesione personale, ma anche una coraggiosa testimonianza esteriore, che si esprime in una convinta condanna del male. Essa esige qui, nella vostra terra, una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile”.

Che lei sappia solo la Chiesa calabrese è impegnata nella lotta alla criminalità organizzata oppure questa lotta vede impegnate anche altre conferenze episcopali regionali?

Il cammino di consapevolezza della pericolosità delle mafie e quindi la conseguente ricerca di una pastorale adeguata ha visto in questi ultimi decenni come protagoniste non solo le Chiese di Calabria, ma anche le Chiese del resto del Paese e soprattutto di quelle aree maggiormente interessate al fenomeno mafioso. Le linee direttive dei vari episcopati regionali, dell’episcopato italiano e dei Sommi Pontefici non ammettono ormai più passi e ritorni indietro.
Molto di nuovo anche in questo campo sta nascendo nella Chiesa. L’ascolto del popolo, del suo malessere, della sua soggezione, l’ascolto del grido degli onesti e degli indifesi che reclamano il bisogno di dignità umana e di reale libertà sta scuotendo ormai tutte le chiese, incoraggiate anche da Papa Francesco.
E’ certamente il tempo della speranza, intesa non come un’attesa fatalistica di cambiamento, un appigliarci all’eventualità che accada qualcosa in grado di scacciare, come per incanto, paure e incertezze. E’ Il tempo di quella speranza che ha il volto dell’impegno, del mettersi in marcia (in latino la parola speranza, spes, richiama del resto il termine pes, piede) di quella speranza, stretta parente del realismo, che risveglia il desiderio di reagire, di rialzare la testa.

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Non so lasciar la penna.

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LO SGUARDO DELL’AQUILA.Elementi biografici di Cataldo Naro Arcivescovo di Monreale.

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Sul crinale del mondo moderno…..

locandina per Palermo

Presentazione del volume di S.E.Rev.ma Mons.Cataldo Naro:

SUL CRINALE DEL MONDO MODERNO,scritti brevi su cristianesimo e politica.

Sul crinale del mondo moderno:cristianesimo e politica.

Sul crinale del mondo moderno.Scritti brevi su cristianesimo e politica.

Lo spazio dei fratelli.

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L’Altro Risorgimento.


Che cosa è stato il Risorgimento? Nella vulgata recepita nei testi scolastici diversi conti non tornano. Uno per tutti: com’è possibile che, in nome della libertà e della Costituzione, i governi liberali decidano la soppressione di tutti gli ordini religiosi della Chiesa di Roma, quando il primo articolo dello Statuto dichiara il Cattolicesimo «religione di Stato»? Sta di fatto che 57.492 persone vengono messe sul lastrico, cacciate dalle proprie case, private del lavoro, dei libri, degli arredi sacri, degli archivi, della vita che hanno scelto. Non a caso i papi Pio IX e Leone XIII individuano nel Risorgimento un tentativo di «sterminare la religione di Gesù Cristo», messo in atto dalla Massoneria. A centocinquant’anni dall’unità in Italia non solo si stenta ad ammettere questi fatti, documentati nell’evidenza delle fonti, ma si continua, da Nord a Sud, a combattere la comune identità cattolica quasi fosse l’ostacolo che preclude un’autentica coesione nazionale.
L’Autrice – coraggiosa antagonista di ogni ideologia, come spiega mons. Luigi Negri – muove da posizioni controcorrente: perché l’Italia possa riacquistare l’unicità che la caratterizza nella storia ha bisogno di riconoscere il peccato da cui è stata originata, l’attacco frontale alla tradizione cristiana e alla Chiesa cattolica.

L’Introduzione di Angela Pellicciari

«L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia».

L’introduzione dei Promessi sposi è notoriamente una parodia del linguaggio e della cultura seicenteschi ma Alessandro Manzoni, pur sorridendo, intende anche cominciare in medias res, mettendo subito in chiaro la grande importanza della ricerca storica: fare storia significa ridare la vita ad un passato che non si conosce o si conosce male.

1796-1861: ricordando fatti noti e meno noti, questo libro si propone di ricostruire l’ambiente rivoluzionario che caratterizza l’Italia del XIX secolo, senza la pretesa di raccontare tutto ma, almeno, con l’obiettivo di raccontare quello che serve per capire, per «richiamare in battaglia» fatti e persone prigionieri, del tempo certamente, ma soprattutto degli uomini che li hanno voluti tali.

L’immagine del Risorgimento che ci è stata tramandata è quella voluta da coloro che lo hanno costruito: i governanti del Regno di Sardegna, innanzi tutto, ma anche tutti gli uomini che ne hanno appoggiato la politica, e, non ultimi, i governi delle potenze alleate che ne hanno reso possibile la realizzazione. Cosa è stato, dunque, il Risorgimento, dal loro punto di vista?

Risorgimento per costoro significa l’agognata riconquista, dopo tanti secoli, dell’unità e dell’indipendenza nazionali, indispensabili per occupare un «posto al sole» all’interno del consesso «civile»; significa la vittoria della libertà sull’oscurantismo, l’arretratezza e la violenza dei governi pontificio e borbonico; significa farla finita con i privilegi e la monarchia assoluta realizzando una monarchia costituzionale dove la legge è uguale per tutti e dove Stato e Chiesa siano liberi ciascuno in casa propria, ma distinti e separati l’uno dall’altra. Nella lettura del Risorgimento tramandataci dai suoi protagonisti ci sono però molti fatti che restano senza spiegazione. Uno per tutti: i Savoia e i liberali sostengono di avere la forza morale dalla loro perché costituzionali e liberali, eppure la formazione del primo governo costituzionale coincide con la sistematica violazione dei più importanti articoli dello Statuto. Non appena ripudiata la monarchia assoluta, per esempio, in violazione del primo articolo che stabilisce «La religione cattolica apostolica e romana è l’unica religione di stato», il governo sardo scatena in Piemonte la prima seria persecuzione anticattolica dall’epoca di Costantino, immediatamente estesa al resto d’Italia dopo l’unificazione. L’1,70% della popolazione di fede liberale (quella che ha diritto di voto) decide la soppressione, uno dopo l’altro, a cominciare dai gesuiti, di tutti gli ordini religiosi della religione di stato. Iniziate nel 1848 dal Regno di Sardegna, le soppressioni sono ultimate dal Regno d’Italia nel 1873, dopo l’annessione di Roma. Un numero davvero ingente di persone, 57.492 fra uomini e donne, tanti sono i membri degli ordini religiosi soppressi, vengono messi sul lastrico, cacciati dalle proprie case, privati del lavoro, dei libri, degli arredi sacri, degli archivi, della vita che hanno scelto.

Tutto in nome della libertà e della costituzione. In questo secolo la storiografia liberale sia laica che cattolica ha dato voce alle dichiarazioni di intenti della classe dirigente risorgimentale ma ha dimenticato i fatti ed ha messo la sordina alla stampa e alla storiografia cattoliche dell’Ottocento col risultato che, oggi, si conoscono solo le ragioni dei liberali, cioè dei vincitori.

Eppure in decine di encicliche ed allocuzioni Pio IX afferma che le cose non stanno come la propaganda liberale vuol far credere. Il papa descrive nel dettaglio quali persecuzioni, violenze e rapine facciano seguito alle sbandierate ragioni di costituzionalità e libertà, e denuncia la lotta senza quartiere che le società segrete, a cominciare dalla Massoneria, conducono in tutto il mondo contro la Chiesa cattolica. La Chiesa ha sempre combattuto contro tanti nemici, questa volta però l’insidia è più grande perché i nemici non combattono a viso aperto ma si dichiarano cattolici e sinceramente devoti al bene della Chiesa.

Pio IX e Leone XIII (e la Chiesa con loro) sono convinti che il tanto decantato Risorgimento sia solo un tentativo di «sterminare la religione di Gesù Cristo», voluto e promosso dalla Massoneria nell’intento di distruggere il potere spirituale usando come grimaldello la fine del potere temporale. Il risveglio del sentimento «nazionale» avrebbe di mira, secondo questo punto di vista, la distruzione dell’universalismo cattolico per soppiantarlo con un potere internazionale di tipo nuovo, al passo con i tempi, radicalmente anticattolico.

Se i papi, e le popolazioni meridionali con loro, hanno qualche ragione nel sostenere che Risorgimento significhi risorgimento del paganesimo e gigantesca rapina ed ingiustizia perché, con la scusa della «pura morale» e della «vera religione», i liberali diventano proprietari con due soldi di tutti i beni sottratti al 98% della popolazione (Chiesa e pubblico demanio), allora ad esser in gioco non è un aspetto marginale della nostra vicenda storica; è qualcosa che ha a che fare con l’essenza stessa del nostro essere italiani, con la nostra identità collettiva.

Se le cose stessero come tutta la letteratura sia cattolica che massonica del secolo scorso non si stanca di ripetere, se fosse vero che la Massoneria scatena in Italia una guerra senza quartiere contro la Chiesa cattolica utilizzando i Savoia e i liberali come testa di ponte, allora gli artefici del Risorgimento sarebbero non i primi italiani ma i primi antiitaliani. Allora la nostra storia unitaria, e non solo quella, andrebbe vista sotto un’altra ottica. E chissà che questa ottica non ci procuri elementi per capire qualcosa di più. Il 18 agosto 1849 Pio IX scrive alla granduchessa Maria di Toscana: sebbene «la tutela del dominio temporale della S. Sede sia in me un dovere di coscienza, pur nonostante è un pensiero assai secondario in confronto dell’altro che mi occupa, di procurare cioè che i popoli cattolici conoscano la verità».Quale è la verità? Questo libro si propone di cercarla.

Angela Pellicciari storica del Risorgimento e del rapporto fra Papi e Massoneria; dottore in Storia ecclesiastica, attualmente insegna Storia della Chiesa nei seminari Redemptoris Mater. Fra i suoi numerosi studi ricordiamo I panni sporchi dei Mille (Liberal) e Leone XIII in pillole (Fede & cultura). Con le Edizioni Ares ha già pubblicato il best seller Risorgimento da riscrivere e il volume I Papi e la Massoneria.

Storie di donne di fronte all’Islam.


Un’intervista con Renata Pepicelli
Quello che segue – è bene sottolinearlo – non è un articolo di apologia del fenomeno che viene raccontato attraverso un’approfondita intervista a un’interessante studiosa. Si è scelto di approcciare il femminismo islamico come uno dei segni della complessità di questo tempo, in cui le religioni stanno invadendo la sfera pubblica di gran parte degli scenari politici mondiali, e i tentativi di opporsi all’islamizzazione come forma di teocrazia sembrano, specie nell’ultimo decennio, sortire effetti del tutto opposti agli obiettivi perseguiti.
È un dato di fatto che gran parte delle manifestazioni di codificata e formalizzata oppressione femminile nel mondo abbiano cause in qualche modo connesse alla religione. Un altro dato di fatto è che una parte non minoritaria del mondo islamico (e quindi della maggioranza dei credenti della terra) affermi l’esistenza di una profonda disuguaglianza tra uomo e donna, e di una necessaria subordinazione di quest’ultima.
Nonostante queste premesse, chi ha avuto modo di frequentare il mondo della diaspora femminile delle donne migranti in Europa si è reso probabilmente conto di come, anche per molte di loro, nonostante entrino in contatto con modelli completamente differenti (o forse anche a causa di ciò), non sia comunque facile distaccarsi da ciò che ritengono la propria cultura e tradizione. In alcuni casi, questa forma di attaccamento a rituali e segni di appartenenza alla propria comunità religiosa (e quindi, spesso, anche politica e sociale), persiste anche laddove questi si concretizzino in pratiche violente come le mutilazioni genitali femminili (che molti interpreti non ritengono però in accordo con la legge islamica).
A un livello molto diverso, basti pensare a quanto la questione del velo abbia messo in disaccordo tra loro intellettuali e femministe di ogni parte del mondo, politici riformatori e religiosi di ogni dove (salvo, ovviamente, le forze conservatrici dell’Islam). Sorprendente è stato scoprire come molte donne musulmane, in Francia, non si siano affatto sentite “liberate” dal peso del velo, quanto piuttosto private di un riferimento identitario che non avevano liberamente scelto di abbandonare, su ordine di un sistema di valori considerato tutt’altro che neutrale.
Riflettere su forme di reazione come il femminismo islamico può servire quindi a comprendere da una prospettiva poco nota quanto scivoloso sia oggi il terreno delle lotte di genere nei luoghi in cui la presenza della religione appare totalizzante nella sfera pubblica, ma può anche essere utile per indagare un ulteriore aspetto delle conseguenze di un discorso occidentale sull’universalità dei diritti umani che si è fatto guerra e oppressione, invece che punto di riferimento possibile per un radicale cambiamento.
Il femminismo islamico non è l’unica risposta, né con tutta probabilità la migliore, alla violenza patriarcale che milioni di donne subiscono in modo codificato e formalizzato in alcune parti del mondo (anche quelle migranti, spesso, nei luoghi della diaspora). Si tratta, anzi, di un fenomeno molto contraddittorio, che può rischiare di legittimare una strutturale sottomissione della sfera pubblica alla religione (con tutti i danni che storicamente ciò comporta, qualunque sia la religione in questione), anche se si tratta di un’interpretazione egualitaria in cui le donne appaiono libere, ad esempio, di coprirsi o meno il capo. Il femminismo islamico, però, è un fenomeno che ci parla della realtà contemporanea e che può aprire dei dubbi e fornire spunti di riflessione, per quanto certamente non semplici da decifrare e valutare.
Solo in questa prospettiva è stata realizzata e pubblicata l’intervista che segue.
Basi teoriche del femminismo islamico
D. Potremmo iniziare innanzi tutto con lo spiegare, essendo una materia questa ancora poco conosciuta e diffusa al di là delle élites accademiche che se ne occupano qui in Europa, che cosa è esattamente il femminismo islamico. Tu dedichi un intero paragrafo del tuo libro a parlare della problematicità della stessa definizione di femminismo islamico. In che senso questa definizione è problematica?
R. Nel mondo musulmano in questo momento esistono tre correnti del movimento delle donne: una che possiamo definire di femminismo laico, un’altra di femminismo religioso, chiamata femminismo islamico, e un’altra che è una corrente di critica di genere che si va affermando in varie organizzazioni islamiste. Il femminismo islamico cui dedico la gran parte del mio libro – solo l’ultimo capitolo è dedicato al discorso di genere all’interno di movimenti islamisti – è un movimento che si basa su una rilettura dei testi sacri da una prospettiva di genere. Vale a dire che teologhe di diverse nazionalità, sia dei paesi a maggioranza musulmana che dei paesi occidentali della diaspora islamica, sostengono che i testi sacri dell’islam, quindi penso al corano innanzi tutto, ma anche alla Sunna e agli Hadith, affermino assolutamente l’eguaglianza di genere, ma che siano state delle erronee interpretazioni, perpetuate da élites maschili patriarcali, ad avere fatto emergere invece un’idea di islam misogina che, dal punto di vista di queste teologhe, tradisce completamente quello che era il messaggio divino che era invece un messaggio di giustizia di genere e di uguaglianza
Le femministe islamiche e il discorso occidentale sui diritti
D. Quale rapporto possiamo dire che esiste oggi tra l’attivismo di genere definito come femminismo e proprio delle donne che operano fuori dai riferimenti religiosi, e questo tipo di femminismo che invece a quei riferimenti religiosi si rifà?
R. Come dicevi, qui c’è un problema di definizioni. Molto spesso le donne che vengono definite femministe islamiche non si riconoscono in tale terminologia, perché pur battendosi contro codici di legge patriarcali, contro istituti e costumi che affermano la disuguaglianza di genere, queste donne considerano che la parola femminista non sia la migliore per parlare di quella che è la loro battaglia, in quanto considerano il femminismo un termine che connota i movimenti delle donne occidentali e quindi anche compromesso con la storia occidentale e in particolar modo con il colonialismo e le nuove forme di neoimperialismo. Faccio degli esempi: tutto il discorso della difesa dei diritti umani, e in particolare dei diritti delle donne, che ha giustificato interventi militari in Iraq e prima ancora in Afghanistan, è visto da molte donne musulmane e femministe come un atteggiamento legato a una certa parte del discorso dei diritti umani e anche del discorso femminista che continua ad essere colonizzatore e imperialista. Per le femministe islamiche molto spesso l’approccio del femminismo occidentale verso le donne musulmane appare un approccio di tipo autoritario, salvifico, sempre con l’idea che le donne musulmane vadano salvate, in continuità con quello che si diceva in età coloniale, con la “missione civilizzatrice” che doveva avere l’Occidente, e anche le donne occidentali rispetto a quelle musulmane. Le donne musulmane, invece, rivendicano appieno l’idea che non hanno bisogno di essere salvate da altre, ma che stanno cercando all’interno della propria cultura, storia, tradizione e religione, il modo migliore per affermare i propri diritti, diritti che loro dicono comunque essere già sanciti nella loro religione, anche se degli uomini hanno sottratto la possibilità di sentire affermata l’eguaglianza di genere che è già scritta nel Corano.
Femministe islamiche e Islamiste
D. Dall’altra parte – visto che, come tu scrivi, mentre alcune donne non si riconoscono nel termine “femminismo”, altre non si riconoscono nel termine “islamico” accoppiato a “femminismo” – quale rapporto esiste tra il femminismo islamico e il resto del mondo islamico? Tu chiudi il tuo libro con un capitolo sulle Islamiste e fai una distinzione tra queste donne e le femministe islamiche. Quale relazione c’è tra queste due categorie di donne, e poi all’interno del mondo islamico in generale come è percepito questo tipo di femminismo?
R. C’è una parte della letteratura accademica, e anche alcuni mass media che definiscono femmismo islamico anche quello delle donne islamiste attive in movimenti come al- ’Adl wa’l-Ihsan in Marocco, o Hamas in Palestina. Le definiscono femministe islamiche perché alcune di queste donne sono molto attive non solo in questi gruppi politici, ma anche sul piano delle questioni di genere.
Io non penso che sia giusto parlare di femministe islamiche nel loro caso, per quanto io stessa riconosca che indubbiamente, all’interno della galassia islamista, vi sia un’affermazione sempre crescente delle donne non solo come base – sempre più donne seguono questi movimenti, li appoggiano in quanto i loro uomini, padri, mariti, figli, militano in questi gruppi – ma perché loro stesse sembrano convinte delle ragioni di questi movimenti. Queste donne quindi non sono solo base elettorale o popolare durante le manifestazioni, ma ormai coprono sempre più ruoli di leadership all’interno di questi partiti o gruppi politici. È il caso, ad esempio, di Nadia Yassine, marocchina, portavoce di questo movimento “giustizia e spiritualità” fondato dal padre e di cui lei è oggi una delle più importanti esponenti. Nadia Yassine, all’interno di questo movimento è molto nota sia in Marocco che nel resto del mondo, per una serie di battaglie che ha portato avanti contro la monarchia marocchina, ma anche per quelle che sono alcune sue posizioni di genere, quando afferma per esempio che le donne oltre al ruolo riproduttivo e sociale di madri debbano avere anche un ruolo politico attivo nella società, che loro debbano accanto agli uomini partecipare a quella che è la battaglia per la realizzazione di Stati islamici.
Ci sono quindi differenze per certi versi sostanziali tra le femministe islamiche e le islamiste perché sicuramente per le donne islamiste attente al genere importante è fare emergere letture del Corano che mettano in evidenza il ruolo della donna nell’Islam come ruolo sociale e politico, ma la loro battaglia principale non è contro il patriarcato, bensì è quella per la fondazione di Stati islamisti. La loro è una visione fortemente conservatrice della società.
Detto questo, però, queste donne sono in primo piano nella società e non sono più relegate a spazi privati, ma sono sempre più nello spazio pubblico, sia politico che religioso. Affollano sempre più le moschee, studiano teologia islamica, si prendono sempre più la parola su quello che è il discorso contemporaneo sull’Islam.
Femminismo islamico e società islamica
D. Questo attivismo all’interno dei gruppi islamisti, ma anche le teorie e le pratiche sviluppate all’interno del femminismo islamico come vengono percepite all’interno del resto dell’islam? La vita di queste donne, ad esempio, è a rischio per le loro idee e per il loro modo di essere?
R. Bisogna fare di nuovo delle distinzioni tra islamismi, posizioni di genere all’interno dei gruppi islamisti e femminismo islamico anche rispetto alla ricezione di questi fenomeni. Le posizioni portate avanti dalle femministe islamiche sono molto più radicali come rivendicazioni.
Faccio l’esempio di una di quelle donne che è considerata un’icona del femminismo islamico che è Amina Wadud, afroamericana convertitasi all’islam negli anni ’70 che nel marzo del 2008 ha condotto per la prima volta una preghiera mista mettendosi a capo di una comunità composta da uomini e donne, e ricoprendo per la prima volta, da donna, il ruolo di Imam, cosa che nell’Islam non può essere assolutamente accettato (o quanto meno non è assolutamente accettato che le donne possano guidare la preghiera anche per uomini e non solo per altre donne).
Il gesto di Amina Wadud è stato criticato e considerato inaccettabile dalle islamiste, ma anche da qualche femminista islamica, come la marocchina Asma Lamrabet che sta portando avanti in Marocco un lavoro esegetico molto interessante. Ma Amina Wadud è stata criticata soprattutto dalla stragrande maggioranza dei musulmani, sia nei paesi della diaspora che nei paesi a maggioranza musulmana. Il suo gesto è stato sentito troppo provocatorio, troppo in avanti.
Detto questo, le femministe islamiche stanno in qualche modo portando avanti un discorso che è ancora minoritario e di élite, sicuramente anche per la loro composizione – penso soprattutto alle teologhe e alle accademiche – però hanno una ricaduta nella società: i discorsi che queste donne fanno sono discorsi che, anche se non in toto, in qualche misura vengono accettati da larghi strati di popolazione musulmana, o comunque innescano dei dibattiti molto vivaci e interessanti all’interno del mondo islamico e soprattutto all’interno del discorso riformista islamico.
Questa capacità delle femministe islamiche, di queste teologhe che stanno proponendo queste letture alternative del Corano, di avere una grande ricaduta, anche grazie ad internet, su diversi strati delle popolazione in diverse parti del mondo, espone molto queste donne agli attacchi delle forze più conservatrici del mondo islamico.
Amina Wadud, per esempio, per avere condotto questa preghiera nel 2008, ha ricevuto delle minacce di morte e ha dovuto vivere nascosta a lungo, insegnare nascosta e solo attraverso una webcam poteva interagire con i suoi studenti, affinché non fosse identificabile il luogo in cui lei si trovava, cosa che avrebbe rappresentato un rischio per lei, ma anche per gli studenti. Queste donne corrono dei rischi proprio perché vogliono parlare dei diritti delle donne e lo vogliono fare all’interno e non al di fuori del discorso islamico, arrogandosi il diritto di dire: io parlo in nome dell’Islam.
Penso ancora ad una donna turca, di nome Konca Kuris, che nei primi anni della sua vita aveva militato all’interno di organizzazioni islamiste nella galassia turca, e che però era sempre stata anche molto attenta ai discorsi del femminismo laico turco. Lei aveva proposto una serie di letture fortemente femministe dei testi sacri, e fu rapita da un gruppo terrorista, estremista turco, seviziata per 38 giorni, quanti erano gli anni della sua vita e poi fu ammazzata. Sappiamo delle sevizie a cui è stata sottoposta dal fatto che i suoi aguzzini non solo l’avevano torturata e ammazzata, ma avevano anche nascosto insieme al suo corpo anche un video che testimoniava delle sevizie subite da questa donna. Questo ci dà proprio l’idea di come cercare di portare avanti dei discorsi radicali all’interno dell’Islam, che vogliono colpirne proprio le forze più retrograde ed integraliste, ponga queste donne davanti a dei rischi altissimi.
Le ragioni di un ritorno alla religione: spiritualità, postcolonialismo e “guerre umanitarie anti-islamiche”.
D. Per noi donne occidentali è impressionante l’idea che una lotta così radicalmente femminista possa essere portata avanti all’interno di riferimenti religiosi. La nostra abitudine mentale è pensare una laicità sostanziale di questo tipo di battaglie. Tu invece parli di una religione diventata quasi uno strumento di liberazione per queste donne. Ma in che senso la religione si sta riposizionando all’interno della vita di molte donne musulmane grazie proprio al femminismo islamico?
R. Forse accade ancora prima del femminismo islamico. Dal finire degli anni Ottanta all’inizio degli anni Novanta, sempre più donne riposizionano la religione all’interno della loro sfera privata, ma anche della loro sfera pubblica. Ciò accade per un bisogno di spiritualità e religione che era un po’ stato negato nel corso del Novecento, ma penso anche per ragioni di natura politica, e penso in particolar modo al fallimento delle grandi ideologie socialiste, marxiste, a cui in diversi paesi varie donne, varie femministe, avevano fortemente creduto. Penso anche al grande fallimento che molte donne si sono sentite addosso, dei regimi del post-indipendenza che avevano appoggiato, per cui avevano lottato, per i quali avevano perso i loro casi. Queste donne hanno visto tali regimi corrompersi, negare completamente le loro aspettative e i loro sogni di giustizia sociale nel paese e di giustizia di genere.
E poi penso anche a tutto il sentimento di frustrazione che i popoli arabi musulmani provano per questioni come il conflitto israelo-palestinese o anche gli interventi militari occidentali in varie parti del mondo islamico, Iraq e Afghanistan in particolare.
Tutti questi fattori hanno fatto sì che la religione diventasse per queste donne un elemento sempre più importante nella loro vita, come bisogno identitario, di riappropriazione della propria identità.
Dopo l’11 settembre questo discorso di riposizionamento dell’Islam è stato ancora rafforzato. Di fronte agli attacchi che il mondo musulmano riceveva in toto per quanto successo a New York queste donne si sono sentite di condannare gli attacchi terroristici e di considerarli anti-islamici, ma anche dall’altra parte di difendere in qualche modo l’Islam, di sentirsi di appartenere a quell’identità. Penso all’intervista che ho fatto con una ragazza malesiana di un’organizzazione che si chiama Sisters in Islam, e lei mi diceva:
“Fino all’11 settembre la mia vita di musulmana era legata a pochi momenti della mia esistenza: la nascita, il matrimonio, la morte. Dopo l’11 settembre mi sono invece sentita chiamata in causa come musulmana. Dovevo scegliere da che parte stare e a un certo punto ho sentito il bisogno di scegliere di difendere la mia religione. Difenderla dagli attacchi interni, che sono quelli delle forze estremistiche e terroristiche dell’islam, ma di difenderla anche da tutti quelli che sono gli attacchi e i pregiudizi occidentali. Avevo bisogno di un discorso femminile e femminista in cui riconoscermi, e non era più per me quello laico, e secolare, ma avevo bisogno di un femminismo che si iscrivesse all’interno di un discorso religioso. Nel femminismo islamico ho trovato il mio discorso. Ho trovato strumenti per battermi contro ad esempio la poligamia. Mio nonno era stato un poligamo, e questa cosa aveva portato grandi sofferenze alla mia famiglia. Il femminismo islamico mi permette di essere contro la poligamia e femminista senza rinunciare all’Islam.”
Un’alternativa possibile o una sospensione tra due mondi?
D. L’immagine di queste donne appare quindi come sospesa tra due mondi, in reazione rispetto a due mondi.
Da una parte è in opposizione rispetto all’idea dell’universalismo dei diritti umani come portato occidentale che offre l’unica strada possibile per la liberazione femminile, e dall’altra è una reazione alla lettura patriarcale del mondo islamico. Ma la tua opinione profonda, dopo che hai conosciuto così tante donne vicine a questo pensiero e studiato così a lungo questo fenomeno, è che queste donne siano in qualche modo schiacciate tra questi due mondi o pensi che il femminismo islamico possa essere veramente quella chiave in grado di elaborare una strategia di fuoriuscita da questi due schemi?
R. Mi sembra che sia un’alternativa possibile. Non penso che sia la sola, nel senso che sicuramente le donne che si stanno battendo nel mondo islamico da una prospettiva laica e secolare hanno delle forti ragioni e la loro battaglia è molto importante. Quello che però ho visto nelle mie ricerche è che questo tipo di femminismo è sempre meno seguito e sentito dalle persone. Invece mi sembra che il femminismo che parte da un discorso religioso riesca a trovare molti più consensi e la disponibilità per molte donne, intima e personale, di fare i conti con un discorso femminista che parte anche da un discorso religioso e culturale. Il femminismo islamico non solo intercetta il bisogno di religione di alcune donne, ma risulta anche uno strumento molto efficace per potere entrare all’interno di quell’islamizzazione del discorso pubblico e politico che oramai è imperante in gran parte delle società musulmane.
Il femminismo islamico ha gli strumenti per scendere sullo stesso terreno delle forze più conservatrici e retrograde, per parlare lo stesso linguaggio, e su quel terreno e con quel linguaggio battersi per l’uguaglianza tra l’uomo e la donna.
Una geografia (anche diasporica) del femminismo islamico
D. Un’ultima domanda: è possibile tracciare una geografia del femminismo islamico? Quali sono i paesi in cui in questo momento questo fenomeno è più sviluppato? E, soprattutto, per le donne in diaspora questo fenomeno quanto esiste e, se esiste, si trova solo a un livello intellettuale ed elitario di alcune pensatrici, o anche al livello più diffuso delle tante donne migranti che hanno dovuto lasciare il loro paese, la loro famiglia, e magari cercano di ritrovare nel femminismo islamico una forma di identità che non rimanga schiacciata tra il vecchio e il nuovo mondo che vivono?
R. Il femminismo islamico nasce negli anni Novanta contemporaneamente in diverse parti del pianeta – in Iran e negli Stati Uniti, in Sudafrica e in Marocco – come espressione di una serie di processi storici e politici che erano in atto, pur con le dovute differenze, un po’ ovunque.
Accanto a questo va detto che ci sono dei poli che sono stati maggiormente produttori di un discorso relativo al femminismo islamico: penso all’Iran, un paese dove l’islamizzazione del discorso politico era totale e imperante e che quindi per le donne alla fine l’unica vera possibilità per interagire e far breccia nella situazione del paese era discutere su un terreno islamico.
Parallelamente, come dicevo, il movimento appariva e si sviluppava anche in paesi della diaspora islamica o in paesi occidentali in cui il numero di musulmani sta crescendo non solo per l’arrivo di immigrati, ma anche perché sono sempre più le persone che si convertono all’Islam, sia uomini che donne, e questo è un dato interessante perché il femminismo islamico sta parlando molto ai nuovi convertiti e alle nuove convertite all’Islam.
E quindi vediamo che le battaglie assumono chiaramente delle differenze da contesto a contesto avendo una comune struttura di riferimento che è questo discorso femminile condotto all’interno di un discorso religioso. Le battaglie delle donne marocchine fatte negli anni Duemila per la riforma del Codice della famiglia sono ovviamente ben diverse dalle battaglie delle donne degli Stati Uniti che si battevano contro i pregiudizi occidentali sull’Islam o per un accesso alle moschee uguale per gli uomini e per le donne e per spazi di preghiera rispettosi anche della spiritualità femminile. Quindi abbiamo battaglie che nei contesti locali sono molto differenti ma che dialogano da una parte all’altra. Per esempio, la riforma del Codice della famiglia marocchina nel 2004 è stata salutata come un grande successo per tutto il mondo musulmano, ed è stato considerato una delle migliori implementazioni del discorso femminista islamico, perché si è riusciti a riformare un codice di legge sulla famiglia che era ingiusto verso le donne grazie e un’interpretazione nuova e progressista dei testi sacri e in particolare del corano.
Quello che è successo in Marocco è stato poi ampiamente discusso da diversi gruppi di donne e di femministe in diverse parti del mondo. Le Sisters in Islam, questa organizzazione malesiana, ad ad esempio ha inviato delle donne marocchine che erano state molto attive nel processo di riforma del codice della famiglia, per spiegare come era stato possibile riformare in questo senso un Codice di legge senza allontanarsi dall’Islam. Questo movimento dialoga fortemente, e lo fa sia materialmente che, molto di più, virtualmente, grazie ad internet. Internet è infatti una delle grandi sorprese di questo tempo. Sappiamo che la comunità islamica transnazionale utilizza molto internet per dialogare, e lo fanno anche le femministe islamiche. Sul web troviamo una pluralità di siti di femministe islamiche, o contenitori di coumenti sul movimento, penso ad esempio al sito Women Living Under Muslim Laws. Il web è pieno di materiali che le femministe islamiche scrivono perché vengano letti da loro omologhe che vivono in altre parti del mondo, o di reti come il Gruppo Gierfi (Groupe international d’études et de réflexion sur femmes et Islam) che fa capo ad Asma Lamrabet ma che vede donne di vari paesi musulmani perteciparvi.

(Renata Pepicelli è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna e già autrice di un libro importante, uscito qualche anno fa, “2010. Un nuovo ordine mediterraneo?” Che è servito molto a chiarire che tipo di relazioni esistano nel mondo mediterraneo tra le due sponde Nord Sud di quest’area così composita. Renata ha appena pubblicato un nuovo volume, edito nel gennaio di quest’anno da Carocci, il cui titolo è “Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme”).
(a cura di Alessandra Sciurba)

I Satanisti. Storia, Riti e Miti del Satanismo.


Recensione di Luigi Berzano (Religioni e Società. Rivista di scienze sociali della religione, anno XXV, n. 67, maggio-agosto 2010, pp. 109-110)

Di satanismo e di satanisti tutti ne parlano, anche in quest’epoca post-secolare. I giornali, i tribunali, gli uomini di chiesa … tutti sanno, dichiarano, spiegano, ripudiano. Ma la tendenza colta è oggi totalmente antisatanista, negazionista, esorcista. Tutti ne parlano, ma per negarne la presenza. In più, non si trova nessuna simpatia per la letteratura quale quella di Bernanos, che tratta della presenza e delle azioni dei demoni invisibili e delle loro possessioni. E così pure per gli inferni pittorici di Bosch e i suoi affreschi saturi di demoni in libertà. Ancor meno attuali sono i capitoli della Vida di Teresa di Gesù e le sue minuziose descrizioni dei luoghi infernali. Insomma, è lontana la stessa filosofia di Aristotele che considerava demoniaca la Natura. La demonologia contemporanea è oggi la scienza che tratta della non esistenza del diavolo e, spesso, che non prende sul serio lo stesso oggetto delle sue ricerche.
Davvero, non si può dire che Massimo Introvigne non “prenda sul serio” il fenomeno del satanismo e che tratti del diavolo senza erudizione demonologica. Questa espressione “prendere sul serio” fa ricordare una delle ultime uscite in pubblico del filosofo Ernst Bloch. In una delle periodiche riunioni delle facoltà teologiche di Tubinga il relatore era stato Herbert Haag che presentava la sua opera di demonologia Abschied vom Teuftel (1969) (La credenza nel diavolo, Mondadori, 1976). Di fronte alle attenuazioni, demitizzazioni e secolarizzazioni che riducevano quasi a nulla la portata biblica e dogmatica sul diavolo, Bloch si sentì tradito nell’animazione profonda del suo filosofare, tanto che, spazientito, si alzò e uscì apostrofando l’oratore con queste parole: “Qui il demonio non è preso sul serio”.
Introvigne, direttore del CESNUR e tra gli studiosi più noti a livello internazionale sul tema del satanismo e, più in generale, dei nuovi movimenti religiosi, ritorna ora su un tema che aveva già affrontato in passato con altri due enciclopedici volumi: nel 1990 Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo (Milano, SugarCo, 1990) e nel 1994 Indagine sul satanismo. Satanisti e anti-satanisti dal Settecento ai giorni nostri (Milano, Mondadori, 1994).
Il nuovo volume si presenta molto documentato, con oltre un migliaio di note di approfondimento, una nota bibliografica finale e indici di nomi che danno conto di tutta la letteratura esistente. Il tutto si riferisce al fenomeno del satanismo che l’Autore individua con una definizione storico-sociologica particolarmente esclusiva. “Il satanismo può essere definito come l’adorazione o la venerazione, da parte di gruppi organizzati in forma di movimento, tramite pratiche ripetute di tipo cultuale o liturgico, del personaggio chiamato Satana o Diavolo nella Bibbia, sia questo inteso come una persona o un mero simbolo” (p. 13). Così definito il satanismo nasce solo con l’età moderna. Il volume di Introvigne ne ricostruisce la storia, i miti e i riti attraverso tre periodi storici successivi.
Il Seicento e il Settecento rappresentano le origini del satanismo moderno, allorché compaiono i primi rituali satanici collettivi. Il primo vero episodio di satanismo – alla corte di Luigi XIV – è parallelo alle prime autentiche inquietudini della modernità. Il satanismo classico si estende dal 1821 al 1952, da quando cioè il fenomeno si concretizza quale vero e proprio movimento sociale, seppur esiguo, fino alla scomparsa della figura carismatica e scandalosa di Jack Parsons (1883-1952) e alla fine del suo “culto dell’Anticristo” in California. Il terzo periodo è quello del satanismo contemporaneo, dopo il 1952. In questa fase il fenomeno si intreccia con una branca ‘nera’ della controcultura e produce forme quali quelle del satanismo di LaVey ufficialmente disapprovate, ma in realtà tollerate dalla cultura dominante.
È nella terza fase del satanismo contemporaneo che l’autore presenta una tipologia di sei satanismi stravaganti, ma di attualità: scismatico, comunista, incendiario, goliardo, ‘alla bolognese’, assassino. Dietro a ognuno di questi satanismi si ritrovano vicende ben note, quali i Satanic Reds, le ondate del black metal, le città di Satana, i Bambini di Satana, le Bestie di Satana.
Nella ricostruzione di queste tre fasi, Introvigne dimostra una conoscenza sorprendente dei dati oggettivi del fenomeno, delle sue fonti e dei modelli interpretativi che si sono susseguiti tra gli studiosi. Si tratta di un metodo che si potrebbe definire storico-sistematico: storico perché ricostruisce le forme che il satanismo ha assunto in contesti temporali e sociali diversi; sistematico perché per ogni fase l’autore individua teorie, modelli interpretativi e ricerche che possono rappresentare ancora oggi categorie euristiche ed interpretative utili per le attuali ricerche.
Nelle conclusioni ci si chiede se ci saranno ancora satanisti nel 2050 e se il satanismo finirà con l’epoca post-moderna o con la globalizzazione. L’Autore propende a formulare ipotesi secondo le quali in tutte le epoche di crisi, fino a quella finanziaria del 2008, riemergono miti e riti attorno a Satana. Ma l’impostazione scientifica dell’opera di Introvigne non prevedeva tale approfondimento. Siamo infatti qui al problema più difficile, quello dell’ermeneutica dei dati, cioè dell’interpretazione dei fatti storici dietro ai quali individuare le forme post-moderne dei miti e dei riti del satanismo.
Introvigne termina con una domanda che pare rappresentare l’inizio di una nuova ricerca di sociologia del diavolo. La stessa domanda che si poneva già Agostino nelle Confessioni: Quarebam unde malum, et non erat exitus. Si tratterebbe di una classica ricerca di sociologia della conoscenza sulle dottrine, i saperi e le mitologie attraverso le quali l’intera vita individuale e collettiva ha fatto i conti con il malum. Tale ricerca potrebbe anche inserire la teoria dei Vangeli cristiani sulla radicale tolleranza del male. Si tratta della teoria già contenuta nella tradizione orale ebraica, che un antico midrash illustra così. Un rabbino incontra un demonio e lo rimprovera di tutte le sue azioni cattive, fino a che il demonio si rattrista e chiede che gli siano date delle regole. Il rabbino gli consente di proseguire le sue cattive azioni, ma solo due volte alla settimana, il martedì e il giovedì, e solo dalla sera all’alba.
L’uomo che vuole salvarsi dagli artigli demoniaci, sa quando deve restare a casa. È il fatalismo temperato ebraico e dei Vangeli sulla presenza del male. È pure la misura greca del “niente di troppo”.

Massimo Introvigne, I satanisti. Storia, riti e miti del satanismo, Sugarco, Milano 2010

Il giorno della civetta…..


(Quadro denominato “Uomini,mezzi uomini, quaquaraquà”del pittore partinicese Gaetano Porcasi)
Incontro Sciascia

Il volto anticristiano di George Orwell.


GEORGE ORWELL E I
«CATTOLICI ADULTI»
di Giovanni Romano

Un aspetto forse poco conosciuto ma niente affatto marginale nell’opera di George Orwell è la sua polemica antireligiosa. A differenza di un intellettuale laico della statura di Thomas Mann, egli non vide mai nel cristianesimo un antidoto o un argine alla marcia dei totalitarismi nel ventesimo secolo. Al contrario, lo considerò sempre qualcosa di alienante, una scappatoia mistica dai problemi di questo mondo, la consacrazione di rapporti sociali iniqui. Questa ostilità e incomprensione fu simboleggiata in modo memorabile dal personaggio del corvo Mosè nel suo capolavoro La fattoria degli animali, ma aveva radici assai più lontane. Già a diciassette anni, com’ebbe a scrivere molto tempo dopo, la lettura del libro di Winwood Reade The Martyrdom of Man1 lo influenzò profondamente in senso anticristiano, e lungo tutta la sua vita avrebbe continuato ad attaccare la religione fino a culminare in una sorta di drammatica «trilogia atea» in cui criticò in Swift il negatore della perfettibilità umana (Politics vs. Literature,1946), in Tolstoj il moralista (Lear, Tolstoj and The Fool, 1947) e il santo in Gandhi (Reflections on Gandhi, 1949).
Quanto al cattolicesimo, la sua ostilità era pressoché totale. Come per molti inglesi figli dello scisma anglicano, ai suoi occhi la Chiesa era una potenza straniera e pericolosa, covo della reazione, nemica della libertà di pensiero e alleata naturale delle dittature fasciste. Tale era la sua avversione che, quando andò a combattere in Spagna, assistette senza batter ciglio alla demolizione delle chiese di Barcellona e agli sfregi sulle tombe cristiane, non fece cenno alcuno all’eccidio di Barbastro dove pure si era recato più volte, e arrivò persino a protestare perché gli anarchici avevano deciso di risparmiare la Sagrada Familia di Gaudí2! I cattolici britannici erano guardati con profondo sospetto, considerati quasi un corpo estraneo alla nazione per la loro fedeltà «ultramontana», e più di una volta Orwell li assimilò tout court agli stalinisti tanto nei metodi quanto nella mentalità. Uno dei suoi bersagli preferiti era naturalmente Chesterton, al quale però riconosceva bravura e coraggio morale. A livello più propriamente letterario non risparmiò critiche a T.S. Eliot, tanto da insinuare che la conversione ne aveva sminuito i talenti artistici, e si permise di liquidare Assassinio nella Cattedrale come «un intrico di vermi vivi nelle budella delle donne di Canterbury».3

L’anima? Una struttura
Sarebbe ingiusto tuttavia pensare che Orwell fosse solo un laicista monomaniacale, incapace di apprezzare il valore delle opere letterarie che non collimassero col suo pensiero. Una delle sue poesie preferite, alla quale dedicò una splendida recensione, era Felix Randal di Gerald Manley Hopkins.4 Altrettanto fuorviante sarebbe ritenere che non si ponesse gli stessi interrogativi coi quali si confrontavano le coscienze religiose del suo tempo. È sua, anzi, l’immagine forse più potente che mai sia stata usata per descrivere la devastazione spirituale dell’uomo moderno:

Leggendo il libro brillante e deprimente di Malcolm Muggeridge Gli anni Trenta, mi sono ricordato di un tiro piuttosto crudele che una volta giocai a una vespa. Stava succhiando della marmellata dal mio piattino, e io la tagliai in due. Lei non se ne accorse, e continuò tranquillamente il suo pasto, mentre un rivoletto di marmellata le colava dall’esofago tagliato. Fu solo quando cercò di volare via che si rese conto della cosa spaventosa che le era accaduta. Lo stesso è accaduto all’uomo moderno: gli è stata asportata l’anima, e c’è stato un periodo – vent’anni, forse – in cui non se n’è accorto.5

Lo scontro con la religione non era nella diagnosi o nelle domande, ma nelle risposte. Per Orwell, l’asportazione dell’anima era un’operazione assolutamente necessaria, perché secondo lui era una sovrastruttura che mascherava i «reali» rapporti economici tra ricchi e poveri. Fu una delle poche volte in cui seguì ciecamente l’ortodossia marxista, anche se cercò di temperarla con un richiamo etico tanto nobile quanto insanabilmente contraddittorio: «Dobbiamo essere figli di Dio, anche se il Dio del Libro di Preghiere non esiste più6».
Uno scritto in cui Orwell portò alle estreme conseguenze il suo modo di pensare fu una disputa molto paradossale che ebbe a sostenere dalle colonne del Tribune con una lettrice che al giorno d’oggi si potrebbe grossomodo definire una «cattolica adulta». Ma lasciamo la parola all’Autore:

Qualche settimana fa, una lettrice cattolica del Tribune scrisse per protestare contro una recensione di Mr. Charles Hamblett. Lei obiettava contro le osservazioni a proposito di santa Teresa e san Giuseppe da Copertino, il santo che una volta volò intorno a una cattedrale portando un vescovo sulle spalle. Io risposi, difendendo Mr. Hamblett, e ho ricevuto un’altra lettera ancora più indignata. Questa lettera solleva delle questioni importanti, e almeno una di esse mi sembra meritevole di discussione. […].
La sostanza della lettera della mia corrispondente è che non importa se santa Teresa e il resto della compagnia volassero per l’aria o meno: quello che importa è che «la visione del mondo di santa Teresa ha cambiato il corso della storia». Questo sono disposto ad ammetterlo. Avendo vissuto in Oriente ho sviluppato una certa indifferenza ai miracoli, e so bene che avere delle fissazioni o anche essere pazzo nel senso letterale della frase è compatibile con quel che si può chiamare grossomodo il genio. William Blake, per esempio, secondo me era un pazzo. Giovanna d’Arco era probabilmente una pazza. Newton credeva nell’astrologia, Strindberg credeva nella magia. I miracoli dei santi, tuttavia, sono una questione secondaria. Dalla lettera della mia corrispondente è anche evidente che persino le dottrine più centrali della religione cristiana non devono essere accettate in senso letterale. Non ha importanza, per esempio, nemmeno se Gesù Cristo fosse esistito o meno. La figura di Cristo (mito, o uomo, o dio, non importa) trascende in tale misura tutto il resto che io vorrei soltanto che ognuno la prendesse in considerazione, prima di rifiutare quella impostazione di vita.7

Dura lezione di «realismo»
A parte il tono antipatico di degnazione verso i cristiani, equiparati a dei creduloni superstiziosi, tutto sembra procedere lungo i binari di un normale dibattito culturale tra un credente e un ateo. La lettrice cattolica – una donna presumibilmente colta, intelligente, «al passo coi tempi» – ha cercato di venire incontro il più possibile al suo interlocutore, mettendo in evidenza i «valori comuni» sui quali «non si può non essere tutti d’accordo». Ma sfortunatamente per lei si imbatterà in una delle più dure lezioni di realismo che un ateo abbia mai somministrato a certo cattolicesimo «spiritualista»:

Cristo, dunque, può essere un mito, o può essere stato soltanto un essere umano, o la versione che ne danno i vari Credi può essere vera. Così arriviamo a questa posizione: il Tribune non può prendersi gioco della religione cristiana, ma l’esistenza di Cristo, per aver negato la quale innumerevoli persone sono state bruciate, è una faccenda tutto sommato irrilevante.8

Contro l’ingenua astrattezza della sua interlocutrice, Orwell ripropone la questione in tutta la sua perentoria gravità. Solo un fatto può avere la dignità di stare dentro la storia come segno decisivo di contraddizione. E l’articolo prosegue implacabilmente:

Ora, è questa la dottrina cattolica ufficiale? La mia impressione è che non lo sia. […] Padre Knox9 definisce specificamente «orribile» l’idea che non importa se Cristo fosse realmente esistito o meno. Ma quello che la mia corrispondente dice troverebbe un’eco in molti intellettuali cattolici. Se parlate con un cristiano riflessivo, cattolico o anglicano, vi ride in faccia perché siete così ignoranti da supporre che qualcuno abbia mai preso alla lettera gli insegnamenti della Chiesa. Questi insegnamenti – vi vien detto – hanno un significato del tutto differente che voi siete troppo rozzi per capire.10

Pare di sognare: un ateo dichiarato che somministra lezioni di schietta ortodossia! È una pagina sulla quale dovrebbe riflettere seriamente più di un intellettuale cattolico oggi, specie quando si confonde il «dialogo» col mettere tra parentesi le proprie convinzioni, e ancor di più quando si toglie al cristianesimo il suo carattere peculiare di avvenimento. Fu facile a un realista come Orwell cogliere e smascherare questa inconsistenza. È significativo che le rare volte in cui egli assunse un tono cordiale e rispettoso verso la religione, fu perché si trovò di fronte a dei credenti per i quali la fede era un’evidenza che entrava tangibilmente nella vita. Un esempio è la già ricordata recensione a Felix Randal, ma un esempio ancora più importante è un appunto per il romanzo A Smoking-Room Story, rimasto incompiuto a causa della morte. La vicenda doveva essere ambientata tra i passeggeri a bordo di una nave britannica di ritorno dall’Estremo Oriente. Apparentemente si tratta di un ritorno a Burmese Days, la sua prima grande prova narrativa. Il protagonista introverso, riflessivo e disadattato, il rapporto di attrazione-repulsione con l’Oriente sono gli stessi, ma c’è un elemento nuovo, mai comparso prima nei suoi romanzi: la presenza di un gruppo di cattolici, per la precisione frati francescani di ritorno da una missione. È guardando a loro che al protagonista (e forse allo stesso Orwell) sfugge un’ammissione d’importanza capitale:

I suoi sentimenti nei confronti della Missione. Soprattutto, noia. Rifuggire dall’austerità. Ma sensazione immediata che in essa è presente qualcosa che mancava nella sua vita.11

Un’osservazione stupefacente
Per chi conosce l’opera di Orwell, che fino a pochi mesi prima della morte aveva pensato e in parte attuato una «controffensiva» contro gli scrittori cattolici attraverso la stroncatura del romanzo The Heart of the Matter di Graham Greene, che provava una tale repulsione verso Péguy da sentirsi fisicamente a disagio quando lo leggeva (segno tuttavia che qualcosa in lui lo colpiva profondamente), che irrise il cristianesimo come un pugnale nascosto dentro un crocifisso12, questa è un’osservazione a dir poco stupefacente. Era stato facile controbattere le ingenuità e le approssimazioni della lettrice cattolica del Tribune. A livello più alto, era stato altrettanto facile obiettare a Chesterton, Péguy, Greene. Ma non era possibile obiettare di fronte a un’evidenza che riguardava in modo così diretto e stringente la sua vita. Non sapremo mai come si sarebbe svolta questa intuizione nel corso del romanzo, se sarebbe stata mantenuta o confutata, ma il solo fatto di averla posta è significativo.
Orwell conobbe, o volle conoscere, il cristianesimo unicamente come dottrina e teoria, ma non ebbe mai la fortuna d’incontrarlo attraverso un’amicizia tangibile, testimoni in carne e ossa. Il soggettivismo protestante e lo scetticismo laico lo avevano tagliato fuori dalla concretezza dell’avvenimento cristiano. Quel frammento così importante rimase in fondo al cassetto, apparentemente senza eco. Di lui ci resta l’immagine di uno scrittore coraggioso e profondamente onesto, ma la sua onestà non fu sufficiente ad avvicinarlo al cuore della dimensione religiosa dell’esistenza. Mai questo intrepido difensore della libertà alzò la sua voce per difendere chi veniva perseguitato a causa della sua fede. Non si sa quanto fossero contenti i cristiani che soffrivano nei Gulag a vedersi paragonati al corvo Mosè.

Giovanni Romano

1 Cfr Review: The Martyrdom of Man by Winwoord Reade, 1946. In The Collected Essays, Journalism and Letters of George Orwell (d’ora in poi CE), volume IV, Harmondsworth 1984, p. 147.
2 Homage to Catatonia, Harmondsworth 1975, p. 52 e 203. Sugli sfregi alle tombe cristiane, si veda p. 79.
3 Cfr Review – Burnt Norton, East Cocker, The Dry Salvages by T.S. Eliot, 1942, CE II, pp. 273-274.
4 Cfr The Meaning of a Poem, 1941, CE II, p. 158s.
5 Notes on the Way, CE II, p. 30. Il corsivo è mio.
6 Ibidem, p. 33. Il riferimento è naturalmente al Book of Common Prayer.
7 As I Please, Tribune, 3 marzo 1944, CE III, p. 124s.
8 Ivi.
9 Ronald Knox (1888-1957) convertito dall’anglicanesimo, noto polemista e opinionista, fu sacerdote cattolico e cappellano all’Università di Oxford.
10 As I Please, cit., p. 125. Il corsivo è mio.
11 Frammenti del romanzo mai scritto, n. 21, in Orwell – Romanzi e saggi, Milano 2000 (a cura di Guido Bulla), p. 1.625. Il corsivo è mio.
12 Extracts from a Manuscript Note-Book, CE IV, senza data, p. 574.

Inculturare la fede con la scienza: nel IV centenario della morte di Matteo Ricci(1610-2010).


Nell’incontro tra il gesuita Matteo Ricci (Macerata 1552 – Pechino 1610) e la Cina dell’epoca Ming si attua una di quelle vicende storiche nelle quali l’Occidente cristiano si è trovato di fronte all’“altro assoluto”, alla diversità per eccellenza: occhi a mandorla, lingua incomprensibile, musica dissonante, pittura priva di prospettiva, religiosità priva di un Dio trascendente che governa l’Universo. In tale incontro straordinario si conferma una caratteristica specifica di alcuni ambienti intellettuali europei: la propensione a comprendere gli altri conducendoci in un mondo sconosciuto, distante dalle nostre assunzioni, intuizioni ed esperienze precedenti.
Matteo Ricci, con il nome cinese Li Madou, è senz’altro l’italiano più conosciuto in Cina. Capacità di adattamento e creatività intelligente furono per lui un’arte vera e propria, posta alla base di un comportamento tutto orientato all’interesse per l’altro, capace di giungere fino all’empatia, ad una sorta di identificazione. Tutto questo per meglio orientare ed annunciare Cristo, come si diceva una volta in partibus infidelium.
La prima giovinezza di Matteo trascorse nell’Italia della seconda metà del Cinquecento, in buona parte soggetta alla corona di Spagna con Filippo II, quando nel resto d’Europa dominavano anche Francia ed Inghilterra e la Chiesa vedeva assurgere al soglio pontificio prima Gregorio XIII (1572-1585) e poi il marchigiano Sisto V (1585-1590).
Li Madou visse nel Celeste Impero tra il 1583 ed il 1610 giungendo ad occupare un posto di primaria importanza nella storia della scienza cinese. Infatti, con la sua opera pionieristica di divulgazione delle conoscenze matematiche ed astronomiche europee, egli seppe aprire la strada agli altri gesuiti che dopo di lui giunsero in contatto con il Regno di Mezzo. Il 10 settembre 1583, a circa un anno da quel 24 febbraio 1582, data della promulgazione da parte del bolognese Gregorio XIII del calendario detto appunto “gregoriano”, padre Ricci ed il confratello Michele Ruggieri, pugliese di Spinazzola, sbarcarono nel Guandong, la provincia più meridionale della Cina e fecero il loro ingresso nella città di Zhaoqing.
Dopo dodici anni, nel 1595, lo Xitai Li Madou, il Maestro dell’Estremo Occidente, come veniva detto con soprannome onorifico pubblico, intraprese il suo viaggio lungo il Fiume Azzurro (Yangtze Kiang) per avvicinarsi fino al cuore del Regno, Nanchino. Il suo lavoro culturale fu davvero cospicuo: nel 1594 tradusse i Sishu (Quattro Libri) contenenti i fondamenti della dottrina confuciana; nel 1596 rielaborò in cinese, integrandolo con sentenze morali desunte dagli altri autori occidentali, il De amicitia di Cicerone (Jiaoyou lun) facendone dono ai propri amici e collaboratori cinesi. Un’impresa che gli valse un altro titolo onorifico, quello di Shengen (saggio ispirato, santo). Due anni dopo, nel 1598, il nostro gesuita fu invitato a Pechino, la mitica Kambaluc, fondata tre secoli prima dal mongolo Qubilai, che era stato amico dei veneziani della famiglia Polo.
Il ruolo di Matteo Ricci è stato così quello di essere il grande tramite di un fecondo scambio tra due civiltà, fino ad allora separate, e di esserlo stato proprio attraverso la sintesi tra la scienza e la fede. Formatosi presso il Collegio Romano, il Ricci ebbe come maestro Cristoforo Clavio (1538-1612) che gli diede, tra l’altro, un’ottima formazione matematica. Giunto in Cina nel 1583, Ricci si impegnò nella divulgazione delle conoscenze scientifiche occidentali con il preciso intento di utilizzarle come strumento di penetrazione culturale finalizzato a condurre i cinesi alla conoscenza di Dio. Ricordiamo che siamo al tempo della dinastia Ming (1368-1644) – fondata da Chu Yüan-chang, ex monaco buddhista che assunse il nome di Hong Wu – un’epoca nella quale il posto occupato dalle scienze era decisamente marginale. Matematica ed astronomia erano considerate discipline di secondo ordine e rappresentavano una parte irrilevante del programma per il superamento degli esami imperiali. I matematici non appartenevano alla classe dirigente, ma alla classe mercantile, anche se, nel corso della loro storia ultramillenaria, i cinesi erano pervenuti ad importanti scoperte scientifiche. Già intorno al 1200 le conoscenze astronomiche erano molto raffinate e all’avanguardia, se paragonate con quelle europee, come Ricci ebbe a constatare visitando l’osservatorio astronomico di Nanchino. Per i cinesi l’astronomia era sempre stata una scienza fondamentale: l’Universo era concepito come uno scambio di influssi tra il Cielo e la Terra ed ogni vita particolare ne costituiva un aspetto ed un momento. L’esistenza umana andava dispiegandosi nel “vuoto mediano”, in questo spazio formato dal congiungersi di sei Soffi (i quattro punti cardinali più le direzioni Alto e Basso) che delimitavano il luogo dove si svolgeva la vita. Nella medicina tradizionale cinese, poi, ci sono continui richiami all’astronomia, al calendario, alla meteorologia, alla geografia, alla mineralogia. Astronomia e astrologia coincidevano ed erano tenute in grande considerazione perché grazie all’osservazione dei fenomeni astronomici i burocrati addetti a stilare il calendario informavano e consigliavano l’Imperatore, Tian Zi. L’Imperatore, il Figlio del Cielo, era considerato il privilegiato intermediario tra cielo e terra e, nel caso in cui gli astronomi imperiali avessero sbagliato nell’osservazione, si sarebbe potuta compromettere la suprema autorità. La grandezza di Matteo Ricci consistette anche nella sua capacità di mettere in pratica, in maniera originale, l’insegnamento del fondatore del suo Ordine, Ignazio di Loyola. Come il nostro scriveva nel 1584: «In questo principio è necessario andar molto soavemente con questa gente e non muoversi con fervori indiscreti»; e trattare soavemente i cinesi significava anzitutto parlarne in modo corretto la lingua, cosa che il gesuita apprese a fare molto bene nel corso di quasi trenta anni di vita in Cina. E procedere soavemente significò anche imparare a vestirsi come i letterati confuciani, come egli stesso documenta: «ci eravamo vestiti tutti al modo della Cina lasciandoci la berretta quadra per memoria della croce; quest’anno anco di questo mi sono spropriato; così vestii una berretta assai stravagante, acuta come quella dei vescovi, per totalmente farmi Cino».
A Nanchino Matteo Ricci tenne la cattedra di astronomia: si trattava di una scienza sperimentale che rendeva impossibili le falsificazioni. E le scienze occidentali si dimostrarono superiori a quelle cinesi, tanto che i notabili che intrattennero rapporti con Li Madou ne ammirarono tutti la grande sapienza, come rispettarono e stimarono anche la religione che egli praticava.
Il “Grande Mappamondo dei Mondi e dei Mari” (Shanhai yuoli quantu) tracciato in Zhaoqing era giunto a Nanchino ed i notabili della città si recavano dal “saggio dell’Occidente” a discutere di astronomia e geografia. In Cina era credenza diffusa che la volta celeste fosse tonda e la Terra quadrata, che il Sole e la Luna sorgessero a oriente e tramontassero ad occidente e che girassero intorno alla Terra e che le eclissi di sole e di luna fossero una iattura per il mondo. Matteo Ricci insegnava, invece, che la Terra era rotonda e pendeva in mezzo al vuoto e che gli uomini la abitavano sia sopra che sotto. E mostrava ai cinesi i suoi strumenti: sfere armillari, globi terrestri, sestanti e quadranti, non osando, però, mai mostrarsi come l’unico sapiente. Tanto è vero che, a Nanchino, egli volle visitare il Padiglione del Polo Nord dove era conservata la strumentazione astronomica prodotta in Cina. Successivamente avrebbe osservato a Pechino anche altri strumenti astronomici. Erano tutti oggetti fabbricati con grande perizia ed il gesuita si rese conto che l’artefice di tale strumentazione era sempre lo stesso e doveva essere stato un astronomo; e che, in seguito, tali strumenti, erano stati utilizzati da persone ignare di astronomia tanto da averne sbagliato anche la collocazione. Questa strumentazione che il Ricci osservò nelle due capitali risaliva all’epoca dei Mongoli ed era stata fabbricata da Guo Shoujing.
La traduzione in cinese di parte delle opere di Euclide e la creazione di un lessico geometrico e matematico in lingua cinese (ancora oggi i termini matematici da lui coniati vengono utilizzati) fanno di Matteo Ricci il mediatore culturale e scientifico ante litteram tra Occidente ed Oriente. Il riconoscimento dell’importanza del grande gesuita di Macerata è ancora oggi indiscusso in Cina. Lo documenta, ad esempio, il fatto che, nell’ottobre del 2009, all’Università del Popolo di Pechino, Matteo Ricci è stato celebrato dagli studiosi che hanno partecipato ad una grande conferenza internazionale di sinologia, promossa da Yang Huilin, vicerettore della medesima Università e grande esperto della diffusione del cristianesimo in Cina.
L’infaticabile opera di Matteo Ricci, uomo di scienza, di cultura e di evangelizzazione ne ha fatto l’iniziatore della sinologia e insieme il grande “Apostolo della Cina”, offrendoci un luminoso esempio di inculturazione del Vangelo e di unità teorica e pratica tra scienza e fede.

Carlo Marino