I Satanisti. Storia, Riti e Miti del Satanismo.


Recensione di Luigi Berzano (Religioni e Società. Rivista di scienze sociali della religione, anno XXV, n. 67, maggio-agosto 2010, pp. 109-110)

Di satanismo e di satanisti tutti ne parlano, anche in quest’epoca post-secolare. I giornali, i tribunali, gli uomini di chiesa … tutti sanno, dichiarano, spiegano, ripudiano. Ma la tendenza colta è oggi totalmente antisatanista, negazionista, esorcista. Tutti ne parlano, ma per negarne la presenza. In più, non si trova nessuna simpatia per la letteratura quale quella di Bernanos, che tratta della presenza e delle azioni dei demoni invisibili e delle loro possessioni. E così pure per gli inferni pittorici di Bosch e i suoi affreschi saturi di demoni in libertà. Ancor meno attuali sono i capitoli della Vida di Teresa di Gesù e le sue minuziose descrizioni dei luoghi infernali. Insomma, è lontana la stessa filosofia di Aristotele che considerava demoniaca la Natura. La demonologia contemporanea è oggi la scienza che tratta della non esistenza del diavolo e, spesso, che non prende sul serio lo stesso oggetto delle sue ricerche.
Davvero, non si può dire che Massimo Introvigne non “prenda sul serio” il fenomeno del satanismo e che tratti del diavolo senza erudizione demonologica. Questa espressione “prendere sul serio” fa ricordare una delle ultime uscite in pubblico del filosofo Ernst Bloch. In una delle periodiche riunioni delle facoltà teologiche di Tubinga il relatore era stato Herbert Haag che presentava la sua opera di demonologia Abschied vom Teuftel (1969) (La credenza nel diavolo, Mondadori, 1976). Di fronte alle attenuazioni, demitizzazioni e secolarizzazioni che riducevano quasi a nulla la portata biblica e dogmatica sul diavolo, Bloch si sentì tradito nell’animazione profonda del suo filosofare, tanto che, spazientito, si alzò e uscì apostrofando l’oratore con queste parole: “Qui il demonio non è preso sul serio”.
Introvigne, direttore del CESNUR e tra gli studiosi più noti a livello internazionale sul tema del satanismo e, più in generale, dei nuovi movimenti religiosi, ritorna ora su un tema che aveva già affrontato in passato con altri due enciclopedici volumi: nel 1990 Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo (Milano, SugarCo, 1990) e nel 1994 Indagine sul satanismo. Satanisti e anti-satanisti dal Settecento ai giorni nostri (Milano, Mondadori, 1994).
Il nuovo volume si presenta molto documentato, con oltre un migliaio di note di approfondimento, una nota bibliografica finale e indici di nomi che danno conto di tutta la letteratura esistente. Il tutto si riferisce al fenomeno del satanismo che l’Autore individua con una definizione storico-sociologica particolarmente esclusiva. “Il satanismo può essere definito come l’adorazione o la venerazione, da parte di gruppi organizzati in forma di movimento, tramite pratiche ripetute di tipo cultuale o liturgico, del personaggio chiamato Satana o Diavolo nella Bibbia, sia questo inteso come una persona o un mero simbolo” (p. 13). Così definito il satanismo nasce solo con l’età moderna. Il volume di Introvigne ne ricostruisce la storia, i miti e i riti attraverso tre periodi storici successivi.
Il Seicento e il Settecento rappresentano le origini del satanismo moderno, allorché compaiono i primi rituali satanici collettivi. Il primo vero episodio di satanismo – alla corte di Luigi XIV – è parallelo alle prime autentiche inquietudini della modernità. Il satanismo classico si estende dal 1821 al 1952, da quando cioè il fenomeno si concretizza quale vero e proprio movimento sociale, seppur esiguo, fino alla scomparsa della figura carismatica e scandalosa di Jack Parsons (1883-1952) e alla fine del suo “culto dell’Anticristo” in California. Il terzo periodo è quello del satanismo contemporaneo, dopo il 1952. In questa fase il fenomeno si intreccia con una branca ‘nera’ della controcultura e produce forme quali quelle del satanismo di LaVey ufficialmente disapprovate, ma in realtà tollerate dalla cultura dominante.
È nella terza fase del satanismo contemporaneo che l’autore presenta una tipologia di sei satanismi stravaganti, ma di attualità: scismatico, comunista, incendiario, goliardo, ‘alla bolognese’, assassino. Dietro a ognuno di questi satanismi si ritrovano vicende ben note, quali i Satanic Reds, le ondate del black metal, le città di Satana, i Bambini di Satana, le Bestie di Satana.
Nella ricostruzione di queste tre fasi, Introvigne dimostra una conoscenza sorprendente dei dati oggettivi del fenomeno, delle sue fonti e dei modelli interpretativi che si sono susseguiti tra gli studiosi. Si tratta di un metodo che si potrebbe definire storico-sistematico: storico perché ricostruisce le forme che il satanismo ha assunto in contesti temporali e sociali diversi; sistematico perché per ogni fase l’autore individua teorie, modelli interpretativi e ricerche che possono rappresentare ancora oggi categorie euristiche ed interpretative utili per le attuali ricerche.
Nelle conclusioni ci si chiede se ci saranno ancora satanisti nel 2050 e se il satanismo finirà con l’epoca post-moderna o con la globalizzazione. L’Autore propende a formulare ipotesi secondo le quali in tutte le epoche di crisi, fino a quella finanziaria del 2008, riemergono miti e riti attorno a Satana. Ma l’impostazione scientifica dell’opera di Introvigne non prevedeva tale approfondimento. Siamo infatti qui al problema più difficile, quello dell’ermeneutica dei dati, cioè dell’interpretazione dei fatti storici dietro ai quali individuare le forme post-moderne dei miti e dei riti del satanismo.
Introvigne termina con una domanda che pare rappresentare l’inizio di una nuova ricerca di sociologia del diavolo. La stessa domanda che si poneva già Agostino nelle Confessioni: Quarebam unde malum, et non erat exitus. Si tratterebbe di una classica ricerca di sociologia della conoscenza sulle dottrine, i saperi e le mitologie attraverso le quali l’intera vita individuale e collettiva ha fatto i conti con il malum. Tale ricerca potrebbe anche inserire la teoria dei Vangeli cristiani sulla radicale tolleranza del male. Si tratta della teoria già contenuta nella tradizione orale ebraica, che un antico midrash illustra così. Un rabbino incontra un demonio e lo rimprovera di tutte le sue azioni cattive, fino a che il demonio si rattrista e chiede che gli siano date delle regole. Il rabbino gli consente di proseguire le sue cattive azioni, ma solo due volte alla settimana, il martedì e il giovedì, e solo dalla sera all’alba.
L’uomo che vuole salvarsi dagli artigli demoniaci, sa quando deve restare a casa. È il fatalismo temperato ebraico e dei Vangeli sulla presenza del male. È pure la misura greca del “niente di troppo”.

Massimo Introvigne, I satanisti. Storia, riti e miti del satanismo, Sugarco, Milano 2010

Inculturare la fede con la scienza: nel IV centenario della morte di Matteo Ricci(1610-2010).


Nell’incontro tra il gesuita Matteo Ricci (Macerata 1552 – Pechino 1610) e la Cina dell’epoca Ming si attua una di quelle vicende storiche nelle quali l’Occidente cristiano si è trovato di fronte all’“altro assoluto”, alla diversità per eccellenza: occhi a mandorla, lingua incomprensibile, musica dissonante, pittura priva di prospettiva, religiosità priva di un Dio trascendente che governa l’Universo. In tale incontro straordinario si conferma una caratteristica specifica di alcuni ambienti intellettuali europei: la propensione a comprendere gli altri conducendoci in un mondo sconosciuto, distante dalle nostre assunzioni, intuizioni ed esperienze precedenti.
Matteo Ricci, con il nome cinese Li Madou, è senz’altro l’italiano più conosciuto in Cina. Capacità di adattamento e creatività intelligente furono per lui un’arte vera e propria, posta alla base di un comportamento tutto orientato all’interesse per l’altro, capace di giungere fino all’empatia, ad una sorta di identificazione. Tutto questo per meglio orientare ed annunciare Cristo, come si diceva una volta in partibus infidelium.
La prima giovinezza di Matteo trascorse nell’Italia della seconda metà del Cinquecento, in buona parte soggetta alla corona di Spagna con Filippo II, quando nel resto d’Europa dominavano anche Francia ed Inghilterra e la Chiesa vedeva assurgere al soglio pontificio prima Gregorio XIII (1572-1585) e poi il marchigiano Sisto V (1585-1590).
Li Madou visse nel Celeste Impero tra il 1583 ed il 1610 giungendo ad occupare un posto di primaria importanza nella storia della scienza cinese. Infatti, con la sua opera pionieristica di divulgazione delle conoscenze matematiche ed astronomiche europee, egli seppe aprire la strada agli altri gesuiti che dopo di lui giunsero in contatto con il Regno di Mezzo. Il 10 settembre 1583, a circa un anno da quel 24 febbraio 1582, data della promulgazione da parte del bolognese Gregorio XIII del calendario detto appunto “gregoriano”, padre Ricci ed il confratello Michele Ruggieri, pugliese di Spinazzola, sbarcarono nel Guandong, la provincia più meridionale della Cina e fecero il loro ingresso nella città di Zhaoqing.
Dopo dodici anni, nel 1595, lo Xitai Li Madou, il Maestro dell’Estremo Occidente, come veniva detto con soprannome onorifico pubblico, intraprese il suo viaggio lungo il Fiume Azzurro (Yangtze Kiang) per avvicinarsi fino al cuore del Regno, Nanchino. Il suo lavoro culturale fu davvero cospicuo: nel 1594 tradusse i Sishu (Quattro Libri) contenenti i fondamenti della dottrina confuciana; nel 1596 rielaborò in cinese, integrandolo con sentenze morali desunte dagli altri autori occidentali, il De amicitia di Cicerone (Jiaoyou lun) facendone dono ai propri amici e collaboratori cinesi. Un’impresa che gli valse un altro titolo onorifico, quello di Shengen (saggio ispirato, santo). Due anni dopo, nel 1598, il nostro gesuita fu invitato a Pechino, la mitica Kambaluc, fondata tre secoli prima dal mongolo Qubilai, che era stato amico dei veneziani della famiglia Polo.
Il ruolo di Matteo Ricci è stato così quello di essere il grande tramite di un fecondo scambio tra due civiltà, fino ad allora separate, e di esserlo stato proprio attraverso la sintesi tra la scienza e la fede. Formatosi presso il Collegio Romano, il Ricci ebbe come maestro Cristoforo Clavio (1538-1612) che gli diede, tra l’altro, un’ottima formazione matematica. Giunto in Cina nel 1583, Ricci si impegnò nella divulgazione delle conoscenze scientifiche occidentali con il preciso intento di utilizzarle come strumento di penetrazione culturale finalizzato a condurre i cinesi alla conoscenza di Dio. Ricordiamo che siamo al tempo della dinastia Ming (1368-1644) – fondata da Chu Yüan-chang, ex monaco buddhista che assunse il nome di Hong Wu – un’epoca nella quale il posto occupato dalle scienze era decisamente marginale. Matematica ed astronomia erano considerate discipline di secondo ordine e rappresentavano una parte irrilevante del programma per il superamento degli esami imperiali. I matematici non appartenevano alla classe dirigente, ma alla classe mercantile, anche se, nel corso della loro storia ultramillenaria, i cinesi erano pervenuti ad importanti scoperte scientifiche. Già intorno al 1200 le conoscenze astronomiche erano molto raffinate e all’avanguardia, se paragonate con quelle europee, come Ricci ebbe a constatare visitando l’osservatorio astronomico di Nanchino. Per i cinesi l’astronomia era sempre stata una scienza fondamentale: l’Universo era concepito come uno scambio di influssi tra il Cielo e la Terra ed ogni vita particolare ne costituiva un aspetto ed un momento. L’esistenza umana andava dispiegandosi nel “vuoto mediano”, in questo spazio formato dal congiungersi di sei Soffi (i quattro punti cardinali più le direzioni Alto e Basso) che delimitavano il luogo dove si svolgeva la vita. Nella medicina tradizionale cinese, poi, ci sono continui richiami all’astronomia, al calendario, alla meteorologia, alla geografia, alla mineralogia. Astronomia e astrologia coincidevano ed erano tenute in grande considerazione perché grazie all’osservazione dei fenomeni astronomici i burocrati addetti a stilare il calendario informavano e consigliavano l’Imperatore, Tian Zi. L’Imperatore, il Figlio del Cielo, era considerato il privilegiato intermediario tra cielo e terra e, nel caso in cui gli astronomi imperiali avessero sbagliato nell’osservazione, si sarebbe potuta compromettere la suprema autorità. La grandezza di Matteo Ricci consistette anche nella sua capacità di mettere in pratica, in maniera originale, l’insegnamento del fondatore del suo Ordine, Ignazio di Loyola. Come il nostro scriveva nel 1584: «In questo principio è necessario andar molto soavemente con questa gente e non muoversi con fervori indiscreti»; e trattare soavemente i cinesi significava anzitutto parlarne in modo corretto la lingua, cosa che il gesuita apprese a fare molto bene nel corso di quasi trenta anni di vita in Cina. E procedere soavemente significò anche imparare a vestirsi come i letterati confuciani, come egli stesso documenta: «ci eravamo vestiti tutti al modo della Cina lasciandoci la berretta quadra per memoria della croce; quest’anno anco di questo mi sono spropriato; così vestii una berretta assai stravagante, acuta come quella dei vescovi, per totalmente farmi Cino».
A Nanchino Matteo Ricci tenne la cattedra di astronomia: si trattava di una scienza sperimentale che rendeva impossibili le falsificazioni. E le scienze occidentali si dimostrarono superiori a quelle cinesi, tanto che i notabili che intrattennero rapporti con Li Madou ne ammirarono tutti la grande sapienza, come rispettarono e stimarono anche la religione che egli praticava.
Il “Grande Mappamondo dei Mondi e dei Mari” (Shanhai yuoli quantu) tracciato in Zhaoqing era giunto a Nanchino ed i notabili della città si recavano dal “saggio dell’Occidente” a discutere di astronomia e geografia. In Cina era credenza diffusa che la volta celeste fosse tonda e la Terra quadrata, che il Sole e la Luna sorgessero a oriente e tramontassero ad occidente e che girassero intorno alla Terra e che le eclissi di sole e di luna fossero una iattura per il mondo. Matteo Ricci insegnava, invece, che la Terra era rotonda e pendeva in mezzo al vuoto e che gli uomini la abitavano sia sopra che sotto. E mostrava ai cinesi i suoi strumenti: sfere armillari, globi terrestri, sestanti e quadranti, non osando, però, mai mostrarsi come l’unico sapiente. Tanto è vero che, a Nanchino, egli volle visitare il Padiglione del Polo Nord dove era conservata la strumentazione astronomica prodotta in Cina. Successivamente avrebbe osservato a Pechino anche altri strumenti astronomici. Erano tutti oggetti fabbricati con grande perizia ed il gesuita si rese conto che l’artefice di tale strumentazione era sempre lo stesso e doveva essere stato un astronomo; e che, in seguito, tali strumenti, erano stati utilizzati da persone ignare di astronomia tanto da averne sbagliato anche la collocazione. Questa strumentazione che il Ricci osservò nelle due capitali risaliva all’epoca dei Mongoli ed era stata fabbricata da Guo Shoujing.
La traduzione in cinese di parte delle opere di Euclide e la creazione di un lessico geometrico e matematico in lingua cinese (ancora oggi i termini matematici da lui coniati vengono utilizzati) fanno di Matteo Ricci il mediatore culturale e scientifico ante litteram tra Occidente ed Oriente. Il riconoscimento dell’importanza del grande gesuita di Macerata è ancora oggi indiscusso in Cina. Lo documenta, ad esempio, il fatto che, nell’ottobre del 2009, all’Università del Popolo di Pechino, Matteo Ricci è stato celebrato dagli studiosi che hanno partecipato ad una grande conferenza internazionale di sinologia, promossa da Yang Huilin, vicerettore della medesima Università e grande esperto della diffusione del cristianesimo in Cina.
L’infaticabile opera di Matteo Ricci, uomo di scienza, di cultura e di evangelizzazione ne ha fatto l’iniziatore della sinologia e insieme il grande “Apostolo della Cina”, offrendoci un luminoso esempio di inculturazione del Vangelo e di unità teorica e pratica tra scienza e fede.

Carlo Marino

Fuggita da Satana….

Fuggita da Satana. La mia lotta per scappare dall’inferno

Al culmine di una carriera professionale coronata di successo e ricchezza, la ricerca di nuove esperienze porta Michela a incontrare un gruppo esoterico, che le promette emozioni e felicità. Dall’esoterismo all’ingresso in una setta satanica il passo è breve. È l’inizio di un’esperienza sconvolgente, che la porta – ammette lei – a fare di tutto, tranne l’omicidio: messe nere, riti di iniziazione, sacrifici a Satana si susseguono in un vortice di pratiche diaboliche in cui, costantemente sotto l’effetto di stupefacenti, il contatto con la realtà si perde a poco a poco. Saliti a uno a uno i gradini della gerarchia interna alla setta, si trova infine incaricata di eliminare la fondatrice dell’Associazione “Nuovi Orizzonti”. È a quel punto che capisce che non può andare oltre e, aggrappandosi alle ultime forze della volontà, decide di fuggire, trovando riparo proprio in una comunità di accoglienza di “Nuovi Orizzonti”. Sconvolgenti sono le testimonianze di questo periodo: dal parlare lingue sconosciute al trovarsi in possesso di una forza sovrumana, dal non sentire alcun dolore fisico fino al camminare su pareti e soffitti. Tutti segni della presenza diabolica che la possiede. Fino a quando, dopo un intenso periodo di accompagnamento psicologico-spirituale e di esorcismi viene finalmente liberata dal maligno. A condizione di mantenere l’anonimato per non essere identificata – il nome fittizio di Michela è un omaggio a San Michele Arcangelo – ha accettato di raccontare tutta la sua storia.

Michela,Fuggita da Satana. La mia lotta per scappare dall’inferno,
Editore Piemme Pagine 168, 2009

Ugualmente Diversi.


E’ il primo libro specifico che viene pubblicato in Italia sul tema dell’ IRC per gli alunni diversamente abili, scritto da una persona con una grande competenza in materia.

Descrizione dell’opera
Dalla sua esperienza trentennale come docente, un terzo della quale vissuta come insegnante di sostegno avendo scelto di lavorare con ragazzi in situazione di handicap, l’autrice propone un percorso formativo volto a sostenere chi opera per realizzare l’integrazione degli alunni “speciali”, come lei stessa li definisce, nelle classi.
Nella prima parte del volume viene approfondita la ‘crisi’ che può verificarsi quando si lavora con studenti diversamente abili con i quali portare a compimento l’integrazione.

Nella seconda parte l’autrice, che da vent’anni svolge anche attività di volontariato come formatrice di famiglie con figli in situazione di handicap, propone alcuni suggerimenti – rivolti a insegnanti di religione “specialisti” e non – per attività concrete che si possono svolgere nei vari gradi scolastici dell’obbligo, al fine di rendere possibile l’IRC ad alunni con caratteristiche diverse dai compagni, ma con gli stessi diritti.

Infine fornisce utili indicazioni per libri, film, siti internet, per aiutare gli insegnanti nell’ideazione del progetto didattico, fa un panorama dell’attuale legislazione in materia e offre un breve vocabolario medico, il tutto anche per stimolare ulteriori approfondimenti.

«La scuola, integrando obbligatoriamente questi alunni ‘speciali’ nelle classi, regala a tutti, grandi e piccoli, il meraviglioso dono di lasciarsi beneficamente contaminare dalle diversità e dalle differenze. Un obbligo liberante, maturante… per debellare le tante barriere fisiche e psicologiche, concrete e immaginarie, emotive e sociali che si frappongono tra diversi, tra sani e malati».

Sommario

Prefazione. I. Alunni diversamente speciali. 1. Non figli di un Dio minore. 2. Crisi crisalide. 3. IRC: un diritto per tutti. II. IRC per alunni speciali nella scuola dell’obbligo. 1. IRC nella scuola dell’infanzia. 2. IRC nella scuola primaria. 3. IRC nella scuola secondaria di primo grado. III. Strumenti. Libri. Video. Internet. Legislazione. Piccolo vocabolario medico.

Note sull’autrice

Daniela Panero tiene corsi per la formazione dei docenti. Ha insegnato religione per più di vent’anni nella scuola elementare; dal 2000 è insegnante comandata dal Ministero dell’Istruzione presso il Gruppo Abele di Torino. Psicopedagogista, specializzata nell’insegnamento ad alunni disabili, si occupa della formazione dei docenti e di didattica in campo sociale e pastorale. Insieme a S. Bocchini, ha pubblicato presso le EDB Didattica cre-attiva. Idee, spunti, sussidi e tecniche per l’IRC: dall’infanzia alla secondaria (2008).

Daniela Panero, UGUALMENTE DIVERSI. Insegnare religione agli alunni in situazione di handicap nella scuola”, EDB, Bologna 2010

Preti pedofili.


Secondo Benedetto XVI la tragedia dei preti pedofili ha fatto più danni alla Chiesa delle grandi persecuzioni, di cui pure la storia è piena. La colpa, anzitutto, è degli stessi preti pedofili, «vergogna e disonore» per la Chiesa secondo le parole del papa. Sulla base della Lettera ai cattolici dell’Irlanda di Benedetto XVI, riprodotta in appendice, e di anni di ricerche sociologiche sul tema Massimo Introvigne si chiede come una simile sconcertante vicenda sia stata possibile nella Chiesa, e concentra la sua attenzione sulla rivoluzione e la contestazione contro la morale degli anni 1960 all’esterno e all’interno del mondo cattolico. Dalla triste realtà dei preti pedofili Introvigne distingue però l’amplificazione del loro numero attraverso statistiche fasulle, e il sospetto generalizzato ingiustamente gettato sui sacerdoti nel loro insieme, sulla Chiesa e su Benedetto XVI da una lobby laicista, i cui argomenti sono sistematicamente smontati con il rigore del sociologo e la passione del cattolico che si sente vicino a un papa addolorato e calunniato.

MASSIMO INTROVIGNE, sociologo che ha al suo attivo trent’anni di studi e oltre quaranta volumi dedicati in particolare al pluralismo religioso e ai casi di violenza collegati alla religione, dirige a Torino il CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni), una delle maggiori istituzioni mondiali che si occupano di rilevare e descrivere i fenomeni religiosi in Italia e nel mondo. È vice-presidente dell’APSOR (Associazione Piemontese di Sociologia delle Religioni) e vice-responsabile nazionale di Alleanza Cattolica.

Un mese dedicato alla faccia delle donne.

Contro la sterilità imperante. Dopo anni di maschilizzazione liberal

Onan è la pietra di paragone dell’indignazione. Disperde il proprio seme in terra piuttosto che inseminare la donna. Musil è la pietrificazione del risentimento. Disperde il proprio seme in ogni donna perché non vuole più perdonare la terra («non potrei più guardare una donna allo stesso modo se sapessi che è stata inseminata da un altro uomo»). Sade è puro e semplice onanismo assistito. Il razionalismo, come diceva il vecchio Diderot alla vista delle passeggiatrici, del «sono le idee le mie puttane». Altra forma di dispersione del seme (oltre che di anestesia, o privazione dell’estasi) è, per esempio, il “savianesimo”. Il quale rinvia all’efebìa ateniese. Efebo, “recluta”, l’adolescente a cui era richiesta una esibizione pubblica di adesione agli ideali della polis. Nella attuale variante trombona italiana, la prova pubblica di efebìa è il reclutamento antimafia (vedi in proposito la recente messa alla scuola di giornalismo di Perugia cantata da Avatar Al Gore e dal Tristano di Gomorra di famosa e delicata peluria; o si veda il rito mediatico officiato intorno all’albero di Falcone profanato e orbato dai disegni dei bambini antimafia).
Diversamente da questo maschilismo imperante – questo maschilismo che si esprime nelle narrazioni giornalistiche e nell’intrattenimento televisivo come seme disperso, risentimento, efebìa – Tempi rimane persuaso che tutto (nell’economia come nello spettacolo) e tutti (anche i leader dei partiti e quelli di Chiesa) starebbero meglio (e di conseguenza anche noi persone in società) se vi fosse occasione di lasciarsi educare dal talento femminile. Che, come scrisse Cesare Pavese, «è un talento innato, una disposizione originaria, un assoluto virtuosismo nel conferire al finito un senso». Nasce di qui l’idea di dedicare un maggio alla “faccia delle donne”. Non un’evasione civettuola dalla cronaca cicisbea (per esempio, non può essere che anche il siparietto, pericoloso per l’Italia, tra Fini e Berlusconi, abbia radici maschiliste?), ma un diverso abitare la cronaca. Tant’è che l’idea ci è venuta dalla solida provocazione della nostra amica Susanna Tamaro. Che dopo averci fatto l’onore di una visita in redazione, si è esibita sul Corriere della Sera in un bel tuffo nel femminismo italiano d’antan, riguardato dall’autrice di Anima mundi come “fallimento” (diverso, e forse meritorio di un’altra crime scene investigation, il caso del femminismo virago che ha messo radici in Nordeuropa e Nordamerica). Non staremo qui a discutere le tesi di Susanna (per altro già dibattute dagli interventi della Comencini, Rodotà e Terragni). Ma partendo da lei, prendendo le mosse da una questione che sembrava perduta nelle rughe de “l’utero è mio”, riprenderemo in chiave di grimaldello, di lettura dell’attualità, l’intuizione secondo cui «la donna concilia l’uomo e se stessa col mondo» (Pavese). Per esempio: come si concilia (si concilia?) la donna con il “manipulitismo”, cioè con quella forma di violento onanismo che a fronte delle continue “perdite” del reale, persegue la purità cercando di imporre (alle donne, alla politica, alle imprese, al calcio, alla Chiesa, eccetera) sistemi sempre più pazzeschi – o come li chiamano loro, “perfetti” – di purificazione e abluzione?
Proveremo a sondare il lato femminile della cronaca e a fare un mese di giornale femminile. Nonché – e questo è il punto – proveremo a capire se è proprio questo il lato della vicenda umana che decide di personalità e società aperta o chiusa; di giustizia matrigna o misericordiosa; di bellezza chirurgica-preservativa o di “cara Beltà-freschezza più cara” (e dire che Leopardi era un “materialista”, e dire che Gerald Manley Hopkins era un gesuita!). Insomma, poiché il tratto essenziale del femminile sulla terra non è il fatto che la donna dia la vita (è infatti possibile, in un futuro, che si avveri quella tremenda e schifosa cosa prometeica che è la riproduzione per via completamente artificiale) ma è l’atteggiamento originale insito nel suo dare la vita e, soprattutto, insito nella vita stessa (perfino Eugenio Scalfari sarà stato quell’urlo in utero, poi lo stupore di cose fuori di sé, poi lo stupore di sé, insomma il bambino che domanda e non chiude mai la porta al mondo), cercheremo la biblica “costola dell’uomo”. Che come ha notato il grande storico Jacques Le Goff è tutt’altro che la prima affermazione di un maschilismo ancestrale. Ma è la prima parola di uguaglianza uomo-donna che sia risuonata nella storia. Parola di liberazione, precisa l’agnostico Le Goff, quando tutte, ma proprio tutte, le radici non giudeo-cristiane del mondo (compresa l’attuale, liberal, occidentale, Homo Sapiens New York Times, come ci spiega in questo numero Irene Vilar) erano state e restano saldamente maschiliste.

http://www.tempi.it/editoriale/008950-un-mese-dedicato-alla-faccia-delle-donne-dopo-anni-di-maschilizzazione-liberal

La lampada sopra il moggio…..


Dagli eccidi della Rivoluzione francese ai totalitarismi del XX secolo; dalle persecuzioni anticristiane alla vicenda di Eluana Englaro, attraverso la crisi delle ideologie: Vincenzo Merlo ripercorre con il rigore dello storico e la convinzione del credente alcuni passaggi chiave degli ultimi due secoli, mettendo in luce mediante l’analisi puntuale delle grandi encicliche della Chiesa cattolica le ragioni dell’umanesimo cristiano, contro i guasti della modernità laicista che si adopera, oggi come ieri, per estirpare Dio dall’orizzonte dell’uomo.
Le persecuzioni contro i battezzati,le scelte etiche,i massacri delle rivoluzioni e i totalitarismi del ‘900.
Il pantano odierno è la conseguenza di una serie di errori commessi tutti a danno dell’uomo, scrive Rosa Alberoni nella Prefazione, perché, con le parole di Henri De Lubac, «non è vero che l’uomo non possa organizzare la terra senza Dio. Quel che è vero è che, senza Dio, egli non può in fin dei conti che organizzarla contro l’uomo».
Il titolo stesso ribadisce che il Vangelo e la tradizione cristiana rimangono riferimenti certi, fari luminosi per chi ha smarrito la via nella notte del mondo.

Vincenzo Merlo è nato a Brescia nel 1962. Dal 2001 è docente di ruolo di Discipline giuridiche ed economiche nella Scuola secondaria superiore. Collaboratore della rivista on-line Ragionpolitica.it (fondata da don Gianni Baget Bozzo) e de Il Conciliatore nuovo, è autore del libro Politicamente scorretto…! Considerazioni di un professore cattolico moderatamente tradizionalista (Bietti Media 2008).

Vincenzo Merlo,La lampada sopra il moggio.Le ragioni della Chiesa nei secoli della modernità.pp. 320 Ed.Ares,2010

Spagna:aborti con lo sconto!!!


Spagna, ora si offrono aborti con lo sconto

Quindici per cento di sconto su elettrodomestici, armadi a muro e aria condizionata; 20% su occhiali e lenti a contatto; 15% su manicure e pedicure e 20% per le interruzioni volontarie della gravidanza.
Sconti per abortire. Non è un macabro scherzo e neppure un errore. Nella lista dei servizi offerti da negozi e aziende private – convenzionati con la regione Andalusia – c’è anche l’aborto.
Una clinica di Almeria e un istituto di Siviglia offrono prezzi speciali per le ragazze che presenteranno il Carnet Joven: una “Carta Giovane” promossa dall’Istituto Andaluso della Gioventù, dipendente dal governo della regione.
«Usala per tutto», è lo slogan della tessera: apparentemente una fidelity card come tante altre in Europa (il modello è l’European Youth Card, recentemente estesa fino ai 30 anni). Ma in Andalusia sono andati ben oltre: nell’elenco dei servizi convenzion ati – accanto all’autoscuola, alle librerie e ai negozi di abbigliamento – ci sono anche le interruzioni volontarie di gravidanza.
La vicenda – denunciata dal quotidiano Abc – ha sollevato una valanga di polemiche in Spagna. La commercializzazione dell’aborto è esplicita. Gli sconti proposti da una clinica sivigliana, ad esempio, riguardano «visite e servizi diretti all’interruzione volontaria della gravidanza, ecografia, servizi di pianificazione familiare, visite ginecologiche, vasectomia» e altro.
I responsabili dell’istituto sivigliano non hanno smentito l’informazione, al contrario: fonti della clinica assicurano che esiste una regolare convenzione con la previdenza sociale e che è uno sconto come tanti altri, «come quelli che trova un ragazzo quando vuole andare al cinema, al teatro, o questo tipo di cose». Il 10% di riduzione viene applicato ai proprietari della Carta Giovane anche da alcune farmacie sui medicinali: s! econdo i l giornale Abc questo potrebbe riguardare pure la “pillola del giorno dopo”, che in Spagna può essere acquistata liberamente senza ricetta medica.
La polemica esplode in un momento critico: la riforma dell’aborto voluta dal governo di José Luis Rodríguez Zapatero – approvata dal Senato a febbraio – entrerà in vigore fra pochi mesi. La nuova legge – che liberalizza l’aborto fino alla 14esima settimana di gestazione – permette alle minorenni di 16 e 17 anni di interrompere la gravidanza senza l’autorizzazione dei genitori. «L’ideologia del signor Zapatero non prevede una politica della salute per la donna, bensì una politica commerciale per l’industria abortista» è la denuncia della dottoressa Gador Joya, portavoce della piattaforma pro-life Diritto di vivere (Dav). Gli sconti «non possono sorprendere nessuno. È perfettamente coerente con il process o di imposizione della legge abortista più radicale d’Europa».
Per il direttore della Fondazione Vita, Manuel Cruz, è un problema di «banalizzazione» dell’aborto: «È vergognoso che si accompagnino praticamente per mano le donne ad uccidere un innocente, sovvenzionando delle imprese private, invece di usare quei fondi per aiutare le madri e lottare contro la crisi». Cruz accusa il governo andaluso (guidato dal Partito socialista, come l’esecutivo centrale) di «spingere la donna verso l’aborto senza riflettere, come se fosse un gioco», promuovendo un’«irresponsabilità sessuale» che rischia di trasformare l’interruzione della gravidanza in un metodo contraccettivo in più.
Michela Coricelli
avvenire.it
10 Aprile 2010

Ci sono idee che possono trovare condivisioni o bocciature clamorose, perché dipendono dalla sensibilità personale, dalla cultura acquisita, dall’ambiente che si è frequentato, dall’esperienza o dal naturale disincanto di fronte agli uomini e alle cose.
Ci sono poi valori non negoziabili, ovvero capisaldi nella nostra esistenza quotidiana, fattori imprescindibili dal nostro essere e dal nostro operare perché parte integrante della nostra storia. Uno di questi valori è il diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale.
Negare ciò è assurdo e inconcepibile. Negare che il diritto alla vita (dal concepimento alla morte naturale) sia un valore non negoziabile è un controsenso per chi la vita l’ha ricevuta.
Come può un uomo negare la vita ad un altro uomo? Può non accoglierlo, può stabilire di non curarsi di lui, magari perché e un diversamente abile, o perché non ha risorse per farlo, o perché è frutto di una violenza subita, o anche perché semplicemente necessita di tempo e amore che si sceglie di non dare.
Al di la dell’abito che si è deciso di indossare in società, del suo colore e della sua fattura, c’è una consistenza intrinseca all’uomo che non si può trascurare: anche lo spirito più libero e laico, prima o poi, deve fare i conti con se stesso.
Nel corso della passata campagna elettorale sono venute fuori posizioni ideali forti e coraggiose, che, se non hanno trovato immediato riscontro nell’elettorato (per la logica del ‘voto utile’? per posizioni ideologiche incancrenite?) hanno tuttavia smosso numerose coscienze e, soprattutto, hanno portato alla luce un numero incredibile di persone che ancora credono nel valore della vita, nella forza della famiglia, in una società più matura e consapevole.
Proponiamo in queste pagine i contributi più significativi che sono emersi sulla stampa negli ultimi due mesi. Vogliamo suscitare reazioni finalizzate ad un dibattito costruttivo con quanti avranno voglia di misurarsi con temi come questi.
L’auspicio è offrire al dibattito politico attuale temi forti a favore della persona. L’auspicio è che le fila di persone convinte che valga la pena di lottare per la vita, cresca in maniera esponenziale. L’auspicio è arrivare a far sentire la nostra voce nelle sedi competenti.
Giovanni Salizzoni

IL FATTO DELLA CONVERSIONE RELIGIOSA.


di Massimo Introvigne
Relazione di apertura al XXI Simposio Internazionale di Teologia, Universidad de Navarra, Pamplona, 14 aprile 2010

Premessa: il problema
Uno spettro si aggira fra gli studiosi di scienze sociali delle religioni: la conversione. Non si può dire che il fenomeno della conversione non preoccupi coloro che studiano i fenomeni religiosi nella “società complessa” contemporanea. Al contrario, come rilevava Thomas Robbins, “sembra chiaro che un ammontare sproporzionato della ricerca” nei diversi settori delle scienze religiose “si è rivolta a studiare i processi di conversione e di nuovo impegno religioso”[1]. Che la conversione sia così studiata, rilevava lo stesso sociologo americano, è un fatto paradossale, e deriva forse dalla preoccupazione che i convertiti suscitano: “in una società ‘secolare’” la conversione sembra “un fenomeno non naturale e problematico, che si presume implichi processi esoterici”, e lo studioso è chiamato a scoprire di quali processi esattamente si tratti[2]. Più semplicemente, si potrebbe ritenere che gli studi sulla conversione siano diventati di moda a partire dagli anni 1980 perché sono tornate di moda le conversioni.
Secondo una valutazione certamente esagerata, ma presentata nel 1991 su una rivista scientifica autorevole, da seimila a ottomila cattolici latino-americani al giorno (certo in grandissima parte non praticanti) si convertirebbero a una varietà di denominazioni e comunità protestanti o “settarie”[3]. È più probabile che la cifra sia oggi piuttosto vicina al migliaio, ma resta comunque elevata[4]. Si comprende così come l’esperienza della conversione – che ancora William James (1842-1910) considerava relativamente rara nelle società occidentali –, se oggi si ripete centinaia di volte tutti i giorni, susciti stupore e richieda spiegazioni. In gran parte il problema della conversione richiama quello di nuovi movimenti religiosi fortemente proselitistici, che hanno iniziato la loro attività nel secolo XIX: la Chiesa Mormone, forse il gruppo di maggiore successo nel proselitismo, è stata fondata nel 1830; gli Studenti Biblici, antenati dei Testimoni di Geova, nel 1878. La maggior parte degli studi riguardano in effetti gruppi variamente denominati “nuove religioni”, “nuovi movimenti religiosi”, “sette” o “culti”[5].
Da diversi decenni sembra tuttavia che si siano fatti più frequenti, particolarmente negli Stati Uniti, anche i passaggi da una denominazione protestante storica all’altra, e dal cattolicesimo al protestantesimo[6]. Vi è anche un forte interesse per il contrario della conversione, la “disaffiliazione” o “apostasia”, cui sono stati dedicati importanti studi[7]. Il discorso non è peraltro privo di una certa carica di ambiguità perché molte conversioni, considerate da un altro punto di vista, sono nello stesso tempo “apostasie”, se non da una precedente affiliazione religiosa almeno da una precedente visione del mondo. Diverse scienze – la fenomenologia delle religioni, la storia, la psicologia, l’antropologia e la sociologia, per non parlare della teologia – si occupano oggi del fenomeno della conversione, e – benché molti auspichino un accostamento interdisciplinare – i tentativi in questo senso non sono né facili né numerosi.
Lo sfondo è costituito dalla società complessa, caratterizzata dalla globalizzazione e dallo scambio d’informazioni anche fra culture diverse sempre più rapido e vorticoso. Tenere conto di questo sfondo non significa dare un giudizio di valore aprioristico sulla globalizzazione. Come insegna Benedetto XVI nella Caritas in veritate, “talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana”. In realtà, di per sé “la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno”[8].
Nella prima parte di questo articolo esaminerò cinque tipi prevalenti di teorie della conversione – distinti a seconda della scienza che funge da principale punto di riferimento metodologico, anche se vengono in causa contributi di altre scienze e chi propone ciascuno dei modelli è spesso comunque un sociologo –, mettendo in luce alcuni problemi particolarmente dibattuti. Nella seconda parte proporrò le possibili linee di un modello interdisciplinare della conversione.
1. Cinque tipi di modelli della conversione
a) Modelli fenomenologici
Chiamo “fenomenologico” un modello che intende descrivere – prima ancora di spiegare – “che cos’è” o “com’è” la conversione. M’interesso qui soltanto delle teorie della conversione, senza preoccuparmi della vexata quaestio dell’esistenza o meno di una fenomenologia della religione come scienza autonoma rispetto ad altre discipline.
La classica definizione fenomenologica della conversione è quella di Gerardus Van Der Leeuw (1890-1950) secondo cui si tratta di “una nuova nascita”: “l’esperienza vissuta nella conversione è quasi sempre la stessa in tutte le religioni: un secondo io sorge accanto al primo, una vita nuova comincia, tutto è trasformato”[9]. Con l’emergere della problematica dei nuovi movimenti religiosi dopo la Seconda guerra mondiale, anche gli accostamenti fenomenologici si sono modificati. Ci si è resi conto che la conversione non poteva più essere descritta come un fenomeno unitario, ma occorreva piuttosto cercare una tipologia che distinguesse tra vari tipi di conversione. I cultori di fenomenologia della religione adottano spesso ancora oggi un modello che tiene conto anche della sociologia, proposto all’inizio degli anni 1980 da John Lofland e L. Norman Skonovd, che distingue fra sei diversi tipi di conversione a seconda di cinque variabili: la pressione sociale, la durata temporale dell’esperienza di conversione, l’“eccitazione affettiva”, il contenuto dell’esperienza di conversione, il rapporto fra credenza nelle dottrine e partecipazione alle attività del gruppo a cui ci si converte. Lofland e Skonovd distinguono così:
– la conversione intellettuale, che può avvenire – in casi limite che tuttavia non sono inesistenti – senza contatto diretto con il gruppo cui ci si converte. È possibile, nel mondo mediatico della società complessa, convertirsi semplicemente leggendo letteratura di propaganda o più spesso vedendo la televisione – o ancora, oggi, via Internet –, senza conoscere personalmente neppure un membro del gruppo, che sarà avvicinato in seguito ma cui ci si considera già convertiti;
– la conversione mistica, una sorta di “estasi” o “teofania” che si manifesta al termine di un periodo di tensione, in genere con una scarsa pressione da parte del gruppo cui ci si converte. Questo tipo di conversione è raro, ma di tanto in tanto si presenta anche nella società globalizzata, che non ha ucciso il misticismo;
– la conversione sperimentale, molto più frequente e tipica della società contemporanea, caratteristica al contrario di chi decide di tentare, quasi come “esperimento”, una partecipazione protratta per qualche tempo alle attività di una nuova religione per “vedere com’è”. Se l’esperienza si rivela soddisfacente segue la vera e propria conversione. In questo caso la sequenza “conversione alle credenze/impegno nelle attività” viene rovesciata: si comincia a rendersi attivi in un gruppo religioso prima di credere nelle sue dottrine. Secondo Lofland e Skonovd la conversione “sperimentale” si ritroverebbe frequentemente presso i Testimoni di Geova e nella Chiesa di Scientology;
– la conversione affettiva passa per lo sviluppo di legami di affezione con un membro della religione cui ci si converte. La frequenza delle conversioni causate da matrimoni nella nostra società è un esempio eloquente di questo tipo di processo; anche qui – come nell’ipotesi precedente – l’impegno in alcune attività del gruppo spesso precede la credenza;
– la conversione di risveglio si distingue da quella “mistica” perché, a differenza del misticismo, il “risveglio” o revival è stato organizzato da qualcuno con il dichiarato scopo di ottenere conversioni. In questo caso la pressione del gruppo cui ci si converte è alta, ma l’esperienza è breve e rischia di essere effimera. L’esempio caratteristico è quello delle conversioni ottenute dai predicatori televisivi americani. In genere, in tutto il variegato mondo del protestantesimo pentecostale l’itinerario di conversione è in maggioranza di questo tipo;
– infine la conversione coercitiva – secondo il controverso modello della manipolazione mentale, su cui torneremo a proposito degli accostamenti di tipo psicologico – sarebbe, secondo Lofland e Skonovd, estremamente rara e si verificherebbe soltanto nel caso di individui già afflitti da gravi problemi psicologici, o quando ci si trova di fronte a gruppi che attirano i loro adepti in comunità chiuse dove possono subire pressioni e minacce anche di ordine fisico[10]. Naturalmente l’accenno alla conversione “coercitiva” sposta il discorso su un piano diverso da quello puramente fenomenologico, in direzione di un’analisi delle ragioni e dei meccanismi della conversione, studiati anche da altre angolazioni[11].
b) Modelli storici
Le spiegazioni che sono più comunemente offerte in quella letteratura, anche sociologica, che tiene conto di una prospettiva di carattere storico in tema di conversione – specie in relazione ai nuovi movimenti religiosi – sono sostanzialmente due. La prima è di natura soggettiva e si concentra – per esprimersi in termini economici – sulla domanda religiosa. La seconda è di natura oggettiva e si concentra invece sull’offerta. La prima spiegazione prende l’avvio dalle teorie della deprivazione, assoluta o relativa, di cui soffrirebbero numerose persone nella nostra società per i più svariati motivi. Alcuni si sentiranno “deprivati” dei beni economici ritenuti necessari a un livello di vita decoroso, altri soffriranno di una “deprivazione relativa” quanto alla felicità o al senso da dare alla propria vita. La teoria della “deprivazione relativa” era già stata formulata negli anni 1930 da Robert K. Merton (1910-2003)[12], ed era stata applicata ai nuovi movimenti religiosi da David Aberle (1918-2004) negli anni 1970[13].
Da un certo punto di vista, la teoria della “deprivazione relativa” è perfino ovvia: è evidente che chiunque cambi radicalmente il suo atteggiamento nella vita, per esempio – ma non solo – convertendosi a una nuova religione, avverte un vuoto che intende colmare. Studi più recenti hanno tuttavia notato come esista una coincidenza sospetta fra le teorie sociologiche della “deprivazione relativa” e le spiegazioni che i convertiti ai nuovi movimenti religiosi danno della loro esperienza ai sociologi che li intervistano. Vi è il rischio, in altre parole, che la teoria della “deprivazione relativa” si limiti a prendere per buona la ricostruzione ideologica della propria conversione offerta in modo stereotipato post factum da chi ha aderito a una religione diversa da quella in cui è nato[14].
Naturalmente, non si deve neppure presupporre che i convertiti mentano quando vengono intervistati: piuttosto, la loro ricostruzione della conversione tende naturalmente a conformarsi all’ideologia e alla visione del mondo che hanno appreso nella religione di approdo. James Beckford in un celebre studio sui Testimoni di Geova[15], e David E. Van Zandt nel suo resoconto di una “osservazione partecipante” condotta fra i Bambini di Dio, il movimento oggi chiamato The Family[16], hanno messo in luce un’altra importante limitazione delle teorie della “deprivazione relativa”. È possibile che, da un certo punto di vista, il convertito non sapesse di soffrire di una “deprivazione” e lo abbia “scoperto” soltanto quando è stato sollecitato dall’abile tecnica proselitistica del movimento. Più in generale, oggi la sociologia guarda con sospetto alle teorie ingenue secondo cui i movimenti sociali “rispecchierebbero” i bisogni. Sono teorie vittima di una “fallacia naturalistica” tipica del positivismo o di un certo marxismo. Più spesso, i movimenti sociali creano propagandisticamente i bisogni che poi si offrono di soddisfare.
Queste osservazioni – che naturalmente non negano il complesso intreccio fra esigenze reali e altre create dalle varie propagande e proselitismi – tengono già conto del secondo tipo di spiegazioni della conversione, in genere proposto più dagli storici della religione in senso stretto che non dai sociologi. Si tratta della teoria dell’“incontro delle culture” su cui ha insistito Jean-François Mayer[17], secondo cui, a fronte di domande e di inquietudini che sono sempre esistite, è cresciuta oggi in modo impressionante l’offerta religiosa, a causa anche della globalizzazione. Si tratta, anche in questo caso, di una crescita relativa: in ogni epoca di crisi, dall’ellenismo al Rinascimento, sono nati numerosissimi movimenti religiosi nuovi. Ma soltanto oggi grazie alla facilità dei viaggi, alla radio, alla televisione, a Internet, alla possibilità di preparare e stampare le loro pubblicazioni a basso costo grazie al desktop publishing quasi qualunque movimento nato su scala locale riesce a farsi conoscere in pochi anni in gran parte del mondo. Se una certa “fame” di novità e di esotismi è sempre esistita, oggi può essere soddisfatta senza troppa fatica e senza neppure spostarsi dal proprio paese. Si possono incontrare ashram indiani o comunità di monaci tibetani in Spagna o sulle colline toscane in Italia senza bisogno di raggiungere l’India o il Tibet.
Anche i modelli di carattere storico spiegano le circostanze del cambiamento, ma non veramente perchéquesto possa prodursi in un modo radicale. Per una visione più completa sembra necessario introdurre anche altre variabili.
c) Modelli psicologici
La letteratura psicologica in tema di conversione si è concentrata a lungo sulla polemica intorno alla metafora del “lavaggio del cervello”, originariamente coniata per descrivere il trattamento inflitto dalla Cina comunista prima ai propri “dissidenti” in patria, poi ai prigionieri di guerra americani in Corea, che rilasciavano sorprendenti – ma spesso effimere – dichiarazioni di “conversione” al comunismo. La discussione – condotta spesso in toni molto accesi – non è rimasta limitata agli ambiti accademici, perché – soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa – non sono mancate vicende giudiziarie che hanno coinvolto nuovi movimenti religiosi (in particolare la Chiesa di Scientology, la Chiesa dell’Unificazione, gli Hare Krishna) accusati di “lavare il cervello” ai loro adepti. Sulla base della teoria del “lavaggio del cervello” è nata anche la pratica della cosiddetta “deprogrammazione”, cioè il rapimento di membri maggiorenni di nuovi movimenti religiosi – in genere su incarico dei loro genitori – per sottoporli a una serie di tecniche in cui “deprogrammatori”, che in genere non sono medici né psichiatri, tentano di indurli a rinunciare alla loro adesione al movimento attraverso tecniche di pressione psicologica e qualche volta anche fisica.
Non è questa la sede per ripercorrere le complesse vicende giudiziarie che si sono sviluppate a proposito del “lavaggio del cervello” e della “deprogrammazione”[18]. Vale la pena, tuttavia, di chiedersi di che tipo sia il modello di conversione basato sulla teoria del “lavaggio del cervello”. Snow e Machalek hanno affermato che “il modello del ‘lavaggio del cervello’ e della ‘persuasione coercitiva’ costituisce la più popolare spiegazione della conversione al di fuori degli ambienti sociologici. La tesi di base è che la conversione è il prodotto di forze devianti ma identificabili, che agiscono su persone che non ne sospettano la natura e sono pertanto altamente vulnerabili. Questa tesi riposa sulla congiunzione di elementi che provengono sia dalla psicologia clinica sia dalla teoria psicoanalitica (…). Una disfunzione fisiologica indotta del cervello è vista pertanto come la chiave della conversione. Quando questa proposta si combina con una teoria psicoanalitica, abbiamo il quadro del convertito come un individuo che è diventato ricettivo a nuove idee perché la sua capacità critica e la forza del suo ego sono state erose dal controllo dell’informazione, dall’eccessiva stimolazione del sistema nervoso, da confessioni forzate, e dalla distruzione dell’ego”[19].
In questa definizione è significativo il riferimento alla teoria del “lavaggio del cervello” come “la più popolare (…) al di fuori degli ambienti sociologici”. Con pochissime eccezioni, infatti, i sociologi hanno respinto la teoria del “lavaggio del cervello” accusando gli psicologi e psichiatri che la propongono di pregiudizi positivistici. Se i modelli storici tendono a prendere per buona la ricostruzione posteriore della conversione a opera del convertito, i modelli del “lavaggio del cervello” – non meno acriticamente – tendono ad accettare le ricostruzioni degli “ex” che sono stati “deconvertiti” – talora tramite la “deprogrammazione” – e hanno abbandonato movimenti religiosi controversi. Per spiegare come hanno potuto compiere in passato una scelta che oggi giudicano assurda, gli “ex” tendono a creare “storie di atrocità”, che rafforzano la metafora del “lavaggio del cervello” ma la cui base fattuale è spesso dubbia[20].
I modelli psicologici del “lavaggio del cervello”, inoltre, si concentrano sull’analisi qualitativa di singoli casi, e ignorano gli studi quantitativi che mostrano come i metodi praticati anche dai nuovi movimenti religiosi più controversi non abbiano nulla di “magico”, perché – fra centinaia di frequentatori di un corso o seminario introduttivo, tutti sottoposti alle stesse tecniche di persuasione – solo una piccola parte si affilia al movimento. Gli stessi studi quantitativi mostrano che il turnover di nuovi movimenti religiosi controversi come la Chiesa di Scientology e la Chiesa dell’Unificazione è altissimo. Una larga maggioranza dei convertiti abbandona il movimento spontaneamente – cioé non in seguito a “deprogrammazione” o a consimili interventi dall’esterno – dopo un periodo variabile da due a cinque anni. In un’opera cruciale per questo problema, la sociologa inglese Eileen Barker concludeva che tra coloro che visitano un centro della Chiesa dell’Unificazione e sono sottoposti a un tentativo di conversione meno di uno su cento aderisce al movimento e ne fa ancora parte due anni dopo il primo contatto[21].
Benché ancora popolare nella letteratura giornalistica, l’uso dell’espressione “lavaggio del cervello” appare oggi in via di abbandono negli ambienti scientifici, particolarmente dopo la morte della sua più convinta sostenitrice, la psicologa americana Margaret Singer (1921-2003). Non mancano, anzi, tentativi di dialogo fra (ex-)sostenitori della teoria del lavaggio del cervello e sociologi che hanno duramente criticato questa teoria, per arrivare a posizioni almeno parzialmente comuni[22]. Se è vero che i cervelli non si “lavano” e che non ci sono tecniche “magiche” per ottenere la conversione, non è meno vero che in alcuni movimenti non si può prescindere da un certo profilo di manipolazione, di truffa, d’inganno che almeno sul piano morale dev’essere denunciato e censurato.
Non sono mancati peraltro psicologi e psichiatri che hanno proposto modelli alternativi a quelli della manipolazione mentale. Alcuni fra gli studi più importanti si devono al docente di psichiatria presso la New York University Marc Galanter, che ha proposto un modello basato sulla teoria generale dei sistemi del biologo Ludwig von Bertalanffy (1901-1972), secondo cui nei gruppi religiosi che svolgono intense attività proselitistiche – e ai quali dunque ci si converte – si verificano fenomeni tipici dei sistemi complessi, come l’induzione e il controllo dei confini[23].
d) Modelli antropologici
Chiamo “antropologici” i modelli che insistono sul ruolo attivo di “ricercatore” (seeker) del convertito, che in un certo senso “crea” la sua nuova identità religiosa. Criticando le teorie del “lavaggio del cervello”, soprattutto il sociologo del Nevada James T. Richardson ha invitato a liberarsi dei modelli “passivi” secondo cui la conversione sarebbe sempre qualcosa che “accade” al convertito senza che chi si converte giochi un ruolo particolarmente attivo nel processo[24]. Uno dei modelli più antichi ma tuttora influenti – che muove da ricerche sulle conversioni alla Chiesa dell’Unificazione – rientra nel paradigma “antropologico” ed è stato elaborato dal già menzionato John Lofland e da uno dei fondatori della nuova sociologia della religione americana, Rodney Stark. Il modello Lofland-Stark – che risale al 1965 e che ha esercitato un’enorme influenza sugli studi in tema di conversione – prevede sette tappe:
– presenza nella persona che si convertirà di tensioni profonde e non passeggere;
– tendenza della persona a cercare risposte ai suoi problemi in un contesto religioso;
– trasformazione in un seeker, cioè in un soggetto che si sposta da un gruppo all’altro alla ricerca di una verità religiosa;
– incontro in un momento cruciale della vita (turning point, “punto di svolta”) con un determinato gruppo religioso;
– sviluppo di legami affettivi con uno o più membri del gruppo incontrato;
– rottura delle relazioni con le persone che si oppongono al gruppo o che comunque vogliono rimanergli estranee;
– interazione intensa con i membri del gruppo, che a questo punto può “dispiegare” il convertito sul suo “teatro di operazioni” come “agente” per ulteriori attività di proselitismo[25].
Lo stesso John Lofland, ritornando sul famoso articolo scritto con Stark dopo oltre vent’anni, trovava il modello ancora troppo “passivo” e suggeriva d’interpretare le sette tappe sottolineando maggiormente il ruolo attivo del convertito[26]. Si può osservare che nel modello Lofland-Stark le sette tappe si riferiscono, in realtà, a situazioni diverse. Le prime quattro rappresentano piuttosto fattori che predispongono a convertirsi, le ultime tre sono invece gli “stadi” per cui passa il vero e proprio processo di conversione. A proposito di questi ultimi il sociologo francese Thierry Mathé, in uno studio del 2005 sulle conversioni al buddhismo in Francia, ha sostenuto che queste corrispondono a un bisogno di “rigenerazione” personale: il seeker cercherebbe il benessere e la pace piuttosto che la verità[27].
Greil e Rudy – rianalizzando i numerosi tentativi di applicazione del modello Lofland-Stark a un gran numero di gruppi religiosi diversi – hanno concluso che il modello si è rivelato valido per le conversioni a movimenti considerati devianti dalla società nel suo insieme, mentre spiega meno bene le conversioni a gruppi che godono di una maggiore accettazione sociale[28]. Il modello Lofland-Stark rimane comunque influente, ma – in diversi studi relativi a singoli movimenti religiosi – si è sottolineata la necessità di coordinarlo con un’analisi dello “sfondo” sociale del processo di conversione. Gli stessi Lofland e Stark sono oggi d’accordo con questa impostazione.
e) Modelli sociologici
I modelli che chiamo “sociologici” danno rilievo principale a un elemento che non è assente nel modello Lofland-Stark – i quali, dopo tutto, sono sociologi –: il ruolo dei network sociali, il cui studio è coltivato anche in altri settori della sociologia. Uno dei più antichi studi sociologici del processo di conversione che utilizza la teoria dei social network risale al 1980 e si deve a Snow, Zurcher ed Ekland-Olson. Snow e i suoi collaboratori concludevano che la conversione a un gruppo religioso dipende largamente da due variabili: la presenza di legami personali con uno o più membri del gruppo, e l’assenza di forti legami personali con membri di network diversi o concorrenti[29]. Le “contro-influenze” più forti che ostacolano la conversione a un nuovo movimento religioso che richiede un impegno a tempo pieno sarebbero il legame matrimoniale o familiare, la situazione economica, il lavoro.
È stata applicata così anche alle conversioni – particolarmente ai nuovi movimenti religiosi – l’analisi che punta sulla nozione di “soggetto a rischio”, chiedendosi chi è “a rischio” di aderire a un movimento controverso[30]. Queste analisi hanno finito per distinguere fra movimenti religiosi proselitistici che operanoseguendo i network sociali e movimenti che operano invece contro i network. I movimenti del secondo gruppo – come gli Hare Krishna, la Chiesa dell’Unificazione o la Chiesa di Scientology – tendono a isolare i convertiti dai loro network familiari e occupazionali richiedendo un impegno molto intenso, e per molti a tempo pieno, nelle attività del gruppo. I soggetti “a rischio” di convertirsi a questo tipo di movimenti sono pertanto soprattutto i giovani (talora gli anziani) che non hanno un forte attaccamento a network preesistenti. Tipicamente, hanno appena lasciato la famiglia dei genitori, non ne hanno ancora formata una nuova e non hanno ancora una precisa identità lavorativa.
Questo modus operandi, tipico di movimenti religiosi controversi che reclutano persone avvicinate per strada, da una parte è favorevole a rapide conversioni, ma dall’altra ostacola l’espansione del movimento nel suo insieme. Le conversioni che non hanno occasione di confrontarsi con un inserimento preesistente in network forti sono spesso effimere e di breve durata. Inoltre manca la possibilità di utilizzare il convertito come porta d’accesso a network sociali in cui svolgere ulteriori operazioni di proselitismo. Il convertito potrà essere soltanto “dispiegato” come “agente” per avvicinare persone che non conosce[31]. Per contrasto, i movimenti che cercano i convertiti principalmente utilizzando i network sociali e familiari di coloro che sono già membri – come i mormoni – a gioco lungo sembrano ottenere conversioni più durature e anche più numerose.
Vi è certo il rischio di assumere i network e le relazioni interpersonali come elementi di un modello sociale puramente meccanico, prendendo ultimamente poco sul serio la conversione e le credenze del convertito. Wuthnow ha criticato queste teorie come “riduzionismo sociometrico”[32]. Il compianto Roy Wallis (1945-1990) e Steve Bruce hanno criticato soprattutto i modelli di Snow, sottolineando come “le strategie di conversione non sono indipendenti dagli scopi e dalle visioni del mondo dei movimenti”[33]. La conversione agli Hare Krishna, per esempio, non dipende soltanto dall’uso – o dal non uso – dei network ma dalla particolare ideologia, indù e di “separazione dal mondo”, di questo movimento che attira alcune persone e ne respinge altre. Ultimamente Wallis e Bruce criticano la nozione di “soggetto a rischio” e di “disponibilità” alla conversione, rilevando che si tratta di termini che tendono a mettere in secondo piano le caratteristiche uniche di ogni nuova fede a cui ci si converte.
Secondo i due studiosi britannici “la ‘disponibilità’ non è una qualità fissa. Se siamo ‘disponibili’ o ‘a rischio’ di adulterio nonostante le nostre mogli, i nostri figli, e i mutui da pagare, dipende spesso da chi esattamente ci offre la sua compagnia”. Un uomo felicemente sposato e con figli non sarà “a rischio” – gli esempi femminili utilizzati sono evidentemente degli anni in cui scrivevano i due sociologi, e diranno poco ai giovani di oggi – di avere una relazione “con Margaret Thatcher, ma potrebbe diventare ‘a rischio’ se a proporgli una relazione si presentasse Brooke Shields”…[34].
Con queste ultime osservazioni comincia a venire in primo piano un elemento spesso “non detto” nelle teorie sociali della conversione, cioè il sistema di credenze al quale ci si converte. Più in generale il modello dell’individuo “socialmente isolato” che, secondo la teoria dei social network, sarebbe più disponibile alla conversione è stato costruito sulla base di tre nuovi movimenti religiosi a proposito dei quali i fenomeni di conversione sono stati più studiati dai sociologi: la Chiesa dell’Unificazione, gli Hare Krishna e la Chiesa di Scientology. Il modello – come molti hanno notato – funziona meno nei confronti di altri movimenti; ma sono proprio altri gruppi – pentecostali, mormoni, Testimoni di Geova, Soka Gakkai – a essere emersi come protagonisti di primo piano di conversioni, molto più numerose, che la società occidentale trova difficile spiegare.
2. Verso un modello interdisciplinare
a) Le quattro dimensioni della conversione
Come abbiamo visto, la maggior parte dei modelli che le scienze sociali della religione ci propongono si concentrano su tre dimensioni del fenomeno della conversione e sulle loro reciproche interrelazioni:
– la persona del convertito, a proposito del quale ci si chiede per esempio se soffra di forme di deprivazione, sia un soggetto psicologicamente labile, sia “in ricerca”, sia privo di legami con network familiari o sociali “forti”: e di tutti questi fattori si dirà che rendono il soggetto “a rischio” o comunque favoriscono la conversione, in cui peraltro – come ormai in genere si riconosce – il convertito gioca un ruolo non soltanto passivo, ma anche attivo;
– il gruppo religioso cui ci si converte, che svolge un’operazione proselitistica – sfruttando o meno inetwork sociali – più o meno intensa, utilizzando tecniche persuasive che, contrariamente a quanto pensavano le teorie più antiche del “lavaggio del cervello”, non sono “magiche”, ma talora sono capaci di indurre una certa pressione che si situa nelle parti alte del continuum fra la pubblicità che entra quotidianamente nelle nostre vite e forme di persuasione meno socialmente accettate e chiaramente ingannevoli o truffaldine;
– la società, come “partner occulto” o indiretto del processo di conversione, che sta sullo sfondo ma che certe ricerche cercano di far venire in primo piano, mostrando in particolare come la società complessa e globalizzata generi incertezze e tensioni e quindi renda più facile la crisi che sboccherà nella conversione, e come certi network – all’opera, nonostante tutto, anche nella società contemporanea – rendano invece la conversione, specie a un gruppo controverso, meno probabile.
Soltanto negli ultimi anni è emersa una maggiore attenzione verso un “non detto” nelle teorie della conversione che riguarda i sistemi di credenza e le pratiche che sono sia proposte al convertito, sia da questiabbandonate al momento della conversione. La teoria dei social network dev’essere certamente integrata tenendo conto del fatto che ognuna fra le numerosissime proposte religiose in concorrenza fra loro ha qualche cosa di specifico e di unico da offrire: chi diventa Testimone di Geova difficilmente aderirà alla Chiesa di Scientology, e viceversa. Ma il principale “non detto” riguarda il punto di partenza, il sistema di credenze da cui il convertito parte e che abbandona per acquisire la nuova identità religiosa. Non sempre – come rivelano le numerose ricerche condotte “sul campo” – il convertito a una nuova religione è semplicemente un agnostico, o una persona totalmente disinteressata ai problemi religiosi. Spesso fa parte, o almeno è stato educato, in una religione che nel suo Paese è maggioritaria. Perché l’abbandona?
Sembra quindi necessario costruire un modello che tenga conto anche di una quarta dimensione, di unterminus a quo costituito dal sistema di credenze che chi si converte si lascia alle spalle. Dal punto di vista pastorale – considerato il numero di persone che abbandonano quotidianamente la Chiesa Cattolica (specie, ma non solo, in America Latina) – questa analisi è particolarmente interessante, perché mette in luce gli elementi di debolezza che spiegano perché un certo numero di persone, anche attive e praticanti, lasci ogni giorno il cattolicesimo.
Personalmente ritengo che un modello veramente interdisciplinare della conversione – specialmente (ma non solo) ai nuovi movimenti religiosi, e anche in questo caso non esaminando solo i tre o quattro più noti o controversi – debba tenere conto delle credenze di partenza di chi si converte – la “quarta dimensione” nascosta – e, in particolare, del ruolo che gioca una caratteristica diffusa dell’atteggiamento contemporaneo verso la religione: il relativismo. Per limitarsi al mio Paese, la vera “nuova religione” degli italiani – che è andata lentamente emergendo negli ultimi due secoli – non è quella dei Testimoni di Geova, che pure vantano in Italia la loro maggiore presenza europea, e neppure un culto orientale: è appunto il relativismo, la convinzione che non esista la verità, particolarmente in campo religioso. Secondo diverse indagini sociologiche, da metà a due terzi degli italiani si riconosce nella frase “non esiste una vera religione, ogni religione è vera per chi ci crede”[35]. Per molti quest’affermazione apparirà ovvia: non è forse evidente che tutte le religioni sono uguali? La risposta – per esempio – di Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate è che, per quanto siamo affezionati al principio della libertà religiosa, le cose non stanno così: “La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali”[36].
A differenza dello scetticismo – secondo cui non esiste nessuna verità, di nessun tipo – il relativismo nega l’esistenza della verità nel senso proprio, assoluto e filosofico del termine; non nega, invece, l’esistenza di verità “relative”. La sua caratteristica generale consiste nel “considerare la verità come qualche cosa di dipendente da una variabile indipendente che, come tale, la determina”. Questa “variabile indipendente” potrà essere costituita dalla ragione umana, dal sentimento, dalla cultura, dalla società, dalla tecnica, perfino dal partito o dalla razza, dando così origine a tutta una gamma di possibili relativismi su cui si sono andate costruendo le ideologie degli ultimi secoli[37]. Notiamo che la “variabile indipendente” che determina la verità relativa può essere la ragione umana, per cui il relativismo non esclude il razionalismo e la fiducia ingenua nei poteri della ragione e della scienza. Al contrario spesso il razionalismo finisce per “sboccare nel relativismo, nel senso che solamente è vero quanto si relaziona gnoseologicamente in forma diretta ed efficace con la ragione umana, variabile indipendente in funzione della quale si determina la verità” (relativa)[38]. Questa osservazione spiega perché è possibile che – nella mentalità dell’uomo moderno e contemporaneo – il relativismo e il razionalismo avanzino spesso insieme. Paragonando, in occasione dell’Anno Sacerdotale dedicato a San Giovanni Maria Vianney (1786-1959), i tempi del Curato d’Ars ai nostri Benedetto XVI ha osservato: “Se allora c’era la ‘dittatura del razionalismo’, all’epoca attuale si registra in molti ambienti una sorta di ‘dittatura del relativismo’. Entrambe appaiono risposte inadeguate alla giusta domanda dell’uomo di usare appieno della propria ragione come elemento distintivo e costitutivo della propria identità. Il razionalismo fu inadeguato perché non tenne conto dei limiti umani e pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le cose, trasformandola in una dea; il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l’essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo”[39].
Dal relativismo come posizione filosofica generale – anche se raramente consapevole e tematizzata – derivano poi i diversi relativismi, al plurale. Se non esiste la verità, non esisteranno neppure le verità: non esisteranno verità morali (valori), non esisteranno verità politiche o verità di dottrina sociale (la politica sarà soltanto l’arte del possibile); soprattutto – giacché, per dirla con Karl Marx (1818-1883), “la critica della religione è la radice di ogni critica” – non esisteranno verità religiose, e la religione sarà una questione di mera preferenza psicologica, occasionale, sentimentale, culturale.
Il relativismo, naturalmente, ha un rapporto con la società complessa e con la globalizzazione, nel senso che l’esposizione a messaggi contraddittori ingenera facilmente una reazione prima facie relativistica. Non mi propongo, in questa sede, di svolgere una critica filosofica del relativismo. Vorrei invece mettere in luce come l’ascesa del relativismo abbia costituito un fattore cruciale per la facilità della conversione, specialmente ai nuovi movimenti religiosi.
b) Conversione e relativismo: tre tipi di relazione
a) Il relativismo crea, anzitutto, un clima generale che predispone le persone a cambiare religione – e più in generale sistema di orientamento culturale e morale – sulla base delle variabili più diverse. Quando viene meno l’idea secondo cui esiste una verità cui è insieme ragionevole e necessario aderire si apre la strada a una vasta mobilità culturale e religiosa. In un’indagine americana di qualche anno fa tra le ragioni della conversione a un’altra religione la prima motivazione indicata è stata il matrimonio (24%): si è preferito adottare la religione del coniuge. L’11% ha semplicemente dichiarato di avere scelto la comunità religiosa con l’edificio di culto più pratico e vicino in occasione di un cambio di residenza; molti altri motivi di natura – apparentemente – futile o occasionale sono stati menzionati, come la disponibilità di parcheggi. Solo il 14% degli intervistati (cioé tra uno e due su dieci) ha dichiarato di avere cambiato confessione religiosa per ragioni dottrinali, o perché convinta che gli insegnamenti della nuova confessione fossero più “veri” o validi di quelli della comunità abbandonata[40].
È interessante notare che, secondo lo stesso studio, nel mercato delle conversioni religiose instaurato dall’ascesa del relativismo la Chiesa Cattolica sembrava avere poco da guadagnare. Passare al protestantesimo eranove volte più comune che convertirsi al cattolicesimo. Giacché la Chiesa Cattolica è ormai la confessione di maggioranza relativa negli Stati Uniti, si deve credere che molti non cattolici sposino un coniuge cattolico o si trasferiscano a vivere nelle vicinanze di una parrocchia cattolica, magari perfino dotata di buoni parcheggi. Le ragioni del saldo negativo della Chiesa Cattolica devono quindi essere di ordine dottrinale e non pratico: nonostante tutto, la Chiesa Cattolica conserva un tipo di “pretesa di verità” che la rende un porto di approdo poco appetibile nel mare tempestoso del relativismo.
b) Il clima generale della società complessa che rende più facile cambiare religione non spiega ancora perché alcune nuove religioni abbiano più successo delle vecchie. Si parla più spesso – e con buone ragioni statistiche – di chi si converte al Mormonismo o alla Soka Gakkai che non di chi diventa presbiteriano o metodista. Una prima spiegazione – che riguarda precisamente le “sette” di origine cristiana più diffuse come i Testimoni di Geova o i mormoni, e insieme le nuove forme protestanti come le molte denominazioni dell’arcipelago pentecostale – è piuttosto semplice. Le “nuove” religioni perseguono attivamente il proselitismo a spese di qualunque altro gruppo religioso, mentre le “vecchie” religioni non considerano di bon ton ricercare attivamente la conversione di membri di confessioni storicamente o culturalmente vicine. Il mare, in altre parole, è pescoso: ma non tutti vanno a pesca. E l’esca di cui le “nuove” religioni si servono è precisamente la realtà di cui i pesci sperduti nel mare del relativismo avvertono oscuramente il bisogno: la verità.
Riemergono qui i lineamenti di una possibile critica antropologica del relativismo: senza la verità l’uomo non può vivere. Per quanto esprima opinioni relativistiche agli intervistatori dei sondaggi sociologici, l’uomo del nostro tempo continua più o meno inconsapevolmente ad avvertire una sete di verità. La pedagogia delle “nuove” religioni – particolarmente, ancora, di quelle di origine di cristiana: tipico è il caso dei Testimoni di Geova – parte precisamente da una descrizione a fosche tinte della confusione e dei guasti del relativismo moderno, in cui “non si è più sicuri di nulla” – una descrizione in cui molti immediatamente si riconoscono – per insinuare poi che fortunatamente un’isola di certezze assolute e incrollabili esiste ancora. È la “nuova” religione cui si propone di convertirsi, dove non c’è confusione – e neppure discussione – teologica, ma soltanto granitica unità intorno all’ideologia.
Da questo punto di vista l’apparente debolezza della “setta” è in realtà la sua forza: più l’ideologia è semplice, più avrà il gusto dell’assoluto per l’uomo disturbato dal relativismo. Per converso quella che potrebbe sembrare la forza di un nuovo movimento religioso rischia talora di convertirsi in debolezza. I mormoni e alcune denominazioni pentecostali negli ultimi anni, attraverso un processo di “inculturazione”, hanno visto sorgere negli Stati Uniti al loro interno un vivace dibattito intellettuale. Ma le autorità di questi movimenti spesso cercano di non far giungere questo dibattito a conoscenza dei convertiti potenziali e attuali in Europa e nel Terzo Mondo, convinte, a ragione, che un carattere eccessivamente problematico dell’annuncio missionario comprometterebbe la sua efficacia proselitistica.
c) Le ultime osservazioni sembrano a prima vista inapplicabili al successo di nuovi movimenti religiosi (o magici)[41] che non svolgono una evidente attività di proselitismo e anzi amano presentarsi come esoterici o semi-segreti. Certamente si tratta di movimenti diversi. Tuttavia, anzitutto, non si deve immaginare che il proselitismo avvenga sempre mediante tecniche evidenti o perfino grossolane. Il proselitismo – come ogni forma di seduzione – può giocare altrettanto bene sul velare che sullo svelare: dopo tutto, a chi non piace essere messo a parte di un segreto riservato a pochi? Se i movimenti che esercitano il loro proselitismo in modo evidente e aggressivo hanno una sorta di relazione inversa con il relativismo – ne mostrano i mali per presentarsi come isole di verità –, i movimenti di tipo esoterico hanno invece con la mentalità relativistica una relazione diretta. I movimenti magico-esoterici invitano a “cavalcare la tigre” della società complessa e del relativismo moderno, che incoraggiano e blandiscono. Sì – affermano questi gruppi –, tutte le religioni e le tradizioni sono relativamentevere, ma proprio questo loro carattere relativo ne svela la natura essoterica e la necessità di scendere ad un livello esoterico dove la loro fondamentale o “trascendentale” unità si rivelerà all’iniziato. Naturalmente – giacché questa unità è mitologica: come conciliare, per esempio, resurrezione cristiana e reincarnazione orientale? – la presunta “unità trascendentale” delle religioni si svelerà rapidamente come semplice sincretismo. Ma di questo i moderni banditori dei movimenti magico-esoterici raramente hanno paura.
* * * *
Naturalmente, il modello interdisciplinare che ho proposto – che dà rilievo in particolare alla categoria del relativismo – non pretende affatto, ingenuamente, di costituire l’“ultima parola” sul difficile problema del perché il fenomeno della conversione appaia oggi più diffuso, e anche più rilevato e studiato, che in altre epoche. Presuppone, al contrario, che ciascuno degli altri modelli – fenomenologici, storici, psicologici, antropologici e sociologici – apporti elementi validi e spiegazioni utili, purché non lo si consideri in modo monocausale come l’unica chiave di un fenomeno che è invece complesso. Proprio questo intende essere il significato e il senso del mio contributo: nessuna spiegazione monocausale può essere adeguata. La conversione è un fenomeno complicato. Non solo diversi tipi di conversione hanno diverse dinamiche e cause, ma anche conversioni dello stesso tipo possono obbedire a logiche e a causalità diverse. Le mie osservazioni intendono suggerire che la conversione non è soltanto un fenomeno o un problema sociale, ma è anche culturale – per tacere della sua dimensione teologica –, e pertanto lo studio delle conversioni non può prescindere dal contesto più generale della crisi culturale dell’uomo contemporaneo e dei problemi della società complessa e della globalizzazione.
Da ultimo, vorrei ricordare a me stesso e a chi mi ha seguito che la conversione è anche un mistero, che non può essere completamente compreso dalle categorie sociologiche. Da sociologo, vorrei insistere sul fatto che la sociologia di per sé non risolve nessun problema teologico o pastorale e può dare contributi utili solo se si presenta con la necessaria umiltà metodologica. Ultimamente, vale anche per i sociologi il richiamo di Benedetto XVI nel discorso all’udienza generale del 1° luglio 2009: “A fronte di tante incertezze e stanchezze (…) è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino [1225-1274]: ‘Il più piccolo dono della grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’ (Summa Theologiae, I-II, q. 113, a. 9, ad 2)”[42].

[1]Thomas Robbins, Cults, Converts and Charisma. The Sociology of New Religious Movements, Sage, Londra 1988, p. 63.
[2]Ibid., p. 63.
[3]Cfr. Manuel J. Gaxiola-Gaxiola, “Latin American Pentecostalism: A Mosaic within a Mosaic”, Pneuma: The Journal of the Society for Pentecostal Studies, 13, 2 (Autunno 1991), pp. 107-129 (p. 107).
[4]Cfr. sul punto R. Andrew Chesnut, Competitive Spirits. Latin America’s New Religious Economy, Oxford University Press, New York – Oxford 2003.
[5]Sui problemi di terminologia cfr. il mio “Nel paese del punto esclamativo: ‘sette’, ‘culti’, ‘pseudo-religioni’ o ‘nuove religioni’?”, Studia Missionalia, n. 41 (1992) (numero speciale su Religious Sects and Movements), pp. 1-26.
[6]Cfr. “Current Research: New Findings on Religious Behaviour and Attitudes”, Religion Watch: A Newsletter Monitoring Trends in Contemporary Religion, 7-9 (luglio-agosto 1992), p. 5.
[7]Cfr. per es. David G. Bromley (ed.), Falling from the Faith. Causes and Consequences of Religious Apostasy, Sage, Londra 1988.
[8] Benedetto XVI, enciclica Caritas in veritate (2009), n. 42.
[9]Gerardus Van Der Leeuw, La Religion dans son essence et ses manifestations. Phénoménologie de la religion, Payot, Parigi 1970, pp. 517-518. Si tratta qui di una conversione “verticale”: cfr. Luigi Berzano – Eliana Martoglio, “Conversion as a New Lifestyle: An Exploratory Study of Soka Gakkai in Italy”, in Giuseppe Giordan (a cura di), Conversion in the Age of Pluralism, Brill, Leiden – Boston 2009, pp. 213-241 (pp. 219-220).
[10]John Lofland – L. Norman Skonovd, “Conversion Motifs”, Journal for the Scientific Study of Religion, vol. 20, n. 4 (1981), pp. 373-385; degli stessi autori: “Patterns of Conversion”, in Eileen Barker (a cura di), Of Gods and Men. New Religious Movements in the West, Mercer University Press, Macon (Georgia) 1983, pp. 1-24.
[11]Per un riesame della tipologia di Lofland e Skonovd alla luce delle teorie della rational choice cfr. C. David Gartrell – Zane K. Shannon, “Contacts, Cognitions and Conversions: A Rational Choice Approach”, Review of Religious Research, vol. 27, n. 1 (1985), pp. 32-48.
[12]Cfr. Robert Merton, “Social Structure and Anomie”, American Sociological Review, vol. 3 (1938), pp. 672-682.
[13]David Aberle, “A Note on Relative Deprivation Theory as Applied to Millenarian and Other Cult Movements”, in William Lessa – Evon Vogt (a cura di), A Reader in Comparative Religion. An Anthropological Approach, 3a ed., Harper & Row, New York 1972, pp. 527-531.
[14]Cfr. Bryan Taylor, “Conversion and Cognition: An Area for Empirical Study in the Microsociology of Religious Knowledge”, Social Compass, vol. 23 (1976), pp. 5-22; e già Alan Blum – Peter McHugh, “The Social Ascription of Motive”, American Sociological Review, vol. 36 (1971), pp. 98-109.
[15]James Beckford, The Trumpet of Prophecy. A Sociological Study of Jehovah’s Witnesses, Basil Blackwell, Oxford 1975.
[16]David E. Van Zandt, Living in the Children of God, Princeton University Press, Princeton 1991.
[17]Tra i numerosi contributi dello storico svizzero, uno dei punti di partenza è lo studio di Jean-François Mayer, “Analisi di alcune ragioni del successo dei nuovi movimenti religiosi”, in M. Introvigne – J.-F. Mayer – Ernesto Zucchini, I nuovi movimenti religiosi. Sette cristiane e nuovi culti, Elledici, Leumann (Torino) 1990, pp. 41-52.
[18]Cfr. il mio Il lavaggio del cervello: realtà o mito?, Elledici, Leumann (Torino) 2002.
[19]David A. Snow – Richard Machalek, “On the Presumed Fragility of Unconventional Beliefs”, Journal for the Scientific Study of Religion, vol. 21, n. 1 (1982), pp. 15-26.
[20]Cfr. David G. Bromley – Anson D. Shupe – Joseph C. Ventimiglia, “Atrocity Tales, the Unification Church and the Social Construction of Evil”, Journal of Communication, vol. 29, n. 3 (1979), pp. 42-53; degli stessi autori: “The Role of Anedoctal Atrocities in the Social Construction of Evil”, in David G. Bromley – James T. Richardson (a cura di), The Brainwashing/Deprogramming Controversy. Sociological, Psychological, Legal and Historical Perspectives, Edwin Mellen, New York 1983, pp. 139-162.

[21]Eileen Barker, The Making of a Moonie: Choice or Brainwashing?, Basil Blackwell, Oxford 1984, p. 147. Per ulteriori discussioni sul punto cfr. Christopher Lamb – M. Darroll Bryant (a cura di), Religious Conversion.Contemporary Practices and Controversies, Cassell, Londra – New York 1999.
[22] Cfr. Ben Zablocki – Thomas Robbins (a cura di), Misunderstanding Cults. Searching for Objectivity in a Controversial Field, University of Toronto Press, Toronto 2001; e Dick Anthony – M. Introvigne, Le Lavage de cerveau: mythe ou réalité?, L’Harmattan, Parigi 2003.
[23]Cfr. Marc Galanter, Cults. Faith, Healing, and Coercion, Oxford University Press, New York – Oxford 1987.
[24]Cfr. James T. Richardson, “The Active vs. Passive Convert: Paradigm Conflict in Conversion/Recruitment Research”, Journal for the Scientific Study of Religion, vol. 24, n. 2 (1985), pp. 163-179.
[25]John Lofland – Rodney Stark, “Becoming a World-Saver: A Theory of Conversion to a Deviant Perspective”, American Sociological Review, vol. 30 (1965), pp. 862-875 (p. 874).
[26]John Lofland, “Becoming a World-Saver Revisited”, American Behavioural Scientist, vol. 20 (1977), pp. 805-818.
[27]Thierry Mathé, Le Bouddhisme des Français. Contribution à une sociologie de la conversion, L’Harmattan, Parigi 2005.
[28]Cfr. Arthur L. Greil – David R. Rudy, “What Have We Learned from Process Models of Conversion? An Examination of Ten Studies”, Sociological Focus, vol. 17, n. 4 (1984), pp. 306-323.
[29]David A. Snow – Louis A. Zurcher – Sheldon Ekland-Olson, “Social Networks and Social Movements: a Microstructural Approach to Differential Recruitment”, American Sociological Review, vol. 45 (1980), pp. 787-801.
[30]Cfr. per esempio Ernest Volinn, “Eastern Meditation Groups: Why Join?”, Sociological Analysis, vol. 46, n. 2 (1985), pp. 147-156.
[31]Cfr. su questo punto Rodney Stark – Lynn Roberts, “The Arithmetic of Social Movements”, Sociological Analysis, vol. 43, n. 1 (1982), pp. 53-68.
[32]Cfr. Robert Wuthnow, Meaning and Moral Order. Explorations in Cultural Analysis, University of California Press, Berkeley 1987. Cfr. pure sul punto Henri Gooren, “Religious Market, Theory and Conversion: Towards an Alternative Approach”, Exchange, vol. 35 (2006), pp. 39-60.
[33]Roy Wallis – Steven Bruce, “Network and Clockwork”, Sociology, vol. 16, n. 1 (1982), pp. 102-107 (p. 104).
[34]Ibid., p. 106.
[35]Cfr. G.. Giordan, “Introduction: The Varieties of Conversion Experiences”, in G. Giordan (a cura di),Conversion in the Age of Pluralism, cit., pp. 2-10.
[36] Benedetto XVI, enciclica Caritas in veritate (2009), n. 55.
[37]Così Arturo Damm Arnal, Falacias Filosóficas, MiNos, Città del Messico 1991, pp. 38-48 (p. 38).
[38]Ibid., p. 63.
[39] Benedetto XVI, Udienza Generale, 5 agosto 2009.
[40] Cfr. “Current Research: New Findings on Religious Behavior and Attitudes”, cit., p. 5.
[41]Ho introdotto la nozione di “nuovo movimento magico”, che oggi molti utilizzano, nel mio Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo, SugarCo, Milano 1990. Per le “conversioni” a movimenti magici ed esoterici cfr. Antoine Faivre (a cura di), Métamorphose et conversion, Arché, Milano 2008.
[42] Benedetto XVI, Udienza generale, 1° luglio 2009.

Preti pedofili:un panico morale.

Di Massimo Introvigne

Perché si ritorna a parlare di preti pedofili, con accuse che si riferiscono alla Germania, a persone vicine al Papa e ormai anche al Papa stesso? La sociologia ha qualche cosa da dire o deve lasciare libero il campo ai soli giornalisti? Credo che la sociologia abbia molto da dire, e che non debba tacere per il timore di scontentare qualcuno. La discussione attuale sui preti pedofili – considerata dal punto di vista del sociologo – rappresenta un esempio tipico di “panico morale”. Il concetto è nato negli anni 1970 per spiegare come alcuni problemi siano oggetto di una “ipercostruzione sociale”. Più precisamente, i panici morali sono stati definiti come problemi socialmente costruiti caratterizzati da una amplificazione sistematica dei dati reali, sia nella rappresentazione mediatica sia nella discussione politica. Altre due caratteristiche sono state citate come tipiche dei panici morali. In primo luogo, problemi sociali che esistono da decenni sono ricostruiti nelle narrative mediatiche e politiche come “nuovi”, o come oggetto di una presunta e drammatica crescita recente. In secondo luogo, la loro incidenza è esagerata da statistiche folkloriche che, benché non confermate da studi accademici, sono ripetute da un mezzo di comunicazione all’altro e possono ispirare campagne mediatiche persistenti. Philip Jenkins ha sottolineato il ruolo nella creazione e gestione dei panici di “imprenditori morali” le cui agende non sono sempre dichiarate. I panici morali non fanno bene a nessuno. Distorcono la percezione dei problemi e compromettono l’efficacia delle misure che dovrebbero risolverli. A una cattiva analisi non può che seguire un cattivo intervento.

Intediamoci: i panici morali hanno ai loro inizi condizioni obiettive e pericoli reali. Non inventano l’esistenza di un problema, ma ne esagerano le dimensioni statistiche. In una serie di pregevoli studi lo stesso Jenkins ha mostrato come la questione dei preti pedofili sia forse l’esempio più tipico di un panico morale. Sono presenti infatti i due elementi caratteristici: un dato reale di partenza, e un’esagerazione di questo dato ad opera di ambigui “imprenditori morali”.

Anzitutto, il dato reale di partenza. Esistono preti pedofili. Alcuni casi sono insieme sconvolgenti e disgustosi, hanno portato a condanne definitive e gli stessi accusati non si sono mai proclamati innocenti. Questi casi – negli Stati Uniti, in Irlanda, in Australia – spiegano le severe parole del Papa e la sua richiesta di perdono alle vittime. Anche se i casi fossero solo due – e purtroppo sono di più – sarebbero sempre due casi di troppo. Dal momento però che chiedere perdono – per quanto sia nobile e opportuno – non basta, ma occorre evitare che i casi si ripetano, non è indifferente sapere se i casi sono due, duecento o ventimila. E non è neppure irrilevante sapere se il numero di casi è più o meno numeroso tra i sacerdoti e i religiosi cattolici di quanto sia in altre categorie di persone. I sociologi sono spesso accusati di lavorare sui freddi numeri dimenticando che dietro ogni numero c’è un caso umano. Ma i numeri, per quanto non siano sufficienti, sono necessari. Sono il presupposto di ogni analisi adeguata.

Per capire come da un dato tragicamente reale si è passati a un panico morale è allora necessario chiedersi quanti sono i preti pedofili. I dati più ampi sono stati raccolti negli Stati Uniti, dove nel 2004 la Conferenza Episcopale ha commissionato uno studio indipendente al John Jay College of Criminal Justice della City University of New York, che non è un’università cattolica ed è unanimemente riconosciuta come la più autorevole istituzione accademica degli Stati Uniti in materia di criminologia. Questo studio ci dice che dal 1950 al 2002 4.392 sacerdoti americani (su oltre 109.000) sono stati accusati di relazioni sessuali con minorenni. Di questi poco più di un centinaio sono stati condannati da tribunali civili. Il basso numero di condanne da parte dello Stato deriva da diversi fattori. In alcuni casi le vere o presunte vittime hanno denunciato sacerdoti già defunti, o sono scattati i termini della prescrizione. In altri, all’accusa e anche alla condanna canonica non corrisponde la violazione di alcuna legge civile: è il caso, per esempio, in diversi Stati americani del sacerdote che abbia una relazione con una – o anche un – minorenne maggiore di sedici anni e consenziente. Ma ci sono anche stati molti casi clamorosi di sacerdoti innocenti accusati. Questi casi si sono anzi moltiplicati negli anni 1990, quando alcuni studi legali hanno capito di poter strappare transazioni milionarie anche sulla base di semplici sospetti. Gli appelli alla “tolleranza zero” sono giustificati, ma non ci dovrebbe essere nessuna tolleranza neanche per chi calunnia sacerdoti innocenti. Aggiungo che per gli Stati Uniti le cifre non cambierebbero in modo significativo se si aggiungesse il periodo 2002-2010, perché già lo studio del John Jay College notava il “declino notevolissimo” dei casi negli anni 2000. Le nuove inchieste sono state poche, e le condanne pochissime, a causa di misure rigorose introdotte sia dai vescovi statunitensi sia dalla Santa Sede.

Lo studio del John Jay College ci dice, come si legge spesso, che il quattro per cento dei sacerdoti americani sono “pedofili”? Niente affatto. Secondo quella ricerca il 78,2% delle accuse si riferisce a minorenni che hanno superato la pubertà. Avere rapporti sessuali con una diciassettenne non è certamente una bella cosa, tanto meno per un prete: ma non si tratta di pedofilia. Dunque i sacerdoti accusati di effettiva pedofilia negli Stati Uniti sono 958 in cinquantadue anni, diciotto all’anno. Le condanne sono state 54, poco più di una all’anno.

Il numero di condanne penali di sacerdoti e religiosi in altri Paesi è simile a quello degli Stati Uniti, anche se per nessun Paese si dispone di uno studio completo come quello del John Jay College. Si citano spesso una serie di rapporti governativi in Irlanda che definiscono “endemica” la presenza di abusi nei collegi e negli orfanatrofi (maschili) gestiti da alcune diocesi e ordini religiosi, e non vi è dubbio che casi di abusi sessuali su minori anche molto gravi in questo Paese vi siano stati. Lo spoglio sistematico di questi rapporti mostra peraltro come molte accuse riguardino l’uso di mezzi di correzione eccessivi o violenti. Il cosiddetto rapporto Ryan del 2009 – che usa un linguaggio molto duro nei confronti della Chiesa Cattolica – su 25.000 allievi di collegi, riformatori e orfanatrofi nel periodo che esamina riporta 253 accuse di abusi sessuali da parte di ragazzi e 128 da parte di ragazze, non tutte attribuite a sacerdoti, religiosi o religiose, di diversa natura e gravità, raramente riferite a bambini prepuberi e che ancor più raramente hanno condotto a condanne.

Le polemiche di queste ultime settimane sulla Germania e l’Austria mostrano una caratteristica tipica dei panici morali: si presentano come “nuovi” fatti risalenti a molti anni or sono, in alcuni casi a oltre trent’anni fa, in parte già noti. Il fatto che – con una particolare insistenza su quanto tocca l’area geografica bavarese, da cui viene il Papa – siano presentati sulle prime pagine dei giornali avvenimenti degli anni 1980 come se fossero avvenuti ieri, e che ne nascano furibonde polemiche, con un attacco concentrico che ogni giorno annuncia in stile urlato nuove “scoperte” mostra bene come il panico morale sia promosso da “imprenditori morali” in modo organizzato e sistematico. Il caso che – come alcuni giornali hanno titolato – “coinvolge il Papa” è a suo modo da manuale. Si riferisce a un episodio di abusi nell’Arcidiocesi di Monaco di Baviera e Frisinga, di cui era arcivescovo l’attuale Pontefice, che risale al 1980. Il caso è emerso nel 1985 ed è stato giudicato da un tribunale tedesco nel 1986, accertando tra l’altro che la decisione di accogliere nell’arcidiocesi il sacerdote in questione non era stata presa dal cardinale Ratzinger e non gli era neppure nota, il che non è strano in una grande diocesi con una complessa burocrazia. Perché un quotidiano tedesco decida di riesumare questo caso e sbatterlo in prima pagina ventiquattro anni dopo la sentenza dovrebbe essere la vera questione.

Una domanda sgradevole – perché il semplice porla sembra difensivo, e non consola le vittime – ma importante è se essere un prete cattolico sia una condizione che comporta un rischio di diventare pedofilo o di abusare sessualmente di minori – le due cose, come si è visto, non coincidono perché chi abusa di una sedicenne non è un pedofilo – più elevato rispetto al resto della popolazione. Rispondere a questa domanda è fondamentale per scoprire le cause del fenomeno e quindi per prevenirlo. Secondo gli studi di Jenkins se si paragona la Chiesa Cattolica degli Stati Uniti alle principali denominazioni protestanti si scopre che la presenza di pedofili è – a seconda delle denominazioni – da due a dieci volte più altra tra i pastori protestanti rispetto ai preti cattolici. La questione è rilevante perché mostra che il problema non è il celibato: la maggior parte dei pastori protestanti è sposata. Nello stesso periodo in cui un centinaio di sacerdoti americani era condannato per abusi sessuali su minori, il numero professori di ginnastica e allenatori di squadre sportive giovanili – anche questi in grande maggioranza sposati – giudicato colpevole dello stesso reato dai tribunali statunitensi sfiorava i seimila. Gli esempi potrebbero continuare, non solo negli Stati Uniti. E soprattutto secondo i periodici rapporti del governo americano due terzi circa delle molestie sessuali su minori non vengono da estranei o da educatori – preti e pastori protestanti compresi – ma da familiari: patrigni, zii, cugini, fratelli e purtroppo anche genitori. Dati simili esistono per numerosi altri Paesi.

Per quanto sia poco politicamente corretto dirlo, c’è un dato che è assai più significativo: per oltre l’ottanta per cento i pedofili sono omosessuali, maschi che abusano di altri maschi. E – per citare ancora una volta Jenkins – oltre il novanta per cento dei sacerdoti cattolici condannati per abusi sessuali su minori e pedofilia è omosessuale. Se nella Chiesa Cattolica c’è stato effettivamente un problema, questo non è stato il celibato ma una certa tolleranza dell’omosessualità nei seminari particolarmente negli anni 1970, quando è stata ordinata la grande maggioranza di sacerdoti poi condannati per gli abusi. È un problema che Benedetto XVI sta vigorosamente correggendo. Più in generale il ritorno alla morale, alla disciplina ascetica, alla meditazione sulla vera, grande natura del sacerdozio sono l’antidoto ultimo alle tragedie vere della pedofilia. Anche a questo deve servire l’Anno Sacerdotale.

Rispetto al 2006 – quando la BBC mandò in onda il documentario-spazzatura del parlamentare irlandese e attivista omosessuale Colm O’Gorman – e al 2007 – quando Santoro ne propose la versione italiana su Annozero – non c’è, in realtà, molto di nuovo, salva l’accresciuta severità e vigilanza della Chiesa. I casi dolorosi di cui più si parla in queste settimane non sono sempre inventati, ma risalgono a venti o anche a trent’anni fa.

O, forse, qualche cosa di nuovo c’è. Perché riesumare nel 2010 casi vecchi o molto spesso già noti, al ritmo di uno al giorno, attaccando sempre più direttamente il Papa – un attacco, per di più, paradossale se si considera la grandissima severità del cardinale Ratzinger prima e di Benedetto XVI poi su questo tema? Gli “imprenditori morali” che organizzano il panico hanno un’agenda che emerge sempre più chiaramente, e che non ha veramente al suo centro la protezione dei bambini. La lettura di certi articoli ci mostra come – alla vigilia di scelte politiche, giuridiche e anche elettorali che un po’ dovunque in Europa e nel mondo mettono in questione la somministrazione della pillola RU486, l’eutanasia, il riconoscimento delle unioni omosessuali, in cui quasi solo la voce della Chiesa e del Papa si leva a difendere la vita e la famiglia – lobby molto potenti cercano di squalificare preventivamente questa voce con l’accusa più infamante e oggi purtroppo anche più facile, quella di favorire o tollerare la pedofilia. Queste lobby più o meno massoniche manifestano il sinistro potere della tecnocrazia evocato dallo stesso Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate e la denuncia di Giovanni Paolo II, nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1985 (dell’8-12-1984), a proposito di “disegni nascosti” – accanto ad altri “apertamente propagandati” – “miranti a soggiogare tutti i popoli a regimi in cui Dio non conta”.

Davvero è questa un’ora di tenebre, che riporta alla mente la profezia di un grande pensatore cattolico del XIX secolo, il vercellese Emiliano Avogadro della Motta (1798-1865), secondo cui alle rovine arrecate dalle ideologie laiciste avrebbe fatto seguito un’autentica “demonolatria” che si sarebbe manifestata particolarmente nell’attacco alla famiglia e alla vera nozione del matrimonio. Ristabilire la verità sociologica sui panici morali in tema di preti e pedofilia di per sé non risolve i problemi e non ferma le lobby, ma può costituire almeno un piccolo e doveroso omaggio alla grandezza di un Pontefice e di una Chiesa feriti e calunniati perché sulla vita e la famiglia non si rassegnano a tacere.

“Gli sia messa una macina al collo…..”:la vergognosa piaga dello clero-pedofilia.

“Gli sia messa al collo una macina da mulino…”
“… e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli” (Luca 17, 2). Imputati, processi e condanne in dieci anni di pedofilia tra il clero. Intervista con Charles J. Scicluna, promotore di giustizia della congregazione per la dottrina della fede.

di Gianni Cardinale

ROMA – Monsignor Charles J. Scicluna è il “promotore di giustizia” della congregazione per la dottrina della fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del tribunale dell’ex Sant’Uffizio, che ha il compito di indagare sui cosiddetti “delicta graviora”, i delitti che la Chiesa cattolica considera i più gravi in assoluto: e cioè quelli contro l’eucaristia, quelli contro la santità del sacramento della penitenza, e il delitto contro il sesto comandamento (“non commettere atti impuri”) di un chierico con un minore di diciotto anni. Delitti che un motu proprio del 2001, “Sacramentorum sanctitatis tutela”, ha riservato, come competenza, alla congregazione per la dottrina della fede. Di fatto è il “promotore di giustizia” ad avere a che fare, tra l’altro, con la terribile questione dei sacerdoti accusati di pedofilia periodicamente alla ribalta sui mass media. E monsignor Scicluna, un maltese affabile e gentile nei modi, ha la fama di adempiere il compito affidatogli con il massimo scrupolo, senza guardare in faccia a nessuno.

D. – Monsignore, lei ha la fama di essere un “duro”, eppure la Chiesa cattolica viene sistematicamente accusata di essere accomodante nei confronti dei cosiddetti “preti pedofili”.

R. – Può essere che in passato, forse anche per un malinteso senso di difesa del buon nome dell’istituzione, alcuni vescovi, nella prassi, siano stati troppo indulgenti verso questi tristissimi fenomeni. Nella prassi dico, perché sul piano dei principi la condanna per questa tipologia di delitti è stata sempre ferma e inequivocabile. Per rimanere al secolo scorso basta ricordare l’ormai celebre istruzione “Crimen sollicitationis” del 1922.

D. – Ma non era del 1962?

R. – No, la prima edizione risale al pontificato di Pio XI. Poi con il beato Giovanni XXIII il Sant’Uffizio ne curò una nuova edizione per i padri conciliari, ma ne vennero fatte solo duemila copie e non bastarono per la distribuzione che fu rinviata sine die. Si trattava comunque di norme procedurali da seguire nei casi di sollecitazione in confessione e di altri delitti più gravi a sfondo sessuale come l’abuso sessuale di minori.

D. – Norme che raccomandavano però il segreto…

R. – Una cattiva traduzione in inglese di questo testo ha fatto pensare che la Santa Sede imponesse il segreto per occultare i fatti. Ma non era così. Il segreto istruttorio serviva per proteggere la buona fama di tutte le persone coinvolte, prima di tutto le stesse vittime, e poi i chierici accusati, che hanno diritto – come chiunque – alla presunzione di innocenza fino a prova contraria. Alla Chiesa non piace la giustizia spettacolo. La normativa sugli abusi sessuali non è stata mai intesa come divieto di denuncia alle autorità civili.

D. – Quel documento però viene periodicamente rievocato per accusare l’attuale pontefice di essere stato – in qualità di prefetto dell’ex Sant’Uffizio – il responsabile oggettivo di una politica di occultamento dei fatti da parte della Santa Sede.

R. – Si tratta di un’accusa falsa e calunniosa. A questo proposito mi permetto di segnalare alcuni fatti. Tra il 1975 e il 1985 mi risulta che nessuna segnalazione di casi di pedofilia da parte di chierici sia arrivata all’attenzione della nostra congregazione. Comunque dopo la promulgazione del codice di diritto canonico del 1983 c’è stato un periodo di incertezza sull’elenco dei “delicta graviora” riservati alla competenza di questo dicastero. Solo col motu proprio del 2001 il delitto di pedofilia è ritornato alla nostra competenza esclusiva. E da quel momento il cardinale Ratzinger ha mostrato saggezza e fermezza nel gestire questi casi. Di più. Ha mostrato anche grande coraggio nell’affrontare alcuni casi molto difficili e spinosi, “sine acceptione personarum”, cioé senza riguardi per nessuno. Quindi accusare l’attuale pontefice di occultamento è, ripeto, falso e calunnioso.

D. – Nel caso che un sacerdote sia accusato di un “delictum gravius”, cosa succede?

R. – Se l’accusa è verosimile il vescovo ha l’obbligo di investigare sia l’attendibilità della denuncia che l’oggetto stesso della medesima. E se l’esito di questa indagine previa è attendibile non ha più potere di disporre della materia e deve riferire il caso alla nostra congregazione, dove viene trattato dall’ufficio disciplinare.

D. – Da chi è composto questo ufficio?

R. – Oltre a me, che essendo uno dei superiori del dicastero, mi occupo anche di altre questioni, ci sono un capo ufficio, padre Pedro Miguel Funes Diaz, sette ecclesiastici e un penalista laico che seguono queste pratiche. Altri officiali della congregazione prestano il loro prezioso contributo secondo le esigenze di lingua e di competenza.

D. – Questo ufficio è stato accusato di lavorare poco e con lentezza.

R. – Si tratta di rilievi ingiusti. Nel 2003 e 2004 c’è stata una valanga di casi che ha investito le nostre scrivanie. Molti dei quali venivano dagli Stati Uniti e riguardavano il passato. Negli ultimi anni, grazie a Dio, il fenomeno si è di gran lunga ridotto. E quindi adesso cerchiamo di trattare i casi nuovi in tempo reale.

D. – Quanti casi avete trattato finora?

R. – Complessivamente in questi ultimi nove anni, dal 2001 al 2010, abbiamo valutato le accuse riguardanti circa tremila casi di sacerdoti diocesani e religiosi che si riferiscono a delitti commessi negli ultimi cinquanta anni.

D. – Quindi di tremila casi di preti pedofili?

R. – Non è corretto dire così. Possiamo dire che grosso modo nel 60 per cento di questi casi si tratta più che altro di atti di efebofilia, cioè dovuti ad attrazione sessuale per adolescenti dello stesso sesso, in un altro 30 per cento di rapporti eterosessuali e nel 10 per cento di atti di vera e propria pedofilia, cioè determinati da una attrazione sessuale per bambini impuberi. I casi di preti accusati di pedofilia vera e propria sono quindi circa trecento in nove anni. Si tratta sempre di troppi casi – per carità! – ma bisogna riconoscere che il fenomeno non è così esteso come si vorrebbe far credere.

D. – Tremila quindi gli accusati. Quanti i processati e condannati?

R. – Intanto si può dire che un processo vero e proprio, penale o amministrativo, si è svolto nel 20 per cento dei casi e normalmente è stato celebrato nelle diocesi di provenienza – sempre sotto la nostra supervisione – e solo rarissimamente qui a Roma. Facciamo così anche per una maggiore speditezza dell’iter. Nel 60 per cento dei casi poi, soprattutto a motivo dell’età avanzata degli accusati, non c’è stato processo, ma, nei loro confronti, sono stati emanati dei provvedimenti amministrativi e disciplinari, come l’obbligo a non celebrare messa coi fedeli, a non confessare, a condurre una vita ritirata e di preghiera. È bene ribadire che in questi casi, tra i quali ce ne sono alcuni particolarmente eclatanti di cui si sono occupati i media, non si tratta di assoluzioni. Certo non c’è stata una condanna formale, ma se si è obbligati al silenzio e alla preghiera qualche motivo ci sarà…

D. – All’appello manca ancora il 20 per cento dei casi.

R. – Diciamo che in un 10 per cento di casi, quelli particolarmente gravi e con prove schiaccianti, il Santo Padre si è assunto la dolorosa responsabilità di autorizzare un decreto di dimissione dallo stato clericale. Un provvedimento gravissimo, preso per via amministrativa, ma inevitabile. Nell’altro 10 per cento dei casi poi, sono stati gli stessi chierici accusati a chiedere la dispensa dagli obblighi derivati dal sacerdozio. Che è stata prontamente accettata. Coinvolti in questi ultimi casi ci sono stati sacerdoti trovati in possesso di materiale pedopornografico e che per questo sono stati condannati dall’autorità civile.

D. – Da dove vengono questi tremila casi?

R. – Soprattutto dagli Stati Uniti che per gli anni 2003-2004 rappresentavano circa l’80 per cento del totale di casi. Per il 2009 la percentuale statunitense è scesa a circa il 25 per cento dei 223 nuovi casi segnalati da tutto il mondo. Negli ultimi due anni, dal 2007 al 2009, infatti, la media annuale dei casi segnalati alla congregazione dal mondo è stata proprio di 250 casi. Molti paesi segnalano solo uno o due casi. Crescono quindi la diversità e il numero dei paesi di provenienza dei casi ma il fenomeno è assai ridotto. Bisogna ricordare infatti che il numero complessivo di sacerdoti diocesani e religiosi nel mondo è di 400 mila. Questo dato statistico non corrisponde alla percezione che si crea quando questi casi così tristi occupano le prime pagine dei giornali.

D. – E dall’Italia?

R. – Finora il fenomeno non sembra abbia dimensioni drammatiche, anche se ciò che mi preoccupa è una certa cultura del silenzio che vedo ancora troppo diffusa. La conferenza episcopale italiana offre un ottimo servizio di consulenza tecnico-giuridica per i vescovi che devono trattare questi casi. Noto con grande soddisfazione un impegno sempre maggiore da parte dei vescovi italiani di fare chiarezza sui casi a loro segnalati.

D. – Lei diceva che i processi veri e propri riguardano circa il 20 per cento dei circa tremila casi che avete esaminato negli ultimi nove anni. Sono finiti tutti con la condanna degli accusati?

R. – Molti dei processi ormai celebrati sono finiti con una condanna dell’accusato. Ma non sono mancati quelli in cui il sacerdote è stato dichiarato innocente o dove le accuse non sono state ritenute sufficientemente provate. In tutti i casi comunque si fa non solo lo studio sulla colpevolezza o meno del chierico accusato, ma anche il discernimento sull’idoneità dello stesso al ministero pubblico.

D. – Un’accusa ricorrente fatta alle gerarchie ecclesiastiche è quella di non denunciare anche alle autorità civili i reati di pedofilia di cui vengono a conoscenza.

R. – In alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria. Si tratta di un dovere gravoso perché questi vescovi sono costretti a compiere un gesto paragonabile a quello compiuto da un genitore che denuncia un proprio figlio. Ciononostante, la nostra indicazione in questi casi è di rispettare la legge.

D. – E nei casi in cui i vescovi non hanno questo obbligo per legge?

R. – In questi casi noi non imponiamo ai vescovi di denunciare i propri sacerdoti, ma li incoraggiamo a rivolgersi alle vittime per invitarle a denunciare quei sacerdoti di cui sono state vittime. Inoltre li invitiamo a dare tutta l’assistenza spirituale, ma non solo spirituale, a queste vittime. In un recente caso riguardante un sacerdote condannato da un tribunale civile italiano, è stata proprio questa congregazione a suggerire ai denunciatori, che si erano rivolti a noi per un processo canonico, di adire anche alle autorità civili nell’interesse delle vittime e per evitare altri reati.

D. – Un’ultima domanda: è prevista la prescrizione per i “delicta graviora”?

R. – Lei tocca un punto – a mio avviso – dolente. In passato, cioè prima del 1898, quello della prescrizione dell’azione penale era un istituto estraneo al diritto canonico. E per i delitti più gravi solo con il motu proprio del 2001 è stata introdotta una prescrizione di dieci anni. In base a queste norme nei casi di abuso sessuale il decennio incomincia a decorrere dal giorno in cui il minore compie i diciotto anni.

D. – È sufficiente?

R. – La prassi indica che il termine di dieci anni non è adeguato a questo tipo di casi e sarebbe auspicabile un ritorno al sistema precedente dell’imprescrittibilità dei “delicta graviora”. Il 7 novembre 2002, comunque, il servo di Dio venerabile Giovanni Paolo II ha concesso a questo dicastero la facoltà di derogare dalla prescrizione caso per caso, su motivata domanda dei singoli vescovi. E la deroga viene normalmente concessa.

Tratto da.:Avvenire del 13 marzo 2010.

Circa i delitti più gravi
riservati alla Congregazione per la dottrina della fede
18 maggio 2001

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Ad exequendam. Inviata dalla Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi di tutta la Chiesa cattolica e agli altri ordinari e gerarchi interessati, circa i delitti più gravi riservati alla medesima Congregazione per la dottrina della fede, 18 maggio 2001: AAS 93(2001), 785-788.

La Lettera apostolica in forma di motu proprio di Giovanni Paolo II Sacramentorum sanctitatis tutela del 30.4.2001 (cf. nn. 575-580) rispondeva al preciso scopo di “definire più dettagliatamente sia ‘i delitti più gravi commessi contro la morale e nella celebrazione dei sacramenti’, per i quali la competenza rimane esclusiva della Congregazione per la dottrina della fede, sia anche le norme processuali speciali ‘per dichiarare o infliggere le sanzioni canoniche’”. Le Norme sono contenute in questa successiva Lettera. Riguardo alla definizione dei “delitti più gravi”, la principale novità riguarda la pedofilia, ovvero “il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età” (prima erano 16). Riguardo invece alle novità procedurali, i vescovi svolgeranno indagini preliminari e segnaleranno i casi alla Congregazione, la quale deciderà se lasciare la causa agli stessi ordinari o avocarla a sé: i procedimenti di questo genere, inoltre, sono soggetti al segreto pontificio.
***
Circa i delitti più gravi
riservati alla Congregazione per la dottrina della fede
18 maggio 2001
Per l’applicazione della legge ecclesiastica, che all’art. 52 della Costituzione apostolica sulla curia romana dice: “[La Congregazione per la dottrina della fede] giudica i delitti contro la fede e i delitti più gravi commessi sia contro la morale sia nella celebrazione dei sacramenti, che vengano a essa segnalati e, all’occorrenza, procede a dichiarare o a infliggere le sanzioni canoniche a norma del diritto, sia comune che proprio”, era necessario prima di tutto definire il modo di procedere circa i delitti contro la fede: questo è stato fatto con le norme che vanno sotto il titolo di Regolamento per l’esame delle dottrine, ratificate e confermate dal sommo pontefice Giovanni Paolo II, con gli articoli 28-29 approvati insieme in forma specifica (2).
Quasi nel medesimo tempo la Congregazione per la dottrina della fede con una Commissione costituita a tale scopo si applicava a un diligente studio dei canoni sui delitti, sia del Codice di diritto canonico sia del Codice dei canoni delle Chiese orientali, per determinare “i delitti più gravi sia contro la morale sia nella celebrazione dei sacramenti”, per perfezionare anche le norme processuali speciali nel procedere “a dichiarare o a infliggere le sanzioni canoniche”, poiché l’istruzione Crimen sollicitationis finora in vigore, edita dalla Suprema sacra Congregazione del Sant’Offizio il 16 marzo 1962, (3) doveva essere riveduta dopo la promulgazione dei nuovi codici canonici.
Dopo un attento esame dei pareri e svolte le opportune consultazioni, il lavoro della Commissione è finalmente giunto al termine; i padri della Congregazione per la dottrina della fede l’hanno esaminato più a fondo, sottoponendo al sommo pontefice le conclusioni circa la determinazione dei delitti più gravi e circa il modo di procedere nel dichiarare o nell’infliggere le sanzioni, ferma restando in ciò la competenza esclusiva della medesima Congregazione come Tribunale apostolico. Tutte queste cose sono state dal sommo pontefice approvate, confermate e promulgate con la lettera apostolica data in forma di motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela.
I delitti più gravi sia nella celebrazione dei sacramenti sia contro la morale, riservati alla Congregazione per la dottrina della fede, sono:
– I delitti contro la santità dell’augustissimo sacramento e sacrificio dell’eucaristia, cioè:
1° l’asportazione o la conservazione a scopo sacrilego, o la profanazione delle specie consacrate: (4)
2° l’attentata azione liturgica del sacrificio eucaristico o la simulazione della medesima; (5)
3° la concelebrazione vietata del sacrificio eucaristico assieme a ministri di comunità ecclesiali, che non hanno la successione apostolica ne riconoscono la dignità sacramentale dell’ordinazione sacerdotale; (6)
4° la consacrazione a scopo sacrilego di una materia senza l’altra nella celebrazione eucaristica, o anche di entrambe fuori della celebrazione eucaristica; (7)
– Delitti contro la santità del sacramento della penitenza, cioè:
1° l’assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento del Decalogo; (8)
2° la sollecitazione, nell’atto o in occasione o con il pretesto della confessione, al peccato contro il sesto comandamento del Decalogo, se è finalizzata a peccare con il confessore stesso; (9)
3° la violazione diretta del sigillo sacramentale; (10)
– Il delitto contro la morale, cioè: il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età.
Al Tribunale apostolico della Congregazione per la dottrina della fede sono riservati soltanto questi delitti, che sono sopra elencati con la propria definizione. Ogni volta che l’ordinario o il gerarca avesse notizia almeno verosimile di un delitto riservato, dopo avere svolte un’indagine preliminare, la segnali alla Congregazione per la dottrina della fede, la quale, a meno che per le particolari circostanze non avocasse a sé la causa, comanda all’ordinario o al gerarca, dettando opportune norme, di procedere a ulteriori accertamenti attraverso il proprio tribunale. Contro la sentenza di primo grado, sia da parte del reo o del suo patrono sia da parte del promotore di giustizia, resta validamente e unicamente soltanto il diritto di appello al supremo Tribunale della medesima Congregazione.
Si deve notare che l’azione criminale circa i delitti riservati alla Congregazione per la dottrina della fede si estingue per prescrizione in dieci anni (11). La prescrizione decorre a norma del diritto universale e comune (12): ma in un delitto con un minore commesso da un chierico comincia a decorrere dal giorno in cui il minore ha compiuto il 18° anno di età.
Nei tribunali costituiti presso gli ordinari o i gerarchi, possono ricoprire validamente per tali cause l’ufficio di giudice, di promotore di giustizia, di notaio e di patrono soltanto dei sacerdoti. Quando l’istanza nel tribunale in qualunque modo è conclusa, tutti gli atti della causa siano trasmessi d’ufficio quanto prima alla Congregazione per la dottrina della fede.
Tutti i tribunali della Chiesa latina e delle Chiese orientali cattoliche sono tenuti a osservare i canoni sui delitti e le pene come pure sul processo penale rispettivamente dell’uno e dell’altro Codice, assieme alle norme speciali che saranno date caso per caso dalla Congregazione per la dottrina della fede e da applicare in tutto.
Le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio.
Con la presente lettera, inviata per mandato del sommo pontefice a tutti i vescovi della Chiesa cattolica, ai superiori generali degli istituti religiosi clericali di diritto pontificio e delle società di vita apostolica clericali di diritto pontificio e agli altri ordinari e gerarchi interessati, si auspica che non solo siano evitati del tutto i delitti più gravi, ma soprattutto che, per la santità dei chierici e dei fedeli da procurarsi anche mediante necessarie sanzioni, da parte degli ordinari e dei gerarchi ci sia una sollecita cura pastorale.
Roma, dalla sede della Congregazione per la dottrina della fede, 18 maggio 2001.
+ Joseph card. Ratzinger, prefetto
+ Tarcisio Bertone, SDB, arc. em. di Vercelli, segretario

Note
1) IOANNES PAULUS II, Const. apost. Pastor bonus de romana curia, 28.6.1988, art. 52: AAS 80(1988), 874: EV 11/884.
2) CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, Agendi ratio in doctrinarum examine [regolamento per l’esame delle dottrine]. 29.6.1997: AAS 89(1997), 830-835: EV 16/616-644.
3) SUPREMA SACRA CONGREGATIO SANCTI OFFICII, Instr. Crimen sollicitationis ad omnes patriarchas, archiepiscopos, episcopos aliosque locorm ordinarios ” etiam ritus orientalis “: De modo procedendi in causis sollicitationis [a tutti i patriarchi, arcivescovi, vescovi e agli altri ordinari dei luoghi “anche del Rito orientale”; “Procedimento nelle cause di sollecitazione”], 16.3.1962. Tipografia poliglotta vaticana 1962.
4) Cf. Codex Iuris Canonici [Codice di diritto canonico] (CIC), can. 1367: Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium[Codice dei canoni delle Chiese orientali] (CCEO), can. 1442. Cf. et pontificium consilium de legum textibus interpretandis. Responsum ad propositum dubium [anche Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi. Risposta al dubbio] Utrum in can. 1367 CIC. 4.6.1999 [3.7.1999]: AAS 91(1999). 918: EV 18/1259-1266.
5) Cf. CIC cann. 1378 § 2 n. 1 e 1379: CCEO can. 1443.
6) Cf. CIC cann. 908 e 1365; CCEO cann. 702 e 1440.
7) Cf. CIC can. 927.
8) Cf. CIC can. 1378 § 1: CCEO can. 1458
9) Cf. CIC can. 1387: CCEO can. 1458.
10) Cf. CIC can. 1362 § 1 N.1: CCEO can. 1152 § 2 n.1.
11) Cf. CIC can. 1388 § 1: CCEO can. 1456 § 1
12) Cf. CIC can. 1362 § 2: CCEO can. 1152 § 3
Cfr: Cattopedofilia. Una struttura di peccato.
inhttp://terradinessuno.wordpress.com/

Tante religioni: qual’ è la verità?


Testo di Massimo Introvigne

Relazione di Massimo Introvigne all’incontro organizzato dalla Pastorale Giovanile della Diocesi di Isernia-Venafro il 6 febbraio 2010 e concluso dal vescovo S.E. Mons. Salvatore Visco

La dittatura del relativismo

La domanda cui mi si chiede di rispondere è duplice: perché affermiamo che la religione cattolica è vera? E perché molti, in questa Europa che fu cristiana, oggi non ci credono più? La prima domanda è, propriamente, apologetica. La seconda richiede una lettura filosofica e teologica, oltre che sociologica, della storia.

Perché la prima domanda abbia un senso, è necessario anzitutto convincersi che esiste la verità e che la ragione umana è in grado di conoscerla. Benedetto XVI lo ha ripetuto più volte: preparata da una «dittatura del razionalismo» c’è oggi una «dittatura del relativismo» (Benedetto XVI 2009b). Questa dittatura c’impone di credere e di affermare che non esiste la verità. E che chi afferma che esiste una verità è fanatico, intollerante e fondamentalista.

Nel suo viaggio del settembre 2007 in Austria Benedetto XVI ha spiegato che la «questione essenziale» oggi non riguarda anzitutto la fede. Riguarda la ragione. Non si tratta di una precedenza ontologica – la fede, che salva, verrebbe prima della ragione – ma cronologica. Se non crediamo che alcune proposizioni possano essere vere, se anzi sosteniamo che non esistono in assoluto affermazioni vere, allora anche tesi come «Dio ci salva» o «Gesù è Dio» non possono essere vere, perché nessuna tesi lo è. Ecco dunque perché si deve partire dalla ragione, e perché ci si trova oggi in una situazione paradossale in cui è la Chiesa a doversi fare carico di difendere la ragione. La grande domanda è, come il Papa ha ricordato a Vienna, se la ragione «stia al principio di tutte le cose e a loro fondamento o no» (Benedetto XVI 2007a). Sulla base della risposta positiva a questa domanda, che nasce dall’eredità greca, dall’ebraismo e dal cristianesimo, si costruiscono propriamente l’Europa e l’Occidente.

Solo se si crede che la ragione sia un principio e fondamento universale si può credere nella verità. Credere, cioè, che alcune tesi e valori siano veri per tutti gli uomini in quanto tali. Mentre oggi si afferma che le tesi e le norme occidentali possono al massimo rivendicare una validità in e per l’Occidente: pretendere che siano «universali» sarebbe solo espressione di «etnocentrismo», d’imperialismo o di razzismo. Anzi, le tesi e i valori non occidentali sarebbero talora più genuini, spontanei e «in armonia con la natura», secondo la prospettiva di buona parte della tendenza New Age, come sottilmente insinua di questi tempi il film Avatar, il film più visto di tutti i tempi, prodigio della tecnologia – certo – ma anche veicolo di propaganda di una religione pagana della natura senza Dio e senza dogmi.

Purtroppo oggi – per citare ancora Benedetto XVI nel suo viaggio in Austria del 2007, tutto incentrato sul tema della ragione – c’è un’ampia parte della cultura europea che pensa che «la ragione sia un casuale prodotto secondario dell’irrazionale e nell’oceano dell’irrazionalità, in fin dei conti, sia anche senza un senso» (ibidem). Nel santuario austriaco di Mariazell il Papa ha mostrato come per l’Europa l’abbandono del primato della ragione porta a una «rassegnazione che considera l’uomo incapace della verità» (Benedetto XVI 2007b).

Dimostrare l’esistenza della verità e la capacità della ragione di conoscerla sono il compito della vera filosofia. È però anche possibile dimostrare storicamente che se non si crede nella verità non si riesce a costruire niente di solido e di buono. A rigore, non si può costruire neppure quella scienza che qualche volta pretende di contestare la filosofia.

Nel celebre discorso che ha tenuto il 12 settembre 2006 a Ratisbona (Benedetto XVI 2006) il Papa parte da un dialogo sulle rispettive religioni che vede contrapposti nel 1391 ad Ankara l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo (1350-1425) e un saggio musulmano (Manuele II Paleologo 2007). Cominciamo così a parlare, secondo il titolo che mi avete assegnato, anche del fondatore dell’islam, Muhammad (c. 570-632), ma il nostro tema per il momento è ancora la ragione.

Infatti nel 1391 certamente Manuele non può discutere invocando il Vangelo o la teologia in una disputa che si svolge di fronte a un pubblico musulmano: propone allora al suo interlocutore di discutere non sulla base della fede, ma della ragione. L’islamico accetta, ma il dialogo non va da nessuna parte perché Manuele e il musulmano hanno due idee diverse della ragione. Per l’imperatore greco la ragione è il fondamento filosofico di tutte le cose. Per il musulmano questo fondamento non esiste – il suo Dio, Allah, «non dipende da nessuno dei suoi atti» ( ibid., 54) e può cambiare ogni minuto le leggi che regolano il mondo, così che ogni conoscenza razionale è incerta e provvisoria.

Per l’islamico argomentare in base alla ragione significa semplicemente citare fatti empirici. La sua nozione di ragione è meramente strumentale. Come ha mostrato un grande sociologo, Rodney Stark, in diverse sue opere da questa nozione di ragione dell’islam può scaturire una raffinata tecnologia, ma non propriamente una scienza. Se Dio non dispone il mondo secondo ragione, se il reale e le sue leggi possono cambiare continuamente, allora di questo mondo non si può avere una conoscenza scientifica (Stark 2006, 2008).

Munito della sua nozione meramente strumentale di ragione, il musulmano usa nel quinto dialogo (cfr. ibid., 34-35) l’argomento che pensa chiuda la discussione: la prova della superiorità dell’islam sul cristianesimo è che le armate del Profeta stanno vincendo ovunque, e lo stesso impero di Bisanzio è ridotto a uno staterello. Naturalmente tre secoli dopo, quando a partire dalla sconfitta di Vienna nel 1683 i musulmani cominceranno a perdere le battaglie e le guerre, l’argomento potrà essere rovesciato. Ma non è questo il punto. Per Manuele II – e per Benedetto XVI – la vita, i diritti umani e la possibilità di convivere fra religioni diverse sono garantite solo da una fiducia nella ragione come strumento capace di conoscere la verità. Se manca questa fiducia, quale sia la verità è deciso da quali eserciti vincano, e oggi da chi sia più capace di fare esplodere bombe. La verità – e Dio stesso, che è verità – diventano semplici funzioni della violenza.

C’è dunque un argomento storico e pratico contro i relativisti. Questi ogni tanto sostengono che solo il relativismo garantisce la pace. È tutto il contrario: tra persone che credono diversamente solo una nozione comune di verità permette di fissare regole del gioco condivise. Se non c’è la verità non ci sono regole, e chi ha ragione lo decidono le armi e le bombe.

I quattro pilastri dell’Europa

Una volta stabilito che esiste la verità, possiamo chiederci quali sono le verità fondamentali sulla base delle quali viviamo. Dal momento che il mio campo sono le scienze umane, mi è più facile chiedermi quali verità hanno dato forma alla nostra società occidentale. Mi rispondo che sono sostanzialmente quattro: il senso religioso, come modo tipicamente occidentale di porre la domanda sulle origini e sul destino dell’uomo e del mondo; Dio, considerato come l’unica risposta adeguata a questo domanda; Gesù Cristo, mediatore fra Dio e gli uomini; e la Chiesa, come luogo in cui Gesù Cristo si fa continuamente presente e incontrabile nella storia. Per i cattolici, evidentemente, questo schema ha un valore di verità teologica. Ma anche il sociologo o lo storico non cattolico sono obbligati a riconoscere che si tratta di elementi che hanno connotato la visione del mondo occidentale per molti secoli, e che hanno fatto dell’Europa quello che è.

Di nuovo, la filosofia – e la filosofia vera, amava dire un grande filosofo scomparso da pochi giorni, Ralph McInerny (1929-2010), è una sola – può aiutarci a provare che un Dio personale e creatore esiste. Il mondo non si è fatto da sé, così come io non mi sono fatto da solo, anzi è questa la mia esperienza fondamentale autenticamente umana. Negli Stati Uniti, e non solo, un buon numero di scienziati parla del «disegno intelligente»: il mondo è così complicato da non poter essere casuale. Nessuna scienza umana potrebbe creare anche qualche cosa che diamo per scontato come un albero o un fiore, e basterebbe una minima variazione delle condizioni del nostro universo per rendere la vita impossibile, il che rende davvero poco probabile che tutto sia sempre e soltanto casuale. Nella prima puntata di una delle poche serie televisive americane d’ispirazione cattolica, Joan of Arcadia, la protagonista incontra un personaggio che si presenta come Dio. In effetti è davvero Dio, ma comprensibilmente la ragazzina ha qualche difficoltà a crederci. Chiede un miracolo, e Dio le fa vedere un albero chiedendole: «Che ne dici di questo?». «Tutto qui?», ribatte Joan. Ma Dio risponde: «Prova a farlo tu!».

Ho citato Rodney Stark, forse il più autorevole sociologo delle religioni vivente. In un libro in cui annuncia la sua conversione dall’agnosticismo alla fede cristiana, Stark sostiene, da sociologo, che c’è un «disegno intelligente» anche nella società, che non potrebbe funzionare se l’uomo – con tutti i suoi difetti – non fosse creato da Dio e se una provvidenza non regnasse sulla storia. La stessa sociologia delle religioni, la materia di Stark, mostrerebbe una successione di religioni nella storia così ordinata da non potere essere casuale e da mostrare – senza ancora far entrare in gioco la fede – l’eminente plausibilità di un Dio che si rivela e la superiorità della rivelazione in Gesù Cristo e della Chiesa che la custodisce (Stark 2008). Secondo Stark un percorso anche soltanto sociologico mostra la superiorità del monoteismo sul politeismo, di un Dio personale che si rivela su un Dio ozioso o concepito come semplice essenza astratta, di una religione che predica solidi e completi principi morali rispetto a una che si disinteressa di ampi settori della morale come molte versioni del buddhismo e dell’induismo e quasi tutto l’antico paganesimo. Di qui la conversione del grande sociologo al cristianesimo, avvenuta paradossalmente proprio per via sociologica.

Intendiamoci: la sociologia non può sostituire la fede. Neppure Stark lo pensa. Tuttavia c’è un test cui possiamo sottoporre le religioni. È la loro conformità al diritto naturale, alla morale naturale. La ragione, a prescindere da qualunque libro sacro, può arrivare a conoscere principi morali quali il ripudio della violenza come strumento per far prevalere le proprie convinzioni filosofiche o religiose, i diritti fondamentali della persona, il valore della vita dal concepimento alla morte naturale, la famiglia monogamica e indissolubile fondata sull’unione di un uomo e di una donna come prima cellula della società. Oggi qualcuno pensa che questi valori «vadano bene per i cattolici», ma non valgano per i non cattolici e i non credenti. Ma non è così. Sono valori di ragione, non di fede. Quando il Papa afferma che la vita umana è tale fin dal concepimento, che l’uccisione dei malati e dei vecchi con l’eutanasia è una forma di assassinio, che la famiglia può svolgere il suo ruolo di cellula fondamentale della società solo se è monogamica ed eterosessuale, non sta enunciando verità di fede, ma verità di ragione. Che l’alimentazione e l’idratazione non siano cure mediche e che sospenderle significhi uccidere non sta scritto in nessun brano di Luca o di Matteo e neppure nel Corano, ma nel libro delle verità di natura che la ragione, se non è offuscata dall’ideologia, è in grado di leggere.

Quelli che Benedetto XVI definisce spesso i «valori non negoziabili» sono tesi di ragione, che il credente ha certo un motivo e forse uno slancio in più per difendere ma che s’impongono a tutti. Del resto, se la Chiesa invita a «non rubare», si dirà forse che si tratta di una norma dei Dieci Comandamenti che vale solo per i cristiani ma che non si può pretendere d’imporre agli altri? Forse i non credenti sono autorizzati a rubare?

Non tutto quello che si trova nelle Sacre Scritture è materia esclusivamente di fede. Nei Dieci Comandamenti Dio ha rivelato verità cui si può arrivare anche con la ragione – benché, naturalmente, trovandole nelle tavole del Decalogo si faccia più in fretta, senza troppo lambiccarsi il cervello. Se invece non fosse così, se non ci fossero regole valide per tutti, si potrebbe anche dire che il cattolico può non spacciare droga ma non può impedire a chi non è cattolico di farlo. Ci sono senz’altro infatti visioni del mondo e culture dove la droga è lecita, e anche fatwā di esponenti islamici ultra-fondamentalisti (l’Afghanistan insegna) secondo cui al musulmano non è lecito consumare droga ma è lecito coltivarla e anche venderla agli infedeli e ai nemici dell’islam, così contribuendo a fiaccarli nel fisico e nel morale. Se ne dovrà concludere che a chi ha una cultura diversa non possiamo imporre leggi contro lo spaccio di droga, altrimenti siamo razzisti ed etnocentrici?

O non dovremo concludere piuttosto che ci sono norme che valgono per tutti, colonne che reggono la società tutta intera? I valori e le verità accessibili alla ragione sono le regole del gioco chiamato società, dopo avere convenuto sulle quali ognuno – cristiano, musulmano o ateo – potrà giocare la sua partita e cercare di vincerla. Ma senza regole non ci sarà nessuna partita.

Se è così, abbiamo un criterio per valutare qualunque religione: la sua conformità alle regole di ragione. E qui il verdetto forse non è politicamente corretto ma è chiaro. Che si tratti del ripudio della violenza, della difesa dei diritti umani fondamentali – compresa la libertà di cambiare religione, che per esempio l’islam non riconosce ai musulmani –, del ripudio senza condizioni dell’aborto e dell’eutanasia, della difesa del matrimonio come istituzione esclusivamente eterosessuale, monogamica e indissolubile, solo la Chiesa Cattolica passa tutti i test. Gli stessi fratelli separati delle altre confessioni cristiane sono in gran parte favorevoli al divorzio, mentre la Chiesa Cattolica fu disponibile a perdere tutta l’Inghilterra piuttosto che accettare il divorzio anche in un solo caso, quello del re Enrico VIII (1491-1547). Parliamo qui naturalmente della Chiesa come istituzione che annuncia una dottrina: anche se i cattolici nella storia non sono sempre stati fedeli ai suoi insegnamenti.

Che cosa è andato storto?

I quattro pilastri del senso religioso, della fede in Dio, in Gesù Cristo e nella Chiesa hanno fatto l’Europa e l’Occidente, e sono il regalo gioioso e benevolo che l’Occidente ha fatto al resto del mondo. Ma oggi sembra che i pilastri tremino. Com’è potuto succedere? Che cosa è andato storto? Nell’enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI ci ricorda la più antica delle verità: il male – anche il male sociale, che determina le crisi politiche ed economiche – ha sempre la sua origine nel peccato. «La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell’interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società» (Benedetto XVI 2009a, n. 34).

Quando entra nella vita sociale e nella storia il peccato originale si manifesta come peccato attuale. Una scuola di pensiero cattolica – che, certo accanto ad altre scuole, ha influenzato diversi documenti del Magistero sociale – è quella detta contro-rivoluzionaria. Ha questo nome perché nasce con la critica della Rivoluzione francese, anche se non si limita a sterili nostalgie del passato e analizza in profondità la crisi della coscienza europea, che è ben più antica del 1789. In una classica formulazione – quella del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) – questa scuola descrive la scristianizzazione dell’Europa come un processo, che chiama Rivoluzione, intendendo con questa parola non un evento storico specifico ma la rottura dei legami religiosi, politici, economici e morali che tenevano insieme l’Europa cristiana. Lo schema distingue quattro Rivoluzioni che attaccano l’ordine naturale e cristiano cercando di spezzare prima i legami religiosi con la Riforma protestante (I Rivoluzione), poi i legami politici con la Rivoluzione francese (II Rivoluzione), quindi i legami economici con la Rivoluzione comunista (III Rivoluzione), infine i legami micro-sociali della famiglia, quelli fra madre e figlio con l’aborto e perfino quelli dell’uomo con sé stesso e interni al corpo umano con la droga e l’ideologia di genere (IV Rivoluzione: cfr. Corrêa de Oliveira 2009). Il gesto del medico abortista che taglia il cordone ombelicale non per la vita ma per la morte simboleggia in un modo che più tragicamente eloquente non potrebbe essere l’opera della Rivoluzione, che non sopporta i legami e li distrugge.

Ritroviamo l’eco delle tesi degli autori contro-rivoluzionari in un celebre discorso di Pio XII (1939-1958) del 1952. Si tratta del discorso Nel contemplare agli Uomini di Azione Cattolica d’Italia, del 12 ottobre 1952, dove il Papa si serve di una formula che descrive la sequenza dell’allontanamento dell’Occidente dalla verità cattolica precisamente attraverso tre tappe: «Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato» (Pio XII 1952).

«Cristo sì, Chiesa no» è inteso da Papa Pio XII con riferimento alla rottura protestante, che nega la continuità della missione di Gesù Cristo nell’unica Chiesa cattolica. Ma all’interno del mondo protestante ci sono gruppi radicali che vanno anche oltre. Vi è infatti chi sostiene che la Chiesa è talmente corrotta che non è più possibile riformarla ma soltanto rifondarla. In genere questa rottura ecclesiologica è accompagnata da innovazioni teologiche radicali rispetto alla tradizione cristiana. Gruppi come i mormoni o i Testimoni di Geova portano alle estreme conseguenze la rottura ecclesiologica, che diventa anche teologica, proponendo nuove dottrine e nuove scritture. Così perdiamo la Chiesa, che è uno dei pilastri essenziali ed è la sola istituzione in grado di definire e quindi difendere costantemente nella storia le verità e i valori morali naturali e cristiani.

«Dio sì, Cristo no» è propriamente lo slogan del deismo illuminista, che diventa rapidamente l’ideologia anche della massoneria moderna fondata a Londra nel 1717. Dio c’è, si dice, ma ne sappiamo pochissimo e certamente non si è incarnato in Gesù Cristo. Questo deismo porta qualche volta a riscoprire culti dell’antichità pagana, «reinventati» in un modo più o meno fantastico (egizi, greci, romani); altre volte porta all’incontro con le religioni orientali e a clamorose conversioni d’intellettuali europei al buddhismo o all’induismo. La presenza di occidentali entusiasti dell’Oriente non sfugge a esponenti importanti delle religioni orientali, che – anche come reazione organizzata alle missioni cristiane nei loro Paesi – iniziano a promuovere vere e proprie «contro-missioni» che arrivano fino all’invasione di guru e maestri orientali che vediamo in America e in Europa ai nostri giorni.

Oggi è «politicamente corretto» parlare solo degli aspetti positivi delle religioni orientali. Certo, esse manifestano una certa religiosità naturale e sono meno lontane dalla verità rispetto all’ateismo. È anche comprensibile che si sia riluttanti a parlare male, in particolare, del buddhismo a fronte delle persecuzioni che subisce da parte del comunismo cinese in Tibet o del regime social-comunista in Birmania. Tuttavia la verità non si deve tacere. Un sacerdote cattolico convertito dall’induismo, che aveva a lungo praticato giungendo a diventare segretario di un guru molto famoso come il Maharishi Mahesh Yogi (1918-2008), il maestro dei Beatles, don Joseph-Marie Verlinde, stabilisce una distinzione fondamentale fra mistiche naturali e mistica trascendente, che è poi la distinzione stessa fra l’esperienza religiosa induista e buddhista, analoga (ma non identica) a quella di certi movimenti occidentali di matrice esoterica e della nuova religiosità, e l’esperienza religiosa cristiana. Quest’ultima «orienta verso un Dio personale, in vista di un incontro che si espande in una comunione d’amore rispettando l’alterità» (fra Dio e l’uomo: Verlinde 1988, 77). L’«altra» esperienza invece porta a rientrare sempre più profondamente in se stessi, fino a rimanerne prigionieri in un «narcisismo senza Narciso» (ibid., 81: la formula è del missionario e indologo francese don Jules Monchanin, 1895-1957).

Verlinde richiama l’espressione «enstasi», che lo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) distingue rigorosamente dall’estasi: nell’«enstasi» si entra sempre di più in se stessi – e ci si chiude a ogni possibile trascendenza –, mentre nell’estasi ci si apre al di fuori di sé verso un Dio trascendente. Verlinde cita, al riguardo, un brano dell’indologo francese Jean Varenne (1926-1997) secondo cui il neologismo coniato da Mircea Eliade va usato per tradurre l’espressione indiana samadhi, a proposito della quale «la traduzione “estasi”, che è talora stata proposta, è del tutto erronea. Lo yogi in stato di samadhi non “esce” affatto da se stesso, non è “rapito’ come lo sono i mistici; esattamente al contrario rientra completamente in se stesso, si immobilizza totalmente per l’estinzione progressiva di tutto quanto causa il movimento: istinti, attività corporale e mentale, la stessa intelligenza» (ibid., 71).

Beninteso, le tecniche sono le più varie – e l’induismo non è identico al suo scisma di successo, il buddhismo –; ma l’esperienza rimane sempre «enstatica» e non veramente estatica. Nel 1989 la Congregazione per la Dottrina della Fede, preoccupata per la diffusione di tecniche derivate dal buddhismo e dall’induismo anche in ambienti cattolici, pubblicò la lettera Orationis formas dove s’invita fra l’altro a non confondere l’«assoluto senza immagini e senza concetti» del buddhismo con il Dio cristiano (Congregazione per la dottrina della fede 1989, n. 12).

Questa religiosità che vorrebbe sostituire il cristianesimo non riesce peraltro a incidere sulla società e abbandona la politica alle ideologie. Ne nascono gli orrori della modernità, a partire dal Terrore della Rivoluzione francese in cui il filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant (1724-1804) – che pure di fronte agli avvenimenti di Francia si era inizialmente illuso – vedeva, in un brano ricordato da Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi, il regno dell’«Anticristo», «fondato presumibilmente sulla paura e sull’egoismo», e «la fine (perversa) di tutte le cose» (Benedetto XVI 2007c, n. 19).

«Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato». La Rivoluzione si disvela come ripudio di Dio anzitutto nelle ideologie del XX secolo. Il comunismo, come ha ricordato Benedetto XVI nel suo viaggio del settembre 2009 nella Repubblica Ceca, instaura una «dittatura basata sulla menzogna» (Benedetto XVI 2009c), fa cadere l’Europa Orientale in un «lungo inverno» (Benedetto XVI 2009d), e mostra a quali assurdità giunge l’uomo quando esclude Dio dall’orizzonte delle sue scelte e delle sue azioni» (Benedetto XVI 2009e). Questa ideologia senza Dio – ha detto il Papa il 4 dicembre 2009 parlando al concerto offerto in suo onore dal presidente della Repubblica Federale Tedesca in occasione dei vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino – ha determinato, negando la differenza essenziale fra il bene e il male, «una lunga e sofferta notte di violenza ed oppressione per un sistema totalitario che, alla fin fine, conduceva in un nichilismo, in uno svuotamento delle anime. Nella dittatura comunista, non vi era azione alcuna che sarebbe stata ritenuta male in sé e sempre immorale. Ciò che serviva agli obiettivi del partito era buono – per quanto disumano poteva pur essere» (Benedetto XVI 2009f).

Anche dopo la caduta del comunismo, peraltro, non manca chi propone ideologie senza Dio, una cultura senza Dio e perfino religioni o spiritualità senza Dio come il New Age, dove qualche volta ritorna un fondo buddhista ma coniugato con l’ecologismo, il ritorno del paganesimo, la magia.

Il New Age non nega solo Dio. Rifiuta spesso anche la religione, preferendo parlare di «spiritualità» e negando che il modo in cui l’Occidente ha posto storicamente la domanda sul sacro sia ancora valido. Infatti l’Occidente ha concepito la sua relazione con il sacro come un discorso, mentre ci sarebbe spazio solo per un percorso. Quello del New Age è un relativismo integrale e apparentemente insuperabile: tutto quanto può essere formulato è dichiarato di per sé non autentico. E tuttavia la diffusione di questi presunti cammini di pace e di amore si accompagna quasi sempre a forme gravemente irrispettose del diritto naturale, che propagandano l’aborto, l’eutanasia, il rifiuto della nozione naturale di famiglia. Oggi non c’è fiera del New Age dove non compaiano gli stand degli attivisti dell’eutanasia e del matrimonio omosessuale.

Il percorso rivoluzionario di progressiva negazione della Chiesa, del ruolo di Gesù Cristo, di Dio e del senso religioso non contempla nessun lieto fine. Ma – in questa fine della corsa che è il nostro XXI secolo – può forse darci una scossa salutare e convincerci che sì, esiste la verità, e sì, esistono anche verità religiose, dunque errori e perfino orrori religiosi, una religione vera e tante religioni a diverso titolo false. Dire questo non comporta violare la libertà religiosa di nessuno. Questa si riferisce ai rapporti tra le religioni e lo Stato laico moderno, che non deve interferire nel processo di formazione della convinzione religiosa. Ma – come afferma l’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate – «la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali» (Benedetto XVI 2009a, n. 55). Oggi la tesi relativista forse più diffusa è che tutte le religioni sono uguali. Io ho la mia religione, si dice, tu hai la tua, solo i fanatici pensano che una religione sia vera e l’altra falsa. Il Papa ci dice – a scandalo dei pavidi e dei buonisti – che non è così.

Per utilizzare una metafora calcistica – che naturalmente è mia, non di Benedetto XVI – lo Stato laico moderno, che si dichiara incompetente in materia religiosa, può svolgere solo un ruolo di arbitro. Gli arbitri non scendono in campo, né – neppure nei casi più estremi di arbitri «venduti» – cercano di segnare nella porta di una delle due squadre in campo. Ma i giocatori sì. Una volta garantita l’imparzialità dell’arbitro, la Chiesa rivendica il suo diritto e dovere di giocare la partita per vincerla. Non c’è contraddizione, ma distinzione di ruoli fra arbitro e giocatori. Lo Stato non può interferire nel processo di adesione a una dottrina religiosa. La Chiesa ha la missione di organizzare questo processo, aiutando a esercitare un «discernimento» (ibidem) perché per chi non è relativista non è affatto vero che «tutte le religioni siano uguali». Tanto deve mostrare oggi un’apologetica attenta alla storia.
Riferimenti
Benedetto XVI. 2006. Discorso ai rappresentanti della scienza, Aula Magna dell’Università di Regensburg [Ratisbona], del 12-9-2006, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
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Benedetto XVI. 2007b. Omelia della Santa Messa per l’850° anniversario della fondazione del Santuario di Mariazell, Mariazell (Austria), dell’8-9-2007. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI. 2007c. Lettera enciclica Spe salvi sulla speranza cristiana, del 30-11-2007. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI. 2009a. Enciclica Caritas in veritate, del 29-6-2009. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI. 2009b. Discorso all’Udienza Generale, 5-8-2009, San Giovanni Maria. Vianney, il Santo Curato d’Ars. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI 2009c. Intervista concessa dal Santo Padre ai giornalisti durante il volo verso la Repubblica Ceca (26 settembre 2009). Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI 2009d. Celebrazione dei Vespri con Sacerdoti, Religiosi, Religiose, Seminaristi e Movimenti Laicali (Cattedrale dei Santi Vito, Venceslao e Adalberto di Praga, 26 settembre 2009). Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI 2009e. Santa Messa nell’Aeroporto Tuřany di Brno (27 settembre 2009). Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Benedetto XVI. 2009f. Discorso al termine del Concerto in onore del Santo Padre Benedetto XVI, offerto dal Presidente della Repubblica Federale di Germania, S.E. il Sig. Horst Köhler, in occasione della ricorrenza del 60mo della fondazione della Repubblica Federale di Germania e nel 20mo anniversario della caduta del muro di Berlino, del 4-12-2009. Testo diffuso dalla Sala Stampa della Santa Sede.
Congregazione per la dottrina della fede. 1989. Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica Orationis formas, su alcuni aspetti della meditazione cristiana. Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano.
Corrêa de Oliveira, Plinio. 2009. Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, a cura di Giovanni Cantoni. Sugarco, Milano.
Manuele II Paleologo. 2007. Dialoghi con un musulmano. VII discussione. Testo critico greco e note a cura di Théodore Khoury, con traduzione italiana di Federica Artioli a fronte. Edizioni Studio Domenicano – Edizioni San Clemente, Bologna – Roma.
Giovanni Paolo II. 1999. Discorso all’udienza generale del 18-8-1999. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato .
Pio XII. 1952. Discorso «Nel contemplare» agli uomini di Azione Cattolica d’Italia, del 12-10-1952. In Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIV, pp. 353-362.
Stark, Rodney. 2006. La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza. Trad. it. Lindau, Torino.
Stark, Rodney. 2008. La scoperta di Dio. L’origine delle grandi religioni e l’evoluzione della fede. Trad. it. Lindau, Torino.
Verlinde, Joseph-Marie. 1998. L’Expérience interdite. De l’ashram au monastère. Saint-Paul, Versailles.

Creazionismo ed evoluzionismo…..

  • Di Federico Lenchi
  • Parte I
    La teoria dell’evoluzione, fin dal suo primo apparire, sembrava favorire l’ateismo e il materialismo, in quanto sembrava negare quanto afferma la Bibbia in merito alla creazione degli esseri viventi, e sull’origine dell’uomo creato direttamente da Dio e dotato di anima spirituale. Negazione resa evidente dal farlo derivare dalla scimmia, ed escludendo ogni intervento divino nel passaggio della materia non vivente alla vita e dagli esseri non intelligenti all’uomo.
    R.Dawkins considerava gli organismi viventi come il mezzo inventato dai geni per riprodursi, che definiva il “carattere egoista” di questi ultimi.
    Monod concludeva il suo saggio” Il caso e la necessità” con queste parole: “ L’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo
    J. Monod, Il caso e la necessità, Mondatori 1972, 172.

    La fede cristiana, afferma al contrario,che tutto ciò che esiste, sia essa materia che spirito,è creato liberamente e per amore da Dio ed è da lui condotto e guidato secondo un disegno fino al suo completo compimento.
    DA QUANTO HO DETTO RISULTA CHE TUTTO, ANCHE IL PROCESSO EVOLUTIVO, SI SVOLGE SECONDO LA DIPENDENZA DA DIO ED E’ SOTTO LA SUA PATERNA PROVVIDENZA.
    Ma cos’è la Creazione? Per il cristiano è innanzi tutto un mistero da credere:” Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra(…).
    La creazione quindi appartiene unicamente a Dio al punto che la Bibbia inizia con “ In principio Dio creò il cielo e la terra(Gn1,1) dove il verbo usato per “creò” è bara^, il cui soggetto è esclusivamente Dio per indicare che è proprio Lui che ha creato e a cui spetta la creazione.
    CIELO E TERRA nel linguaggio ebraico indica la totalità, tutto ciò che esiste.
    IN PRINCIPIO significa che tutto quello che esiste ha avuto un principio ma non nel senso che Dio ha creato il mondo nel tempo ma in quello che CON IL MONDO DIO HA CREATO ANCHE IL TEMPO.
    DIO quindi non ha creato il mondo nel tempo ma , col mondo, Dio ha creato il tempo come elemento costitutivo del suo divenire ovvero il mondo non è eterno ma ha avuto un inizio temporale.
    CREO’ ( E Dio disse…Gn1) significa che Dio crea con la sua Sapienza ovvero che Dio non fabbrica facendo passare il mondo dal non essere o dal nulla, all’esistenza. La creazione che Dio opera non rientra nella categoria dell’azione ma in quella della RELAZIONE. Questo significa che nella creazione si deve intendere non una “operazione” di Dio ma la dipendenza, che l’essere creato ha con il principio che lo fonda.
    Le creature dipendono da Lui ma Lui non dipende dalle creature. E la creazione non causa in Dio nessun mutamento per cui Dio non passa DAL NON ESSERE CREATORE ALL’ESSERE CREATORE.
    Quindi Dio decide di dare l’ESSERE alle creature che vengono a trovarsi in una situazione di assoluta dipendenza ma tutto questo avviene SENZA CHE EGLI AGISCA.
    Egli, ripeto, non opera e non operando non passa dal non essere creatore all’essere creatore, Egli è immutabile.
    Le creature dipendono da Lui ma Lui non dipende da esse.
    Le creature iniziano ad esistere senza che ci sia alcun essere su cui Dio abbia agito per dare l’essere alle creature.
    In altri termini questa è la creazione dal nulla (creatio ex nihilo).

    Ma bisogna subito comprendere che “creazione dal nulla” non significa che per creare il mondo Dio sia partito dal nulla , come se il nulla fosse qualcosa di diverso da Dio e dalle cose create.
    Infatti il “nulla” non è che nulla e non può servire da punto di partenza per nessuna operazione. Un momento in cui non ci fosse nulla è un assoluto non senso infatti affinché ci sia un momento è necessario che ci sia già qualche cosa. Un momento è una porzione del tempo e il tempo è un attributo delle cose esistenti. Noi non riusciamo a rappresentare nulla fuori dalle forme del tempo, per cui quando cerchiamo di rappresentare il non essere preesistente al mondo, noi lo collochiamo nel tempo, e in tal modo costituiamo un tempo vuoto, pronto a ricevere in un dato momento il mondo e la sua durata. Ma questo non ha alcun senso.

    La creazione quindi non parte dal nulla per giungere all’essere. Non c’è prima il nulla e poi l’essere. Il mondo non è creato in un dato momento prima del quale solo Dio esisteva e che quindi l’atto creatore sia avvenuto in un dato momento, quando Dio ha deciso di far esistere il mondo perché in tal modo la creazione sarebbe un divenire e il divenire presuppone che ci sia un tempo, quello prima e quello dopo. Ma il tempo è la misura delle cose e come tale creato con esse.

    Questa lunga premessa per capire meglio quello che cercherò di spiegare successivamente ovvero come in Teologia si possa conciliare la Creazione con l’ Evoluzione.
    Parte II
    CREAZIONE ED EVOLUZIONE
    Riepilogando quanto fin qui detto vediamo come:
    1) Dio non crea dal nulla, per cui il mondo non passa dal nulla all’esistere;
    2) Dio non crea in un tempo vuoto e in uno spazio vuoto, ma con il mondo crea il tempo e lo spazio;
    3) Dio però non crea e non opera perché se così fosse non sarebbe immutabile, dato che in tal caso passerebbe dal non essere creatore all’essere creatore, per cui dobbiamo ritenere che
    4) Quello che noi intendiamo come CREAZIONE da parte di Dio è la “RELAZIONE DI DIPENDENZA ” voluta liberamente da Lui che pone la creatura nei suoi riguardi.
    5) Ovvero, l’ESSERE CREATO diviene dipendente in rapporto al principio che lo fonda.
    Capisco la difficoltà che vi può essere per chi, come me del resto, non possiede adeguati strumenti di filosofia.
    Questa premessa è però fondamentale per capire quello che ora andrò ad esporre e che più da vicino riguarda il problema che il Prof. Caputo ha sollevato.
    Le conclusioni che presenterò sono l’espressione dei lavori della COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE.
    Dio, liberamente e per amore ha voluto che il mondo esistesse.
    Il mondo esiste esattamente come Dio l’ha voluto, governato dalle leggi che liberamente gli ha dato ed è continuamente sorretto dalla sua forza creatrice.
    Per tale ragione il mondo non è abbandonato a sé stesso, ma continuamente sostenuto nel suo essere e nel suo agire dalla provvidenza e dall’ amore di Dio.
    Ma Dio non si sostituisce alle cause naturali, lascia cioè agire le leggi e le cause naturali che gli ha dato e che lo governano.
    In altri termini: DIO NON SI SOSTITUISCE ALL’ATTIVITA’ CHE LUI MEDESIMO HA CONFERITO ALLE CAUSE CREATURALI, MA PERMETTE CHE QUESTE POSSANO AGIRE SECONDO LA LORO NATURA PER CONSEGUIRE PERO QUELLE FINALITA’ ’ CHE LUI HA STABILITO E VOLUTE.
    In virtù dell’attività che le cause naturali hanno,si sono verificate quelle condizioni biologiche necessarie alla comparsa degli organismi viventi, nonché alla loro riproduzione e DIFFERENZIAZIONE.
    Dio ha quindi voluto che ci fosse un MONDO IN EVOLUZIONE in modo che sotto l’azione delle cause naturali ci fosse il passaggio dal meno al più, dalla materia non vivente alla vita, inizialmente semplice, unicellulare e poi via via sempre più complessa, fino ad arrivare all’uomo, massima espressione dell’evoluzione.
    Risulta evidente che le cause naturali avendo una natura imperfetta e contingente hanno realizzato un processo evolutivo in cui hanno potuto trovare posto la CASUALITA’ e L’ ALEATORIETA’ ovvero mutazioni genetiche disastrose o afinalistiche e anche eventi catastrofici in cui hanno trovato l’estinzione specie vegetali ed animali come appunto i DINOSAURI.
    Sintetizzando possiamo affermare con estrema certezza che non vi è opposizione tra CREAZIONE ed EVOLUZIONE dato che nel processo evolutivo trovano posto tanto il CASO che la FINALITA’ e nell’EVOLUZIONE tanto la FINALITA’ che il CASO.

    L’opposizione e l’inconciliabilità vi è invece tra il “Creazionismo fissista” secondo cui Dio ha creato ab origine tutte le specie quali le vediamo oggi, e “l’Evoluzionismo ateo”, secondo cui il mondo si è evoluto esclusivamente secondo il caso e non con una finalità superiore.
    Dawkins scrive : “…Essa (l’esistenza) non ha una mente né alcuna forma di coscienza. Non progetta il futuro. Non vede, non ha alcuna forma di pre-veggenza. Se si può dire che essa svolga il ruolo di orologiaio in natura, è l’orologiaio cieco. (L’orologiaio cieco, Milano, Rizzoli, 1988).
    Parte III
    L’uomo, come il fine del processo evolutivo.
    Abbiamo fin qui visto come per la concezione cattolica, la contingenza dell’ordine creato, non è incompatibile con un disegno divino , indirizzato, pur nella possibilità di elementi di casualità, ad una finalità, di cui l’uomo, come vedremo, rappresenta la massima espressione, mentre per l’evoluzionismo ateo il processo evolutivo è cieco, privo di guida.
    Ma la scienza e quindi lo scienziato non può né negare né affermare che vi sia una causalità divina.
    Può solo constatare che, nonostante mutazioni genetiche a volte dannose e nonostante eventi distruttivi l’evoluzione sia indirizzata verso forme viventi sempre più evolute e complesse avvalorando in questo modo la realtà di una finalità ed di un disegno intelligente.
    Per la teologia cattolica il fine perseguito da Dio nella creazione è l’uomo, in quanto è l’unico in grado di auto-trascendersi e auto-superarsi, ovvero di essere intelligente e libero.
    L’uomo infatti in quanto costituito da una parte materiale e come tutti gli esseri materiali costretto a discendere per evoluzione da un altro essere materiale, dall’altra è anche parte spirituale il che gli permette di trascendere la materia e di essere appunto, intelligente e libero.
    E’ solo l’uomo che nella sua realtà materiale riassume tutta la sua sapienza, bellezza, perfezione dell’universo e con la sua intelligenza ne scopre la ricchezza e perfezione, la mette a vantaggio degli altri esseri, con le sue scoperte, invenzioni tecnologiche, produzioni artistiche e ne rende gloria al Dio creatore.
    Non importa che egli sia un puntino che abita in un puntino periferico dell’universo perché lo spirito trascende la materia, la pensa, la valuta, la modifica e le fa compiere con la cultura, l’arte, la scienza e la tecnica, quello che essa non sarebbe, se lasciata a sé stessa, mai capace di compiere.
    La grandezza dell’Universo è insignificante davanti alla grandezza dello spirito umano.
    Un pensiero di Pascal esprime magnificamente questo concetto:” L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo si armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta ad ucciderlo. Ma anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancora più nobile di chi l’uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’Universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente” (B. Pascal, Pensieri ed altri scritti di e su Pascal, Ed. Paoline 1986.
    L’uomo è quindi essere spirituale e come tale non può essere il prodotto della materia in evoluzione.
    Con l’uomo ci troviamo davanti ad un salto ONTOLOGICO. Questo non significa negare od opporsi a quella continuità fisica che rappresenta il filo conduttore dell’evoluzione sul piano della biologia, della fisica e della chimica. Il salto ontologico, ovvero il passaggio all’ambito spirituale non è ambito di osservazione scientifica, anche se a livello sperimentale se ne possono scoprire gli effetti, rappresentati dalla autocoscienza, dalla capacità di progettazione del futuro e di simbolizzazione come è il linguaggio simbolico.
    L’esperienza della coscienza di sé, del sapere metafisico, della coscienza morale, della libertà, della esperienza estetica e religiosa sono materia di competenza e riflessione filosofica, mentre è compito della teologia coglierne il senso ultimo secondo il disegno del Creatore.
    Questo salto ONTOLOGICO che ha infuso in una o più forme pre-umane il PRINCIPIO SPIRITUALE, non presente nelle potenzialità della materia anche più evoluta, ha richiesto un intervento particolare e diretto di Dio creatore.
    L’infusione di un principio spirituale (anima) in un principio materiale (corpo) ha potuto avvenire se non quando il corpo era ormai disposto a ricevere l’intervento creatore di Dio ovvero quando da forme pre-umane, australopiceti e ominidi, si è passati a quelle di Homo sapiens.
    L’uomo rappresenta pertanto il culmine e il fine ultimo del processo creativo in quanto è l’unico in grado di dargli un senso, coglierne il significato, comprenderlo, ammirarlo.
    Senza l’uomo, il mondo sarebbe muto, immerso in un eterno silenzio, perché non ci sarebbe nessuno capace di dargli voce.
    Soltanto l’uomo è capace di rompere questo silenzio perché soltanto l’uomo da voce all’universo con la cultura, l’arte, la scienza.
    Affermava Pascal: “ Il silenzio eterno degli spazi infiniti mi sgomenta”.
    Questi sono i rapporti tra creazione ed evoluzione secondo l’insegnamento cattolico.
    A questo va aggiunto che Cristo è Colui cui tutto tende come ultimo fine.Solo allora il faticoso e drammatico processo evolutivo dei viventi acquisterà tutto il suo significato.

    Vi ringrazio e nel caso voleste approfondire l’argomento vi segnalo il notevole lavoro di Giuseppe De Rosa, Quaderno 3752 di La Civiltà Cattolica pp. 127 e seg. da cui ho tratto questo mio intervento.

    Insula,frammenti di cultura siciliana.


    Presentato a Giuliana (Pa),a cura del Dott.Amato,del Dirigente Scolastico Prof.Randazzo e dell’On.Russo, l’opera “INSULA,” dello storico A.G.Marchese

      di Ferdinando Russo

        Il letterato, “medico umanista dall’alta qualità intellettuale ed etica e dai rigorosi studi”, Antonino Giuseppe Marchese, come lo descrive Tommaso Romano , è l’analista dei centenari che insegnano la moderatezza dei costumi, dei dotti medici e degli uomini illustri della provincia di Palermo, ed è riconosciuto in Sicilia come lo “storico “ ormai indiscusso di una “Nuova Storiografia Municipale”.

        Per le sue quarantasei opere scritte sugli eventi storici dall’ antichità al ventesimo secolo e sulla storiografia artistica e scientifica, è denominato anche “lo scopritore delle cose vecchie “, dal suo popolo giulianese, benevolo e sornione, che, affascinato dai ritrovamenti di figure di pittori, scultori, scienziati, poeti,come pure di pietre dure , dai successi, dai premi, dalle onorificenze del compaesano, è accorso, incuriosito e numeroso, allo scoccare del 2010, per ricevere, come un regalo per le festività natalizie, il volume “Insula, Frammenti di cultura siciliana” (1).
        Ai suoi concittadini Marchese ha insegnato, con Cicerone, che “una casa senza libri è come un corpo senza anima”.
        Il nuovo saggio, organico nella sua multiformità, si configura in un’antologica d’inediti e di precedenti scritti pubblicati dall’autore su riviste, giornali, enciclopedie, o storicizzati in ricercate e raffinate prefazioni, redatte per volumi e opere di intellettuali ed
        operatori sociali e culturali del territorio sicano. Ed è ancora una rivelazione.
        “Insula” racchiude, infatti, come in uno scrigno prezioso di genialità, identità scolpite in un’avvincente narrazione della vita e delle opere d’artisti, medici, farmacisti, letterati, storici, musici, operatori sociali, di un’area della Sicilia, studiata per riscoprirla, evidenziarla, renderla
        fruibile e valorizzabile per il turismo culturale. E troverà accoglienza in tutti i comuni del comprensorio.
        Un territorio, apparentemente povero di risorse materiali, d’infrastrutture e di servizi della modernità, ma ricco e controbilanciato dai suoi abitanti, dotati di vivaci intelligenze, eredi di un notevole patrimonio archeologico, di una storia documentata da monumenti e opere della creatività umana, di eventi
        segnati dalla passione civile e dalle diffuse vocazioni artistiche.
        Ed è come un consegnare alla Storia della Sicilia i segreti di una profonda cultura locale, ma non per questo da dimenticare o trascurare, se la si confronta con i letterati ad essa ispiratisi ed affermatisi da Pirandello a Navarro, a Tomasi di Lampedusa, a Sciascia, Bufalino, Camilleri, Consolo, Lauricella, Randazzo, Di Cara, Vilardo, Grasso, Mazzamuto.

        Marchese ha indagato sui sentimenti, le tradizioni, i costumi, i valori degli uomini e delle donne di questo territorio antico, di questo “mare pietrificato”, per l’autore del Gattopardo, ed i cui abitanti hanno una loro lingua, una civiltà, una predisposizione all’accoglienza degli immigrati, ed ove, precisa l’autore citando Lucio Villari, è come se ci ritrovassimo in “un gran teatro, dove tutti hanno un ruolo e una parte”. E gli attori d’Insula non sono, infatti, pochi.
        Il Nostro li ha incontrati per strada, nelle piazze, sempre meno popolate, dei centri storici, come Tornatore in Baaria, nelle Biblioteche, come Borges, negli archivi dei comuni, delle parrocchie, degli studi notarili, come Mons. Ferina ed il prof. Schirò di Monreale, e ora ne svela in Insula la storia, le opere, le identità multiple, che risultano scolpite dalla sua penna di scrittore ormai raffinato.

        Come poeta della storia locale del corleonese e del territorio sicano, del mondo contadino ed artigiano, che il pittore Gianbecchina, originario della vicina Sambuca di Sicilia, ha immortalato nelle sue tele, Marchese raccoglie l’eredità del suo illustre collega e predecessore Pitrè, mette assieme cimeli letterari, ”frammenti”, come pezzi e beni culturali del Museo etnografico del Corleonese, che Padre Calogero Giovinco e l’Associazione S.Leoluca hanno organizzarto e che migliaia di visitatori annualmente si recano a visitare.

        E da Corleone inizia il suo viaggio nella vasta miniera culturale di letterati, storici, pittori, scultori,sindacalisti, operatori sociali, che hanno onorato questa città “capitale contadina” per Francesco Renda e “capitale artistica” per Marchese , che ne rivela, con Padre Giovinco, i tesori nascosti nella statuaria siciliana tra la piu’ vasta e di notevole valore europea, con molte opere di Antonino Ferraro e della sua dinastia custodite nelle chiese e negli oratori (2).

        Ma Corleone non è solo la miniera della statuaria artistica, tra santi e demoni, ove primeggia la statua lignea di San Leoluca, ora visibile nel magnifico volume su Antonino Ferraro, che sara’ presentato alla cittadinanza nell’anno in cui si celebra, proprio per iniziativa di Marchese, il quattrocentesimo anniversario dalla morte (1609-2009).

        Marchese è stato anche uno dei più attenti osservatori dei fermenti culturali e sociali del corleonese sin dalla fine degli anni sessanta, partecipando, dal suo paese natale, Giuliana, ancora giovanissimo, alle iniziative giornalistiche locali, nelle quali mai è venuta meno la speranza di costruire uno sviluppo sostenibile, libero da ancestrali condizionamenti sociali,quasi a segnare la voglia di ritrovare, rappresentare e costruire un’identità reale dell’umanità e della cultura dell’area interessata.
        Ha raccolto al riguardo, in diversi volumi, momenti antologici del pensiero e della storia artistico-culturale e sociale del comprensorio. Ricordiamo tra gli altri “Inventario corleonese”, “L’Ulivo saraceno”, “Polittico siciliano, scritti d’arte e di storia “ (3).
        La Corleone di Naso e di Vasi, di Giovanni Colletto e di Pippo Rizzo, maestro di Guttuso e dei contemporanei Bruno Ridulfo, Biagio Governali; la Corleone di Bentivegna e di Bernardino
        Verro, delle lotte contadine e dei residui di una violenza inaudita, hanno incoraggiato Marchese a tessere una tela di ricerche e studi su tutto il territorio sicano tra il Sosio e il Belice, partendo
        dal laboratorio primo dei suoi studi, quello della città natale, Giuliana.

        La città universitas dall’antica origine sicana, ripopolata dai romani, militarizzata con il castello di Federico III d’Aragona (4), con le dimore dei Peralta e la figura di Eleonora d’Aragona, morta
        in quella città e seppellita a Santa Maria del Bosco e poi fissata nel busto-ritratto del Laurana, ora divenuta l’icona della copertina del volume di Marchese,” Insula”, a disegnare un riferimento
        geografico dell’autore, colpito ed ispirato, sin dalle sue prime ricerche, dalle vicende storiche del suo paese e del monastero di S. Maria del Bosco di Calatamauro.

        Marchese vive nel centro storico di Giuliana, proprio sotto il Castello,nella casa natale di Via Tomasini, ove istituisce la sua ricca Biblioteca personale, dopo avere collaborato a raccogliere libri per la biblioteca dell’azione cattolica, ideata dall’arciprete Pietro Marchisotta
        ed alimentata già da Luciano D’Asaro, Ferdinando Russo, Giovanni Colletti, Giuseppe Iannazzo, e poi da P.Giovinco, per pervenire, infine, alla costituzione della prima Biblioteca comunale, di cui in “Insula”, ritroviamo l’eco.
        E maturano le prime sue opere notevoli come “Il Castello di Giuliana “ (4) e l’appassionata ricerca su “Giacomo Santoro detto Jacopo Siculo” (5), il pittore rinascimentale siciliano attivo in numerosi centri dell’Umbria e del Lazio, studiato sistematicamente dal Nostro.

        Sono queste due opere a svelare la maturità di Marchese e ad aprire le istituzioni locali, dall’amministrazione Russo a quella Campisi, verso un’azione culturale promozionale per le arti, quasi alla riscoperta di una sopita vocazione della popolazione, a ricercare un futuro, partendo dalla cultura, dal restauro del castello, dall’investimento nelle scuole e nella formazione, dalla riapertura del castello e dell’Opera Pia Buttafoco Tomasini, ove invitare gli artisti del comprensorio a confrontarsi sulle moderne produzioni pittoriche, sulle produzioni artigianali, sulla promozione della musica, per ricostruire la banda comunale ed anche sull’arte del ricamo.

        Marchese aveva già scoperto l’origine giulianese di Antonino Ferraro e della sua dinastia familiare e dei seguaci e gli studiosi di Castelvetrano si accorgevano di avere quasi dimenticato quella dinastia, che pure per oltre un secolo aveva operato per trasformarla in città d’arte.

        In trenta comuni della Sicilia occidentale Marchese individuava le opere dei Ferraro da Giuliana, comprese quelle da lui stesso attribuite e di cui successivamente avrà conferma documentaria grazie alle sue stesse ricerche d’archivio, opere di notevole valore storico-artistico, quasi dimenticate, a Burgio (la città che da secoli forgia le campane e modella le caratteristiche ceramiche artistiche), a Caltabellotta, a Mazara, Trapani, Corleone, Erice, Monreale, Naro, Sciacca. E la fama dello storico Marchese faceva il giro dei paesi Sicani e del Belice e dell’intera Sicilia.

        Terramia Blog,(www.maik07.wordpress.com) ed il motore di ricerca http://www.google.it hanno presentato alcune delle opere dello storico
        degli anni 2008 e 2009 con figure ed eventi della terra Sicana.
        Si rispolverano gli archivi a Chiusa Sclafani, la città, del “barocco inedito” e della musica (3 ), dei compositori, Orlando, Ignazio Sgarlata, Liberto, Lo Cascio e Marchese intesse una storia della musica e scopre che è anche la città dei Lo Cascio, gli artisti del legno, emigrati da Giuliana e il Sindaco Pollichino istituisce l’archivio storico del comune mentre emuli di Marchese scavano con lui nella storia delle arti, delle chiese barocche, della medicina del famoso medico Ingrassia mentre il dr.G.Di Giorgio traccia una storia del comune.
        Il tessuto artistico dei comuni confinanti con Giuliana trova in Marchese uno studioso attento delle emergenze culturali di Campofiorito, Prizzi, Bisacquino.

        Una mostra di Girolamo Di Cara ha presentato le immagini del barocco lasciate nelle chiese e nelle piazze. Marchese scopre che Serpotta ha lavorato a Bisacquino e il decano Pasquale Di Vincenti gli commissiona un volume sulla Chiesa madre (6).Frank Capra, il regista tanto amato dalla cinematografia mondiale, portava con sè l’immagine della facciata. Ora gli emigranti di Bisacquino portano, con l’opera di Marchese, i tesori interni di quella Chiesa, che li ha forgiati nella fede e nei valori della famiglia e del lavoro(8), come scrive F.Russo in http://www.vivienna.it.

        Ma Marchese non è solo il fotografo delle emergenze monumentali e pittoriche, della statuaria, in queste arti lo seguono e lo accompagnano il rinomato scopritore di tradizioni, Enzo Brai, e poi Giuseppe Lombardi, da Chiusa Sclafani, Totuccio Salvaggio, il pittore Giovanni Schifani ,la pittrice Anna Iannazzo, mentre il web master Pietro Daidone fa fatica a riportare nel sito del Comune di Giuliana ,i nuovi libri che Manzoni gli pubblica e gli eventi che si susseguono al Castello ,con i positivi commenti giornalistici che li illustrano .

        Il Nostro è critico letterario, amico di scrittori, poeti, pittori, fotografi, collezionisti. Dei poeti giulianesi, Giuliano D’Aiuto e Giuseppe Buttafoco, ha raccolto dalla bocca degli autori i versi non scritti, d’Antonietta Catalanotto, in Insula riporta un desiderio:“vorrei essere un gabbiano e volare alto nel cielo/vorrei avere due cuori per amare di più/vorrei gridare al mondo che sono felice di esserci/vorrei abbracciare tutte le genti che soffrono.” C’è il sentire di un popolo, la generosità, la fede, nei versi appena abbozzati e Marchese n’è felice.Vi vede impressa l’identità del suo popolo e quella della sua maestra della quinta elementare, la poetessa ins.Caterina Gullo Moleni, che riscopre dopo cinquanta anni ,attraverso i suoi scritti. Ora a Prizzi s’indaga su Vito Mercadante, un gran poeta dialettale e Marchese è chiamato a scrivere la prefazione della sua produzione più espressiva.

        A Campofiorito, ”genius loci” è Giovanni Giordano: usa il dialetto per “cuntare la sua Bellanova-Campofiorito, tra storia e memoria popolare e Marchese non può non apprezzarlo e ricordalo in Insula, affidando a quest’opera di raggiungere,con le storie,i racconti,le opere degli artisti dei Monti Sicani , le famiglie degli emigrati, sparsi in tutto il mondo.

        E sarà per gli emigrati un ritrovarsi nelle terre dei padri, tra le campagne a raccogliere olive “Giarraffa” ed a seminare il grano duro, fino a quando non li raggiungeranno i rintocchi delle campane di Burgio, portate degli emigranti, come ricorda Marchese,in numerosi centri del territorio nazionale e poi nel Madagascar,nello Zaire(Congo),nella Zambia,e persino negli States. Il salesiano Don Salvatore Provinzano, sacerdote, educatore missionario, alla quale memoria è dedicato Insula, quei rintocchi li avrebbe portati nell’America Latina.

        Alla presentazione, in prima assoluta, di “Insula”, a Giuliana, nell’ospitale salone del Collegio di Maria, dopo il saluto dell’assessore alla cultura prof.ssa Antonella Campisi e dell’arciprete Mariano Giaccone, hanno parlato, il dr.Salvatore Amato, presidente dell’Ordine dei Medici della provincia di Palermo, il prof. Enzo Randazzo, preside del Liceo scientifico “G. P. Ballatore” di Mazara del Vallo, scrittore e romanziere, e l’on. Ferdinando Russo.
        Sulla personalità dell’autore, significative le testimonianze di Mons. Lino Di Vincenti,decano di Bisacquino, del Parroco di S. Leoluca di Corleone, P. Calogero Giovinco, dell’ex assessore alla provincia Colca, del rappresentante dell’A.S.L.T.I. Onlus, Guzzardi, la Sig.ra Caterina Gullo.
        Tra i presenti, il V. sindaco Dr. Provinzano, l’amministratore immobiliare Santo Carlino, l’assessore Pietro Musso, la V. presidente del Consiglio comunale Anna Colletti, il consigliere Mario Arcuri e l’assessore Totò Ragusa, in rappresentanza del comune di Bisacquino, l’amministratore dell’impresa Arredamenti Musso, ringraziati espressamente dall’autore del volume “Insula”, dr.A.G.Marchese, volume dedicato alla memoria del salesiano giulianese Don Salvatore Provinzano, deceduto cinque anni fa in Ecuador, eletta sua terra di missione.

        Ferdinando Russo
        onnandorusso@libero.it

        1) A.G.Marchese, Insula, Frammenti di cultura siciliana, I.L.a.Mazzone Produzioni 2009 con prefazione di Tommaso Romano.
        2) A.G.Marchese, Antonino Ferraro e la statuaria lignea del’500 a Corleone, con prefazione di Aldo Gerbino, Palermo 2009.
        3) A.G.Marchese, L’ulivo saraceno.Civiltà letteraria siciliana, con prefazione di Antonino De Rosalia, Palermo 1999.
        4)A.G.Marchese, Il Castello di Giuliana. Storia e architettura, presentazione di Maria Giuffrè, Ila Palma, Palermo 1996.
        5)A.G.Marchese, Giacomo Santoro da Giuliana, detto Jacopo Siculo, Ila Palma, Palermo 1998.
        6) A.G.Marchese, La Chiesa Madre di Bisacquino.Artisti, maestranze e committenti dal Cinquecento al Settecento, con prefazione di Piero Longo e Don Pasquale Di Vincenti e presentazione di Salvatore Di Cristina, Arcivescovo di Monreale, e Foto di Enzo Brai. Editrice Plumelia ,2009.
        7)A.G.Marchese, Il serpente di Esculapio: medici, chirurghi e speziali a Chiusa Sclafani nella prima età moderna, da Giovanni Filippo Ingrassia a Francesco Di Giorgio,con prefazione di Marisa Buscami,Ila Palma ,2006.
        8)F.Russo,Commenti su opere di A.G.Marchese in http://www.maik07.wordpress.com ,in http://www.google.it, in http://www.vivienna.it, in http://www.fasokamba.it

    Padri “deboli”?Figli “impotenti”!

    “Elisa crede di poter tenere tutto per sé un babbo dall’irresistibile fascino. Giorgia si distrugge e strugge per salvare l’immagine che ha di lui. Sandra rimane invischiata in un corpo a corpo. Niccolò ha paura dell’altro sesso. Giacomo cerca inutilmente di differenziarsi dal genitore.”

    I padri sono cambiati.
    Gli uomini un tempo rudi e forti, simbolo della severità e dell’autorità, non di rado simbolo della prepotenza, sono diventati pieni di premure e attenzione per la loro prole.
    Il padre normativo ha ceduto il passo a quello affettivo. Bene. Era ora. Ma…
    Le storie che Francesco Berto e Paola Scalari hanno raccolto in questo libro, drammaticamente vere, ci dicono di altri padri. Di quelli alle prese con figli adolescenti, che nel momento in cui la crescita puberale dei loro figli richiederebbe un opportuno ritiro, rimangono incollati ai loro bambini. Sono padri narcisi, prigionieri del loro eccesso di affettività,che non sanno rinunciare all’amore protettivo, incondizionato, appagante, totale dei piccini. Se non c’è la giusta distanza, ci può essere una complicità tra adulti e adolescenti pericolosa per l’equilibrio affettivo e sessuale dei ragazzi. Anche quando non sfocia nella pedofilia, a cui pure alcuni racconti fanno riferimento.

    Sono racconti “amari” quelli che gli autori ci propongono perché sono veri. Ci dicono di un fenomeno sociale agli albori, ma figlio di questo nostro tempo. Che si maschera in forme diverse, talvolta anche benevolmente accettate se la differenza d’età nella relazione affettiva e sessuale tra adulto e giovane si sposta sul piano sociale (il legame tra uomini di successo adulti e giovani donne che potrebbero essere loro figlie, ad esempio).

    Perché leggerli questi racconti? A conclusione dell’introduzione gli autori scrivono: “La mancata trasmissione della bellezza del legame sensuale tra individui adulti può condannare gli adolescenti a non saper trasformare la vampata di un innamoramento in una calda storia di vita amorosa, e senza un saldo vincolo di coppia i ragazzi rischiano di diventare dei vacui vagabondi che non trovano il senso dell’amore”.

    F.Berto-P.Salari, Padri che amano troppo. Adolescenti prigionieri di attrazioni fatali.La Merdiana,pp.128,2009.

    Di Padre in Padre…..

    “Quello che vi accingete a leggere è un libro che può essere apprezzato da genitori, educatori e studiosi, ricco com’è di riflessioni ed esemplificazioni esposte in un linguaggio semplice e scorrevole.”
    (dalla Prefazione di Fulvio Scaparro)

    Può un padre esprimere la propria vulnerabilità affettiva e la ricchezza delle sue tensioni emotive senza perdere la sua identità o rinunciare alla possibilità di proporre percorsi di vita per il figlio?
    E’ il problema di fondo che emerge nelle nuove generazioni di padri, che sta portando con forza alla luce la questione “paternità”, spesso oscurata dalla pratica e dalla retorica del ruolo paterno distinto, anzi opposto a quello materno. Un numero sempre maggiore di padri si è trovato a lottare per essere riconosciuto come genitore presente fin dal concepimento nella vita dei figli e in grado di assolvere anche ai compiti, doveri e responsabilità a torto creduti non tradizionali.
    Il maschio normativo sta scoprendo di avere caratteristiche affettive che erano, e purtroppo lo sono ancora, considerate un’esclusività femminile: dolcezza, rispetto, amore.
    E’ lungo, molto lungo, il cammino che uomini e donne dovranno compiere per accettare le loro diversità e finalmente riconoscersi uguali almeno in questo: tutti noi vogliamo vivere come essere umani, cioè come cercatori e produttori di senso, come individui fertili. Ma non basta proclamarlo; occorre praticarlo in casa, a scuola, nel lavoro, ovunque. Una grande responsabilità educativa perchè i figli osservano e imparano dai rapporti tra padri e madri, tra uomini e donne.

    A. Coppola De Vanna F. D’Elia L. Gigante, Di padre in padre. I tempi della paternità.La Meridiana,pp.144,2008.

    Il Carciofo…..

    IL Carciofo per tutti gli usi

    C

     La parola carciofo procede dall’arabo al-kharshûf.

    Documentazioni storiche, linguistiche e molecolari sembrano indicare che la domesticazione del carciofo (Cynara scolymus) dal suo progenitore selvatico (Cynara cardunculus) possa essere avvenuta in Sicilia, a partire dal I secolo circa.

    La pianta chiamata Cynara era già conosciuta dai greci e dai romani, ma sicuramente si trattava di selvatico. A quanto sembra le si attribuivano poteri afrodisiaci, e prende il nome da una ragazza sedotta da Giove e quindi trasformata da questi in carciofo.

    Nel secolo XV il carciofo era già consumato in Italia.Portato dagli Arabi in Sicilia, appare in Toscana verso il 1466. Nella pittura rinascimentale italiana, il carciofo è rappresentato in diversi quadri: “L’ortolana” di Vincenzo Campi, “L’estate” e “Vertumnus” di Arcimboldo.

    La tradizione dice che fu introdotto in Francia da Caterina de’ Medici, la quale gustava volentieri i cuori di carciofo. Sarebbe stata costei che lo portò dall’Italia alla Francia quando si sposò con il re Enrico II di Francia. Luigi XIV era pure un gran consumatore di carciofi.

    Gli olandesi introdussero i carciofi in Inghilterra: abbiamo notizie che nel 1530 venivano coltivati nel Newhall nell’orto di Enrico VIII.

    I colonizzatori spagnoli e francesi dell’America introdussero il carciofo in questo continente nel secolo XVIII, rispettivamente in California e in Louisiana Oggi in California i cardi sono diventati un’autentica piaga, esempio tipico di pianta invadente di un habitt in cui non si trovava precedentemente.

    C1Generalmente si pensa al carciofo come a un’ottima verdura dal gusto ( particolare. in realtà, il carciofo è pianta dai vari utilizzi. I garden designer la prediligono come pianta decorativa per le sue belle foglie, grandi e argentate, che si prestano a creare macchie di colore nei cosiddetti bordi misti a fioriture continue e nei “giardorti”, gli orti disegnati oltre che per un uso alimentare anche per un uso estetico.

    I fioristi usano invece spesso il carciofo come fiore protagonista, di dimensioni notevoli e di lunga durata: in pratica, il carciofo per fini estetici è lasciato maturare con il gambo in acqua al punto da aprirsi ed emettere una bellissima infiorescenza blu violacea; dei vegetale originario, rimangono le foglie esterne e il gambo. In erboristeria, invece, il carciofo è considerato un grande amico del fegato, un alleato della salute per le sue virtù depurative e per le sue proprietà anticolesterolo.

     Il carciofo nell’orto e non solo

    La pianta cresce spontaneamente nei climi mediterranei, dove è praticamente perenne. Ha radice fittonante, foglie di colore grigio-verde dal cui centro parte un fusto ramificato che termina, a ogni diramazione, con un capolino fioraie, cioé la parte commestibile dell’ortaggio, con o senza spine a seconda della varietà. Tra le diverse varietà, il carciofo più indicato da mangiare crudo è lo spinoso della Liguria.

    La pianta del carciofo, il cui nome latino è cynara scolymus, si può coltivare per la raccolta dei frutti, ma anche per la sua bellezza e per il colore particolare delle foglie. In terra o in un vaso profondo, ben concimato, la pianta di carciofo svetta imponente per oltre tre mesi.

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    Terreno, semina e concime

    Il carciofo ama un clima temperato o caldo, non umido, ma si adatta facilmente a qualsiasi tipo di terreno purché senza ristagni. Un esempio ne è il carciofo violetto di Chioggia che vegeta addirittura in terreno salmastro. Il carciofo non si semina perché produrrebbe carciofi piccoli e spinosi ma si impianta per mezzo di “carducci”: verso la fine del ciclo produttivo la pianta emette dal basso gemme che, alla ripresa vegetativa, si sviluppano con foglie, i carducci appunto; questi, recisi al piede, si ripiantano moltiplicando così la pianta. Per un raccolto primaverile, si staccano i carducci in ottobre e si interrano in buche profonde 30 cm, distanti fra loro circa i metro, rincalzandoli in inverno, mentre per il raccolto autunnale si prelevano i carducci in primavera e si ripiantano cimando leggermente le foglie. Esistono anche cultivar rifiorenti che producono due volte all’anno, da aprile a giugno, da agosto ai geli. Il terreno deve essere ben concimato.

    Irrigazione e lavori colturali

    Le irrigazioni devono essere abbondanti sia all’impianto che alla ripresa vegetativa. I lavori più importanti sono: rincalzare con terra o letame non maturo da copertura durante l’inverno, sarchiare il terreno in primavera per incorporare il letame, diradare i carducci alla base della pianta per non toglierle vigore, eliminare via via le parti secche.

    Idee con i carciofi

    Carciofi per la salute

    Il carciofo è ricco di sali minerali, di potassio e di vitamine, mentre fornisce scarso apporto calorico ed è per questo particolarmente indicato in caso di diete. Per il suo gusto amaro, è sconsigliato alle donne che allattano, ma è assai utile per tutti per depurare l’organismo. Il carciofo infatti, sia consumandone le foglie che la parte interna del gambo, stimola l’attività biliare ed epatica; inoltre, rende inattivi i grassi nocivi cioè svolge una sicura azione anticolesterolo e antitrigliceridi. Poiché il processo di cottura neutralizza molti principi attivi del carciofo, è meglio consumarlo crudo: ne trarranno particolare giovamento le persone debilitate o anemiche. In periodi di stravizi alimentari o di piccoli problemi legati all’alimentazione, quali alitosi, cattiva digestione, sonnolenza a fine pasto, il carciofo svolge un’eccellente funzione depurativa per l’organismo. Oltre al carciofo fresco, si può beneficiare delle sue virtù anche grazie a tisane o infusi utilizzando i succhi già preparati e reperibili in erboristeria o le foglie secche. Anche la radice ha particolari funzioni terapeutiche: è infatti un buon rimedio contro artriti e reumatismi.

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     Il carciofo in tavola

    Portiamo in tavola senza paura di pungerci i frutti e i fiori con le spine, belli e di gran carattere. C’è grande libertà di espressione nella decorazione floreale. Quindi non esitate a utilizzare verdure, rami di legno, conchiglie o qualsiasi materiale vi suggerisca la fantasia. Sorprende trovare in questa composizione dei carciofi vicino alle delicate rose color ruggine, così come è inconsueto il ciuffo di saggina abbinato al fiore del luppolo: la nostra proposta non è che un’idea della grande varietà delle creazioni che si possono realizzare con elementi naturali.

    Per realizzare la bella composizione fotografata qui a fianco bagnate la spugna da fiori, quindi rivestitela con due grandi foglie di aspidistria (tenete da parte i grossi steli); fissatele con un punto metallico. Inserite nell’ordine i carciofi, direttamente con i loro gambi, le rose, le piante grasse, i gambi di aspidistria, le bacche di rosa canina e di lentaggine. Per riempire i buchi, avvolgete il lungo ramo rampicante del luppolo in fiore. Per ultimo, prendete il ciuffo di saggina, apritelo a metà e inseritelo nella composizione lasciando il gambo esterno alla spugna come se fosse un fiocco.

    Per realizzare invece la foto in apertura, che utilizza il carciofo lasciato in acqua con il gambo fino alla fioritura completa, prendete come base la classica spugna imbibita d’acqua, inseritela all’interno del cestino intrecciato in rami di castagno, quindi inserite rami di eucalipto, semi di fior di loto, rami di fico selvatico con i piccoli frutti attaccati, una celosia rossa, dei rami con i kumquat (i mandarini cinesi) e un grosso carciofo al quale spunteranno nel giro di due giorni i bellissimi petali viola.

     Carciofi ripieni alla romana

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     Gli ingredienti per 4 persone

     8 carciofi romani senza spine

    50 g di prezzemolo

    2 spicchi d’aglio

    100 g di ricotta stagionata

    olio d’oliva extravergine

    menta

    sale e pepe

     Preparate un trito con prezzemolo, foglioline di menta, 2 spicchi d’aglio e mettetelo in una scodella con 2 cucchiai d’olio, la ricotta grattugiata, sale e pepe.

    Staccate le prime foglie dei carciofi, tagliate la parte superiore e il gambo a 2 cm di lunghezza. Pulite bene all’interno e all’esterno e riempite con il trito, dopo avere allargato un po’ l’apertura dei carciofi per poter togliere la barba dal cuore. Sistemateli capovolti con il gambo rivolto verso l’alto in una pirofila dove andrà messa una parte d’acqua e 2 parti d’olio sino a ricoprire i carciofi quasi per intero.

    Mettete in forno caldo a 17000 per circa 1 ora e, a metà cottura, rigirateli con il ripieno verso l’alto cospargendoli con una parte del liquido di cottura. Terminata la cottura, servite i carciofi ripieni ben caldi.

    30 minuti-60 minuti

    Testamento biologico: ragioni, nodi critici e prospettive.

    T

     A cura di

    Giannino Piana 

    La questione del testamento biologico è divenuta, in questi ultimi anni, di grande attualità anche nel nostro Paese, a seguito soprattutto dell’esplosione di casi, come quelli di Welby e della Englaro, che hanno scosso profondamente l’opinione pubblica. Non si può sottovalutare, tuttavia, il rischio che, proprio per questo motivo, le reazioni emotive prevalgano sulle argomentazioni razionali, favorendo pronunciamenti affrettati e improduttivi. A questo genere di pronunciamenti va ascritto anche il testo relativo alle «dichiarazioni anticipate di trattamento», approvato dal Senato il 26 marzo dell’anno in corso e ripreso (e ci auguriamo largamente rivisto) dalla Camera probabilmente nel prossimo autunno. 
    La riflessione sul testamento biologico riveste – va detto fin dall’inizio – particolare importanza sul piano etico soprattutto per la varietà dei temi che attorno ad esso si condensano e che hanno a che fare con le frontiere della vita e della morte: dall’autodeterminazione del paziente nei confronti delle cure al ruolo del medico (e del personale sanitario in genere), dalle cure palliative alla terapia del dolore, dall’eutanasia all’accanimento terapeutico. Si tratta di una sorta di crocevia, in cui convergono i più significativi nodi critici riguardanti le situazioni esistenziali di fine-vita. Le rapide note, che qui svilupperemo, prendono anzitutto avvio da una sintetica rilevazione delle ragioni strutturali e culturali, che hanno fatto emergere in questi anni, in termini sempre più insistiti, la richiesta di dare statuto giuridico al testamento biologico; per mettere, successivamente, in evidenza le problematiche più rilevanti legate alla sua stesura e alla sua applicazione; e delineare, infine, alcuni orientamenti volti a favorirne una corretta utilizzazione. Alla base della richiesta di legalizzazione del testamento biologico, in quanto strumento destinato a far valere le proprie volontà circa i trattamenti cui essere o non essere sottoposti nella fase di fine,vita qualora ci si trovi in stato di incoscienza, vi è senz’altro l’accresciuta consapevolezza della dignità della persona, e dunque del rispetto dei diritti che ad essa fanno capo lungo l’intero arco della sua esistenza. La modernità è infatti coincisa con lo sviluppo della civiltà dei diritti, il cui raggio di esercizio è venuto progressivamente dilatandosi, soprattutto a partire dall’ultimo dopoguerra. Le Costituzioni degli Stati democratici e le Carte delle istituzioni internazionali – è sufficiente ricordare qui la Carta dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948  hanno assunto, come perno della vita collettiva e come limite all’intervento degli Stati, la salvaguardia dell’autonomia della persona e il riconoscimento (nonché la possibilità di espressione) dei suoi fondamentali diritti. In questo contesto deve essere dunque inserito il «diritto a morire 
    dignitosamente», diritto che implica particolare attenzione alla qualità del morire in quanto momento supremo dell’esistere. E, in questo contesto, acquista soprattutto sempre maggiore consistenza il bisogno di decidere, in modo autonomo, a quali cure si desidera essere o non essere sottoposti. ambivalenza del progresso tecnico.
    A sollecitare tale attenzione e tale bisogno hanno contribuito, in misura determinante, gli sviluppi della tecnologia in campo biomedico; essa, accanto ad esiti altamente positivi – si pensi ai grandi successi ottenuti in campo terapeutico con la sconfitta di malattie un tempo letali fa registrare l’emergenza di nuovi rischi, primo fra tutti quello dell’accanimento terapeutico. La possibilità di prolungare oltre misura la vita biologica, mediante interventi sempre più sofisticati e pervasivi, provoca spesso la dequalificazione della vita personale con grave attentato alla dignità umana. E ciò soprattutto in presenza di una cultura, nella quale l’enorme successo della tecnica alimenta la tentazione del tecnicismo abusivo; mentre, a sua volta, il dilagare della mentalità scientista spinge a coltivare una concezione rigidamente «biologica» della vita. Si afferma così una forma di prometeismo, che ritiene eticamente legittimo (considerandolo umanizzante) tutto quanto è tecnicamente possibile, e che considera positivo ogni prolungamento artificiale della vita, prescindendo dalle pesanti ricadute che spesso l’accompagnano sul piano umano. Il confronto quotidiano con casi, che rivelano la disumanità di alcuni trattamenti sanitari, rende trasparente l’ambivalenza del progresso tecnico, e concorre ad accentuare il bisogno di esternare la propria volontà circa le cure nel momento in cui ci si venisse a trovare nell’impossibilità di farlo direttamente, rimozione della morte .
    Accanto a queste motivazioni di grande rilievo sul piano umano va tuttavia aggiunto – e costituisce un elemento tutt’altro che secondario – l’atteggiamento disturbato con cui si vive oggi il rapporto con la morte. Ad avere il sopravvento è infatti la rimozione della morte, causata da un insieme di fattori, quali la sua radicale separazione dalla vita – si muore sempre più in ospizi ed ospedali, al di fuori cioè dei luoghi nei quali si svolge l’ordinaria esistenza –, la sua spettacolarizzazione  la televisione e internet ci mettono ogni giorno di fronte ad episodi di morte, ma si tratta di eventi spersonalizzati, che determinano scarso coinvolgimento e producono assuefazione  e infine la perdita del simbolismo, sia religioso che laico, che in passato contribuiva, in qualche misura, a riscattarla. Rimozione e perdita di significati sono poi ulteriormente accentuati dalla presunzione dell’uomo di aver raggiunto il controllo e il dominio di tutti gli ambiti della realtà con la conseguente percezione della morte come scacco insopportabile, come l’irruzione del non controllabile o del non dominabile; in una parola, di ciò che non può essere razionalizzato. Da questo punto di vista, eutanasia ed accanimento terapeutico, pur rimanendo fenomeni di segno opposto, possono venire ricondotti a una identica matrice: la volontà dell’uomo di esercitare la propria signoria sulla morte, trasformandola da evento «naturale», di fronte al quale egli risulta del tutto impotente, in evento «culturale» sottoposto alla propria volontà: nel primo caso – quello dell’eutanasia – dandosi la morte, scegliendo cioè il tempo e il modo secondo cui morire; nel secondo – quello dell’accanimento terapeutico – prolungando in maniera illimitata la vita nella (illusoria) speranza di poter vincere la morte. 
    Paura e rimozione finiscono così per sostenersi reciprocamente, entrando in una sorta di spirale o di circolo vizioso: la paura alimenta infatti la rimozione, la quale, a sua volta, non fa che accentuare la paura. Se questo rende, da un lato, ragione della richiesta insistita di dare forma legislativa al testamento biologico come tutela della persona, spiega tuttavia, dall’altro, perché dove esso è già stato da tempo introdotto venga scarsamente utilizzato – la percentuale di chi se ne serve si aggira attorno al 10-20% – prevalendo la tendenza, psicologicamente comprensibile ma accentuata dal disagio ricordato, ad allontanare il più possibile il pensiero della propria morte. i fondamentali nodi critici di ordine etico 
    Le questioni di carattere etico che affiorano in riferimento al testamento biologico sono molte e di diversa consistenza: tre ci sembrano tuttavia quelle di maggiore importanza sulle quali è opportuno soffermarsi,autodeterminazione ma non solo.
    La prima riguarda anzitutto il principio di autodeterminazione, che è il presupposto in base al quale viene rivendicata l’istituzione del testamento biologico. L’affermazione di tale principio ha trovato, nell’ambito della bioetica, concreta espressione nel «consenso informato», di cui il testamento biologico altro non è che il logico prolungamento in situazioni nelle quali il paziente si trova a vivere in stato di incoscienza. Il principio di autodeterminazione è senza dubbio un principio fondamentale di riferimento per affrontare le questioni della bioetica, ma – è importante sottolinearlo – non può essere assunto come criterio esclusivo. Esistono infatti altri principi – quello di non maleficità, quello di beneficità e quello di giustizia o di equità sociale – ai quali ispirare l’attività di cura. La tutela dell’autonomia del paziente non può pertanto prescindere dalla ricerca del suo bene, che costituisce l’obiettivo dell’attività del medico, e dall’attenzione al contesto sociale, essendo le risorse a disposizione limitate e dovendole perciò ripartire equamente. Si tratta, in altri termini, di mediare la libertà con il bene e con la giustizia, pervenendo a scelte, che spettano in ultima analisi al paziente (sia direttamente che attraverso il proprio fiduciario nel caso del testamento biologico) e che devono avere di mira il bene del singolo e quello della collettività. 
    L’interpretazione rigidamente individualista che talora si dà del principio di autodeterminazione è frutto di una visione liberista, derivante da un contesto come quello degli Usa dove – è bene non dimenticarlo – circa cinquanta milioni di persone sono tuttora escluse da qualsiasi forma di assistenza sanitaria. 
    Chi per me? La seconda questione ha come oggetto la gestione del testamento biologico, cioè le concrete modalità della sua esecuzione. Vi è, al riguardo, chi ritiene che esso abbia un preciso valore giuridico, e vada pertanto eseguito alla lettera, senza alcuna possibilità di mediazione, escludendo di conseguenza ogni spazio di intervento del medico. E vi è chi, invece, ritiene che si tratti di indicazioni da tenere in seria considerazione, che vanno tuttavia fatte oggetto di ulteriore valutazione tra il medico e il fiduciario designato dal paziente. In realtà tanto la stesura del testamento biologico quanto la sua esecuzione non sono (o non dovrebbero essere) atti puramente individuali, ma espressione di un processo che coinvolge il paziente (o chi lo rappresenta), in quanto portatore di bisogni e di diritti, e il medico in ragione della sua specifica competenza. Il modello cui ispirare la condotta ci sembra possa essere dunque quello della «alleanza terapeutica» la cui attuazione comporta l’instaurarsi di un rapporto di reciproca fiducia, che sfocia nella volontà di collaborare alla comune ricerca del bene del paziente. La giustificata reazione all’atteggiamento paternalistico del passato si traduce oggi spesso – per reazione – nell’opposta tendenza a fare del medico un mero esecutore tecnico della volontà del paziente, impedendogli di mettere a frutto la propria competenza con conseguente danno per lo stesso paziente. La mutua cooperazione, oltre ad evitare l’estensione (altrimenti inevitabile) dell’obiezione di coscienza dei medici, consente di verificare con maggiore precisione la reale situazione, prendendo in considerazione le novità nel 
    frattempo intervenute in campo terapeutico e interpretando la volontà del paziente anche in relazione a questi cambiamenti. nutrizione e idratazione 
    Infine la terza e ultima questione (non ultima in ordine di importanza) concerne il significato che si attribuisce alla nutrizione e all’idratazione, e perciò la possibilità o meno di deciderne la sospensione in alcune situazioni particolari. Il dibattito, che si è sviluppato, in questo ultimo anno 
    nel nostro Paese (in occasione soprattutto della vicenda di Eluana Englaro) ha visto la discesa in campo di due posizioni contrapposte, con punte a volte di forte tensione ideologica. Da una parte, vi era chi sosteneva che nutrizione e idratazione in quanto «sostegni vitali» devono essere comunque sempre somministrate; dall’altra, chi, insistendo sulle modalità con cui la somministrazione avviene, riteneva che nutrizione e idratazione possano essere incluse nell’attività di «cura», e debbano pertanto essere in molti casi sospese. 
    Questa contrapposizione, soprattutto se radicalizzata, risulta, per molti aspetti, artificiosa. È difficile infatti negare che nutrizione e idratazione siano, in senso antropologico, «sostegno vitale»; ma è altrettanto difficile misconoscere che, in alcune circostanze, siano a tutti gli effetti, per il modo con cui la somministrazione si realizza (intervento chirurgico e preparazione di sostanze chimiche) «atto medico » (e dunque curativo anche se non direttamente terapeutico). Forse, per affrontare correttamente il problema, bisogna collocarlo in quella area di questioni di frontiera, che stanno sul crinale tra omissione di soccorso (in passato si diceva «eutanasia passiva») e accanimento terapeutico. Questo implica che si debba di volta in volta decidere, tenendo conto della concretezza delle situazioni, con la consapevolezza che lo stesso intervento può, in taluni casi, se evitato, risultare omissione di soccorso; in altri casi, se effettuato, può invece comportare accanimento terapeutico. In questa ottica, nutrizione e idratazione devono essere valutate caso per caso, con attenzione alla situazione complessiva del paziente. L’inserimento del loro rifiuto nel testamento biologico implicherebbe perciò la circoscrizione entro una casistica dettagliata non facilmente definibile a priori; ma (forse) potrebbe bastare – ci sembra questa la via più praticabile, in linea del resto con quella forma di «diritto mite» da molti auspicato – l’espressione da parte del paziente di una generica volontà di rifiuto, che andrebbe poi verificata nella sua applicabilità mediante il confronto tra il proprio fiduciario e il medico.  orientamenti per una corretta utilizzazione .
    L’acquisizione del significato proprio del testamento biologico e la disponibilità al suo corretto utilizzo esigono l’adempimento di alcune condizioni, che costituiscono la cornice entro cui il testamento va collocato. La prima di tali condizioni consiste nel farsi strada di una concezione relazionale dell’umano. Si è già detto dei rischi che si corrono quando ci si muove entro un orizzonte radicalmente individualista. Ogni atto umano si sviluppa all’interno di una rete di relazioni, ed implica pertanto il ricorso a una condivisione di responsabilità che non può essere elusa. Anche il testamento biologico, tanto nella fase di stesura che in quella esecutiva, comporta il concorso di altri soggetti (il medico di base o quello curante e successivamente il fiduciario) ed esige la convergenza di tutti attorno al bene del paziente. 
    La seconda condizione è costituita da una sempre maggiore estensione, a tutti i livelli, del concetto di cura proporzionata; concetto che laddove viene praticato, rappresenta il miglior antidoto tanto nei confronti dell’eutanasia che dell’accanimento terapeutico. Da questo punto di vista, è importante 
    che si potenzino, anche nel nostro Paese, le cosiddette «cure palliative», il cui obiettivo è quello di «prendersi cura» della persona nella sua globalità, offrendole i necessari supporti fisici – si pensi alla terapia del dolore – e psicologici per vivere anche i momenti più drammatici di avvicinamento 
    alla morte con la maggiore serenità possibile. 
    Infine, la terza (e ultima) condizione è costituita dall’esigenza di dare vita a una nuova «cultura della morte», che ne faccia riscoprire il profondo legame con la vita e, pur senza rinnegare il carattere di tragicità che inevitabilmente la connota, non rinunci a renderne trasparente il significato 
    di compimento dell’esistenza e, per chi crede, di «realtà penultima», che prelude – è questo il senso della speranza cristiana – a una vita che non ha termine. L’adempimento di queste condizioni è la via per accedere a una visione più umanizzata della malattia e della morte e per togliere al 
    testamento biologico il carattere, oggi prevalente, di strumento difensivo o rivendicativo dei diritti soggettivi, trasformandolo in un vero esercizio di collaborazione all’azione medica, che è tanto più corretta ed efficace quanto più è rispettosa della volontà dei pazienti e quanto più tende, nel 
    contempo, a salvaguardarne, in tutte le fasi della malattia, la dignità umana.

    http://www.rivistadireligione.it/default.aspx

    L’anima e il suo destino.

    Anima

     di

    Vito Mancuso

    “Il libro incontrerà opposizioni e critiche, ma sarà difficile parlare di questi argomenti senza tenerne conto”, scrive nella prefazione al volume il cardinale Martini. Gli argomenti sono i più classici, l’esistenza e l’immortalità dell’anima, il suo destino di salvezza o perdizione. Del tutto nuova è invece la trattazione, in cui scienza e filosofia assumono il ruolo di interlocutori privilegiati della teologia, configurando una fondazione del concetto di anima immortale di fronte alla coscienza laica. Criticando alcuni dogmi consolidati, il libro affronta l’interrogativo fondamentale che da sempre inquieta la mente degli uomini: se esiste e come sarà la vita dopo la morte.

     Commento 

    a cura di

    Giuseppe

    Artino Innaria

     La Chiesa Cattolica ormai ha da tempo perso quel primato culturale detenuto nella nostra civiltà per secoli. Eppure, per nostra fortuna, nella comunità ecclesiale contemporanea non mancano voci affascinanti, capaci di incantare anche i non credenti, soprattutto quegli “atei devoti” sensibili al richiamo delle sirene dello Spirito ed inquieti nella inesausta ricerca di una sfuggente Verità.

    Nel panorama culturale cattolico italiano una attenzione di rilievo merita Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. “L’anima e il suo destino”, un tema avvincente quanto impervio, è il titolo del suo ultimo libro.

    Già, l’anima – questa dimensione impalpabile ancorché viva ed essenziale, oggi sempre più smarrita e confusa, dell’esistenza di ogni uomo -, alla ricerca della quale si era cimentato già, in un viaggio di straordinaria ricchezza di riferimenti culturali e di entusiasmante stimolo intellettuale, Monsignor Gianfranco Ravasi, biblista e oggi Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, nel suo “Breve storia dell’anima” (2003, Arnoldo Mondadori Editore, pagine 341).

    E, sopra ogni altra cosa, il suo destino finale, intorno al quale si gioca l’intera posta della fede.

    L’opera di Mancuso è una coraggiosa avventura teologica, in cui egli chiama a compagna ed interlocutrice la coscienza laica (“quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per se stessa e non per appartenere a un’istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perché ne è profondamente convinta, e non perché l’abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanti numerosi antipapi della cultura laicista”: “L’anima e il suo destino”, pag. 1), per fondare una teologia che non arretri di fronte ai risultati della scienza e al metodo critico della filosofia, e che sappia unificare i contenuti dell’una e dell’altra in un sapere unitario costruito con un discorso razionale e teso alla conquista della verità. Compito non facile, specie se impone addirittura la rivisitazione e la messa in discussione di non pochi profili dogmatici e cardinali della dottrina della Chiesa e a farne le spese è, innanzitutto, una impalcatura concettuale eretta sulle fondamenta della pesante eredità del pensiero di Sant’Agostino.

    Per Mancuso il cosmo è un trattato su Dio al pari delle Sacre Scritture. Grazie ai contributi della scienza, l’uomo è in grado di rintracciare il Principio Ordinatore, il Logos che regge la natura secondo una logica di incremento della complessità e dell’informazione, l’ordine che dà forma all’energia alla base dell’essere, in una linea di evoluzione che dalla materia inerte porta alla vita e man mano alla comparsa degli esseri intelligenti e allo sviluppo della morale e della spiritualità. Questa saggezza basata sull’osservazione della natura ci dà conferma del messaggio cristiano, perché il principio fondamentale dell’essere come energia non è altro che la relazione, che produce armonia e contrasta la deriva entropica dell’universo. Il Logos, quindi, è relazione, che, attraverso i legami, crea sostanza nuova, in un incessante riprodursi di energia su livelli qualitativi sempre superiori. Ma se il Logos è relazione, allora è l’amore l’attuazione perfetta del Logos, in quanto relazione perfetta tra gli esseri.

    L’immortalità dell’anima non è una chimera, ma non è nemmeno la graziosa elargizione di una divinità imperscrutabile che dispensa la Grazia secondo disegni oscuri. Essa è il frutto del lavoro spirituale, della capacità dell’individuo di realizzare dentro e fuori di sé l’ordine relazionale in cui si sostanzia il Logos, permettendo a quel sovrappiù di energia che è l’anima di sopravvivere al corpo nel dare vita ad una ulteriore rottura ontologica, in cui l’energia si incrementa al punto da farsi puro spirito a prescindere da un supporto materiale.

    Dio, il Principio Primo, su cui si fonda il Principio Ordinatore, per l’autore del libro, rimane personale, per quanto trascendente rispetto al Mondo, che governa per mezzo della legge impersonale del Logos. La trascendenza di Dio rispetto al Mondo spiega la distanza che può porsi tra i due termini, il cuneo di libertà che Mancuso chiama “il peccato del mondo” nel tentativo di rileggere il dogma del peccato originale.

    Il rapporto tra libertà e Dio è delicato, tanto più che esso coinvolge anche l’opposizione tra una concezione personale della divinità e quella teologia negativa, per la quale di Dio si può solo dire, con Meister Eckhart, che è “negazione della negazione”.

    Se la libertà fa parte dello statuto ontologico della divinità, forse, non è la libertà il vero “peccato del mondo”, come ritiene Mancuso, perché la libertà del mondo rispecchia quella di Dio tanto quanto il Logos. Forse il vero peccato del mondo è la distanza ontologica da Dio.

    Se il mondo viene da Dio, viene come emanazione di una energia traboccante, che, tuttavia, nel manifestarsi si allontana dall’origine, ed è in questo distacco che risiede il rischio di perdizione. Nell’ottica del ritorno a Dio, l’amore dell’uomo per Dio è essenziale tanto quanto l’amore di Dio per l’uomo e per tutto il creato. Ma il rischio di perdizione probabilmente è solo apparente, perché nella logica dell’essere tutto non può che reintegrarsi nell’origine ed è questo il vero significato della redenzione (il pensiero corre a quelle teorie sull’universo che ipotizzano una fase di espansione ed una di concentrazione dell’energia e della materia).

    Mancuso, in maniera condivisibile, ha il merito, dal nostro punto di vista, di recuperare la dottrina dell’apocatastasi, della reintegrazione di tutte le cose in Dio, rifacendosi ad uno dei padri della Chiesa, Origene, osteggiato da Agostino, per il quale, invece, la massa umana, segnata dal marchio del peccato originale, è dannata, predestinata alla perdizione eterna, tranne nei pochi eletti dalla Grazia.

    L’opera di Mancuso contiene enormi aperture non solo verso la laicità, ma soprattutto verso il pluralismo religioso in nome del carattere universale della verità. Nell’ammettere che è possibile salvarsi anche senza aver conosciuto il messaggio evangelico, la Chiesa ha superato l’antico principio “extra ecclesiam nulla salus”. Nondimeno, il grande interrogativo che giriamo all’autore del libro, è: si può costruire una teologia universale rimanendo cristiani? È la medesima domanda che si pone il sociologo francese Frederic Lenoir in “Le Metamorfosi di Dio. La nuova spiritualità occidentale” (Garzanti, 2005, pagg. 326 ss.). Gesù costituisce il fulcro centrale del Cristianesimo principalmente perché la sua venuta, la sua opera di redenzione, il suo sacrificio sulla croce rappresentano eventi unici, irripetibili nella storia dell’umanità. Lenoir segnala il pericolo di come questa posizione possa finire per emarginare il cristianesimo nella modernità: “Il quesito cruciale che la modernità pone alla teologia cristiana è quello di una possibilità di mantenere la propria unità, coerenza e identità, facendo nel contempo evolvere la propria teologia cristologica ed ecclesiologica in una direzione che gli permetta di prendere in considerazione il pluralismo religioso. In altri termini, il cristianesimo può rimanere sé stesso, rinunciando a dichiararsi depositario della verità ultima, nonché a ritenere che tutte le religioni dell’umanità sono solo vie imperfette di salvezza?”.

    Infine, una rimeditazione del senso della teologia cristiana non può non passare attraverso la consapevolezza che la verità può essere attinta per diverse vie e in diversi gradi. Uno dei limiti del cattolicesimo è quello di non distinguere una dimensione esoterica da quella essoterica. Certi dogmi che la razionalità teologica smonta, per contro, hanno conservato per secoli una utilità dimostrativa essenziale per gli spiriti semplici. Quegli stessi dogmi, ciononostante, non possono risultare appaganti per gli intelletti bramosi di possedere la verità per mezzo di una fede, non concepita come credenza senza spiegazioni, come fiducia cieca nel magistero dell’autorità ecclesiale o come pragmatica scommessa alla Pascal, bensì come convincimento conquistato con la conoscenza. Il riconoscimento di stadi e modalità diverse della rivelazione potrebbe portare ad una nuova maturità del pensiero teologico.

    L’ANIMA E IL SUO DESTINO Autore: Vito Mancuso. Pagine: 323. Anno: 2007. Editore: Raffaello Cortina Editore.

    Controrepliche all’opera del Prof.Vito Mancuso

    a cura del

    Dott.

    FEDERICO LENCHI

    (Prima parte)

    Esaminando “L’Anima e il suo Destino” nel capitolo che tratta dell’inferno l’A. arriva ai seguenti risultati:
    1-il diavolo non esiste concretamente come persona oppure se esiste sarà obbligato da Dio a una conversione forzata che lo costringerà a vedere le sue tenebre sbaragliate dall’irrompere della forza della luce divina ;
    2-la punizione degli uomini abitati totalmente dal male, sarà o temporanea , e quindi non eterna , oppure vi sarà una distruzione della personalità del peccatore in cui non si è trovato altro che odio.
    Devo subito precisare che si tratta di antiche concezioni, elaborate fin dai primi tempi della Chiesa, come vedremo, atte a mettere in dubbio fino a rifiutarla l’inquietante rivelazione sull’inferno relativa alla sua eternità.
    L’A. pertanto non dice nulla di nuovo ma ripropone quanto già detto a partire dal III secolo da Origene e dagli Origenisti. (cfr.pp. 275-76)

    Vediamo da subito come queste teorie siano in netto contrasto con quanto insegnato dal Magistero Cattolico che indica l’inferno, dal latino “luogo che sta sotto”, come uno stato o situazione di infinita sofferenza determinata dal rifiuto totale e definitivo di Dio, degli altri, di se stessi e del mondo, in contrasto con la vocazione di vivere in comunione.
    La Bibbia, al fine di indurci ad opporci con tutte le forze al male, ci presenta la possibilità di dannazione con immagini di morte e di disperazione, immagini che vanno indubbiamente interpretate ma non sminuite (cfr. Mt. 10,28; I Cor. 3,17; Gal. 6,7; Fil. 3,19; Ap. 2,11; 20,6.14;21,8).
    La Bibbia altresì evidenzia con assoluta chiarezza i diversi aspetti della realtà del peccato:
    -IDOLATRIA Adamo ed Eva volevano essere come dei
    -RIVENDICAZIONE DI ASSOLUTA AUTONOMIA MORALE, cioè decidere in modo autosufficiente ciò che è bene e ciò che è male;
    -RIFIUTO DELLA CONDIZIONE CREATURALE, ovvero perdita della relazione vitale con
    Dio. In altre parole la radice del peccato va rintracciata nel libero arbitrio dell’uomo, nella sua
    libertà di opporsi al suo progetto.
    Per tali ragioni il peccato è descritto nell’Antico Testamento e confermato nel nuovo, come, infedeltà, adulterio, fornicazione ossia come rinnegamento del patto di amore che Dio ha stipulato con l’uomo.

    L’aspetto più inquietante della rivelazione sull’inferno è, come abbiamo visto, quello della sua irreversibilità ed eternità. Per tale ragione già nei primi secoli presero corpo alcune teorie di cui le principali sono quelle relative all’Apocatastasi e all’Annichilazione.
    Fu Origene, soprannominato Adamanzio “uomo d’acciaio”(185?-250) che per primo, in ambito cristiano, sviluppò la teoria dell’Apocatastasi.
    Per valutare correttamente il suo pensiero teologico bisogna innanzi tutto tenere ben presente l’epoca in cui scrisse le sue opere.
    Egli nella ricerca della conoscenza esatta dei divini misteri si incammina in territori sconosciuti ed inesplorati formulando ipotesi che non avevano la pretesa di soluzioni definitive e non potendo contare quindi, su quella grande auctoritas, strumento preziosissimo per il teologo, che è il Magistero della Chiesa che, con i grandi Concili del IV e V secolo, fisseranno con la Regula fidei argini invalicabili per la ricerca teologica.
    L’opera di Origene, tesa a rafforzare la fede con il ragionamento ma non in modo frammentario chiarendo quel particolare punto o mistero, ma cercando globalmente tutta l’economia della salvezza , inserendo tutte le vicende e tutti gli attori, oltre che per l’Apocatastasi fu condannata più in generale per il pensiero ellenico che vi compariva anche se scriveva, ben consapevole che la filosofia è un’arma a doppio taglio:” approfittano di questa conoscenza che hanno dell’ellenismo per generare dottrine eretiche e fabbricare, per così dire, vitelli d’oro a Betel” ( I Principi).
    Era però del parere che i barbari ( i cristiani) sono capaci di scoprire le dottrine ma che i greci sono più abili a giudicare, fondare e adattare alla pratica delle virtù le scoperte dei barbari per cui conclude che “chiunque arriva all’insegnamento cristiano delle dottrine dalle dottrine e dalle discipline dei greci, è in grado di giudicare della sua verità” stabilendo in tal modo una certa affinità almeno propedeutica tra le due verità: quella ellenica e quella cristiana.
    Senza addentrarmi nel pensiero di questo autentico genio creativo, grandissimo precursore della ricerca teologica, ricordo che la condanna formale di Origene avvenne con il V Concilio di Costantinopoli nel 553, voluto dall’imperatore “teologo” Giustiniano in cui furono pronunciati 15 anatematismi che lo riguardavano. La controversia sull’ortodossia del suo pensiero, fu iniziata nel 394 dal vescovo Epifanio di Salamina e portata a termine da Girolamo che in un primo momento ne era stato un convinto ammiratore.
    Questo portò a una delle più aspre e meno edificanti polemiche tra Girolamo e il suo vecchio amico Rufino di cui parlò anche Agostino nei seguenti e sconsolati termini:” magnum et triste miraculum”.
    Ma per tutto il secolo precedente i grandi Padri greci e latini, da Gregorio taumaturgo fino ad Ambrogio di Milano avevano avuto parole di grande elogio ed apprezzamento.
    Ma gli anatematismi con cui fu condannato a posteriori, riportano passi presi dalle opere di Evagrio e non da quelle di Origene.
    In tutto il pensiero di Origene è sempre presente un vero spirito ecclesiale, tanto che volle sempre servire esclusivamente la sua Chiesa e fu sempre pronto a sottomettersi al suo giudizio: “ Se io che porto il nome di presbitero e che ho annunciato la parola di Dio, tradissi mai la dottrina sella Chiesa e la regola del Vangelo, cosicché a te, Chiesa, fossi motivo di scandalo, possa l’intera Chiesa con unanime decisione, mozzare e gettare via me, sua destra”.
    Tali parole avrebbero dovuto impedire che Origene fosse annoverato tra gli eretici e l’intera sua opera proscritta:
    Ben diverse quelle del modernista Loisy che riporto a memoria:” non è in me la facoltà di cancellare il frutto delle mie ricerche”.

    RITENGO AUSPICABILE CHE LA CHIESA, CHE TANTO DEVE AD ORIGENE; RIVEDA LA CONDANNA, A SUO TEMPO TROPPO AFFRETTATAMENTE ESPRESSA.

    Continuando il discorso sull’Inferno vediamo come Mancuso, oltre all’apocatàstasi, prenda in considerazione l’annichilazione ovvero la riduzione al niente del dannato.
    Ma né l’apocatàstasi,né tanto meno l’annichilazione trovano alcun fondamento nella Scrittura.
    D’altro canto, Le due lettere cui si fa riferimento per giustificare tali teorie e cioè, la lettera ai Corinzi (I, 15-18) che afferma che alla fine del mondo, Dio sarà tutto in tutti, e quella ai Colossesi (I,20) secondo cui Dio in Cristo ha voluto riconciliare a sé tutte le cose, vanno lette ed interpretate nella loro interezza, non limitandosi a queste due affermazioni.
    L’ ipotesi dell’apocatàstasi, va contro ogni logica, perché non rispetta la serietà e l’impegno della vita terrena che in tal modo assumerebbe le fattezze di una colossale commedia giocata sulla pelle degli uomini, negherebbe la gravità del peccato, per cui nulla farebbe più la differenza tra un agire retto e un agire all’insegna del male, toglierebbe poi significato al libero arbitrio umano e degli angeli decaduti e svuoterebbe di ogni significato di redenzione l’altissimo prezzo pagato da Cristo in croce.
    Parimenti l’annichilazione non rispetterebbe la scelta dei perduti che ostinatamente hanno rifiutato Dio e renderebbe lo stesso Dio artefice di un progetto di distruzione delle creature da Lui create.
    Fermo restando che io ritengo come assoluta verità, quella insegnata dalla “mia” Chiesa mi sembrerebbe più logico pensare che:

    Dio nella sua infinita misericordia abbia stabilito che chi, con assoluta ostinazione libera volontà e piena coscienza, abbia rotto il suo rapporto con Lui trasgredendo le sue leggi per perseguire pervicacemente il male, verrà posto, per l’eternità, in una terra d’oblio, di tenebre e di silenzio come si legge in Dt (32, 22) e in Gb (26,5; 36, 16-17) ovvero una terra di ombre.
    Questa visione non sarebbe in contrasto con l’A.T. e concilierebbe la Giustizia con la Misericordia.

    Continuando l’analisi teologica dell’Anima e il suo destino, ti invio una breve riflessione prendendo spunto da quanto affermato dal Prof. Mancuso a pag. 165 e più precisamente al paragrafo 59 con il sottotitolo: Due dogmi che fanno a pugni tra loro: origine dell’anima e peccato originale.
    Mancuso scrive:” La fede cattolica ci obbliga (???) a ritenere che le anime vengono create direttamente da Dio, e nello stesso tempo assoggettarla alla corruzione e alla concupiscenza ponendola in uno stato di inimicizia con lui (scritto minuscolo, scusa la pignoleria) al punto che si deve parlare di “morte dell’anima”, come stabilito sempre dal Magistero nel Concilio di Trento (vedi DH 1512). E prosegue più oltre: “Se l’anima è partecipe della natura divina, non può essere corrotta; se invece è corrotta, non può essere partecipe della natura divina”.
    Ora dato che -continua Mancuso- “neppure Agostino sapeva risolvere il problema di questo conflitto dogmatico…per risolverlo ci sono tre possibilità:
    -si tiene il dato della creazione diretta dell’anima spirituale da parte di Dio;
    -si tiene il dato dell’anima che nasce spiritualmente morta perchè soggetta al peccato originale;
    -non si tiene nessuno dei due.
    Mancuso afferma che le prime due ipotesi siano insostenibili per cui aderisce alla terza via e a conclusione del paragrafo ribadisce:” …è sulla base di Dio come Logos che si vede che il dogma del peccato originale, così com’è non tiene” (cfr.pp.165-167).
    Riassumendo, secondo l’Autore:
    1-l’anima non può essere creata da Dio in quanto corrotta;
    2-e neppure nascere spiritualmente morta;
    3- per i motivi suddetti le prime due ipotesi sono razionalmente insostenibili.
    A mio giudizio, sempre razionalmente, la prima ipotesi è, contrariamente a quanto creduto da Mancuso, sostenibilissima alla luce della Rivelazione.
    Infatti il peccato originale fu commesso non dal solo corpo o dalla sola anima dei progenitori ma dal concorso di entrambe secondo la concezione biblica, riaffermata dal Catechismo della Chiesa Cattolica (1992, par.365) che considera l’uomo come unità di anima e corpo in maniera così profonda che si deve considerare l’anima come forma del corpo. Da cui ne deriva che lo spirito e la materia, nell’uomo, non sono due nature congiunte ma un’unica natura.
    In altre parole, è Adamo inteso come “unica natura” che ha peccato e noi, suoi discendenti , ereditiamo questa colpa solo all’atto del concepimento quando a nostra volta diventiamo un’ unità e acquisiamo la nostra identità di uomini, ovvero quando avviene la fusione tra il corpo materiale datoci dai genitori e l’anima creata da Dio.
    Ma l’anima creata da Dio e da Lui donataci quale soffio vitale, è da ritenersi indenne da colpa fino a quando non diviene una sola sostanza col corpo dando origine ad una realtà unitaria, l’uomo.
    Prima che ciò avvenga l’anima non ha colpe, esce pura, viva non morta dalle mani di Dio, in quanto non è ancora partecipe della creaturalità umana.
    Mi sento quindi di rifiutare con decisione, l’affermazione di Mancuso secondo cui ” …il dogma del peccato originale, così com’è non tiene”.
    Ma capitolo dopo capitolo analizzeremo tutto il lavoro.
    Su una cosa concordo pienamente con Mancuso quando dice che nei tempi andati le menti migliori si dedicavano alla teologia mentre oggi quelle stesse menti, si dedicano alla scienza o ad altre attività più remunerative.

    Ps.Questo non significa che l’anima sia preesistente al corpo ma solo che all’atto della sua creazione, nel momento in cui viene creata, questa è sola con Dio e quindi pura.
    Questo in virtù del fatto che il concetto di tempo non si applica all’Essere Supremo.
    Ma il Dio ipotizzato da Mancuso è vicino all’uomo, capisce la sua fragilità, partecipa ai suoi dolori?
    Io ritengo di no. Mi sembra un Dio frutto di una eccessiva razionalità, non sua, ma di Mancuso.
    Cercherò di spiegare più avanti perchè.

    Riconosco nel prof. Mancuso un anelito sincero, uno sforzo intellettuale non da poco nella ricerca dell’Assoluto,il grande merito di sollevare problemi e stimolare risposte ma pur riconoscendoli questi meriti non posso condividerne il pensiero.
    A pag. 30 leggo:”Publico il libro con la speranza di venir confutato.” e più oltre ” il mio obietTivo non è la vittoria personale.Contro chi poi? Contro la Chiesa, la madre e la maestra alla quale devo la fede?”.
    La Fede! questo è il problema a cui tutto va ricondotto!
    Mancuso, sa che le fonti della teologia sono necessariamente due: la fides e la ratio.
    La prima è la fonte dei suoi contenuti, la seconda è la fonte della loro comprensione. Ora come non rilevare una certa sua Mancanza nell’interpretarne i contenuti? Infatti leggo a pag. 29 del suo libro:” …ma come è possibile pensare che lo Spirito Santo non abbia sempre assistito la Chiesa quando era in gioco la formulazione del patrimonio dogmatico, il depositum fidei?
    Per rispondere è sufficiente dare un’occhiata alla Bibbia. La riteniamo giustamente ispirata dallo Spirito Santo, ma alcune sue pagine, sia dell’Antico Testamento sia del Nuovo, contengono un grado di violenza e di odio difficilmente ascrivibili allo Spirito Santo. Vi è un salmo, molto noto per il suo lirismo spirituale, che si conclude invitando a prendere i neonati dei nemici e a massacrarli sfracellando il loro tenero cranio contro le pietre”.E dopo aver riportato altri passi ugualmente cruenti conclude:” Ora, siccome di pagine di questo genere nella Bibbia ve ne sono in certa quantità, traggo la conclusione che la Bibbia non abbia goduto di una ispirazione tale da parte dello Spirito Santo da essere concepibile come garanzia di ogni parola in essa contenuta (cfr. pp.29-30).Fin qui Mancuso.
    D’accordo che lui è un teologo e non un esegeta ma neppure io sono un esegeta e tanto meno un teologo ma un semplice credente che di professione fa il medico dentista. Eppure so che già, Clemente Alessandrino, maestro di Origene e padre della teologia scientifica insegnava che” quasi tutta la Scrittura espone i suoi oracoli mediante espressioni enigmatiche”.
    Clemente ripartisce gli insegnamenti scritturistici a due livelli, uno di immediata comprensione e uno invece espresso in forma oscura e coperta, che reca profitto solo a chi sa interpretarla(Pedagogo III, 12,27), ossia lo gnostico (il teologo). “…Infatti nè i profeti nè il Signore stesso hanno enunciato i misteri divini in forma semplice che fosse accessibile a tutti , ma hanno parlato per parabole come gli stessi apostoli hanno constatato”.
    Sarebbe molto lungo continuare ad esporre per intero il suo pensiero. Quello che ho citato è solo per ricordare a Mancuso quello che già conosce e cioè che la Sacra Scrittura parla per allegorie e in questo senso va interpretata.
    Ma questa è una difficoltà che già Sant’Agostino aveva incontrato prima della sua conversione dal manicheismo:” Il mio orgoglio rifuggiva da quella maniera di esprimersi e il mio acume non penetrava nel suo intimo (la Bibbia). Essa era tale da crescere insieme ai piccoli ma io, gonfio di superbia, mi volevo credere grande, sdegnando essere ancora bambino”.
    Vorrei arrivare subito alla conclusione ed esporre quelli che secondo me sono gli errori del pensiero teologico di Mancuso ma troppi sono i rimandi che trovo lungo il percorso per cui mi fermo qui e rimando alla prossima volta l’addentrarmi nel cuore della sua teologia.

    Egr. Signor Pandiani. la ringrazio per le spiegazioni sull’A.T. relative ai versetti che sono stati motivo di inciampo per il Prof. Mancuso. Evidentemente lei è uno specialista di cui in questo dibattito si sentiva la mancanza e della cui presenza pertanto mi rallegro. Ero rimasto solo nella difesa dell’ortodossia. Oltre a quello che lei così autorevolmente ha spiegato aggiungerò qualcosa sulla Parusia.
    Credo di aver capito che tutto l’impianto speculativo del prof. Mancuso sia partito dal tentativo di giustificare il male e la sofferenza nel mondo, problema che già aveva angustiato Sant’Agostino.
    Per farlo ha teorizzato un Dio per così dire lontano, che agisce per interposto Principio Ordinatore Impersonale cui ha demandato il governo del mondo, non privilegiando l’uomo ma agendo indifferentemente in favore di tutte le cose.
    Nel suo ragionamento si avventura in conclusioni aberranti da un punto di vista cattolico:
    1)l’ anima come surplus di un’energia non meglio definita ma comunque di tipo fisico e come tale non creata da Dio ma mutuata dai genitori;
    2) uomo che si salva indipendentemente dalla Grazia ma per esclusivo merito personale raggiunto con la “capacità di riprodurre in sè e fuori di sè la logica generale della natura physis”(già sentito da Pelagio anche se questi non parlava di natura physis) (cfr. pp. 306-307);
    3)negazione dell’opera redentrice di Cristo al punto che”… l’immortalità non viene legata a un singolo evento del passato quale la risurrezione di Cristo, nè ricondotta a un atto divino unilaterale …” (cfr. pp. 307-308)e ancora:” Non è la risurrezione di Cristo, che per prima, vince la morte, ogni volta che è morto un uomo giusto, è già stata possibile mediante le leggi divine che governano il processo cosmico”:
    4) rifiuto dei dogmi (già teorizzato dalla New-age e dalla Massoneria:
    5) Negazione del diavolo e dell’inferno (dopo aver banalizzato il peccato si nega che il commetterlo coscentemente e pervicacemente, rifiutando fino all’ultimo il pentimento e la conversione a Dio possa comportare una pena.
    Mi fermo qui reputando che ce n’è abbastanza per provare disagio nei confronti di uno studioso che si definisce cattolico e che definisce formali e non sostanziali le differenze tra il suo pensiero e quello della dottrina cattolica!!!
    Ma anche il Peccato originale e la risurrezione della carne sono per lui dottrine senza fondamento.
    Ripeto ce n’è abbastanza per provare sofferenza nei confronti di un fratello in grave crisi di fede.
    Vediamo ora quali alibi invoca a sostegno delle sue tesi.
    Quello della Sacra Scrittura e più precisamente quei passi dell’A.T. che l’amico Pandiani ha così magistralmente spiegato nel loro corretto significato e in quelli della Parusia predicata da San Paolo che a mia volta cercherò di spiegare come meglio potrò;poi l’alibi degli antichi Padri incorsi in errori che avevano una spiegazione nell’ essere loro i primi esploratori di una teologia cristiana ancora agli albori, inesplorata e pertanto privi di quell’aiuto fondamentale che è l’auctoritas della Chiesa che verrà solo successivamente con i vari Concili. Infine altro alibi il primato della sua ragione impossibilitata ad accettare le dottrine suddette.
    Come possa un cattolico, che si dice grato alle suore e ai sacerdoti dell’oratorio per avergli fatto apprendere la fondamentale consuetudine alla preghiera, essere attore di tali e tante eresie da lui definite eufemisticamente “libertà di pensiero teologico” mi risulta non solo doloroso ma anche del tutto incomprensibile.
    Vista l’ora devo rimandare la discussione sulla Parusia a domani sperando che il signor Pandiani continui a seguirci.
    Egr.. Signor Pandiani,
    solo ora leggo le precisazioni da lei fornite riguardo il battesimo. Nel ringraziarla, ancora mi complimento per la grande cultura che dimostra di possedere e che mi è di stimolo ed insegnamento.
    In attesa di riprendere l’argomento devo però fornire qualche spiegazione sulla Parusia che lei è già fin d’ora è pregato di ampliare.

    Il capitolo 15 della 1 Corinzi è estremamente denso e complesso.
    L’occasione viene posta a Paolo dall’obiezione sollevata da alcuni, presenti nella comunità, tesa a negare la risurrezione dei morti. Problema molto grave che poteva minare dalle fondamenta l’essenza stessa della fede.
    Paolo infatti aveva portato l’annuncio della risurrezione a tutte le comunità che aveva fondato.
    Si trattava di un annuncio sconvolgente che meritava, prestandosi a fraintendimenti, un ulteriore approfondimento teologico.
    Iniziamo confrontando il suo pensiero sulla risurrezione quale emerge nella 1 Tess. 4, 13-18 per giungere poi alla posizione assunta in 1 Cor. 15.
    Tra questi due scritti intercorrono circa 5 anni essendo la 1 Tessalonicesi del 50-51 e la 1 Cor. del 54-55.
    La risurrezione è trattata in maniera molto diversa nelle due lettere poichè era premura di Paolo rispondere ai bisogni concreti delle comunità cui erano indirizzati.
    Quella dei Tessalonicesi era una comunità formata da non pochi cristiani provenienti dal giudaismo, e il giudaismo concepiva la salvezza in chiave esclusivamente escatologica per cui l’attesa della fine dei tempi e della storia era il tema teologico dominante.
    Ne consegue che una volta convertiti al cristianesimo, la loro attesa si concentrò tutta sul ritorno di Cristo che avrebbe segnato l’inizio di un mondo nuovo.
    Ma nel frattempo alcuni cristiani erano morti per cui la domanda che sorgeva era se questi sarebbero stati esclusi dalla partecipazione dell’incontro con il Signore.
    Quindi:
    1) nessuno a Tessalonica aveva messo in dubbio la predicazione Paolina circa la seconda venuta del Signore;
    2) ma ci si chiedeva quale sorte sarebbe toccata a quanti erano o sarebbero morti prima della realizzazione di tale evento.
    In risposta a questo dubbio, Paolo scrive preoccupandosi di confortare la giovane comunità cristiana:” Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perchè non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato:; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con Lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti…Confortatevi dunque a vicenda con queste parole”.
    Il ritorno di Cristo è descritto con due schemi diversi: quello giudaico con l’immagine della tromba, dell’arcangelo, delle nubi ovvero con quello tipico degli scritti apocalittici sulla fine, e quello ellenistico rappresentato dal corteo, dell’arrivo del Signore e l’ascesa con Lui verso il cielo.
    Da notare che in questo capitolo Paolo non affronta il problema dei non credenti o dei nemici della fede, non parla di Giudizio e non affronta il problema dei peccati, è convinto dell’imminente ritorno del Signore verso cui con una visione cristocentrica tutto converge.
    In questa fase della riflessione paolina resta in ombra il valore proprio della risurrezione finalizzata esclusivamente alla Parusia: Cristo deve tornare per prendere con se tutti i credenti.
    A sua volta la risurrezione non è molto importante per i Tessalonicesi che serve solo per coloro che al ritorno di Cristo sono già morti.
    Il proseguimento di questa analisi lo completerò appena mi sarà possibile e cioè compatibilmente con le mie disponibilità di tempo.
    Mi scuso se per ragioni di fretta posso aver commesso qualche errore. A volte, come in questo caso, invio senza neanche rileggere quello che ho scritto.
    Invito il signor Pandiani ad aggiungere qualcosa che posso aver dimenticato o ignorato.
    Continua…

    Verità e Libertà nell’Educazione Religiosa.

    In questi giorni, che hanno visto l’ennesimo attacco all’IRC,all’ identità cattolica del popolo italiano e ad un mai dismesso antilcericalismo becero di stampo risorgimentale,ho preso tra le mani un “volumetto”,datato 1995,dal titolo:VERITA’ E LIBERTA’ NELL’EDUCAZIONE RELIGIOSA. A scriverlo, a suo tempo,un intellettuale nato,cresciuto e vivente nell’entroterra siciliana,il Prof.Luigi Di Franco,personalità di grande spessore culturale seppur poco conosciuta. L’autore,di cui mi onoro essere amico da molto tempo,già allora “profetizzava” la situazione attuale:ossia il tentativo,mai sopito, di mettere a tacere,una volta e per tutte,l’educazione religiosa,nella scuola pubblica,poichè essa è foriera di Verità e Libertà che aiutano l’uomo e l’alunno a raggiungere una pienezza di umanità. Meglio spingere le giovani generazioni a consumare spinelli,cannabis,cocaina,eroina ed alcolici di ogni genere….a vivere una vita affettivo-sessuale dissoluta,ma di Verità e Libertà meglio non parlarne. Meglio porre in essere una “educazione” nozionistica ed efficentista,ma non personalista!

    Vi sottopongo la premessa al volume,leggendo la quale,spero,vi possiate rendere conto di quanto urgente sia ritornare a parlare della necessità della educazione religiosa nella scuola che trasmette verità e libertà.

    L

    di

    Luigi Di Franco

    L1

    INTRODUZIONE

     

    “SOCIETÀ COMPI ESSA”, “POSTMODERNO” “FORMA VIVENTE”

     

    Oggi è diventato rischioso anche il solo parlare di ‘educazione’ e non è raro sentire parlare invece di “fine dell’educazione” e, quindi, di “fine della pedagogia” (1).

    Da un lato c’è il rischio di ridurre ogni riflessione pedagogica ad un gioco verbale, dall’altro di lasciare sprovvisto di ogni indicazione di senso, nella duplice accezione di “direzione” e di “significato”, per la sua vita di oggi e di domani.

    La nostra società “disordinata” mostra la crisi di ogni funzione educativa e in essa sembra venuto meno “ l‘incanto” kantiano del cielo stellato sopra di me e della legge morale in me. Da qualche decennio anche in Italia viviamo in una società “postmoderna” definita cioè dal fatto di venire “dopo” l’età moderna, di cui si denunciano i limiti e le illusioni, piuttosto che dalla fiducia in determinati valori o prospettive future.

    Caratteristica delle società postmoderne è la tendenza allo sviluppo e alla crescita di un progetto, fondato più su una “visione del mondo” e della vita che su precise e fondate istanze morali.

    Eppure resta vero, proprio in questo contesto, che nessuno dei moderni critici della religione e della morale religiosa ha dimostrato in maniera convincente e definitiva che la fede in Dio è soltanto una proiezione dell’uomo (Feuerbach), o è soltanto oppio del popolo (Marx), o sia soltanto un sentimento dei deboli (Nietzsche), oppure è solo una regressione allo stato infantile (Freud).

    In crisi radicale è entrata, infatti, la società borghese moderna con la sua fiducia nella ragione e con la sua fede nel progresso.

    “Postmoderno” è allora una chiave interpretativa che può comprendere in senso lato tutto ciò che distingue il nostro presente dalle esperienze della modernità ormai superata. Così le nuove modalità ristrutturanti del “postmoderno” se per un verso aprono nuovi orizzonti di crescita, di responsabilità, di speranza, per un altro verso, socialmente più inglobante, ci lasciano in balia dei condizionamenti sociali dominanti, specie attraverso i mass media, indirizzando verso un’omologazione consumistica e pragmatistica.

    Non è che vengano negati i grandi principi, ma essi vengono relegati su uno sfondo poco rilevante per la realtà quotidiana, dove invece conta realmente solo ciò che si può manipolare. In questo contesto la religione ha un senso solo in quello scenario di cui parla Garelli (2) che è il mondo e l’uomo.

    Si ha una specie di spaccatura dell’identità di ciascuno fra un “paladino” della fede, che con I. Calvino potremmo dire “inesistente”, il quale proclama grandi principi, civili-ecologici-religiosi, e un “barone rampante” dei bisogni, dei desideri e dei consumi, per nulla disposto a modificare il modello di vita praticato, pure del tutto incoerente rispetto ai principi professati.

    Nelle “Post-Modernità” non vi è più spazio per una verità che vada oltre l’ambito del pragmatico e della metodologia scientifica.

    Emerge solo un “pensiero debole” che si limita a spiegare o interpretare i linguaggi non più intesi come “struttura della ragione”, ed “espressione della verità” ma solo come accadimenti storicamente qualificati.

    Se il pensiero moderno ci aveva espropriato delle coordinate spaziali del mondo, lasciandoci “senza casa”, il pensiero debole del postmoderno tende ad espropriare anche delle coordinate temporali, cioè di quella “casa” che è esperienza dell’uomo, intesa come storia, sia nel senso idealistico-hegeliano che in quello materialistico-marxiano.

    Nel tempo postmoderno si spegne pure la fede nelle ideologie divenute anche scientificamente incredibili, da quando il sapere appare retto dalle esigenze dell’informatica che deludono ogni domanda di fondamento della conoscenza.

    Viene meno l’ideologia del progresso ma solo in quanto sostituita dall’obiettivo della massima funzionalità. La complessità della società attuale cerca per sè una legittimazione solo “performatica”, basata cioè soltanto sull’efficienza, sul rapporto ottimale fra input e output. Così ogni referente “metanarrativo”, o “visione del mondo”, è reputato vano ed inutile e l’incredulità verso ogni legittimazione metanarrativa diventa la caratteristica della complessità di una società che liquida nella paradossale eliminazione di ogni funzione legittimante la condizione stessa dell’uomod’oggi, che nonostante un’enorme acquisizione di sapere conosce sempre meno se stesso.

    Mentre le conoscenze tecniche si allargano diminuisce l’autonomia dell’uomo come individuo e la sua indipendenza di giudizio come persona.

    L’uscita dalla modernità si annuncia come un abbandono di tutti i valori. “Dopo” Nietzsche, “dopo” la volontà di potenza, non è più possibile proporre valori:ogni valore si ridurrebbe infatti in quest’ottica a pura “volontà di potenza”. Ne deriva un crescente “sovraccarico funzionale” dell’individuo, per il quale la “complessità” circostante diventa sempre più simile, come ci dice Horkheimer, ad una “macchina che ha gettato a terra il conducente e corre cieca nello spazio”(3).

    Eppure l’attuale stagione dell’uomo più che mai gravita intorno alla questione della sua autonomia e fondazione, al problema cioè di trovare un “centro d’unità” pur nel complesso articolarsi delle problematiche teoriche, pratiche ed operative.Da qui l’esigenza di inscrivere la ricerca pedagogica nel quadro aperto e non chiuso di una filosofia dell’educazione e di una teologia pedagogica che evidenziano nell’atto della “visione” la struttura teoretica fondamentale della conoscenza umana. L’uomo, infatti, è una “forma vivente”, li è possibile individuare il volto autentico ed integrale delle determinazioni essenziali della umana creatura. “Vivente forma d’essere, in quanto rappresenta la struttura della sua concreta esistenza. Vivente forma di valore, in quanto esprime come quest’ente dev’essere, per essere pienamente sè stesso e perciò conforme al proprio valore” (4).

    Per questo il concetto di “Formazione” (Bildung) è irriducibile per chi voglia percorrere il processo educativo avendo sempre presente, proprio con via fenomenologica, l’atto vivente della conoscenza umana che è dinamica relazionalità ontologica dell’uomo all’essere.

    Nell’uomo, percezione, azione e divenire, si attuano in una dinamica popolare: dall’esterno all’interno, dall’interno all’esterno. Questa vivente iniziativa dello spirito umano è il fattore portante della strutturazione (della forma vivente umana. Ed essendo questa dinamica “polare” – esterno/interno – un progredire e un superamento, si fa “polarità fra regno di natura e dimensione spirituale. Lo spirito in quanto tale trascende l’orizzonte della natura. In quanto persona, esso possiede sè stesso nella coscienza, nella libertà e nella azione” (5).

    Lo spirito che è in sè e per sè esce “nella” e “con” la natura da sè per a sè ritornare, divenendo, così, intimo alla natura in una dinamica nuova: quella della libertà. Ecco perché “la forma vivente dell’uomo … trova il proprio ultimo fattore portante nell’iniziativa dello spirito: conoscenza, libertà e azione” (6). Il “valore” dell’uomo è espresso da quell’originalità irripetibile che è data nell’essenza indicata dal “nome”, sigillo dello spirito personale.

    L’essenza dell’uomo “può essere nominata … poiché dal momento della sua fondazione e creazione,ontologicamente cioè, riceve un nome ed è chiamata.

    Lo spirito è creato come singolo; in quanto tale, riceve il suo nome; da Dio” (7).

    Ecco perché è da sottolineare l’importanza decisiva della “formazione” per il futuro di una civiltà dell’uomo che sia libero e realizzato nella vita dell’amore.

    Ogni interpretazione non riduttiva dell’umano, né naturalistica né storicistica, non può non portare alla percezione dell’immagine integrale dell’essenza umana e della sua dimensione etico-religiosa. La riflessione su questo tema, svolta con e tramite un percorso meta-didattico, è l’oggetto del presente saggio.

    Ciò oggi pare più che mai urgente per contribuire ad adeguare l’esperienza del fenomeno pedagogico alla “pienezza” di quella forma vivente che è nell’uomo di ogni tempo, la libertà.

    Quando si considerano processi didattici e problematiche educative spesso ci si dimentica di colui che dovrebbe essere il vero protagonista nell’educazione: l’alunno e la sua formazione. Cioè la “forma” vivente che è la persona, ogni persona, che cerca di incontrare il mondo ed il suo senso.

    Riflettere sul perché non si dia ai vari protagonisti del processo educativo e scolastico la possibilità di un credibile intervento che non vada oltre il mero contributo socio-politico è un segno di come senza una “veritativa fondazione” i vari curricula educativi siano destinati solo al “flatus vocis”.

    L’educazione religiosa non è “indottrinamento ideologico”; infatti sia dallo studio delle fonti curricolari (antropologiche, epistemologiche, psicopedagogiche, sociali e teologiche), sia dallo studio degli obiettivi e delle finalità dell’educazione e sia dalle funzioni (dell’insegnamento di Religione si configura l’identità educativo-culturale dell’area curricolare di Religione. Questa perciò si qualifica in quanto fenomeno e patrimonio storico-culturale e soprattutto in quanto sistema metanarrativo esplicitante e formante universale “forma vivente” dell’uomo. Occorrono, allora, “percorsi di fondazione” per contribuire a far chiarezza sulla gestione dell’area educativa religiosa. In particolare occorre il coinvolgimento, oltre che di alunni e genitori, soprattutto degli educatori perché possano intervenire nella completa formazione dei propri educandi. Pertanto le pagine che seguono a costoro, in nodo particolare, sono dirette. E’ alla processualità educativa della persona ed ad una filosofia e teologia dell’educazione che la persona realizza nella riflessione, che si è inteso ancorare l’argomento del presente saggio.

    La situazione dell’uomo mostra da un lato che ‘l’umanità è più di una struttura intellettuale: essa è una realtà personale, che invoca una connessione suprema, un ‘appartenenza suprema” (8).

    Dall’altro il bisogno di verità che è nell’uomo non è una domanda ma una risposta, perché il chiamato è l’uomo, “Dio è in cerca dell’uomo, e la vita è una cosa che esige una risposta … L’essere dell’uomo è oggetto (Iella conoscenza e della sollecitudine divina” (9).

    Ecco perché, prima ancora di ogni valutazione metodologica, dimensione religiosa e dimensione culturale non sono “alternative” ma anzi strettamente complementari” nel realizzarsi dell’educazione religiosa della persona.

    La possibilità della fede in Dio anche nella cultura postmoderna ha il volto dell’autentico ruolo liberante per l’uomo. La fede si mostra così forte che orienta il futuro, che dilata la fiducia nella vita e nella solidarietà promuovendo lo sviluppo spirituale dell’uomo proprio perché esperienza di liberazione della persona nelle varie circostanze della sua vita.

    La “visione del mondo” non sorge nell’uomo come autonoma e soggettiva posizione ma è già dinanzi al sè un orizzonte, un paesaggio e un contesto entro cui realizzarsi.

    Educare religiosamente significa, allora, aiutare l’educando a scoprire quell’orizzonte e quella circostanza in cui la sua forma continuamente si realizza in pieno e per sempre.

    E’ lo spazio del significato il luogo della cultura religiosa e questo spazio si vede e si vive solo grazie ad un’educazione. Infatti “l’esistenza umana nel suo complesso non è strutturata in modo che in essa siano rapportate tra loro entità già complete nell’essere [.,..]. Gli uomini sono invece coinvolti nel divenire; sono quindi entità che permanentemente determinano se stesse” (10).

    Solo corrispondendo alla chiamata e uscendo “fuori da sè” l’uomo forma se stesso nella verità e con la verità. Ed a questo l’educazione religiosa deve portare. Così tutta la storia biblica non esprime solo la misericordia di Dio ma anche il suo impegno a favore della creatura documentando l’interesse di Dio per l’uomo. E questi, “immagine di Dio”, è in grado di entrare in rapporto con il suo Creatore e con il mondo delle cose e degli uomini perché creatura capace di trascendere nella relazionalità il proprio io. Vocazione dell’uomo è vivere in relazione vitale con quella  “Forma” che oltrepassando la sua singola soggettività si dispiega nella molteplice realtà senza però mai coincidere con essa. Quando “la varietà ed il mutare delle opinioni sulla verità, l’adesione a differenti dottrine ed anche di apparenza contraddittoria invita all’incredulità” (11), ciò accade perché non siamo più in grado di entrare in rapporto con i significati veritativi della realtà.

    Al contrario, “il presupposto minimo di ogni storia è che il soggetto di cui parlo possa essere compreso. Ebbene: non lo si può comprendere sino a che non si dispone di qualche dimensione di verità” (12).

    Pertanto la consapevolezza della verità è il primo dato da cui partire. E in particolare come già ha indicato Ortega y Gasset “per gli antichi, realtà, essere, significava “cosa”; per i moderni, essere significava “interiorità, soggettività”; per noi essere significa “vivere” – per tanto è intima relazione con sè e cori le cose” (13). Per questo l’uomo può vivere la propria forma vivente solo incontrando quel mondo che comunica la forma vivente che è il “fondamento”. Indicare questa scoperta e vivere con certezza  questa decisione, che fa entrare nella sicura verità è il compito permanente dell’educazione religiosa.

     (1) H. GIESECKE, La fine dell’educazione, Anicia, Roma, 1990.

    (2) Vedi F. GARELLI, La religione dello scenario, Il Mulino, Bologna, 1986.

    (3)M. HORKEIMER. Eclisse della ragione, Einaudi, Torino, 1969, p.113.

    (4) R. GUARDINI, Fondazione della teoria pedagogica, in, IDEM, Persona e

    libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia, 1987. p. 69.

    (5) IBIDEM, p. 71.

    (6) IBIDEM, p. 71.

    (7) IBIDEM, p. 72.

    8) A. J. HESCHEL, Chi è L’uomo?, Rusconi, Milano, 1976, p. 103

    (9) IBIDEM, pp. 104-105.

    (10) R. GUARDINI, Fede – Religione – Esperienza. Saggi Teologici, Morcelliana, Brescia, 1984, p. 200

    (11) J.ORTEGA Y GASSET,Que es filosofia? Ed.Revista de Occidente en Alianza Editorial Madrid,1993,p.15.

    (12) IBIDEM, p. 21.

    (13 )IBIDEM, p. 176.

    Luigi Di Franco,Verità e Libertà nell’Educazione Religiosa,ed.Il Lunario,1995.

    Una sentenza discutibile….

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    La sentenza del TAR del Lazio ha suscitato notevole interesse, dibattiti e varie prese di posizione. Non tutte ci paiono aiutare a fare chiarezza: spesso gli interventi sono stati il pretesto per riaffermare questioni ideologiche che non fanno i conti con la realtà dei fatti: ci impressiona che si voglia continuamente fare riferimento alla Costituzione e alle leggi solo a senso unico, senza leggere le norme nella loro integralità. Per questo apprezziamo e pubblichiamo questo intervento di Stefano Spinelli, Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici, Sezione locale Forlì-Cesena e Cassazionista, Dottore di Ricerca in Diritto Costituzionale, perché aiuta a fare chiarezza. Nessuno vuole discutere le idee personali di alcuna persona, ma ci sembra doveroso, soprattutto per chi vuole applicare le leggi, che il senso delle stesse leggi non venga stravolto o manipolato.

    P.S.: questa vicenda mi pare il banco di prova per la realizzazione di quella «democrazia sostanziale» che sola può garantire, in questo tempo di confusione e confronto, una convivenza civile libera e solidale. Siamo francamente stufi di tante professioni di «laicità» che si risolvono in statalismo di stampo ottocentesco. Suvvia, aggiorniamoci un po’, e impariamo a guardare alla realtà senza paraocchi ideologici! 

    Vi invitiamo a leggere e a diffondere questo straordinario intervento

    L’insegnante dimezzato

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     Tratto da: http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=17&id_n=15754