Cinisi:carnevale 2009!

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Sicilia:neve,carnevale e mandorlo in fiore!

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Quest’inverno,in Sicilia,è caduta tanta di quella pioggia da allontanare,almeno per il momento,lo spauracchio di una desertificazione dell’isola. Negli anni scorsi l’eccessiva siccità,aveva fatto pensare alla Sicilia come una probabile appendice del Sahara.Le tante pioggie hanno riempito gli invasi e causato gravi danni dovuti ad un sempre maggiore dissesto idro-geologico del territorio isolano per molto tempo strapazzato da politiche indegne dello sviluppo e della salvaguardia del territorio.

A coronare tutto ciò una spettacolare nevicata che ha imbiancato persino la città di Palermo,oltre che le zone collinari e montuose dell’isola. Tanta neve che,se da un lato ha dato vita a paesaggi davvero insoliti ed inusuali,dall’altroimg_1549 ha creato non pochi disagi e tanto freddo come non se ne sentiva da molti inverni. Un clima rigido,strade chiuse al transito,incidenti e,purtroppo,anche parecchi decessi causati dal maltempo e da incidenti stradali. La neve,dopo aver creato le condizioni per tante escursioni fuori porta e aver dato la possibilità di essere toccata,per la prima volta, da tanti bambini che in essa si sono tuffati,ad oggi stenta ancora a sciogliersi.

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 Frattanto,pur tra le tante ristrettezze economiche,anche in Sicilia,impazza il Carnevale di Acireale,Sciacca,Termini Imerese (cui si riferiscono le foto) e in tanti altri piccolo centri:voglia di evadere,seppur per poche ore,dalla vita quotidiana e dai tanti e annosi problemi che l’isola vive:disoccupazione,mafia,clandestini che arrivano ecc.ecc.

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La primavera,però, è alle porte. L’annuncia la bellezza del mandorlo in fiore e dei tanti prati verdi che incominciano a far emergere tutto ciò che è stato seminato:grano,fieno,fave,piselli ecc.ecc.

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Infine un bellissimo tramonto ammanta lo spettacolare golfo di Castellammare (Tp).

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Quarto rapporto sulla secolarizzazione….

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da: Critica liberale, settembre-novembre 2008, n. 155-157Quarto rapporto sulla secolarizzazione

Critica liberale 
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Neve,neve e ancora neve…..!!!

Partinico(14-02-09):innevata!!!

Ernesto Ruffini…..

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Ernesto Ruffini (1888-1967), arcivescovo di Palermo dal 1946 alla morte, è una delle maggiori e più complesse figure del cattolicesimo italiano del Novecento. Non è facile intenderla, anche a motivo degli stereotipi interpretativi che haimo preteso di fissarla in facifi e affrettati giudizi. Del resto la complessità di Ruffini deriva, oltre che dalla sua vigorosa personalità, dalla diversità delle stagioni politiche che attraversò — l’Italia liberale, il fascismo, la repubblica — e dei contesti ecclesiastici in cui si formò e poi agì: la formazione al tempo di Pio X alla scuola di mons. Tarozzi, l’insegnamento e la guida dell’Università Lateranense, la stretta collaborazione con Pio Xl nella riforma degli studi teologici, la responsabilità di arcivescovo di Palermo e la partecipazione al Concilio Vaticano II.
Sulla base di un’amplissima documentazione, l’autore di questo volume ci restituisce lo spessore umano, culturale e spirituale della sua figura e della sua azione. Dalle pagine del libro emerge la personalità robusta di un ecclesiastico che, sulla base della sua cultura “intransigente”, si confronta dinamicamente con il mondo moderno e riesce, nella diflìcile situazione della Sicilia postbellica, a promuovere un cattolicesimo attivamente attento ai bisogni dei più poveri. Come scrive Andrea Riccarcli nella Presentazione del volume, Ruflini senti di interpretare il ruolo della Sicilia cattolica su varie frontiere. E, anche per questo, il libro risulta di grande interesse non solo per lo storico della Chiesa ma anche per lo storico politico e sociale dell’Italia e della Sicilia in età contemporanea.
Angelo Romano è docente di storia e di metodoloia nella Pontificia Università Urbaniana di Roma. liene corsi di storia della Chiesa anche nella Pontificia Facoltà Teologmi di Sicilia in Palermo. Si occupa particolarmente di storia della Chiesa in età contemporanea.

Angelo Romano,Ernesto Ruffini Cardinale arcivescovo di Palermo (1946-1967).Presentazione di Andrea Riccardi. Studi del Centro “A.Cammarata”,46,Salvatore Sciascia Editore,2002.

Ci alzeremo…..

 

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Ci alzeremo in piedi ogni volta che

la vita umana viene minacciata…

 

Ci alzeremo ogni volta che

 la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita

 

Ci alzeremo e proclameremo che

nessuno ha l’autorità di distruggere la vita non nata…

 

Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso

o solo come un mezzo per soddisfare un’emozione

e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio…

 

Ci alzeremo quando l’istituzione del matrimonio

viene abbandonata all’egoismo umano…

e affermeremo l’indissolubilità del vincolo coniugale..

 

Ci alzeremo quando il valore della famiglia

è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche…

e riaffermeremo che la famiglia è necessaria

non solo per il bene dell’individuo

ma anche per quello della società…

 

Ci alzeremo quando la libertà

viene usata per dominare i deboli,

per dissipare le risorse naturali e l’energia

e per negare i bisogni fondamentali alle persone

e reclameremo giustizia…

 

Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti

vengono abbandonati in solitudine

e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto

GIOVANNI PAOLO II

Caso Englaro:tre opinioni a confronto.

IL CASO ENGLARO
 

 

La natura e il suo corso

di Ernesto Galli Della Loggia

 

 

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E così alla fine il governo è intervenuto in prima persona con un provvedimento d’urgenza nella vicenda di Eluana Englaro. È giusto comprenderne le indubbie motivazioni di carattere umanitario, ma non per questo si può passare sotto silenzio il vulnus che il governo stesso, se questa sua decisione avesse avuto corso, avrebbe inferto alle regole dello Stato costituzionale di diritto. Un cui principio fondamentale, come fin dall’inizio ha giustamente ricordato il presidente Napolitano, è che l’esecutivo non può emanare decreti con lo scopo di modificare o rendere nullo quanto deciso in via definitiva da un tribunale.

E se Napolitano ha mantenuto questa sua opposizione fino al punto di rifiutarsi di controfirmare il decreto uscito dal Consiglio dei ministri, non si può che apprezzare la coerenza e la fermezza del capo dello Stato. Il che non vuole affatto dire però, si badi bene, che ciò che in questo caso i giudici hanno stabilito non lasci nell’opinione pubblica (e certamente, e fortunatamente, non solo in quella cattolica) profonde e giustificatissime perplessità. Le quali, data la materia di cui si tratta, possono arrivare talvolta a prendere perfino la forma di un vero sentimento di rivolta morale. A suscitare forti dubbi è proprio il fondamento stesso della decisione finale presa dalla magistratura e cioè l’asserita volontà (ricostruita ex post su base totalmente indiziaria; ripeto: totalmente indiziaria) di Eluana; la quale, si sostiene, piuttosto che vivere nelle condizioni in cui da diciotto anni le è toccato di vivere, avrebbe certamente preferito morire.

L’altissima opinabilità di questa ricostruzione è dimostrata dal semplice fatto che in precedenza per ben due volte (Tribunale di Lecco nel 2005, Corte d’appello di Milano nel 2006) le conclusioni dei giudici erano andate in direzione opposta a quella successiva: allora, infatti, essi sostennero che non esistevano prove vere e affidabili per stabilire la reale volontà della ragazza, intesa come «personale, consapevole e attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa». Poi la sentenza terremoto della Corte di cassazione; prove simili non furono più ritenute necessarie: per decidere della vita e della morte di Eluana, stabiliscono i giudici, basta adesso tener conto «della sua personalità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche» (si sta parlando, lo si ricordi sempre, di una persona che all’età dell’incidente aveva diciotto anni).

Ed è precisamente sulla base di questa direttiva emanata dai giudici supremi che la Corte d’appello di Milano cambia nel 2008 il proprio orientamento e quelli che prima erano indizi generici si tramutano in prove della personalità di Eluana «caratterizzata da un forte senso d’indipendenza, intolleranza delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni ». Dunque si proceda pure alla sua eliminazione. Mi sembra appropriato il commento di un giurista di vaglia, Lorenzo D’Avack, sull’Avvenire di giovedì: «Giovani liberi, tendenzialmente anticonformisti, un poco anarchici, dinamici, attivi, con qualche entusiasmo per lo sport, diventano così per la Corte i soggetti ideali per un presunto dissenso, ora per allora, verso terapie di sostegno vitale ». C’è o non c’è, mi chiedo, motivo di qualche perplessità? Tanto più che contemporaneamente, come fa notare sempre d’Avack, la stessa Cassazione, in un caso di rifiuto delle cure da parte di un Testimone di Geova, stabilisce, invece, che a tale rifiuto i medici devono sì ottemperare, ma solo se esso è contenuto «in una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà».

Ma guarda un po’! Torno a chiedermi: c’è o non c’è motivo di qualche perplessità, forse anzi più d’una? Detto ciò della ricostruzione della volontà di Eluana — che pure, non lo si dimentichi, allo stato attuale è premessa assolutamente dirimente per qualunque decisione da prendere—resta un’ultima questione, quella del «lasciar fare alla natura il suo corso», come si dice da parte di chi pensa che si possa tranquillamente far morire la giovane. Un’ultima questione, cioè un’ultima domanda: davvero l’espressione «lasciar fare alla natura il suo corso» può arrivare a significare il divieto di idratazione e di alimentazione di un corpo umano? Davvero «far fare alla natura il suo corso» può voler dire far spegnere una persona per mancanza d’acqua? La coscienza di ognuno di noi risponda come può e come sa. Ma per tutto questo tempo, in realtà, il corpo di Eluana Englaro non ha ricevuto solo liquidi e alimenti; esso è stato anche costantemente sottoposto ad una penetrante protezione farmacologica senza la quale assai probabilmente non avrebbe mai potuto sopravvivere così a lungo.

È proprio da qui si potrebbe forse partire per immaginare quale soluzione dare in futuro ad altri casi analoghi. Una soluzione, questa volta legislativa, che proprio il decreto di ieri del governo mette in modo ultimativo all’ordine del giorno dei lavori parlamentari, e che potrebbe fondarsi sul concetto di divieto di accanimento terapeutico, ormai pacificamente accolto nelle nostre leggi. Tale divieto, com’ è noto, si sostanzia in un obbligo di non fare, di non procedere alla somministrazioni di cure allorché è ragionevole pensare che esse non possano in alcun modo servire alla guarigione o a qualche miglioramento significativo delle condizioni del paziente; limitando in questi casi l’opera del medico solo al sollievo dal dolore. Si tratta peraltro—ed è questo un aspetto decisivo—di un obbligo/ divieto che per valere non ha bisogno di essere convalidato da alcuna decisione particolare del malato, dal momento che fa parte del codice deontologico di tutti coloro che esercitano la professione medica.

Ebbene, non riesco a vedere una ragione valida per cui nel divieto di accanimento ora detto non possa essere fatto rientrare la non somministrazione di farmaci a chi, come è il caso di Eluana Englaro, si trova da tempo in condizioni di stato vegetativo persistente al quale quelle medicine stesse non possono arrecare alcun giovamento ma al massimo assicurarne l’indefinita prosecuzione. Non produrre la morte di alcuno negandogli l’idratazione e l’alimentazione. Togliere invece ogni medicamento. Questo sì mi sembrerebbe un vero «lasciar fare alla natura il suo corso»: rimettendosi al caso o ai disegni imperscrutabili da cui dipendono le nostre vite.

Corriere della Sera 07 febbraio 2009

 

«E’ un omicidio, quel decreto è un dovere»   
«Lo Stato ha il diritto di proteggere la vita di ogni suo cittadino» 
Intervista al cardinale Camillo Ruini

di Aldo Cazzullo

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 Cardinal Ruini, quali sono i suoi sentimenti in queste ore decisive per la sorte di Eluana Englaro?
«Sofferenza. Non ho mai conosciuto Eluana, ma prego per lei ogni giorno. Preoccupazione. Speranza. E impegno a fare tutto il possibile. Innanzitutto, per far sapere quali sono le sue reali condizioni: chi è informato bene, di solito non ha più dubbi. È stato importante che la suora che l’ha assistita sia andata in tv a raccontare la sua esperienza con Eluana. Non ha senso attribuire all’Eluana di oggi, dopo quel tragico incidente, le aspirazioni e i desideri di prima. Eluana è stata sfortunata. Ha perduto molto. Ora ha bisogno di poco, è protesa verso quel poco, con poco può vivere senza soffrire. Non colpiamola una seconda volta. Non togliamole anche questo poco».
Lasciarla morire equivale a un omicidio?
«Lasciarla morire, o più esattamente — per chiamare le cose con il loro nome — farla morire di fame e di sete, è oggettivamente, al di là delle intenzioni di chi vuole questo, l’uccisione di un essere umano. Un omicidio. Purtroppo inferto in maniera terribile, senza che nessuno possa essere certo che Eluana non soffrirà».

È giusto che il governo sia intervenuto con un decreto? E il capo dello Stato avrebbe dovuto firmarlo?
«Non ho ancora avuto modo di conoscere il testo del decreto del governo e della lettera del capo dello Stato, ma conosco le obiezioni secondo le quali questo decreto sarebbe una prevaricazione nei rapporti tra i poteri dello Stato. Di prevaricazioni però in questa vicenda se ne sono già fatte molte. A cominciare dai giudici che hanno applicato una legge che non esiste e che, soprattutto, non hanno tenuto conto della situazione reale di Eluana. Ad ogni modo, ritengo che lo Stato abbia il diritto, e aggiungerei il dovere, di proteggere la vita di ogni suo cittadino».

Una legge sul testamento biologico ora è necessaria? E come andrebbe impostata?
«Preferisco parlare di legge sulla fine della vita. La parola testamento implica infatti che si disponga di un oggetto, ma la vita non è un oggetto, non è un appartamento o una somma di denaro. La legge dovrebbe evitare sia l’eutanasia sia l’accanimento terapeutico. Ma è ovvio che la nutrizione e l’idratazione non possono essere lasciate alla decisione dei singoli, perché toglierle significa provocare la morte. Se eutanasia significa morte “dolce”, “buona”, la fine di Eluana sarebbe peggio dell’eutanasia: Eluana morirebbe di fame e di sete. La sua sarebbe una morte pessima».

Il padre, Beppino Englaro, ha avuto parole dure su quella che considera un’ingerenza della Chiesa. Ha torto?
«Il rispetto è dovuto a tutti, ma il rispetto massimo è dovuto al signor Englaro, che vive questa terribile esperienza di persona. Nessuno di noi può sindacare su come reagiscono i genitori toccati così profondamente dal dolore. Ho conosciuto genitori che si ribellavano di fronte a quella che ritenevano un’ingiustizia divina, e altri che la accettavano. Ricorderò sempre il giorno in cui fui testimone di un incidente stradale a Regnano, sulle colline di Reggio Emilia. Stavo guidando. Davanti a me, un giovane cadde dalla moto. Non andava forte, ma c’era ghiaia sulla strada e perse il controllo, la moto gli cadde addosso. Mi fermai, gli diedi l’estrema unzione, ma era già morto. Gli abitanti del paese mi dissero: la madre è malata di cuore, vada lei a darle la notizia. Mi feci carico del duro compito. Quella donna, una contadina, rimase a lungo in silenzio. Poi mi guardò e disse: “La Madonna ha sofferto di più”…». (Il cardinale si interrompe, commosso).

Parlavamo dell’ingerenza.
«Non ingerenza, ma adempimento della missione della Chiesa. Come ha detto con una formula molto efficace Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptor hominis, “sulla via che conduce da Cristo all’uomo la Chiesa non può essere fermata da nessuno”. Ogni essere umano è degno di rispetto e amore; tanto più gli innocenti, gli inconsapevoli, i colpiti dal destino».

L’ha colpita il gesto delle suore che erano pronte ad accogliere Eluana e occuparsi di lei negli anni a venire?
«Mi ha toccato profondamente, ma non mi ha sorpreso. Ho avuto molte esperienze in merito. Penso alle suore delle case di carità di Reggio Emilia, che ora sono anche qui a Roma. Donne che accolgono persone in condizioni gravissime e le accudiscono con dedizione totale e con gioia. E molti sono i volontari che le affiancano».

Quali casi ha conosciuto di persona?
«Ad esempio, famiglie che hanno figli cerebrolesi dalla nascita, incoscienti eppure non indifferenti, perché in modo istintivo percepiscono le correnti di affetto. Ci sono genitori che rifiutano figli così, ma ci sono altri che li accettano. La vita di quei ragazzi, che talora ho visto diventare adulti, non è meno preziosa. Non posso accettare l’idea che la loro vita valga meno della mia o di qualsiasi altra».

Quali sensibilità ha colto sulla vicenda nell’opinione pubblica, credente o non credente? I sondaggi indicano che in molti sostengono le ragioni di Beppino Englaro.
«Io non ho fatto sondaggi, ma ho discusso in varie occasioni con la gente comune. All’inizio l’interesse era minore, e in tanti consideravano giusto che fosse il padre a decidere. Ma non appena vengono informati sulle reali condizioni di Eluana, in pochissimi restano favorevoli a lasciarla morire. Uno dei miei interlocutori si è proprio arrabbiato: “Ma perché i giornali non scrivono queste cose?”».

E lei come ha trovato i giornali?
«In buona parte schierati. Mentre le tv lo sono state meno, hanno dato spazio anche alle nostre ragioni, come già accadde per il referendum sulla procreazione assistita».

Diceva delle sue discussioni con la gente comune.
«Il fattore che la orienta non è tanto quello religioso. Non ci sono i credenti di qua e i non credenti di là. L’impressione è che ci siano piuttosto gli informati e i non informati. L’esperienza mi ha insegnato inoltre che i malati, per quanto gravi, sperano sempre di continuare a vivere».

In un’intervista a Giacomo Galeazzi della «Stampa», l’arcivescovo Casale, schierandosi con papà Englaro, dice: «Anche Giovanni Paolo II ha richiesto di non insistere con interventi terapeutici inutili».
«Penso di aver conosciuto bene Giovanni Paolo II, e ho vissuto quei giorni in stretto contatto con il suo segretario Don Stanislao Dziwisz, mio carissimo amico. So bene dunque il senso delle ultime parole del Papa, “lasciatemi andare”. Quando non c’è più niente da fare, il credente sa che, con la morte, per lui la vita non finisce, ma in un certo senso comincia. Sia credenti sia non credenti possono dire “lasciatemi andare” in modo eticamente legittimo, ma per un credente queste parole indicano anche una speranza, significano “lasciatemi tornare alla casa del Padre”. Chi ha un’esperienza anche piccola del modo in cui Giovanni Paolo II viveva il suo rapporto con Dio non ha dubbi al riguardo».

Lei era capo dei vescovi quando si visse il dramma di Piergiorgio Welby. Diverso da quello di Eluana perché il malato era cosciente e aveva chiesto di morire. Ripensandoci oggi, non era possibile un atteggiamento diverso da parte della Chiesa? Ad esempio concedere i funerali?
«È vero, quel caso era molto diverso. Non solo Welby era cosciente; era molto più dipendente dalla tecnologia per continuare a vivere. Nel mezzo della prova, lui scelse di porre fine alla sua vita. Una scelta che Eluana non ha mai fatto. Quanto alla mia decisione, la Chiesa non può consentire — tanto più quando un caso ha rilevanza pubblica — che si rivendichi nello stesso tempo l’appartenenza al cattolicesimo e l’autonomia nel decidere sulla propria vita. Non si può dire: “Io sono cattolico, e decido io”».

Può un cattolico, tanto più un vescovo, negare la Shoah? È una semplice opinione personale in contrasto con quanto sostiene la Chiesa, o è un dato incompatibile con la presenza della Chiesa stessa?
«A questa domanda ha già risposto la Santa Sede, con la nota della Segreteria di Stato pubblicata sull’Osservatore Romano secondo la quale, per essere ammesso alle funzioni episcopali, Williamson deve “prendere in modo inequivocabile e pubblico le distanze dalla sua posizione sulla Shoah”. Se non lo fa, non può fare il vescovo».

Come giudica l’invito del cancelliere Angela Merkel al Papa a fare chiarezza sul negazionismo dei lefebvriani?
«Quanto meno superfluo. Basta ricordare o rileggere quanto disse Benedetto XVI ad Auschwitz, domenica 28 maggio 2006, con parole che toccarono profondamente tutti i presenti, me compreso».

La vicenda Englaro le pare collegata alla denuncia del vuoto di valori e del relativismo etico, temi-chiave del pontificato di Ratzinger?
«Uno dei caratteri del magistero di Benedetto XVI e della teologia di Joseph Ratzinger è la denuncia del relativismo etico o, per usare la formula da lui coniata, della dittatura del relativismo. In Italia, e ancor più in altri Paesi dell’Occidente, esiste un’emergenza educativa, che rappresenta un’ipoteca sul nostro futuro e ha le sue radici nella mentalità diffusa, secondo la quale non esistono più punti di riferimento che precedano e possano illuminare le nostre scelte. Quando non siamo più d’accordo su cos’è l’uomo, quando l’uomo viene ricondotto totalmente ed esclusivamente alla natura, salta ogni differenza qualitativa, viene meno lo specifico umano, cadono o cambiano radicalmente i parametri educativi. Si aprono così le porte al nichilismo, che nasce, come ha spiegato bene il suo primo sostenitore, Federico Nietzsche, con la “morte di Dio”. La Chiesa italiana è pronta a un grande sforzo sull’educazione, collaborando con altri soggetti per il futuro del Paese, e pubblicherà in merito un “rapporto-proposta”. Stiamo lavorando inoltre ad un grande evento internazionale per il dicembre prossimo a Roma, dove arriveranno alcuni tra i più importanti studiosi del mondo a confrontarsi sul tema di Dio e del suo significato per la nostra vita, anche in rapporto con la scienza». 

Corriere della sera 07 febbraio 2009

 

 Giovanni Reale: «Farla sopravvivere è andare contro natura»

Il filosofo cattolico: la Chiesa e il governo politicizzano una cosa metapolitica

di Daniela Monti

 

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«Ma ancora non c’è nulla di deciso, vero?», chiede Giovanni Reale. «Il decreto del governo è un errore, si oppone all’idea di libertà su cui è radicato il concetto occidentale dell’uomo. E lo dico da cattolico». «Napolitano ha fatto il suo dovere di Presidente, ha richiamato l’attenzione sulla sostanza della Costituzione. Un uomo saggio. Almeno uno».

«Sopravvivenza a prezzo di vita». Quando entra nel merito della vicenda di Eluana Englaro, cita il francese Jean Baudrillard. Da 17 anni, per Reale, Eluana Englaro sopravvive a prezzo della vita. «La tesi portata avanti da molti uomini della Chiesa, e ora anche del governo, è sbagliata e va corretta — dice il filosofo —. Nel caso di Eluana vedo un abuso da parte di una civiltà tecnologica totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi da volersi sostituire alla natura. Si è perduta la saggezza della giusta misura. La Chiesa, e il governo insieme a lei, sono vittime di questo paradigma culturale dominante». Racconta di sua madre. «Era all’ospedale con il cancro, i medici volevano riempirla di tubi. “Potremmo prolungarle la vita di qualche mese”, dicevano. Io ero frastornato. È stata lei a decidere: lasciatemi morire a casa, nel mio letto. In quel periodo stavo traducendo il Fedone di Platone e anche lì, con parole diverse, ho ritrovato il senso di quel desiderio di mia madre. Quando Socrate deve bere la cicuta, qualcuno gli suggerisce: “C’è ancora qualche ora, attendi finché il sole non sia tramontato”. Ma non ha senso aggrapparsi alla vita quando ormai non ce n’è più». Se mi trovassi nella condizione di non aver più speranze di guarigione, aggiunge Reale, «non avrei dubbi su cosa scegliere».

Anche la Chiesa condanna l’accanimento terapeutico. Ma un sondino per l’alimentazione è accanimento terapeutico? Su questo ci si divide. «La Chiesa dice molte cose sagge. Per esempio: si può rinunciare all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo. Ed è proprio questo il caso di Eluana: qui non c’è stata proporzione e non c’è nessuna ragionevole speranza di esito positivo. E allora? Perché questo accanirsi contro di lei?». Reale, da credente, rivendica la libertà di coscienza dei cattolici sul caso di Eluana. Di più: dice che la libertà di coscienza «è un preciso dovere morale» e si affida a un’altra citazione, questa volta un aforisma di Gomez Davila: «Ciò che si pensa contro la Chiesa, se non lo si pensa da dentro la Chiesa, è privo di interesse». «Ecco — riprende — molte critiche che vengono dall’interno sono costruttive. Io critico il paradigma culturale che vorrebbe tenere in vita Eluana contro la natura, e la fede con questo non ha nulla a che fare, la fede è al di sopra della cultura, il suo compito è fecondare la cultura stessa».

Se il diritto alla vita perde la precedenza su tutti gli altri valori, sa anche lei quale potrebbe essere il prossimo passo: parlare in termini meno ideologici di eutanasia. «Errore. Io non lascio aperto nessuno spiraglio all’eutanasia. Non dico: fammi morire. Ma: lasciami morire come ha stabilito la natura. Né io, né tu. La natura. Prendiamo il caso di Piergiorgio Welby, che ho seguito da vicino. Welby sostanzialmente non disse: staccate la spina. Ma: lasciate che la natura faccia il suo corso, non fatemi restare vittima di una tecnologia che costruisce qualcosa di sostitutivo e artificiale rispetto alla natura. È un’affermazione identica a quella che si dice abbia fatto Giovanni Paolo II: lasciatemi tornare alla casa del padre. Il secondo aveva fede, il primo no. Per Welby era andare nella notte assoluta, per il Papa nella vita. Ma dal punto di vista umano è la stessa condivisibile richiesta». A complicare il caso di Eluana c’è la questione della ricostruzione della sua volontà presunta. «Chi più del padre e della madre ama quella ragazza? Mi sembra che nessuno più di loro abbia il diritto di dire che cosa avrebbe voluto fare la figlia, ora che lei non è più in grado di esprimersi».

Giovanni Reale in più occasioni, durante questa intervista, usa il «noi»: «Noi pensiamo che la vita di Eluana sia artificiale». «Secondo noi questo sistema che si è sostituito alla natura per un tempo così spaventosamente lungo è aberrante». Reale parla per sé, ma la sua non è una voce isolata. Attorno al diritto all’autodeterminazione e all’idea di libertà di coscienza dei cattolici si è costituito un gruppo di filosofi: da Vito Mancuso a Roberta De Monticelli, da Vittorio Possenti a, appunto, Giovanni Reale, le «intelligenze più acute del cattolicesimo italiano», come li ha definiti Luigi Manconi su L’Unità. Che succede ora: nella Chiesa si arriverà a una sintesi? «Gettiamo semi, non tocca a noi raccogliere frutti. Speriamo li diano. Ma l’errore che con Eluana stanno facendo religiosi e uomini di governo è di cadere nella politicizzazione di qualcosa che con la politica non c’entra niente, che è metapolitico».

Corriere della Sera 07 febbraio 2009

 

 

 

http://www.rivistadireligione.it/rivista/articolo.aspx?search=TG4evq3eYMJQs48v8bQuHbd4YAm0utNQ

 

 

NON UCCIDETE ELUANA.

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NON UCCIDETE ELUANA E’ urgente che il popolo della VITA si mobiliti il più presto possibile per salvare Eluana dall’ennesimo tentativo di ucciderla. Per farsi sentire abbiamo due vie: la posta elettronica e il telefono. Per la posta elettronica scrivere a: segreteria@laquieteudine.it Per il telefono telefonare a: Ufficio Segreteria dell’Asp “La Quiete”, la responsabile dell’ufficio è la sig.ra Barbara Duriavig, tel. 0432-8862216 oppure 0432-8862214, fax. 0432-26460. Che cosa scrivere? Scrivete quello che volete oppure: “Per salvare la vostra anima e per impedire la morte di una civiltà NON UCCIDETE ELUANA Non mettetevi a disposizione di chi vuole spegnere una vita” Dato che la casa di riposo è convenzionata con il comune di Udine non sarebbe male scrivere e telefonare anche in comune. Stesse parole… Per scrivere al comune: e-mail: urp@comune.udine.it Per telefonare in comune: Ufficio Relazioni con il Pubblico Telefono: 0432-271616 – Fax: 0432 – 271355 Eluana Englaro giunta a Udine La Clinica La Quiete “accoglie” la ragazza L’ambulanza che trasporta Eluana Englaro, partita da Lecco lunedì all’1 e 30, è arrivata alla casa di cura ‘La Quiete’ di Udine alle 5.54 di martedì mattina. Ad accoglierla lo staff medico che dovrà attuare il protocollo del distacco dell’alimentazione forzata, che tiene in vita la donna in coma vegetativo da 17 anni. Al momento della partenza, fuori dalla clinica lecchese, alcune persone avevano inscenato una protesta. L’ambulanza che ha trasportato Eluana Englaro a Udine è entrata alla casa di assistenza ‘La Quiete’ per un ingresso secondario. Per evitare l”assalto’ delle decine di teleoperatori e reporter che da alcune ore sostavano davanti all’ingresso principale della struttura sanitaria, polizia e carabinieri hanno fatto entrare l’ambulanza da un altro accesso. L’unico mezzo ad entrare nella clinica è stata l’ambulanza: papà Beppino invece, che aveva seguito in macchina da Lecco la figlia, non è giunto a fino a Udine, ma si è fermato a Bergamo. L’uomo dovrebbe raggiungere la clinica nel pomeriggio di oggi o, più probabilmente, nella giornata di domani. Cosa succede ora?

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Il protocollo prevede il prosieguo dell’alimentazione forzata per tre giorni, poi l’avvio della procedura di distacco del sondino attraverso il quale la ragazza viene alimentata. Eluana in queste condizioni potrebbe sopravvivere per circa due settimane.

INNO ALLA VITA

La vita è bellezza, ammirala.

La vita è un’opportunità, coglila.

La vita è beatitudine, assaporala.

La vita è un sogno, fanne una realtà.

La vita è una sfida, affrontala.

La vita è un dovere, compilo.

La vita è un gioco, giocalo.

La vita è preziosa, abbine cura.

La vita è una ricchezza, conservala.

La vita è amore, donala.

La vita è un mistero, scoprilo.

La vita è promessa, adempila.

La vita è tristezza, superala.

La vita è un inno, cantalo.

La vita è una lotta, accettala.

La vita è un’avventura, rischiala.

La vita è felicità, meritala.

La vita è la vita, difendila.

Madre Teresa di Calcutta Grazie

per la Tua Attenzione PACE E GIOIA NEL CUORE Fabrizio Artale Uniti SI Vince… staff@missioneinweb.it

L’ingresso del vicerè Diego Enrìquez Guzmàn a Palermo,nel 1585.

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Il documentarista Dott. Giovanni Filingeri,in questo prezioso volume, ci fa rivivere la Palermo dei Vicerè di metà ’500 a partire dall’arrivo di Carlo V in città  a cui si legò una nuova architettura della città in netta contrapposizione con quella medievale di fattura normanna e sveva.

In questo saggio viene presa in esame la documentazione archivistica che riguarda l’allestimento dell’apparato effimero predisposto dal Senato di Palermo per l’accoglienza trionfale al vicerè Diego Enriquez Guzmàn (Gusmàn), conte di Alba de Liste,nell’agosto del 1585, XIII indizione.

Il nuovo rappresentante del monarca spagnolo, succeduto a Marco Antonio Colonna (1577-84), è eletto vicerè con real dispaccio del 26 gennaio 1585, emanato da Alcalà….

Per il Senato palermitano, l’insediamento d’un nuovo vicerè è l’occasione ideale per ribadire e sancire il ruolo indiscusso di Palermo quale capitale de facto della Sicilia, ma è anche la circostanza per riproporre l’uso di quelle forme di ricevimento già in voga nella tradizione rappresentativa locale. Ci si aspetta molto dal rappresentante reale e, la municipalità, pur in difficoltà economiche, si accolla nuovi debiti per organizzare l’allestimento per il solenne arrivo. Alla povertà dilagante, ai problemi legati alla carestia e alla sanità fa da contrasto l’affermazione del prestigio civico che ostenta l’opulenza e il fasto, retaggio di nostalgici emblemi dell’epoca svevo-normanna ed aragonese.

A redigere il progetto, su committenza della locale municipalità, è l’ingegnere senatorio (?) Vincenzo Jaconia….

La novità di rilievo è l’utilizzo del duplice arco di trionfo, l’uno nella versione che caratterizza il pontile trionfale, l’altro nella versione di porta cittadina dislocata nei pressi del varco d’accesso predisposto nella cinta muraria, proprio là dove è prevista la realizzazione della Porta Felice in muratura, promossa dal vicerè Marcantonio Colonna nel 1581 e, momentaneamente sospesa, a causa dell’indebitamento del Senato.

La realizzazione della porta lignea intitolata a donna Felice Orsini, consorte del Colonna, appare un omaggio alla fattiva politica del vicerè, politica che Palermo auspica dal nuovo rappresentante reale.

I primi archi trionfali, modesti in confronto a quelli realizzati in altre città, sono innalzati a Palermo nel 1535, in onore di Carlo V, reduce dalla vittoria di Tunisi contro i Turchi. Da quel momento, la presenza delle architetture effimere caratterizzerà la scenografia urbanistica delle feste palermitane sino alla seconda metà del XIX secolo….

L’introduzione architettonica del nuovo arco ligneo di Porta Felice, manufatto che si ispira all’interesse umanistico della romanità anche se con sfumature diverse, ha un triplice obiettivo: il primo è quello di far conseguire a Palermo il prestigio, l’approvazione e il consenso politico vicereale al fine di cementare i rapporti fra il nuovo governante e il popolo; il secondo è quello di ricoprire, anche se temporaneamente, lo squarcio artificiale delle mura; e, l’ultimo, non certo per importanza, è quello d’assicurare la sequenza prospettica ideale all’unione assiale fra le più importanti porte cittadine: Porta Nuova (1569-1584) e, per l’appunto, Porta Felice, secondo la maniera d’intendere lo spazio urbano promossa dalla monarchia….

L’idea su cui si basa quest’ultimo progetto, si inserisce nel disegno di riqualificazione urbanistica messo in atto dai vicerè e dall’Universitas, sin dalla prima metà del ‘500, per realizzare un impianto urbano più regolare caratterizzato da un asse primario che, attraversando l’intera città, unisca in tempi più brevi il retroterra alla marina. L’articolato progetto risponde a un idoneo programma di potenziamento strategico-difensivo del sito che è possibile ottenere attraverso un più razionale

collegamento dei luoghi strategici della città. Si intuisce la volontà di destinare le due maggiori piazze cittadine, Piano del Palazzo Reale e Piazza Marina-Cala (sede del potere giudiziario dell’Inquisizione) a polo d’attrazione dell’intero assetto urbano, sul cui asse d’unione verticale devono insistere gli emblemi del potere civile e religioso, nonché le architetture più prestigiose della città. Scopo dell’intervento è anche quello di superare la difformità estetica di vaste aree edilizie, in forte degrado per la presenza di edifici fatiscenti.

La politica urbanistica della monarchia spagnola rifiuta il modulo medievale dell’antica città ed adotta, in armonia con la tesi rinascimentale dei rettifili, il collegamento tra le nuove emergenze. In questo modo, l’innovata viabilità risponde alla logica della mediazione fra città e porto.

La svolta epocale si attua con l’ingresso di Carlo V e costituisce l’inizio d’un rapporto preferenziale,ma complesso,tra Palermo e il regno ispanico, di cui sono espressione significativa il potenziamento del sistema difensivo della città, la costruzione del nuovo molo, il restauro del Palazzo Reale, la realizzazione di infrastrutture pubbliche….

Ferrante Gonzaga, vicerè dal 1535 al 1546, affida la progettualità e la realizzazione delle opere difensive all’ingegnere bergamasco Antonio Ferramolino. E nell’arco d’un trentennio che Palermo, circondata da una cinta bastionata, assumerà quella forma “quadrata” che sarà fissata per sempre nella sua cultura e nella sua iconografia, corrispondente agli obiettivi d’assetto mìlitare dell’ideale città cinquecentesca….

Con il vicerè Garcia di Toledo prende il via il progetto di rinnovamento urbanistico mediante l’allargamento e la rettifica del “cassaro” sino a Sant’Antonio (e Porto Salvo), secondo una più moderna visione suggerita dalle esperienze militari. Nasce così il grande asse di Via Toledo su cui si aprono, tangenzialmente, tre ampi slarghi, emblemi del potere cittadino: quello religioso antistante la Cattedrale, quello civico di fronte al Palazzo Pretorio e, infine, quello del baronaggio, colto ed elitario, nel piano Bologna, sede prestigiosa delle più importanti famiglie palermitane.

Con l’arrivo del Colonna (1577-1584) si realizza la Porta Nuova (1582-87) e il prolungamento del Cassaro (Via Toledo), dalla chiesa di S. Maria di Porto Salvo alla Porta Felice (1581-1637). Nelle fonti di quei tempi, il nuovo asse viario ha l’appellativo di “strada d’Austria” che, come vedremo in seguito, si articolerà in diversi spazi scenici (Piazza Marina ecc.) da destinare alle diverse forme di spettacolarità urbana.

Nello stesso periodo, si avvia la sistemazione dello spazio antistante la fascia costiera (Foro Italico), recuperato dal ritiro del mare.

Di notevole interesse è la scoperta del Filingeri,secondo cui i quattro manufatti lapidei ,assieme alla sovrastante aquila e lapide dedicatoria di porta Nuova,furono scolpiti da Vincenzo Gagini (1527-95) su committenza del senato palermitano. I cosidetti “Talamoni” si trovano anche nella parte esterna di porta Felice rivolti verso il mare. La lettura che il Filingeri da dei talamoni è si ordine storico,cioè a dire sarebbero delle costruzioni architettoniche poste all’esterno delle porte d’ingresso nella città per ricordare che il pericolo del tempo erano proprio i turchi .Vero è che il modello architettonico delle porte  è attinto dalla tradizione  classica romana, ma è pur vero che l’ornamento scultoreo dei talamoni riecheggianti appunto i Mori,nella Sicilia di metà ‘500 non può essere considerato solamente un ornamento architettonico. Infatti in Sicilia,più che altrove,la derisione del nemico non cristiano è uno degli eventi che,dal punto di vista della psicologia di massa,assume un significato catartico che rimanda non solo al ricordo storico della dominazione musulmana dell’isola e alla liberazione della stessa ad opera dei Normanni, ma soprattutto al fatto che nel ‘400 e nel ‘500 il pericolo si chiama ancora Turco e che può spuntare ,da un momento all’altro,proprio dal mare. La Sicilia quale frontiera più avanzata dell’impero spagnolo nel mediterraneo,funge da base logistica per le iniziative  di carattere sociale,culturale e strategico-militare contro i Turchi a difesa della cristianità. Allora i talamoni rappresentano due cose significative:

1-la metafora dello scontro ancora in atto,all’epoca,tra mondo cristiano e Turchi ( cfr. battaglia di Lepanto);

2- feticci che assumono un valore apotropaico.

Un grazie sentito all’amico Dott.Filingeri per la sua grande capacità di ritrovare documenti inediti e sepolti dal tempo e dall’oblio degli uomini e ridare loro voce e nuova linfa,per una comprensione sempre più autentica e veritiera della nostra storia,avendo dato un contributo storico-documentario, innovativo,sulle antiche porte di Palermo. Carta canta!

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 Premessa

Fra i molteplici temi attinenti il patrimonio storico-artistico e architettonico dell’Isola che potevano essere oggetto d’una attività di ricerca, la scelta è caduta sugli effimeri apparati trionfali e su alcune porte di Palermo, costruite nella seconda metà del Cinquecento.

Questa correlazione tematica costituisce una modalità d’indagine complessa, ma non inconsueta, essendo stata affrontata in varie riprese dalla recente storiografia. Tra la cultura dell’effimero importata dalla Rinascenza e l’architettura permanente coeva, esiste un legame profondo che ambisce alla contestuale definizione dello spazio scenico e rappresentativo urbano.

La rinnovata attenzione nasce, in realtà, dal rinvenimento, presso l’Archivio di Stato di Palermo, di documenti inediti che aprono nuove prospettive d’interpretazione e di ricerca su tendenze ed eventi particolarmente intrecciati.

Nel corso del Cinquecento, sotto il regime spagnolo, Palermo e Messina si contendono il ruolo di capitale del Regnum Siciliae.

L’ambizione della città dello Stretto a essere la capitale di fatto avvalorata, oltre che dalla politica filo-governativa, anche dalla supremazia imprenditoriale, commerciale e culturale, suffragate dalla presenza dei più grandi cantieri navali siciliani, dal monopolio nella produzione e manifattura della seta, dall’ideale posizione logistica sulle rotte commerciali europee, dall’emergere d’una classe politica e dirigenziale compatta e dinamica.

Nell’accesa disputa, emerge prepotente l’orgoglio municipalista dell’aristocrazia palermitana, poco incline ad accettare con inerzia le decisioni, spesso irrevocabili, del monarca. Il Senato locale si scuote dal torpore e inventa di tutto per alimentare il prestigio della città.

 Nella capitale si ricorre all’uso di tendenze scenografiche, statiche e dinamiche, tramite l’esuberante ornamentazione urbana (porte, fontane, ottangoli). In questo rinnovato fervore artistico e culturale, ogni evento di carattere religioso, festivo o encomiastico, diventa l’occasione per far sfoggio di manifesta superiorità; ed anche l’uso degli apparati effimeri, inizia ad avere

ruolo preminente nella disputa municipalista.

L’effimero è notoriamente ritenuto il campo dello sperimentalismo nell’ architettura e nell’arredamento urbano; e, in quanto tale, permette di anticipare e visualizzare le nuove tendenze artistiche e monumentali. Di esso, si esalta spesso il carattere innovativo e la tendenza agli azzardi propri del provvisorio, volti a raggiungere l’effetto del meraviglioso scenico.

Per cogliere questi aspetti, introduciamo il lettore nel mondo degli allestimenti effimeri predisposti dal Senato di Palermo in occasione dell’ingresso solenne del vicerè Guzman, argomento finora poco discusso dalla recente storiografia.

L’interesse per un qualcosa che non ha lasciato traccia materiale, eccezion fatta per i pochi ragguagli dei cronisti di quei tempi, sembra superfluo, se non addirittura anacronistico; peraltro essendo fugace finzione, non tutti riconoscono l’importanza di questi apparati che, ridotti spesso a valore puramente descrittivo, visivo e scenografico urbano, vengono spogliati della loro dignità di “architetture” o dell’intrinseca accezione artistica e figurativa. Tuttavia, come avremo modo di chiarire, la descrizione dell’apparato effimero del 1585, conserva intatto il suo fascino e, non solo perché anticipa la lunga tradizione dello spettacolo palermitano, ma per le relazioni che consente di stabilire con la coeva architettura permanente.

In Sicilia, anche se con un ritardo di circa mezzo secolo, viene recepita la cultura rinascimentale italiana. Una folta schiera d’ operatori, scultori architetti e scalpellini-architetti peninsulari, soprattutto toscani, si riversa nell’Isola per monopolizzare la locale cantieristica civile, religiosa e militare. La loro attività è intensa poiché non vi è centro urbano che non attinge ai nuovi fermenti artistici e architettonici. Ed è proprio sulla scia di questa nuova tendenza culturale che si affermano gl’indizi del coevo linguaggio manierista, che avranno notevole influenza sull’architettura di cui tratteremo in seguito.

La presente ricerca intende quindi fornire spunti e formulare ipotesi di lavoro sullo “stato dell’arte” e sulle tendenze effimere che le conoscenze attuali sembrano accreditare al Cinquecento palermitano.

 

 

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Giovanni Filingeri,L’ingresso solenne del vicerè Diego Enrìquez Guzmàn a Palermo,nel 1585. Contributo Storico-documentario sulle antiche porte di Palermo. Associazione Culturale ” Historia Magistra Vitae”,2008.