OGNI PERSONA E’ UNICA

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Esistono persone nelle nostre vite che ci rendono felici
per il semplice caso di avere incrociato il nostro cammino.
Alcuni percorrono il cammino al nostro fianco,
vedendo molte lune passare,
gli altri li vediamo appena tra un passo e l’altro…
Molti di loro li chiamiamo amici dell’anima, del cuore.
Sono sinceri, sono veri. Sanno quando non stiamo bene,
sanno cosa ci fa felici…
Ma ci sono anche quegli amici di passaggio, talvolta una
vacanza o un giorno o un’ora. Essi collocano un
sorriso nel nostro viso per tutto il tempo che stiamo con loro.
Non possiamo dimenticare gli amici distanti, quelli
che stanno nelle punte dei rami e che quando il vento
soffia appaiono sempre tra una foglia e l’altra.
Il tempo passa, l’estate se ne va, l’autunno si
avvicina e perdiamo alcune delle nostre foglie, alcune nascono
l’estate dopo, e altre permangono per molte stagioni.
Ma quello che ci lascia felici è che le foglie che
sono cadute continuano a vivere con noi, alimentando le nostre
radici con allegria.
Sono ricordi di momenti meravigliosi di quando
incrociarono il nostro cammino.
Ti auguro, foglia del mio albero, pace,
amore, fortuna e prosperità.
Oggi e sempre, semplicemente perché ogni persona che
passa nella nostra vita è unica.
Sempre lascia un poco di se’ e prende un poco di noi.
Ci saranno quelli che prendono molto,
ma non ci sarà chi non lascia niente.
Questa è la maggior responsabilità della nostra vita e
la prova evidente che due anime non si incontrano
per caso.

 

FRANCESCO DELIZIOSI:LA CHIESA DI FRONTE ALLA MAFIA

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Francesco Deliziosi, La Chiesa di fronte alla mafia

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In http://www.padrepinopuglisi.net/chiesamafia.htm

LA CHIESA DI FRONTE ALLA MAFIA
Chiesa, società e poteri in Sicilia
La comunità ecclesiale e la mafia: dalla sottovalutazione alla condanna
Introduzione

Le due lettere di Ernesto Ruffini

Gli anni settanta

Il Papa e la Sicilia

Il delitto Puglisi

Mafia e Vangelo incompatibili: documenti e prospettive

Significato di un martirio

Note

MAFIA:PORTELLA DELLA GINESTRA,MICROSTORIA DI UNA STRAGE DI STATO

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GAETANO PORCASI:QUADRI SU PORTELLA

 

DI GIUSEPPE CASARRUBEA*

PORTELLA DELLA GINESTRA

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II 1° maggio 1947 alcuni banditi, appostatisi sui roccioni del Pelavet (Portella della Ginestra), aprirono il fuoco su un’im­mensa folla di contadini, donne e bambini che si apprestavano a celebrare la festa dei lavoratori. 11 furono i morti e 27 i feriti.

L’opinione pubblica nazionale e internazionale rimase sgo­menta e perplessa. Com’era stato possibile che un gruppo di pastori analfabeti avesse potuto concepire una strage senza precedenti? Il processo di Viterbo prima e quello svoltosi pres­so la seconda Corte di Appello di Roma dopo, confermarono le posizioni assunte subito da Mario Scelba, allora ministro degli Interni: operarono un ritaglio che inchiodava soltanto il “re di Montelepre” e la sua banda, ma non poterono fare a meno di ri­levare la funzione assolta dalla mafia in tutta quella vicenda che si dimostrava, per Cosa Nostra e per certi personaggi poli­tici, un vero e proprio affare.

L’autore, in questo libro, ci offre un’analisi scientifica e pene­trante della perversa dialettica che venne a stabilirsi tra potere politico-mafioso e banditismo, apparati dello Stato e criminali in­calliti, tutti interessati, in vario modo e con vari scopi, a blocca­re l’avanzata delle forze progressiste in Italia, e quel processo di riforme che puntava alla rottura del sistema feudale e del blocco agrario che lo sorreggeva. Emergono dati inediti e di estrema gravita che potrebbero consentire la celebrazione di un processo contro i mandanti di quella strage, mai celebratosi.

Introduzione

La strage di Portella della Ginestra ha sempre suscitato, nell’opi­nione pubblica, un interesse notevole. Se ne capiscono le ragioni. Si trattò, infatti, di una vicenda che lasciò sgomenti e perplessi, ebbe un’eccezionale risonanza sulla stampa nazionale e internazionale, animò i dibattiti parlamentari e fu oggetto di vive attenzioni persino in seno all’Assemblea Costituente. Questa, nella seduta del 2 mag­gio 1947, discusse diverse interrogazioni e votò, persino, un ordine del giorno col quale si chiedeva alle autorità e al civismo dei cittadi­ni, una energica azione per individuare i mandanti. Ma tutto con­giurò proprio contro l’auspicio di quelli che erano i padri fondatori della Repubblica italiana. Il carattere torbido di quell’evento pro­vocò anche una proposta di inchiesta parlamentare sul comporta­mento delle pubbliche autorità e, in particolar modo, delle forze del­l’ordine in Sicilia, nel periodo compreso tra il 1943 e il 1951. L’ini­ziativa, firmata da Lelio Basso e numerosi altri deputati promotori (una cinquantina), si sorreggeva sui vuoti che persino coloro che avrebbero dovuto provvedere a fare chiarezza e giustizia sembrava contribuissero, al contrario, ad estendere ed approfondire, come se un patto scellerato si fosse stabilito dentro lo Stato, per rendere la verità meno evidente e più lontana. Essa si riconduceva a tre livelli di fruibilità: dei ‘fatti provati’; di quelli ‘affermati’; delle denunce della pubblica voce, non ancora ribadite dinanzi al magistrato. La proposta metteva in risalto circostanze abbastanza gravi: alti funzio-nari che lasciavano il Viminale per recarsi in Sicilia a incontrare Giuliano, ispettori e ufficiali delle forze dell’ordine che, anziché ar­restare i banditi, li armavano e li facevano circolare liberamente, con appositi falsi documenti e con un corredo di servizi fotografici, gior­nalistici e, persino, produzioni cinematografiche che venivano realizzati, a maggior onore e gloria di criminali incalliti e di mafiosi che erano entrati in inconfessabili relazioni con precisi apparati del­lo Stato. Come se tra di loro si fosse stabilita una congiura, inespres­sa, ma visibile agli occhi di tutti. “Nella sostanza – scrivevano i par­lamentari – si è avuta l’impressione che l’onorevole Scelba volesse coprire per fas et nefas i suoi funzionari”. E, a scanso di equivoci, rispetto al processo che si stava celebrando, aggiungevano: “…come la Magistratura non è tenuta a ritenere vero ai propri fini un fatto af­fermato tale dagli organi del potere esecutivo o dal Parlamento in una sua relazione, così il Parlamento non è tenuto a ritenere che la verità sia rinchiusa entro i limiti della ‘verità giudiziale'”.

Si erano capiti ormai gli orientamenti e i ritagli operati dai giudici di Viterbo ma, per tutti gli italiani di buon senso, valeva l’opinione espressa, in quel tempo, da Giuliano Vassalli, ordinario nell’Univer­sità di Genova. L’eminente cultore di diritto penale aveva scritto:

È ancora presto, troppo presto, perché seriamente si possa formulare un giudizio definitivo sui fatti che tra il 1945 e il 1950 si svolsero in alcune zone della Sicilia e la cui realtà appena comincia ad intravedersi attraverso il processo che da più di cento udienze si celebra nella Corte di Assise di Viterbo […]. Ciò che indigna l’opinione pubblica in questo affare è che lo Stato italiano stesso, nel suo potere esecutivo, nei suoi organi di polizia, ta-lora sinanco in altri organi ancor più responsabili della tutela della giustizia e della legge, sia sceso a patti e a sistemi tali da far sì che tutti gli italiani ne debbano portare avvilimento e rossore1.( Cfr. Camera dei deputati, Proposta di Inchiesta parlamentare d’iniziativa dei deputati Basso, ecc, in Atti parlamentari, Documenti, Disegni di Legge e Relazioni, proposta n. 2274, 30 ottobre 1951. La proposta e la relazione illustrativa furono acquisite agli Atti della Corte di Assise di Viterbo (da ora Cav), processo 13/50, e inserite nella cartella 5, voi. V, n. 10, ai ff. 1245-1249.)

Questo libro ha un’ambizione, semplice nella sua ispirazione di fondo: dare un fondamento scientifico a un’ipotesi – per altro soste­nuta da alcune sedi autorevoli e, persino, dalla stessa opinione pub­blica – in base alla quale la strage di Portella della Ginestra è stata opera non tanto, e non solo, di un gruppo di pastori analfabeti (ver­sione ufficiale, ancora alla data odierna), quanto, in realtà, della ma­fia territorialmente competente, di gruppi politici ben precisi, e di apparati istituzionali interessati, a diversi livelli convergenti, a una particolare gestione dello Stato. Questo assunto, contraddetto dalle sedi giurisdizionali, sarà ampiamente sviluppato, a partire da un ritaglio che non è, naturalmente, né poteva essere, giudiziario, bensì storico, perché è compito della ricerca in questo campo, non solo formulare ipotesi, ma suffragarle sulla base dei documenti disponibi­li. Nel nostro caso, la loro imponenza obbliga a un parallelo e con­trapposto ritaglio, perché, se dalla composizione di vari frammenti di verità, emerge un quadro coerente e leggibile dei fatti, allora si deve considerare – come è giusto che sia – Portella uno dei più gra­vi atti di terrorismo politico nella storia della nostra Repubblica, cer­tamente il primo, tragicamente significativo, col quale lo Stato, nato dalla Resistenza e dalle ceneri del fascismo, ebbe a che fare. O, me­glio, non lo Stato in quanto tale, ma certi uomini che volevano co­struirlo, e specialmente coloro che, pur dalla opposizione al fasci­smo, trassero una lezione speciosa per la democrazia nel nostro Pae­se, un insegnamento che sembrò ricondursi non tanto all’unità delle forze che quel fenomeno avevano osteggiato, quanto alle preoccupa­te pressioni di coloro che ritenevano che un nuovo pericolo minava le basi della rinata società, e che ad esso occorreva fare fronte per vie eccezionali. Quelle, appunto, che l’età dello scelbismo seppe mettere in opera. Portella ne segnò l’avvio, fu il segnale della provo­cazione. Con tutto ciò che rappresenta come fenomeno macroscopi­co di una più generale strategia corredata da una molteplicità di mi­croesempi, che connotano una precisa direzionalità di quella scelta, contrassegnando di emblematicità un caso certo non isolato. Per l’analisi, si è dovuta operare una selezione nella mole dei processi (in tutto 465) cui fu sottoposto Giuliano in relazione alle attività del­la sua banda: tutti utili a ricostruire la complessa personalità crimi­nale del bandito, ma certamente non tutti significativi per la com­prensione della sua più tragica manifestazione, quella del connubio col mondo politico e mafioso.

Valutazione, questa, che, allora, la magistratura si guardò bene dal concepire, avendo preferito ridurre il banditismo a fenomeno astratto dalle più generali strutture della criminalità nella Sicilia della secon­da metà degli anni ’40.

Portella è l’atto di nascita della mafia nella nuova Repubblica. È anche luogo-simbolo della volontà di riscatto del mondo contadino, e, al contempo, di una ragion di Stato cinica e perversa, frutto di una volontà criminale capace di intrecciare assieme interessi di alcuni ceti privilegiati, settori del mondo istituzionale, politica regionale e nazionale. Rappresenta anche una serie di complicità senza prece­denti, che hanno consentito non solo che un crimine tanto efferato potesse realizzarsi, ma anche che esso fosse protetto, nel tempo, a diversi livelli: da quello parlamentare, a quello dei palazzi di giusti­zia, dai testimoni che sapevano e hanno preferito tacere, alla distor­sione della verità, negli atti e nei comportamenti di quanti, forze dell’ordine ed esponenti delle istituzioni o comuni cittadini, hanno preferito salvare se stessi, tacendo o mentendo.

A distanza di cinquant’anni, perciò, è doveroso sgombrare, attor­no alla strage, quell’alone di mistero che molti hanno voluto costrui­re, perché la ricerca della verità risultasse ancora difficile, anche se i fatti e i dati della storia, il contesto nel quale Portella si verifica co­me evento, rappresentano un ritaglio specifico, una sorta di conti­nuità territoriale, di violenza strutturata e connaturata geografica­mente e politicamente.

Appunto per questo, chi prende in mano le carte processuali della Corte di Assise di Viterbo si stupisce, intanto, di come nel processo siano confluiti documenti riguardanti diversi personaggi implicati in altre vicende, atti che non hanno fatto altro che ostacolare ancora di più la ricerca della verità, fino a rendere il percorso giudiziario assai lontano dai necessari accertamenti sulle cause e sugli scopi di quegli efferati delitti. Il problema riguarda sia gli anni che precedono il ’47 (esiste una lunga sequenza di crimini che vengono presi in esame dalla sezione istruttoria della Corte di Assise di Palermo)2,( Cfr. Città Giudiziaria di Roma, Archivio Generale della Corte di Appello (da ora Agca). Processo 13/50 della Cav, cartella 7, voli. VIII-IX.)

sia quelli successivi, quando alle carte processuali si aggiungono quelle ri­guardanti crimini commessi autonomamente, e in epoche diverse, da Antonino Terranova, Frank Mannino, Francesco Gaglio ed altri. In tal modo, si sono determinati appesantimenti e lungaggini e lo stes­so smarrimento dello scopo finale delle indagini: individuare e puni­re mandanti ed esecutori. Stupisce, soprattutto, il fatto che, pur in presenza di insistenti prove che denunciavano politici e mafiosi, quali corresponsabili di quell’evento, nessun tribunale abbia mai preso in considerazione l’opportunità di avviare un processo sui mandanti. Gli atti si sono fermati a una fase istruttoria, frettolosa­mente chiusa dopo la sentenza di Viterbo.

Portella è, perciò, anche la storia di un processo che non si è mai fatto. Congiurarono contro i singoli atti istituzionali, e ciò, nono­stante la tesi dell’esistenza di mandanti fosse stata decisamente avanzata dalle stesse forze dell’ordine che avevano avviato le prime indagini, ad un certo punto bloccate da ragioni di competenza. Alla prima pista, seguì subito, nel volgere di qualche mese, quella più de­cisiva; si scaricò il peso penale, morale e politico di quelle vicende,

su un gruppo di persone che non avevano, per la loro condizione di classe e per la loro formazione culturale, alcun interesse contrario a quello dei lavoratori e delle loro organizzazioni politiche e sindacali. Molte non c’entravano con la strage, altre erano state sì manovalan­za armata, ma non mandanti.

Dirà Salvatore Pisciotta, il padre di Gaspare, luogotenente di Giu­liano:

All’eccidio di Portella Ginestra io non partecipai affatto e, a dire il vero, an­che quando fossi stato invitato a concorrervi, avrei preferito opporre reciso rifiuto anche al Giuliano Salvatore, rischiando, naturalmente, tutte le conse­guenze: perché non mi sarei mai macchiato le mani del sangue dei lavorato­ri, soprattutto perché sono sempre stato e sono tuttora di sentimenti comuni­sti. A comprova di quanto affermo, preciso che sono iscritto al partito co­munista dal 1944, epoca in cui era segretario della sezione di Montelepre certo Pietro Speciale da Partinico e fino allo scorso anno ho pagato regolar­mente i prescritti contributi ricevendo annualmente le relative tessere3. (Cfr. ivi, Ispettorato generale di PS per la Sicilia, Nucleo mobile Carabinieri, Palermo (da ora Igps-Nmc), Rapporto giudiziario circa le ulteriori indagini in me­rito alla strage di contrada Portella Ginestra ed alle aggressioni, seguite pure da strage, alle sedi dei partiti socialcomunisti in provincia di Palermo. Denunzia del bandito Giuliano Salvatore ed altri 44 suoi affiliati di cui 16 arrestati, 14 latitanti, 11 irreperibili e 3 uccisi, tutti responsabili, in concorso tra loro, di tali delitti, non­ché di partecipazione a banda armata e detenzione abusiva di armi e munizioni da guerra, rapporto n. 37 del 4 settembre 1947, con 29 allegati, cartella 3, voi. L. Il rapporto risulta dagli interrogatori dei seguenti banditi o vicini alla banda, fermati nelle settimane o nei mesi immediatamente successivi alla strage del 22 giugno ’47: Francesco Gaglio, Giuseppe Sapienza, Antonino Gaglio, Francesco Tinervia, Vin­cenzo Sapienza, Domenico Pretti, Giuseppe Tinervia, Giovanni Russo, Antonino Terranova, inteso ‘U figghi du miricanu’, Antonino e Vincenzo Buffa, Gioacchino Musso, Giuseppe Cristiano, Vincenzo Pisciotta di Francesco, Giuseppe Di Lorenzo, Salvatore Pisciotta fu Gaspare.)

Pietro Speciale veniva dalla lotta partigiana, come Pasquale Sciortino; e un’esperienza di prigionia in Germania era stata vissuta anche da Gaspare Pisciotta. Ma l’assunzione di un progetto di libe­razione da antiche e nuove servitù, non si traduceva, relativamente a determinati elementi, in una visione chiara ed omogenea della politi­ca generale. Anzi, a contatto con le tendenze separatiste, assumeva caratteri eversivi, nello stesso tempo in cui venivano respinti i partiti nazionali, e l’esperienza della guerra diveniva potenziale esplosivo contro lo Stato. Non era il caso di Speciale che aveva aderito al par­tito di Li Causi; ma di altri, le cui scelte erano state dipendenti dallo sbandamento politico generale, dalla lontananza dello Stato, dal suo

essere presente solo col servizio di leva e con i carabinieri, dalla propaganda separatista, dagli interessi dei latifondisti alla ricerca delle vie per affrancarsi dalla situazione nazionale. Comunque, l’af­fermazione di Salvatore Pisciotta non è fortuita, segna uno snodo centrale che va preso in considerazione ai fini della comprensione delle molteplici e drastiche divaricazioni che si misero in atto nei gruppi più in vista dell’entroterra palermitano. È certo, tuttavia, che il separatismo, dopo Canepa, cooptò interamente il banditismo, tra­sformandolo in una punta avanzata del proprio esercito.

Ma questioni simili, come quelle riguardanti le forme di conti­nuità tra terrorismo indipendentista e banditismo, o tra famiglie ma-fiose e il resto della criminalità organizzata, in sede giudiziaria, ven­gono appena sfiorate. Soprattutto nella fase istruttoria, che è quella che determina l’evoluzione processuale, secondo certe caratteristiche già date, non sarebbero mancati gli elementi per orientare le indagi­ni stesse in una certa direzione, sulla base di rapporti di polizia e ca­rabinieri, operanti a livello periferico, territoriale, e del fatto che su Portella si registrava il primo grande atto collettivo di rottura della tradizionale omertà, con decine di testimoni che si presentavano per deporre davanti all’ufficio istruzione di Palermo4. ( Cfr. ivi, cartella 1, voi. D.)

Ma su questo ter­reno i giudici negarono persino l’evidenza dei fatti, e si trincerarono dietro il paravento di una omertà diffusa che, al contrario, era prero­gativa di alcuni mafiosi, ad esempio, i fratelli Calcedonio e Ignazio Miceli e il nipote di quest’ultimo, Nino, o Domenico Albano, rispet­tivamente capi delle famiglie mafiose di Monreale e Borgetto. Essi, nelle loro deposizioni, parlarono fino ad un certo punto, oltre il qua­le non dissero più una sola parola. Di contro mai, come a Viterbo, ‘grandi’ e ‘picciotti’ di una banda agguerrita raccontarono quanto era nella loro tragica esperienza. E ancora di più e meglio precisaro­no contesti e personaggi, i rappresentanti del mondo contadino, che dei fatti di Portella erano stati diretti testimoni oculari. La barbarie produsse l’effetto di rompere la tradizionale omertà dei siciliani, di spingerli, e non era la prima volta, contro i mafiosi. Questi ultimi -scrivono i giudici – “…nascosero alla Corte molte delle circostanze di cui erano a conoscenza, e, se altrimenti si fossero comportati, sa­rebbero venuti meno alla omertà, che per essi è principio vincolante più di una norma giuridica vera e propria”5.( Cfr. Agca, Sentenza della Cav, 3 febbraio 1952, cartella n. 9, f. 90. Da ora ci si riferirà anche agli Atti interni del Senato della Repubblica, V legislatura, Docu­menti. Disegni di legge e relazioni, voi. LVIII, n. XXIII-2 sexies, Roma, tipografia del Senato, 1972, allegato 4.)

Pertanto, piuttosto che essere accusati di reticenza, non vennero presi in considerazione.

Analogamente, la delimitazione di tutto l’iter processuale ri­guardò la negazione del carattere politico delle stragi, e dei mandan­ti, il dato di una supposta inesistenza di documenti probanti circa la connessione tra politici e criminali. Così i giudici di Viterbo agirono in perfetta sintonia con i loro colleghi palermitani.

Chiarisce Di Lello che “ciò che rende tragicamente particolari i palazzi di giustizia” di queste, come di molte altre città, è “la natura della borghesia tutelata”, una sorta di complicità di classe sorreggen­te l’intero assetto del potere nazionale6. E, di fatto, è lungo il percor­so di costruzione del nuovo Stato che vengono ad inserirsi, nella specificità della condizione siciliana, la vicenda di Giuliano e le stragi di Portella, e del 22 giugno 1947.

Non è fuori luogo, in ultimo, considerare due caratteristiche strut­turali e ineliminabili della mafia, e cioè la sua territorialità e la sua unicità. È vero che – come vuole il grande pentito Antonino Calde­rone7 – la commissione regionale di Cosa Nostra fu creata nel 1975, ma è altrettanto vero che le famiglie mafiose locali, sul finire degli anni quaranta, erano perfettamente insediate sul territorio, e capaci di notevoli collegamenti economici e politici, oltre che squisitamen­te criminali, come dimostrava il modello corleonese allora facente capo a Michele Navarra8. Cioè a dire, la rinascita di Cosa Nostra, con l’occupazione alleata, non solo vedeva ristrutturarsi e consoli­darsi le famiglie locali, ma le stesse, adesso, potevano avvalersi del­la notevole esperienza criminale acquisita negli Stati Uniti, grazie alle costanti ondate immigratone di ritorno di quanti, piccoli o gran­di delinquenti che fossero, avevano dovuto lasciare l’isola, col pre­fetto Mori.

(G.C.)

6. Cfr. Giuseppe Di Lello, Giudici, Palermo, Sellerio, 1994, pp. 31 e sgg.

7. Cfr. Pino Arlacchi, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Milano, Mondadori, 1992, p. 124.

8. Cfr. Carlo Alberto Dalla Chiesa, Michele Navarra e la mafia del corleonese, Palermo, La Zisa, 1990. Mi permetto, per tali riferimenti, rinviare anche a Giuseppe Casarrubea, Placido Rizzotto e la mafia corleonese, in «Segno», n. 151, gennaio 1994; e idem, Alle origini della mafia di Stato, ivi, nn. 153-154, marzo-aprile 1994.

*Giuseppe Casarrubea (Partinico, 1946) storico ricercatore, vive e opera a Partinico(Pa) già preside della Scuola Media Statale “G.B. Grassi Privitera” a Partinico (Palermo). A parte i suoi studi di sociologia dell’educazione (tra di essi L’Educazione mafiosa, Palermo, Sellerie 1991; Nella testa del serpente, Molfetta, La Meridiana, 1993), ha pubblicato: / fasci contadini e le origini del­le sezioni socialiste della provincia di Palermo, Palermo, Flaccovio, 1978, 2 voli.; Società e follia in Sicilia, Udine, Casamassima, 1988; Intellettuali e potere in Sicilia, Palermo, Sellerie 1983 e, con la stessa Casa Editrice, Gabbie strette. L’educa­zione in terre di mafia (1996). Collabora con la rivista “Segno”.

IL DIAVOLO ESISTE….

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“Nella mia esperienza di esorcista posso dire che il diavolo agisce anche oggi in maniera non solo ordinaria come avviene attraverso la tentazione, ma anche in maniera straordinaria attraverso l’infestazione, la vessazione o la possessione. Si tratta, comunque, di casi molto rari”. Non basta il tono sereno e l’aspetto rassicurante di Fra Benigno dei Frati Minori Rinnovati, esorcista e incaricato dalla Conferenza Episcopale Siciliana della formazione degli esorcisti, ad attenuare il peso delle sue parole. Una sensazione di gravità che non ci lascia neanche quando aggiunge che “prima ancora della mia esperienza c’è da dire, a priori, che se Gesù ha dato alla Chiesa potere e autorità di scacciare i demoni (cfr. Lc 9,1), certamente essa, lungo la storia, dovrà pur incontrare casi che richiederanno l’esercizio di questo suo potere. Altrimenti, a che pro un tale potere?”. Da anni ormai, questo frate nato a Canicattì (Ag) combatte contro il maligno… proprio lui, che lasciando il nome di Calogero Palilla, ricevette quello di fra Benigno! Non pensava – e lo confessa lui stesso – di fare l’esorcista. Giammai. Eppure “come non utilizzare il dono che il Signore ha fatto alla sua Chiesa quando ti trovi dinanzi a sofferenze che non possono non strapparti le lacrime, soprattutto quando ne sei spettatore?”. E poi fra Benigno aggiunge: “Sono mali e tormenti che a volte, pur sapendo che c’è una risposta e anche una soluzione, potrebbero indurre a chiederti il perché di una sofferenza, il perché di una sofferenza procurata dal diavolo”.
Perché Fra Benigno racconta di supplizi e strazi terribili. “Nella mia esperienza di esorcista mi son trovato, a volte, di fronte a persone che soffrivano molto – scrive nel libro dal titolo “Il diavolo esiste, io l’ho incontrato” – soffrivano a causa di dolori in diverse parti del loro corpo, che non trovavano spiegazione alcuna da un punto di vista medico. Soffrivano per pugni e bastonate, invisibili ma reali, che lasciavano lividi. Soffrivano per croci, graffi, tagli profondi e scritte sanguinanti sul loro corpo. Soffrivano per un fenomeno di paralisi, che andava e veniva. Soffrivano perché, a volte, si sentivano immobilizzate sul letto e costrette a subire rapporti sessuali da parte di una realtà invisibile. Soffrivano, perché trovavano difficoltà a partecipare alla Santa Messa, rimanendo bloccate senza poter camminare, quando si alzavano per andare a prendere il Corpo di Gesù nella Comunione. Soffrivano per quel sapore molto sgradevole dell’Ostia consacrata e per la difficoltà che avevano di deglutirla, ma soprattutto perché a volte erano costrette a sputarla”.
“Casi patologici?” – chiediamo a Fra Benigno. “Accadeva intanto che, iniziando a pregare su di loro, entrassero subito in trance – risponde – e, in esse, emergesse un’altra personalità”. “Sdoppiamento di personalità?”, continuiamo. “A me non sembra – dice Fra Benigno – quell’avversione al sacro in persone impegnate nella vita cristiana, avversione che si manifestava quando dovevano fare la Comunione o quando io accostavo sul loro corpo o il crocifisso o la Bibbia o una reliquia di un santo, o le aspergevo con acqua benedetta o imponevo loro le mani invocando lo Spirito Santo; soprattutto quelle risposte lucide e profonde che andavano al di là delle loro conoscenze teologiche: tutto questo mi induceva a pensare di trovarmi a che fare con quella presenza malefica, di cui parla la Bibbia, la quale causava loro quelle sofferenze sopra riportate. Una conferma l’avevo, poi, nel fatto che con le preghiere di esorcismo tutto si normalizzava e le persone risultavano liberate e guarite, senza che avessero assunto farmaci o si fossero sottoposte a trattamento psicoterapeutico o, comunque, avendo sospeso le cure diversi anni prima che avvenisse la loro liberazione e la loro conseguente guarigione”.
Ma il confine tra possessioni diaboliche e patologie è davvero sottile. “In 10 mesi ho ricevuto richieste per 750 appuntamenti: tutti volevano un esorcismo, ma solo una dozzina o poco più ne aveva bisogno”. Sono i dati stessi forniti da Fra Benigno a dare la cifra di quanto diffusa sia la paura e, allo stesso tempo, la moda del diavolo.
A questo punto, però, sorge spontanea una domanda. E se la pone anche lo stesso esorcista. “Ma se la liberazione, e la conseguente guarigione, è stata opera non da un effetto placebo, ma dell’intervento di Dio, di Dio che si dice essere onnipotente, perché, allora, è stato necessario tutto quel tempo per giungere alla liberazione e alla conseguente guarigione?”. Per una guarigione, una liberazione completa, infatti, possono trascorrere anche due o tre anni. “Io non conosco le ragioni di questo ritardo. So solamente, a livello teorico, che esse possono essere diverse – dice ancora nel testo che uscirà tra il 15 e il 20 Febbraio prossimi, per i tipi delle Paoline – una prima ragione potrebbe essere la non sufficiente collaborazione del paziente attraverso un cammino di conversione. Una seconda – aggiunge Fra Benigno – il fatto che nel paziente o nei familiari manchi una fede sufficiente. Gesù l’ha esigita sempre prima di compiere un miracolo di guarigione o di liberazione: “Tutto è possibile a chi crede” (Mc 9,23), diceva. La risposta a volte era questa: “Signore, credo, aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24). Una terza ragione potrebbe essere il fatto che non ci sia sufficiente preghiera e non si digiuni. Gesù indicò i mezzi per ottenere la liberazione: “Certa specie di demoni – disse – non si può scacciare se non con la preghiera e il digiuno” (Mc 9,29; Mt 17,21). A non pregare e a non digiunare possono essere o chi è vittima dell’azione straordinaria del diavolo o l’esorcista o la Chiesa stessa – aggiunge Fra benigno – Sì, la Chiesa stessa! L’esorcista, infatti, opera in nome della Chiesa ed è la Chiesa che libera per quel potere ricevuto dal suo Signore. Per conseguenza, se dietro l’esorcista non c’è una Chiesa orante e penitente, una Chiesa, cioè, che non utilizza i mezzi proposti da Gesù per scacciare i demoni, i tempi di liberazione non possono che allungarsi. E non dovremmo dimenticare che la Chiesa sono tutti i fedeli: laici e chierici. Una quarta ragione del ritardo della liberazione potrebbe essere il fatto che Dio ne voglia ricavare, così, un bene: un bene per il paziente; un bene anche per i parenti, i quali in occasione di questi eventi spiacevoli sono spesso indotti a iniziare un cammino di fede e di conversione; un bene, infine, per il mondo intero, dal momento che la sofferenza umana, da qualunque parte provenga, completa quello che manca alla passione di Gesù a favore dell’umanità (cfr. Col 1,24). Tuttavia, se l’esorcismo non porta subito alla liberazione definitiva, esso, però, restringe sempre più il campo d’azione del diavolo o dei demoni”.
Come fa il diavolo a scegliere le sue “vittime”?. “Ci può essere una sofferenza che potrebbe essere frutto di una colpa personale – dice nel suo libro il frate minore – come l’adesione a sette sataniche, la partecipazione a riti satanici o a messe nere, una propria consacrazione a satana, un patto fatto con lui, una partecipazione a sedute spiritiche, l’ascolto di musica di rock satanico, il ricorso a maghi, streghe, chiromanti, fattucchieri, medium, chiaroveggenti e cartomanti (mi riferisco a quelli veri, pochi in verità, non agli imbroglioni!), cose tutte che sono come delle finestre aperte, che possono consentire al diavolo e ai demoni di entrare nella sfera della vita di una persona”. Ma Fra Benigno sottolinea con forza: “l’importante è ricordare che dove c’è sofferenza, non sempre c’è anche colpa”.
Sentir parlare del maligno, delle sue azioni devastanti, della difficoltà nel tenergli testa ed avere la meglio, ci riportano in mente scene di film che fanno ormai parte della storia del cinema e della nostra inquietudine. Storie che ci creano disagio, imbarazzo e spesso anche paura. E sono solo finzioni sceniche! Come fa un uomo di Dio a non vacillare dinanzi a tutto ciò? A non cadere nel pessimismo, o quanto meno in una sorta di tristezza? Fra Benigno ci stupisce e ci ammaestra. “La constatazione, nella mia attività esorcistica, delle liberazioni e delle conseguenti guarigioni mi ha indotto, spesso, a lodare e benedire il Signore, a ringraziarlo per aver dato alla Chiesa potere e potestà su tutti i demoni, come pure potere di scacciarli. Mi ha indotto, anche, a scrivere questo libro, che vuole essere il racconto di quei prodigi, che il Signore ha compiuto attraverso gli esorcismi da me fatti. “Dite i suoi prodigi”: è, questa, la raccomandazione del Salmista (Sal 95 [96],3), raccomandazione che volentieri ho accolto”. Leggendo “Il diavolo esiste, io l’ho incontrato”, è evidente il frate minore fa della sue esperienza una vera e propria preghiera, quasi un salmo. “Queste pagine – dice – vogliono narrare lo splendore della gloria di Dio. Vogliono dire la stupenda sua potenza. Vogliono parlare della sua grandezza. Gloria, potenza e grandezza, che si sono manifestate, appunto, durante gli esorcismi. L’ho constatato con i miei occhi e, per conseguenza, sento di gridarlo con profonda convinzione: “La destra del Signore ha fatto meraviglie”. Queste pagine ne sono una testimonianza. Leggendole, non potremo non concludere che il Signore è veramente grande, che egli è degno di ogni lode e che la sua grandezza non si può misurare”.

www.chiesedisicilia.org

E’MORTO IL “PAPA”DELLA MAFIA

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Era ricoverato all’ospedale Sandro Pertini di Roma da qualche settimana, oggi pomeriggio ha tirato le cuoia. Michele Greco, il “Papa” della mafia (qui il suo famigerato sermone dalla gabbia del maxiprocesso), boss dei boss di Cosa nostra tra la fine degli anni ’70 e gli ’80, era il signore di Ciaculli. Nato nel 1924, rispettato dai suoi simili per le straordinarie “doti di mediatore”, ascese allo scranno più alto del gotha mafioso nel 1978, dopo il tramonto di don Tano Badalamenti. In questi tristi tempi di revisionismo e poltiglia, coi morti ancora caldi all’angolo della strada, qua c’è il rischio che a qualcuno venga perfino in mente di “rivalutare” macellai di questo calibro. E allora ricordiamo che Michele Greco, arrestato nel febbraio ’86 e condannato all’ergastolo, insieme al fratello Salvatore fu il mandante dell’omicidio del magistrato Rocco Chinnici, fatto saltare in aria con un’autobomba il 29 luglio 1983, insieme a Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, i suoi agenti di scorta, e a Stefano Li Sacchi, il portiere dello stabile davanti al quale si consumò la strage, eseguita da Pino Greco. E’ a questi eroi silenziosi e discreti, alle loro famiglie, che oggi va il nostro unico pensiero.

Mafia: i Lo Piccolo si nascondevano a Terrasini

 

(ANSA) – PALERMO, 11 FEB – Gli investigatori della squadra Mobile hanno localizzato il covo dove il boss Salvatore Lo Piccolo e il figlio Sandro, arrestati il 5 novembre scorso in una villa di Giardinello (Palermo) avrebbero trascorso gli ultimi sei anni della loro latitanza.

Il rifugio, individuato anche sulla base delle indicazioni di alcuni ex fedelissimi dei Lo Piccolo che hanno cominciato a collaborare con la giustizia, si trova a Terrasini, una località balneare del Palermitano a poca distanza da Giardinello. Il covo dove i Lo Piccolo avrebbero trascorso gli ultimi anni della loro latitanza è una grande villa a due elevazioni, che si trova nei pressi della strada statale; a poche decine di metri da un supermercato della catena Sisa.

Nel rifugio, i Lo Piccolo avrebbero vissuto insieme con una famiglia di tre persone, che avrebbe presso in affitto la villa. Secondo alcune indiscrezioni, gli investigatori sarebbero riusciti a risalire al covo attraverso le indicazioni fornite dal pentito Gaspare Pulizzi, ex guardaspalle di Totuccio Lo Piccolo.
Nella villa, che è già stata sottoposta a un’accurata perquisizione, sono stati trovati alcuni oggetti personali appartenenti ai Lo Piccolo, ma nessun documento utile alle indagini. Gli inquirenti ritengono che il covo sia stato “ripulito” subito dopo la cattura dei due Lo Piccolo, probabilmente dall’altro figlio del boss, Calogero, arrestato il 16 gennaio scorso nell’operazione denominata ‘Addio Pizzo’.

Due persone, un uomo e una donna sono state sottoposte a interrogatorio negli uffici della procura di Palermo. Si tratta, a quanto pare, della coppia di coniugi che avrebbe ospitato nella propria abitazione di Terrasini, i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, negli ultimi anni della loro latitanza. I due sono accusati di favoreggiamento e si sono presentati in Procura accompagnati dal loro legale. Secondo alcune indiscrezioni si tratterebbe di persone titolari di un contratto di affitto della villetta di Terrasini.

I due avrebbero dichiarato di non essersi resi conto che i loro ospiti fossero i boss ricercati, e di averlo compreso solo dopo il loro arresto (avvenuto il 5 novembre scorso), riconoscendoli dalle foto sui giornali. I Lo Piccolo infatti avrebbero chiesto ospitalità sotto falso nome. In particolare, sarebbe emerso che
Sandro Lo Piccolo si faceva chiamare “Giuseppe“.(ANSA)

Mafia, duplice omicidio a Partinico

Giuseppe e Gianpaolo Riina, rispettivamente di 37 e 31 anni sono state uccisi stamattina in un agguato di stampo mafioso. Una terza persona (un dipendente delle due vittime) è rimasta ferita. Si tratta di Fulvio Giordano di 24 anni residente a Giardinello. Gli investigatori hanno ritrovato in contrada Albachiara una Fiat Punto di colore verde parzialmente bruciata che potrebbe essere stata utilizzata dai killer.

Le vittime sarebbero i figli di Salvatore Riina, omonimo del boss di Cosa Nostra, un imprenditore ucciso nel ’98 e accusato di avere coperto la latitanza di alcuni mafiosi. Secondo la pentita Giusi Vitale l’omicidio fu eseguito, su ordine del fratello Leonardo, da Franco Pezzino, attualmente in carcere. I due uomini avevano una piccola impresa nel settore del movimento terra e avevano ottenuto appalti, non di grossa entità, anche da enti pubblici come i comuni di Partinico e Giardinello.

Sono stati due sicari a sparare. Secondo la ricostruzione degli investigatori i due sarebbero giunti su un’ auto. Poi sono scesi e hanno impugnato due pistole, forse calibro 9 e 44, e hanno fatto fuoco mirando ali due fratelli con le bracia tese. Un duplice omicidio compiuto con freddezza e da persone che, alla luce degli elementi noti, hanno agito con esperienza e rapidità. I due assassini poi sono saliti nell’ auto e sono andati via a forte velocità incendiando poco dopo la vettura. (segue)

Mafia, da latitanti i lo Piccolo villeggiavano a Trappeto

Una villetta a pochi passi dalla spiaggia di Trappeto è stato il covo estivo di Salvatore e Sandro Lo Piccolo durante la loro latitanza. I Lo Piccolo vi hanno soggiornato nei mesi di luglio e agosto 2007, utilizzandola come “residenza estiva” probabilmente per poter sfruttare la sua particolare vicinanza al mare.

Il rifugio per la villeggiatura dei due boss sarebbe stato individuato seguendo le indicazioni di Gaspare Pulizzi, ex fedelissimo dei boss di Tommaso Natale, che da poco ha cominciato a collaborare con la giustizia.
I capimafia avevano affittato la villetta sul mare fornendo false generalità, e mostrando documenti contraffatti al proprietario. Quest’ultimo è stato già interrogato dalla procura di Palermo. L’uomo ha detto di aver sempre affittato stagionalmente la villetta e di non aver immaginato che gli inquilini dell’estate 2007 fossero due capimafia. Il proprietario della villa di Trappeto, che non è indagato, ha quindi fornito agli inquirenti le fotocopie dei documenti falsi a lui consegnate dai Lo Piccolo al momento di pattuire l’affitto.

Nella casa sulla spiaggia di Trappeto, i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo l’estate scorsa non sono andati da soli. Si sono fatti accompagnare proprio dal fedele Gaspare Pulizzi, che aveva affittato una villetta vicina, anche questa sul mare, dove si è fermato con la sua famiglia nello stesso periodo, due mesi, per poter seguire da vicino la latitanza dei suoi capi. Anche il proprietario di questa casa, interrogato ha detto di non conoscere la reale identità del suo inquilino. Neanche lui risulta indagato. Le villette sono state ispezionate dagli investigatori, ma nulla di utile alle indagini sarebbe emerso dai rispettivi sopralluoghi, prova che i boss vi avrebbero soggiornato solo per brevi periodi.

http://www.partinico.info/

I DIRITTI UMANI….

 

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Quando nascono i diritti umani e, soprattutto, cosa sono e cosa si può intende­re sotto questa definizione? I tanti documenti che sono presenti in questa raccolta antologica difficilmente potranno rispondere in modo esauriente e chiaro a que­sti interrogativi. Ma il loro insieme, probabilmente, renderà più facile orientarsi in un ambito che, proprio perché cresciuto a dismisura negli ultimi tempi, si pre­senta ancora con le caratteristiche di una maggiore complessità e ambiguità.

I diritti umani parlano al tempo stesso di individui e di stati, di persone e di comunità, e rappresentano il discorso culturale più nuovo e originale della sto­ria umana, riassumendone le contraddizioni e le difficoltà. Alla base di essi vi è un’idea di dignità umana che si è maturata nel tempo, anche se alcuni capisaldi di questa concezione risalgono alle epoche più antiche dell’avventura umana e della sua coscienza. Così come ha compiuto trasformazioni profonde l’idea di quale fosse la natura umana, di quali fossero i suoi principali e inalienabili at­tributi, di chi dovesse riconoscere e legittimare i diritti e i doveri insiti nelle con­cezioni prevalenti.

Come è cambiata l’idea della persona umana nel corso dei secoli, altrettan­to si è modificato ed esteso il campo degli spazi e dei discorsi, delle norme e delle leggi, delle consuetudini e delle convinzioni che a essa fanno riferimento. La sfera dei diritti e dei doveri degli appartenenti a una comunità si è sempre intrecciata alla sfera delle competenze e degli obblighi, e delle garanzie, che quel­le comunità intendevano offrire ai propri membri e a coloro che non ne face­vano parte. Il cammino dei diritti individuali e del diritto degli stati si è svolto, anche se non sempre parallelamente, in forte sintonia e intreccio, trovando so­lo negli ultimi tre secoli una forte accelerazione e una sempre più ampia e co­erente attuazione, che è andata di pari passo con l’aumentare di problemi e in­terrogativi a esso legati.

La storia dei diritti umani è, in qualche modo, il tentativo di creare un am­bito al tempo stesso morale e razionale alla vita degli individui e degli stati, in­dividuando le concezioni più adatte e i valori più condivisi e condivisibili in­sieme con le norme capaci di rendere quelle concezioni e quei valori dei precet­ti attuabili e concretamente applicabili nella vita sociale. E attorno a tre pilastri- la naturalità, l’uguaglianza e l’universalità – che i diritti umani si sono potuti imporre, con difficoltà e in mezzo a mille ostacoli, più spesso attraverso una lo­ro violazione che un loro riconoscimento, nel corso dei secoli; dando spesso vi­ta a diatribe teoriche e a scontri di tipo giuridico e politico internazionale che ne hanno determinato o influenzato il cammino.

Ancora oggi, pur se appare abbastanza scontata la condivisa assunzione che vi sono diritti inerenti a ogni persona umana per il solo fatto di appartenere al genere umano, è assai più difficile trovare la stessa unanimità quando è in gio­co la convinzione che tali diritti valgono e sono applicabili per ogni persona in ogni condizione, o l’idea che quei diritti vanno riconosciuti e tradotti in prati­ca ovunque e in ogni situazione. I principi dei diritti umani non sono solo cam­biati nel tempo, diventando più numerosi, ma si sono intrecciati con la que­stione della cittadinanza, dell’affermarsi dello stato-nazione, delle regole create per favorire i rapporti tra gli stati. Accanto alla questione delle libertà civili e poi dei diritti politici, si è aggiunto nel tempo il problema dei diritti economi­ci e sociali, a cui ha fatto seguito più tardi l’irruzione del tema delle minoranze e dei popoli, dell’ambiente e delle culture; contemporaneamente, tuttavia, gli in­terrogativi legati alla pace e alla guerra, ai prigionieri e ai feriti, agli stranieri e ai nemici hanno reso più difficile e complicato un percorso che non poteva es­sere unicamente rivolto alle persone nella loro astrattezza individuale, ma dove­va concretizzarsi nelle loro diverse identità storiche, nazionali e statuali, cultu­rali e religiose, sociali e di genere.

Il cammino dei diritti umani ha trovato un momento fondamentale di svolta nel 1948 quando, all’indomani della guerra più distruttiva combattuta dal genere umano, si è scelto solennemente di non permettere più che si ricadesse in quella barbarie o in tragedie simili. I principi e i valori riassunti e incarnati nella Dichia­razione dei diritti umani, tuttavia, avevano radici complesse e più antiche, e non erano di per sé sufficienti a imporne la realizzazione e sanzionare coloro che vi si opponevano. È da quel momento, tuttavia, che un sistema dei diritti umani -composto da teorie, concetti, riflessioni, ma anche da norme, leggi, istituzioni -ha cominciato a esistere, permettendo che attorno a esso crescesse la coscienza di un’opinione pubblica sempre più vasta. La crescita compiuta da questo sistema ne­gli ultimi quindici anni, in termini di consapevolezza ma anche di attenzione con­creta e di intervento pragmatico e diffuso da parte di persone e organizzazioni di ogni tipo, pur se non ha affatto risolto gli interrogativi che l’umanità si trova da­vanti sul terreno dei diritti umani, ha permesso che essi divenissero più chiari e ci si potesse confrontare con la speranza di affrontarli in un modo migliore.

Marcello Flores

Piano dell’Opera

Dizionario I A-G

Dizionario II H-W

Atlante I -I soggetti e i temi

Atlante II -Gli strumenti;Nel Mondo

Documenti

Documenti fotografici

MONTELEPRE:LA PROCESSIONE “DEI MISTERI”DEL VENERDI’ SANTO

MONTELEPRE

TRA ANTICO E NUOVO AI PIEDI DELLA GRANDE TORRE

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Montelepre, piccolo e tranquillo paese di collina, a 343 metri dal livello del mare, si trova in una zona montuosa molto scoscesa e impervia, che gli rende aspra la via per il capoluogo della Sicilia, e degrada con un pendio abbastanza sensibile verso il territorio di Partinico.

Confina a nord con il territorio di Carini, ad est con i territori di Giardinello e Monreale, a sud ed ovest con quello di Giardinello e Borgetto. Il territorio del Comune ha una estensione di ettari 989 e are 12, pari a Kmq 9,8912.

L’impianto urbanistico di Montelepre è caratterizzato da vie strette e tortuose che si snodano secondo un tracciato determinato dalle concrete esigenze degli abitanti e dai naturali dislivelli della piattaforma quadrangolare sulla quale il paese sorge. Il vario sus­seguirsi dei volumi degli edifici che fiancheggiano le strade è vivi­ficato dal rosso delle coperture a tegola e dal verde che lo circonda.

La cittadina ha una popolazione di 5.174 abitanti. Vi si accede attraverso le strade provinciali, per lo più tortuose, da Palermo, attraverso i tornanti di Bellolampo, da cui dista 24 Km; da Giar­dinello Km 2; da Partinico e da Carini Km 10; da Borgetto Km 7.

Dal monte Fior dell’Occhio, territorio di Monreale, nasce il torrente « Mandra di Mezzo » che lambisce, nel suo percorso, il confine sud del centro urbano e prosegue nel suo cammino, adden­trandosi nel territorio di Giardinello.

Il paese ha davanti a sé, ben visibili dalla Piazza Ventimiglia e dai punti più alti del paese, le bellezze naturali del Golfo di Castellammare, con l’alternarsi di spiagge e coste a picco, con i fara­glioni di Scopello, le spiagge di Balestrate ed Alcamo Marina e gli incantevoli scorci di Capo S. Vito, che nell’insieme costituiscono uno dei più naturali e pittoreschi paesaggi siciliani.

Spontaneamente formatosi ai piedi, del turriforme Castello

Ventimiglia eretto nel Quattrocento a presidio del territorio, Montelepre propone l’immagine pittoresca di un paese ricco di articolate prospettive. Su un tessuto urbano ondulato dai continui dislivelli imposti dalla condizione montana la densa edilizia conserva gustosi timbri dei passato; belle chiese guarniscono lo scenario paesano con le loro misurate sonorità architettoniche e coi loro corredi d’arte.

E’ dalla Chiesa Madre, probabilmente la più importante del paese, che prende il via la Processione dei misteri, una sfilata che il Venerdì Santo percorre tutto il paese rappresentando più di cento scene bibliche e coinvolgendo più di quattrocento personaggi di ogni età.

La processione dei misteri del Vecchio e dei Nuovo Testamento, nasce dalla più antica tradizione di Montelepre ed è molto sentita da tutti gli abitanti del paese che vengono coinvolti attivamente nei preparativi.Essa è la riproposizione di quadri viventi raffiguranti le scene più significative dell’A.T. e del N.T. desunte dal testo di un farmacista di Carini,Luigi Sarmento,il quale nel 1741 scrisse un’opera dal titolo Vita, passione e morte di Cristo Signor nostro per solennizzare la festa del SS. Crocifisso

si pensa che questa sia legata ai primi abitanti dell’antico fendo di Munchilebbi, quei contadini che prima la utilizzarono come semplice elemento di contorno alle processioni pasquali di rito comune, poi, si suppone intorno alla prima metà del XVII secolo, come una vera istituzione religiosa che è continuata fino ai giorni nostri.

La Processione dei Misteri, che dura circa quattro ore e si sviluppa in lunghezza per quasi un chilometro, è collegata alla processione del Cristo Morto, antica statua posta in un urna di vetro del XVIII secolo, portata a spalla dai confratelli dell’ antica congregazione dei. Galantuomini, i cui membri fino a qualche tempo erano i soli esponenti dell’alta borghesia del paese,.

Segue la statua della Madonna Addolorata, imponente statua lignea del XVIII secolo, portata a spalla dai confratelli dell antica congregazione delle Maestranze, rigidamente in abito scuro. Durante la Processione, in punti ben precisi, vengono rivissute le cadute di Cristo; al termine della processione, alcuni dei. personaggi presentano della rappresentazione della morte di Cristo, seguita, la notte di. Pasqua dalla rappresentazione della Resurrezione.

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CONVEGNO

LA Settimana Santa a

Montelepre

IV Convegno – Studio “La Settimana Santa a Montelepre”

Con il patrocinio della Presidenza della Regione Siciliana, le Associazioni A.T.M.A. e PRO LOCO, le Parrocchie di Montelepre vi invitano a partecipare al Convegno.

“La Settimana Santa a Montelepre e la Processione dei Misteri”

che avrà luogo Sabato 08 Aprile 2006 alle ore 16.00 presso la Cripta di Santa Rosalia.

Ore 16.00 Introduzione a cura del moderatore Sig. Giuseppe Cucchiara

Ore 16.30 Saluto del Sindaco del Comune di Montelepre Dott. Giacomo Tinervia

Ore 16.50 Saluto dell’Arciprete di Montelepre Don Gaspare Randazzo

Ore 17.20 Saluto dell’Assessore Provinciale Dott. Aristide Tamaio

Intervento del Prof. Michele Vilardo “La Pietà Popolare nei paesi dell’Arcidiocesi di

Monreale

Ore 17.45 Intervento di Don Santino Terranova, autore del libro “La Settimana Santa a Montelepre99 Breck

Ore 18.00 Intervento delI’Arch. Cacioppo “Feste di Pasqua in Sicilia”

Ore 18.20 Intervento del Prof. Francesco Ciulla “Evangelizzazione della Parola di Cristo”

Ore 18.45 Intervento del Dott. Angelo Torre “La Sofferenza di Maria ai piedi della Croce”

Ore 19:00 Intervento del Dott. Mario Liberto “Le tradizioni popolari nel territorio siciliano”

Ore 19.30 Saluto del Presidente della Regione Siciliana

Ore 19.45 Chiusura dei lavori a cura del moderatore

DALLE ORE 09,00 ALLE ORE 20.00 MOSTRA FOTOGRAFICA SUL TEMA

RELAZIONE SVOLTA DAL PROF.MICHELE VILARDO

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Anche quest’anno a Montelepre è stato organizzato un momento di studio e di riflessione sulla settimana santa e sulla processione dei misteri,perché, credo, avvenga una comprensione del passato,della storia civile e religiosa della comunità monteleprina.Infatti tutti noi abbiamo bisogno di coglierci come uomini del presente ma fortemente legati al nostro passato per seppellirlo come dice mons.Naro citando uno storico francese. Infatti per vivere il presente è necessario seppellire il passato non nel senso di obliarlo,di oscurarlo o peggio ancora di cancellarlo ma di metabolizzarlo. Questo convegno,per citare una espressione di Mons.Naro presente alla fine del libro,è un bel funerale del nostro passato,cioè un riconoscerci nel nostro presente come dipendenti e,nello stesso tempo ormai distanti,da un passato che è ormai inevitabilmente tramontato. Un passato che pur essendo già tramontato ha lasciato però una eredità civile e religiosa fondamentale consentendo a tutti noi di coglierci come presente legato al passato e proiettato al futuro. Questo momento di riflessione comunitaria ha indubbiamente anche lo scopo di cogliere l’identità cattolica delle nostre comunità. Per essere più chiaro sul concetto di identità religiosa:non voglio dire che bisogna abolire la ormai assodata tradizione che ci ha portati a separare il potere politico da quello spirituale con la nascita dello stato laico e pluralista. Il concetto di laicità dello stato è cosa molto diversa e opposta dal concetto di stato laicista,infatti la laicità dello stato la si può considerare come una sinfonia di valori religiosi,civili e culturali che si integrano tra di loro per il bene comune. Mentre il bieco laicismo statalista,del quale sembra esserci oggi un ritorno, è una netta e spesso acritica opposizione e rifiuto di tutto ciò che è cammino spirituale dell’uomo e nella fattispecie di tutto ciò che è targato cattolicesimo. Nonostante tutto è innegabile che l’identità civile,oltre che religiosa,delle nostre comunità è stata plasmata, nel tempo, dalla presenza del crisitianesimo-cattolico.Da una recente indagine di natura sociologica,svolta dal Cesnur di Torino sul territorio dell’arcidiocesi di Monreale, e di cui sono stati pubblicati gli atti,si evince, circa l’appartenenza religiosa nella diocesi di Monreale, che si dichiara cattolico il 93,33 % degli intervistati, ateo il 2,12 %, religioso senza religione lo 0,55%, e appartenente ad altro credo il 4%”. È un “paesaggio” che, secondo Luigi Berzano, “ripropone la tipicità del caso italiano”, in cui “il dato quantitativamente più rilevante” è rappresentato dalla schiacciante maggioranza di coloro che dichiarano “l’appartenenza alla religione cattolica”. Anche se dalla stessa indagine emerge una identità forte ma una identificazione debole. In questo contesto che non vede più una coincidenza tra la comunità civile e quella ecclesiale, quest’ultima sente il bisogno in un sempre crescente cammino di auto-comprensione di se e dei contenuti della sua fede,sente il bisogno dicevo, di cogliere sempre meglio la propria identità e di capire come mai ad una identità forte possa corrispondere una identificazione spesso debole. Possiamo considerare la settimana santa a Montelepre un momento nel quale questa comunità ecclesiale pone in essere oltre che una identità cattolica forte anche una forte identificazione?Cioè i riti extraliturgici della settimana santa come la processione dei Misteri cui fa seguito la processione del cristo morto e della madre addolorata,possono essere considerati come momenti staccati o addirittura opposti rispetto alle celebrazioni liturgiche?credo che la risposta sia no e vedremo il perché. Uno dei padri fondatori dell’esistenzialismo moderno, Martin Haidegger,diceva che tutti noi esseri umani entrando nel mondo entriamo in un solco già tracciato da altri,ci inseriamo cioè in una “esistenza tramandata” dove ognuno di noi non ha dovuto cominciare da zero ma ha trovato già il solco tracciato da altri e vi si è inserito per continuare a tracciarlo per chi verrà dopo di noi. Tutti noi, cioè, ci siamo inseriti in una traditio,in una tradizione composta da valori civili, sociali, familiari,economici che ognuno di noi,aiutato dall’importantissimo processo educativo,ha fatto propri connotandosi come “civis”,cittadino. Lo stesso identico meccanismo avviene per l’esperienza religiosa,quando si entra a far parte di una determinata religione si entra in un solco già tracciato da altri, si entra in una “traditio fidei” con la quale si sono tramandate, di generazione in generazione, le grandi verità di fede credute,celebrate e vissute da una determinata

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religione,soprattutto se essa ha un fondamento storico,una forte dimensione salvifica e una finalità escatologica come il cristianesimo-cattolico. Infatti, il cattolicesimo ha tutti e tre queste caratteristiche ed ha una sua specificità,che altre religioni non hanno e che ci consente questo pomeriggio di stare qui a discuterla caratteristica del credere che “Dio si è fatto uomo”è nato(Natale) e sempre questo Dio-uomo,Gesù di Nazareth detto il Cristo,ha sofferto è morto ed è risorto cioè la Settimana santa e la Pasqua. La prima settimana santa,con il culmine del triduo pasquale,è stata la conclusione della vicenda storica di Gesù di Nazareth il quale ha soffertola passio,è morto crocifisso ed è risorto come Cristo vittorioso incardinando nella crudeltà della storia umana la certezza della presenza salvifica di Dio-Trinità, che lo ha tirato fuori dalla tomba, e della certezza che alla fine della storia tutti gli esseri umani saremo richiamati in vita per la potenza di dio e di cui la resurrezione del Dio-Uomo è già una caparra. I fatti e le vicende storiche della prima settimana santa, documentate minuziosamente dai vangeli e dal nuovo testamento, non si ripeteranno mai più dal punto di vista della storicità degli stessi fatti,cioè quei fatti sono accaduti una volta sola, ma continueranno a ripetersi dal punto di vista del Mistero Salvifico. Che cos’è il mistero salvifico?la presenza di Dio-Salvatore nella storia degli uomini cosicché ogni anno durante i riti liturgici ed extraliturgici della settimana santa, che ricordano le vicende storiche della prima settimana santa,viene data al credente la possibilità di partecipare al mistero di salvezza e di ottenere questa salvezza nell’oggi della storia attraverso la presenza della comunità credente,la chiesa che celebra il mistero pasquale. Nel parlare della settimana santa a Montelepre non si può prescindere da quanto detto fin ora,cioè la settimana santa di Montelepre, è espressione della l’inculturazione della fede a Montelepre proprio perché si inserisce in un solco già dato,si inserisce nella cattolicità e all’interno di essa nella traditio fìdei,si ricollega attraverso il ricordo liturgico ai fatti storici della prima settimana santa. Potremmo dire che la settimana santa a Montelepre è la stessa,per esempio di quella di Partinico,Borgetto,Carini ecc.ecc?assolutamente no. In che senso c’è diversità?non nella sostanza dell’evento e della celebrazione dello stesso ma nelle modalità di recezione del messaggio del cristianesimo e nel modo con cui la comunità credente monteleprma ha vissuto e vive nell’oggi il mistero salvifico di cristo morto e risorto. Tutto ciò si chiama inculturazione della fede. La settimana santa di Montelepre si inserisce, in tutto ciò, in una duplice tradizione:la prima legata alle sviluppo della inculturazione della fede in Siciliana seconda legata alla sviluppo del cattolicesimo in questo territorio ponendo le premesse storiche,liturgiche ed extraliturgiche per cui è possibile parlare di una sorta di Cristo Siciliano. Essenzialmente gli influssi maggiori che hanno caratterizzato , la settimana santa in Sicilia sono di duplice derivazione:

l’influsso bizantino con la nascita delle devozioni popolari e all’interno di esso il movimento

francescano con la devozione verso Gesù bambino e, per il nostro tema, verso il cristo sofferente e il tenero amore verso Maria addolorata. Il periodo che va dal XIII al XV secolo vide la comparsa delle prime statue dei crocifissi che esprimono la sofferenza e la morte di cristo. Il devozionismo a partire proprio da questo periodo si è insinuato profondamente nella coscienza e nelle espressioni di fede dei credenti ponendo le premesse per il nascere e lo svilupparsi anche delle tradizioni popolari siciliane della settimana santa. Il Plumari sostiene che l’origine della prima espressività popolare legata alla settimana santa nell’isola sia dovuta all’arrivo di coloni continentali,specie genovesi, che introdussero in Sicilia l’uso delle Casazze,cioè delle processioni dei misteri e dell’incontro tra il cristo risorto e la madre nel giorno di Pasqua.

L’influsso spagnoLo,il periodo che va dalla fine del XVI secolo fino al XVIII secolo.il dominio degli spagnoli,attraverso le famose figure dei Viceré,ha contribuito alla strutturazione definitiva dei riti della settimana santa in Sicilia.La controriforma cattolica diede vita ad un grande incremento degli ordini religiosi cui affidò la rinascita dottrinale,catechetica ed artistica.Nacque lo stile barocco,si ebbe un grande impulso circa la diffusione dell’uso delle statue per illustrare.così come

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voluto da papa Urbano VIII,la fede e i dogmi cattolici ridotti a soggettivismo e ad intimismo dalla riforma luterana. Si incremento il culto eucaristico,tramite la nascita delle quarant’ore. Si ebbe la definitiva distinzione tra la celebrazione liturgica dell’evento pasquale relegata al clero e la rappresentazione devozionale e drammatica dello stesso evento,fatta con un linguaggio che era corrispondente alla sensibilità del popolo.Si incrementarono enormemente le confraternite a cui venne affidato il compito della continuità della festa devozionale durante l’anno.La riforma liturgica del concilio di Trento impose la celebrazione di tutte le liturgie la mattina,comprese quelle della settimana santa,cosicchè nei pomeriggi della settimana santa si svilupparono i riti devozionali attraverso cui il popolo viveva la sua fede. Per il nostro discorso lo spagnolismo diede vita alla anticipazione del sepolcro del signore alla sera del giovedì santo.Risale al XVI secolo l’usanza di deporre nel sepolcro l’immagine del cristo morto,esponendo sopra il sepolcro il SS.Sacramento nell’ostensorio coperto da un velo.Nacque così l’identificazione dell’altare della reposizione con il Sepolcro. Infatti,sino ad oggi,nella coscienza popolare vi è una dissolvenza di significati tra l’adorazione della “presenza reale-ostia”conservata nel tabernacolo-custodia e del corpo-ostia del Signore conservato nel tabernacolo-sepolcro. Infatti in alcuni comuni dell’arcidiocesi di Monreale il venerdì santo mattina si verifica la visita ai sepolcri con la presenza dell’eucarestia e alle statue del cristo morto e dell’addolorata (Corleone)poste sullo stesso piano. In questo periodo iniziò anche la produzione di crocifIssi dalle braccia e dal capo snodabili dando vita alla strutturazione definitiva dei riti tradizionali della settimana santa e tali sono rimasti fino ad oggi.

Mentre quelli legati alla storia di questa chiesa locale,cioè alla diocesi di Monreale,anche se è bene ricordare che Montelepre fino al 1844 faceva parte della diocesi di Mazara del Vallo, sono di derivazione post-tridentina, eredità del Seicento ma soprattutto del settecento, secolo, quest’ultimo, in cui si realizzò pienamente il concilio di Trento. Il percorso di pietà popolare si è formato grazie all’influsso soprattutto di due ordini religiosi presenti nel territorio:i francescani,in Sicilia i Cappuccini, e i carmelitani oltre che per l’opera del clero secolare ricca di testi teologici e catechistici che sono entrati a far parte della traditio della Chiesa monrealese. Una pietà post-tridentina grazie soprattutto alla diffusione degli ordini religiosi con il compito specifico della predicazione e delle missioni popolari.

Ma fu il Settecento il secolo in cui si realizzarono pienamente le istanze innovatrici poste in essere dal concilio di Trento. La predicazione fu principalmente dedicata alla figura di Cristo con due nemici da fronteggiare: il vasto e variegato campo dottrinale e politico della riforma luterana e le idee dell’illuminismo.

Proprio il “secolo dei lumi” ci insegna una notevole vivacità, alimentata dalle pratiche di pietà sul mistero di Cristo semplice, povero e crocifìsso e dalla necessità di garantirsi la salvezza che, sebbene eterna, deve essere sperimentata già nel quotidiano.

La pietà settecentesca è prevalentemente cristologia e perciò essa, in sostanza, è riportata agli eventi decisivi della storia della salvezza: l’incarnazione, la passione e la morte in croce, la devozione verso l’umanità di Gesù vengono radicati nel popolo grazie a preghiere, canti, quadri devozionali. Esemplificativi di tutto ciò sono due testi, uno scritto dal farmacista carinese Luigi Sarmiento e l’altro dal prete monrealese Binidittu Annuleru (Antonino Diliberto).

II testo del Sarmiento, pubblicato in due edizioni del 1741 e del 1752, dal titolo Vita, passione e morte di Cristo Signor nostro* fu scritto per solennizzare la festa del SS. Crocifisso

di Carini che si svolgeva il 3 maggio In questo testo il Sarmiento rilegge, in chiave biblica e mistagogica, tutta la storia della salvezza cominciando proprio dalla creazione. Il testo da espressione a un concetto di fondo: la “devozione” (ossia il dedicarsi, l’avere una relazione), nel Settecento, era immedesimarsi nel Mistero di Cristo per avere un rapporto con lui nella consapevolezza che il sangue sparso da Cristo sulla croce è sangue che salva nell’oggi della storia e l’intera storia della salvezza è stata realizzata perché il credente si salvi nel tempo e nello spazio in cui egli vive:ciò è tipico della teologia, della spiritualità e della pietà del Settecento. Infatti nei testi di pietà del secolo dei lumi si parla di peccatoci salvezza dell’anima, dei dolori di Maria e di Cristo che sono un appello alla conversione. Il testo del Sarmiento dice anche l’introduzione al Mistero: dunque

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mistagogia. L’autore scrive: «Quest’opera è piccola circa la disposizione ma grande in quanto al Mistero». Che cos’è il mistero per il Sarmiento? È l’intervento di Dio che nella storia umana assume uno spazio e un tempo: ossia Gesù Cristo e il suo mistero pasquale che è il Mistero che salva. Questo si rende presente ed efficace, nell’oggi della storia, grazie all’opera dello Spirito Santo, che ci aiuterà a ricordare, cosi come dice l’evangelista Giovanni. Noi viviamo in un tempo che continua a scorrere ma nel momento in cui “ricordiamo” ci uniamo a quel Mistero al tempo unico che è Cristo.

La devotio del Settecento è finalizzata ad un rapporto personale con Cristo, la Madonna e i santi, un rapporto motivato dall’esigenza della conversione cioè di un volgersi deciso e radicale a Dio che salva nel suo Cristo. Il ruolo di Maria è di essere madre dei dolori e i suoi dolori simboleggiano il peccato umano. Il testo del Sarmiento ha costituito l’ossatura portante della festa del SS. Crocifisso a Carini fino al 1904. Ad oggi rivive nella “processione dei misteri” di Montelepre,. Il Settecento fu un secolo caratterizzato dalla cristologia attraverso le missioni popolari ad opera dei cappuccini e dei gesuiti. Sulla scorta della loro predicazione si diffuse la festa della inventìo crucis, ossia il ritrovamento, a Gerusalemme, della croce di Cristo, la cui festa fu posta liturgicamente il 3 maggio e meglio conosciuta come la festa del SS.Crocifìsso. Ancora oggi la festa del crocifisso viene celebrata nei comuni di Monreale e Bisacquino, il 3 maggio, a Carini, fino ai 1903 il 3 maggio, dal 1904 il 14 settembre (festa della esaltazione della croce); a Montelepre l’ultima domenica di giugno, a Giardinello in agosto, a Torretta la domenica successiva il 14 settembre. A Giuliana il venerdì dopo pasqua. Questa festa si celebrava, sempre il 3 di maggio, anche a Partinico e a Corleone.

Il venerdì santo

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Nella pietà popolare siciliana emerge il culto della passione e morte di Gesù nella quale la nostra gente si immedesima in partecipazione comunitaria. Ha scritto a tal proposito Randazzo che «la vera pietà di una volta all’anno, raccolta in tutto un anno, si comunica nel dolore della settimana santa, e in particolar modo il venerdì santo si celebra il «Tutto di Tutti», cioè il mistero della Passione, come «prototipo teologicamente unitario con uno stile culturalmente conforme ma con un atteggiamento che varia da comunità a comunità».

Nella pietà popolare, scrive Plumari, l’uomo di Sicilia vive ed esprime la partecipazione alla passione, morte e resurrezione di Cristo con la totalità della sua struttura antropologica, cosicché un popolo esce dalla solitudine, vive la comunione dando spazio ai suoi sentimenti alle sue emozioni con la totalità del linguaggio corporeo, con la gestualità, con il canto, i colori, il pianto, il grido.1

Al venerdì santo è emblematico e paradigmatico come i siciliani si ritrovino e si identifichino nel dolore del Cristo morto, stando muti davanti alla bara, e in quello dell’Addolorata, dinnanzi ai quali sentono che il dolore umano, il loro dolore è stato assunto da Dio.

Il venerdì santo inizia con la visita ai sepolcri, poco conosciuti come altari della reposizione, poiché si continua ad identificare, così come sostiene il Plumari, l’altare della reposizione con il sepolcro del Signore creando, nella coscienza popolare, una identificazione di significati tra l’adorazione della presenza reale-ostia e il corpo-ostia, per cui il tabernacolo è, allo stesso tempo, sepolcro.

In molti comuni dell’arcidiocesi al venerdì santo, per tutta la mattinata, continua la visita ai sepolcri con una duplice modalità: in alcune chiese permane la centralità dell’adorazione eucaristica senza nessun segno della passione, in altre, invece, all’adorazione eucaristica si affiancano le statue del Cristo morto e dell’Addolorata poste accanto ai sepolcri.

Nel territorio dell’Arcidiocesi i riti extraliturgici del venerdì santo si svolgono secondo tre delle quattro tipologie presenti nell’Isola: le processioni funebri del Cristo morto accompagnato dalla Madre addolorata; la processione dei misteri; le processioni in cui si compie la mimesi

‘Cf. A. Plumari, La Settimana Santa in Sicilia. Guida ai riti e alle tradizioni popolari, Città Aperta Edizioni,Troina 2003.

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cronologica degli eventi della passione. Manca la quarta modalità ossia la processione del Crocifìsso tipica di alcuni comuni dell’ennese. Delle tre modalità la seconda, quella della processione dei misteri, si svolge solamente a Montelepre e a Marsala secondo la tradizione della cosiddetta Casazza, ossia la processione attraverso la creazione di quadri viventi piuttosto che con gruppi statuali così come avviene, invece a Trapani e a Caltanissetta. I misteri di Montelepre sono

la riproposizione del testo del già Citato Luigi Sarmiento. Alla fine dei misteri si svolge la processione del Cristo morto e dell’addolorata. Nella quasi totalità dei comuni dell’arcidiocesi i riti si svolgono secondo la prima e la terza tipologia: a mezzogiorno si porta il Cristo al calvario lo si crocifigge, la sera lo si va a riprendere e lo si porta in processione seguito dalla Madre addolorata.

A Bisacquino mentre si porta, a mezzogiorno, il Cristo con la croce al calvario, vengono cantate le lamentarne, canti popolari di notevole spessore teologico, risalenti al Settecento, cantati a mo’ di lamentazioni. Questo rito è stato ripreso da qualche anno.

A Corieone e Balestrate il Cristo viene accompagnato al calvario deposto in un lenzuolo. A Corleone, nella mattina del venerdì santo, si ripete uno dei riti più antichi e più suggestivi della settimana santa in Sicilia: il Cristo morto viene deposto su un tavolo coperto di drappi rossi, nella cappella dei bianchi, e i fedeli vi si recano toccando e baciando la statua. A Prizzi il Cristo viene accompagnato al calvario deposto su una lettiga e ricoperto con un lenzuolo bianco. La sera, il Cristo morto, viene portato in processione sempre sulla lettiga. A Corleone, cosi come a Prizzi, il Cristo viene portato al calvario e lì crocifisso dal clero locale. Anche a Borgetto avviene la mimesi cronologica della passione e la sera il Cristo morto viene tolto dalla croce da ragazze non sposate, vestite di bianco, deposto in un lenzuolo e successivamente posto dentro l’urna di vetro. Alla fine della processione sono sempre le stesse ragazze a togliere il Cristo morto dall’urna.2 A Partinico e a Terrasini si svolgono, in serata, le processioni de! Cristo morto e dell’Addolorata senza mimesi cronologica della passione. A Torretta avviene un rito davvero singolare, la cosiddetta spartenza: verso la fine della processione l’urna del Cristo morto si distacca dall’Addolorata e viene portata nella chiesa del Sacramento dove i fedeli vanno a baciar i piedi al Cristo morto. Anche a Giuliana il venerdì santo si porta in processione l’urna con dentro il Cristo morto ad opera della Confraternita dell’Addolorata, fondata nel 1740 durante le missioni popolari tenute dai padri gesuiti.

Sino ad alcuni decenni addietro per l’occasione venivano intonati ai crocicchi delle strade e al calvario i canti della passione detti i lamenti di Maria:’ A Giuliana la domenica di Pasqua avveniva rincontro tra la Madonna e Cristo risorto, denominato ‘a paci piuttosto che ‘u ncontru. Ad oggi l’unico comune dell’arcidiocesi dove la domenica di Pasqua si realizza ‘u ncontru è Prizzi.

A Carini i simulacri del Cristo morto e dell’Addolorata vengono addobbati da ragazze non sposate chiamate virgìneddi. La sera del venerdì si svolge la processione funebre denominata della sulità. In alcuni comuni venivano celebrati anche i cosiddetti sabati di quaresima nei quali si celebrava un titolo mariano venerato da diversi ceti artigiani e contadini. A Carini il primo sabato era quello dei parrini (i preti) e si venerava la Madonna Immacolata. 11 secondo era quello dei galantumini (ceto borghese), i quali veneravano la Madonna del paradiso. Il terzo era ‘u sabatu ri mastri (gli artigiani) dedicato alla Madonna del Carmine. Il quarto era quello dei burgisi (i ricchi proprietari terrieri), che veneravano la Madonna del rosario.Il quinto era ‘u sabatu ri vurdunara (mulattieri, carrettieri, sensali) ed era dedicato all’Addolorata. Il sesto sabato era ‘u sabatu ri schietti (persone non sposate) ed era dedicato alla Madonna della mercede.4 A Partinico sopravvivono due dei sei sabati di quaresima: il quinto, quello dei burgisi e il sesto, quello dei mastri, i quali venerano rispettivamente la Madonna del rosario e quella del carmine. In questi due sabati, i predetti ceti, prendono la piccola effige della Madonna, che si trova custodita presso una famiglia prescelta dove è rimasta per tutto l’anno, la portano in processione presso la chiesa di San Gioacchino i burgisi”, al Cannine i mastri, dove avviene la celebrazione della santa messa. Finita la celebrazione l’effige viene portata, sempre in processione, presso una nuova famiglia dove rimarrà tutto l’anno seguente e dove di riuniranno le famiglie appartenenti al ceto per pregare.

Conclusione

Nella pietà popolare della settimana santa l’uomo di Sicilia vive ed esprime la partecipazione alla Passione,morte e resurrezione di cristo con la totalità della sua struttura che è simbolista e fortemente sensoriale,unendo la dimensione della festività e della tragicità. Il venerdì santo a Montelepre è un momento nel quale un popolo esce dalla sua solitudine,vive la comunione,dando spazio ai suoi sentimenti,alle sue emozioni,con la totalità del linguaggio corporeo,con la gestualità,con il canto,i colori, la commozione. Parlare della settimana santa allora significa guardare all’esperienza della morte e della vita che traspare nel popolo siciliano,significa avere un approccio e un confronto autentico con l’identità di un popolo che viene manifestata sia a livello individuale che collettivo attraverso la memoria -imitazione del Mistero di Cristo.Credo sia significativo che i siciliani si ritrovino nel venerdì santo muti davanti alla bara del cristo morto e il dolore della madre,di cui sentono profondamente che la sofferenza umana,sia fisica che morale,è stata accolta da Dio e che trova perciò un senso nel mistero stesso dell’uomo-dio morto sulla croce.Tutto ciò porta per il credente misericordia e redenzione dal proprio male.La fede cattolica

2 Cf. E. Liparoto, Borgetto: un percorso storico-etnografico, Tesi di Laurea in Scienze della Formazione, Università degli Studi di Palermo, Anno Accademico 1995-96, p. 65.

3 Cf. A.G. Marchese, La festa della Patrona di Giuliana “Maria SS. dell’Udienza”, Ila Palma, Palermo 1998, pp. 52-53.

4 Cf. V. Badaiamenti, Carini nelle tradizioni popolari, cit, p. 263.

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fondata sull’evento e sul mistero di Cristo dice la settimana santa,la sofferenza,la morte e la resurrezione di cristo,hanno cambiato il corso della storia umana rendendo comprensibile il dolore e il male perché l’uomo dio lo ha assunto su di sé e divenendo pertanto “pietra d’inciampo” per credenti e non credenti di ogni tempo e luogo.I riti della settimana santa dicono,infine,che il siciliano dinnanzi ad essi non si pone con logiche da turista ma si immedesima sperimentano e vivendo il Mistero che viene celebrato.

Alleluia!

Con la tua croce hai distrutto la morte,

hai aperto al ladrone il paradiso

hai mutato in gioia il lamento delle mirofore,

a ai tuoi apostoli hai ordinato di annunciare che sei risorto, o Cristo Dio, per elargire al mondo la grande misericordia.

Dalla Lituriìa Bizantina

RELAZIONE DI SUA ECC.REV.MA,

MONS.CATALDO NARO,

ARCIVESCOVO DI MONREALE,

AL TERZO CONVEGNO SULLA”PROCESSIONE DEI MISTERI”,

DI MONTELEPRE,

ORGANIZZATO DALLA PARROCCHIA SANTA ROSALIA

IN COLLABORAZIONE CON LA PRO LOCO E IL COMUNE DI MONTELEPRE.

CRIPTA DELLA PARROCCHIA DI SANTA ROSALIA

DOMENICA 6 APRILE 03 ORE 16.

LA PROCESSIONE DEI MISTERI:LA STORIA DELLA SALVEZZA ATTRAVERSO I QUADRI DELL’ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO.

Si è creduto opportuno dare vita ad un momento di studio che anticipa il momento celebrativo:perché? Tre considerazioni:

1-Se una realtà è viva non ha bisogno di essere studiata. Negli ultimi anni c’è stato uno sviluppo della manifestazione nel senso dell’interiorità:dunque la manifestazione non è un teatro,un dramma o una recita del passato.

2-Si sente questa esigenza di studio perché,comunque,questa celebrazione ci giunge dal passato,si è modificata negli ultimi anni, ma è qualcosa del passato. Infatti le due edizioni dell’opera del Sarmento,da cui tre origine la processione dei misteri di Montelepre, risalgono al 1741 e al 1752.

Un grande storico e metodologo della storia, Michel De Certò,dice che il compito della storia è quello di seppellire il passato e ciò è un’operazione necessaria altrimenti i vivi non potrebbero vivere il presente e quest’ultimo può esistere, avendo una coscienza di sé, solo rapportandosi con il passato e considerandolo come tale,cioè passato.

Ora se noi diciamo Sarmiento il passato nel 1700 era così,ma anche oggi è così, “quest’oggi è così”è importante:noi guardiamo al passato per poter dire l’oggi.

3-Noi viviamo in una società cristiana perché vive di una eredità cristiana e tuttavia sappiamo che dal 1860,da quando cioè è nato lo stato laico, tutte le sue articolazioni non sono confessionali e quindi neppure cristiane. Questa idea che dapprima sembrava solo funzionale al rapporto tra la chiesa e lo stato,gradualmente è diventata una separazione netta tra la società e la comunità cristiana, cosicché, le due realtà non sono più coincidenti,non sono la stessa cosa. La società è più ampia è comprende anche la comunità cristiana.

Anche nelle nostre realtà locali dove potrebbe darsi,di fatto,che tutti i membri della comunità civile si identifichino,nello stesso tempo,come membri delle due parrocchie presenti a Montelepre, ma,per principio,una cosa è l’appartenenza civile e un’altra è quella ecclesiale.

Tutto ciò ha creato,a poco a poco,l’idea che la società civile è distinta e separata dalla comunità cristiana, e le celebrazioni di quest’ultima devono essere motivate di fronte ad una società che non è cristiana.

Perchè accanto alla via della “devotio” c’è la via dello studio?Perchè viviamo in una società secolarizzata,laica,in cui accanto al momento ecclesiale c’è un momento civile in cui bisogna dire le motivazioni della fede cristiana ad una società non del tutto cristiana.

In relazione ai Misteri di Montelepre c’è un richiamo al testo del carinese Luigi Sarmento scritto in funzione della processione del Crocifisso del tre maggio,rievocando la storia della salvezza a partire dall’antico testamento,dalla creazione.

Sarebbe interessante scoprire,storicamente,come questo testo sia arrivato a Montelepre e capire il fatto che oggi a Carini non è più in uso mentre a Montelepre lo è ancora.

Nell’introduzione all’opera,dal titolo “ Vita,passione,e morte di Cristo Signor Nostro”,l’autore così scrive rivolgendosi alla “gloriosissima e sempre vergine Maria Madre di Dio”: “Non vi turbate tanto,o inclita Regina dell’universo,se vi vedete presentare, altra volta, da questa inesperta ed indotta mano di vilissimo peccatore….la penosissima Vita,Passione e Morte del Figliol vostro diletto,non già per rammentarvi i tormentosi affanni,che in quel tempo provaste,ma per maggiormente scolpire nei cuori dei Cattolici la dovuta stima del preziosissimo Sangue che nella terra e pietre di Gerosolima (Gerusalemme)Egli sparse per la comune salute, e per mostrare la singolare divozione di questo vostro divoto popolo di Carini….”.L’introduzione è un capolavoro nel senso che dice tutta un epoca e su cui è possibile fare tre considerazioni:

1-Il tempo sacro che diventa tempo santo.

2-La devotio dell’epoca(il 1700),in cui vennero avviate queste manifestazioni.

3-Il livello attuale:perché oggi c’è ancora e che cosa ci dice?

Primo punto:il Tempo. Il Sarmiento scrive:”noi diamo vita a questa manifestazione non già per rammentarvi i tormentosi affanni che un tempo provaste”:c’è un tempo storico 1750 anni prima che l’avvenimento venisse rievocato dalla celebrazione,c’è un tempo che viene ricordato è ciò è essenziale nel cristianesimo. Infatti una manifestazione come quella descritta dal Sarmento, per il tre di maggio a Carini, ricordata,oggi,nella processione dei misteri, ci dice che il cristianesimo è una religione storica indica,cioè l’inserimento di Dio nella storia degli uomini e l’assunzione in Dio di un tempo di uomini,non semplicemente il tempo sacro ma il tempo santo.

Qual’è la differenza?Il sacro è tutto ciò che ci mette in rapporto con il divino inteso come ciò che sta al fondo dell’essere e tutte le religioni hanno tempi e spazi sacri,come ad esempio la valle dei templi di Agrigento. I tempi sacri erano alcune giornate dell’anno dedicate al culto degli dei,in quel giorno si rompeva il ritmo della quotidianità e della ferialità e ci si immergeva in un tempo che permetteva di attingere il fondo dell’Essere:il Divino.

Il santo è ,invece,un divino personale cioè Dio che si fa storia che entra in rapporto con gli uomini e il tempo e lo spazio toccati da questo Santo,dal Dio-Personale,diventano “divini” nel senso che entrano in relazione-comunione con Dio.

E’ questo è molto importante per il cristianesimo. Il fatto che a Montelepre, ogni anno si ricordi tutta la storia della salvezza a partire da Adamo ed Eva,quindi tutto l’A.T. e il N. T.,sottolinea, innanzitutto,la dimensione storica del cristianesimo.

E’ “storica”significa:il ricordo degli avvenimenti in cui Dio è intervenuto nella vicenda degli uomini,ricordare tutto ciò è salvifico.

In Giovanni,nei discorsi dell’addio,Gesù promette agli apostoli lo Spirito che avrà il compito di “ricordare” ,a noi, le cose che Egli ha detto e fatto. La fede cristiana è,essenzialmente,”ricordo”,ossia l’azione dello Spirito Santo che è un’azione di ricordo.

Ma l’autore parla anche di “Mistero”:<quest’opera è piccola circa la disposizione ma grande in quanto al mistero>.

.Che cos’è il Mistero?E’ l’intervento di Dio nella storia attraverso l’assunzione di un tempo e di uno spazio. Gesù Cristo,essendo veramente uomo,oltre che Dio,2000 anni fa,ha occupato uno spazio e un tempo,cioè gli anni della sua vita terrena trascorsi in Palestina. Ora il Suo tempo e il Suo spazio sono stati assunti,per sempre ,da Dio. Quando diciamo morte e resurrezione di Cristo diciamo che, nella Sua dimensione corporea, Gesù è in Dio, è il Figlio Eterno che ritorna nella Trinità con la Sua vicenda terrena. Il Figlio sarà ,per sempre,il Figlio-incarnmato:questo è il Mistero.

Noi,nell’oggi della storia,come ci inseriamo in questo mistero salvifico?con la celebrazione liturgica e con una manifestazione di pietà popolare. Noi viviamo in un tempo che continua a scorrere,ma nel momento in cui ricordiamo,di fatto, ci uniamo a quel Mistero,al tempo unico e allo spazio unico che è Cristo. E così il nostro tempo e il nostro spazio vengono assunti da Cristo in Dio:questa è la salvezza. Il nostro tempo e il nostro spazio si salvano unendosi a Cristo.

Tutte le religioni hanno l’ambizione di salvare gli uomini,di non renderli soggetti alla morte,a ciò che passa ed unirli al fondamento di ogni cosa che è Dio. Il cristianesimo dice che tutto questo avviene non perché lo spazio e il tempo siano di per sé salvifici ma lo diventano se uniti a Cristo,il Santo di Dio,cosicché anch’essi diventano Santi,in quanto partecipano della santità di Dio, e si salvano.

Se il tempo e lo spazio non si uniscono a Lui diventano dannazione. Ognuno di noi che ricorda Cristo e si unisce a Lui si salva. Il Sarmento aveva chiaro tutto ciò nella sua mente. Infatti,se ha scritto questa opera, era per ricordare,ai suoi contemporanei,il tempo storico della salvezza,ciò che avvenne 1750 anni prima di quando visse l’autore,e per unirsi a quel tempo e così salvare il suo tempo. Quegli uomini che nel ‘700,parteciparono a quella processione si sono salvati ora sono con Cristo,lo erano nel loro tempo e nel loro spazio,lo sono ora nella gloria.

Secondo Punto:una manifestazione come questa ci dice la spiritualità di tutta una epoca:il ‘700,ossia il concetto di devozione. L’autore dice,rivolgendosi a Maria, che il fine della sua opera non è: “per rammentarvi i tormentosi affanni,che in quel tempo provaste,ma per maggiormente scolpire nei cuori dei Cattolici la dovuta stima del preziosissimo Sangue che nella terra e pietre di Gerosolima (Gerusalemme)Egli sparse per la comune salute, e per mostrare la singolare divozione di questo vostro divoto popolo di Carini”.

Ma che significa devozione? Dedicarsi, avere una relazione,cioè entrare in rapporto con Dio. Dunque la devozione dice introduzione al mistero cioè mistagogia.La devozione del ‘700 era immedesimarsi nel mistero di Cristo per avere un rapporto con Lui:il sangue sparso da Cristo sulla croce è sangue sparso per noi,che viviamo qui ed ora,l’intera storia della salvezza è stata realizzata perché il credente si salvi nel tempo e nello spazio in cui egli vive. Nei testi di pietà del ‘700 si parla di peccato,di salvezza dell’anima,dei dolori di Maria che sono un appello alla conversione. Il contesto tipico del ‘700 è una devotio finalizzata ad un rapporto personale con Cristo,un rapporto motivato dall’esigenza della conversione,cioè di un volgersi più deciso a Dio attraverso il suo Cristo,con il pentimento dei propri peccati.

Terzo Punto:perché queste celebrazioni nell’oggi?hanno la stessa valenza del ‘700?Sicuramente viviamo in un contesto storico diverso da quello del ‘700. Vorrei cogliere due caratteristiche del tempo attuale:

a) la prima è relativa al concetto di società secolarizzata:oggi c’è una ricerca della identità,in crisi,delle comunità civili. Il concetto di “crisi di identità”è nato durante la prima guerra mondiale allorché i soldati,al fronte,non ricordavano più chi erano a causa delle atrocità della guerra. Un concetto,quello di crisi di identità,nato in ambito medico,ma, oggi,esteso ai problemi della società attuale. La ricerca della identità dice crisi della stessa,ossia dice che la stessa non è più pienamente posseduta,che si è persa o si sta perdendo qualcosa di fondante l’identità civile e comunitaria. A tal fine,cioè per il recupero della vera identità delle nostre popolazioni,delle comunità locali,è giusto che recuperiamo ed esaltiamo le nostre tradizioni,molti delle quali derivanti dalla presenza del cattolicesimo sul nostro territorio e,dunque,tradizioni religiose,che le viviamo e le celebriamo con più maestosità e vistosità. Nelle nostre comunità l’identità è frutto della storia della presenza del cristianesimo cattolico. E’ giusto,allora che le autorità civili si occupino anche delle tradizioni religiose proprio per salvaguardare la perdita della identità delle nostre comunità

b) Accanto a quanto detto prima,c’è da parte della comunità credente un’altra esigenza,non opposta o in conflitto con la precedente,ma sicuramente diversa:cioè l’esigenza mistagogica,attraverso il tentativo di riappropriarsi dell’intenzione primordiale,cioè di una celebrazione di questi misteri in funzione di una introduzione al mistero cristiano e,principalmente, in funzione di una devozione,di un rapporto con Cristo. Questa esigenza è conflittuale nei confronti dell’esigenza della ricerca della identità?non necessariamente. Si possono creare dei conflitti qualora la manifestazione perdesse il suo valore mistagogico e diventasse solo percorso per recuperare l’ identità civile,storica e sociale. Se diventasse solamente ciò, a lungo andare, la manifestazione stessa,perdendo il suo humus,cioè il suo rapporto con l’identità storica segnata dal cristianesimo,sarebbe destinata a scomparire.

L’istanza, propriamente ecclesiale,con finalità mistagogiche,di animare,dal di dentro,questa manifestazione è funzionale,anche,alla ricerca di quella identità di cui si parlava prima e al mantenimento della stessa.

A tal proposito,è giusto che, si stia attenti a che queste iniziative,come questa, rimangano di soggetto ecclesiale pur nella difficoltà,non indifferente,di dovere coniugare il percorso ecclesiale con quello civile poiché non sono la stessa cosa. Tuttavia resta fermo il fatto che il soggetto promotore di questa manifestazione non può essere un soggetto laico(comune,pro loco ecc),per principio laico e non cristiano,perché verrebbe meno la stessa sostanza della realtà celebrata scadendo in teatro o in sacra rappresentazione. Allora il soggetto non può che essere ecclesiale cioè di persone che credono e che pongono in essere la processione dei Misteri.

RESISTENZA ALLA MAFIA: CROCEVIA DI LEGALITA’ E SANTITA’

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Per un discorso CRISTIANO CONTRO LA MAFIA:un confronto critico a partire dalla proposta culturale di Mons.CATALDO NARO:O IL VANGELO O LA LUPARA.

PROGETTO “SANTITA’ E LEGALITA’”

Per un discorso cristiano di resistenza alla mafia

nel territorio della Chiesa di Monreale

Il progetto denominato “Santità e Legalità”,fu fortemente voluto da Mons.Cataldo Naro in collaborazione con il Consorzio Sviluppo e Legalità che raggruppa alcuni comuni dell’alto Belice-Corleonese. Dunque,opporre una forte resistenza, per mezzo di una evangelizzazione delle coscienze credenti, al fenomeno mafioso in un territorio fortemente segnato da esso. La Chiesa doveva scendere in campo,contro la mafia,attenendosi al suo specifico compito,cioè l’evangelizzazione,e usando contro di essa i valori prettamente Evangelici e il linguaggio cristiano. Il compito della Chiesa contro la mafia era quello,nella visione di Mons.Naro,di educare cristianamente le coscienze contro ogni forma di male e,nello specifico,contro la mafia,intesa come “struttura di peccato” e,dunque,come male sociale. A tal proposito così si esprimeva il presule:”Mi sembra assurdo che cristiani consapevoli della loro vocazione di figli di Dio possano essere partecipi di una cosca mafiosa o con essa conniventi o anche solo accettarne il peso devastante nella società”.”Tanti mafiosi-raccontava- non hanno esitato nel passato e,in parte,continuano tutt’ora a presentarsi,più o meno strumentalmente,come uomini religiosi,un po’ a modo loro,ma religiosi”. E aggiungeva:”No,non è possibile una qualunque giustificazione della mafia”.”Si impone- diceva- che nella pastorale più ordinaria siano presenti una consapevolezza e un impegno formativo in questo senso:perché i mafiosi non s’illudano di vivere una loro religiosità che possa dirsi anche lontanamente cristiana” ”(Intervista rilasciata a Giuseppe Di Fazio della Sicilia di Ct e pubblicata il 2-10-06).”

Pertanto era necessario:

  • Riscoprire le espressioni più alte del vissuto della fede cristiana,ossia le figure dei tanti santi,beati,venerabili che nel corso dei secoli avevano segnato,con la loro vita e con le loro opere,l’inculturazione della fede nel territorio dell’arcidiocesi monrealese. A tal proposito Mons.Naro diceva:” I nostri “eroi” non sono i feroci capicosca della mafia o i pericolosi capibanda di fuorilegge che tanta sofferenza e tanto odio hanno seminato nella nostra terra. I nostri eroi sono le figure eminenti di un cristianesimo semplice e robusto,fedele e coraggioso,cioè i santi e le sante,i venerabili e le venerabili,i servi e le serve di Dio che lo Spirito Santo ha continuato a suscitare nella Chiesa monrealese lungo i secoli,ma con una sorta di accelerazione ed anche d’infoltimendo proprio nel Novecento”(ib.)Dunque dal cappuccino Bernardo da Corleone alla beata partinicese Pina Suriano. Per Mons.Naro queste figure “mostrano che il Cristianesimo è realizzabile,dicono la possibilità di attuarlo”(ib.)

· Altresì,il progetto aveva lo scopo di verificare se i cosiddetti “Martiri per la giustizia” uccisi dalla mafia, nel tempo e nel territorio dell’arcidiocesi di Monreale,avessero oltre che il senso dello Stato e dei suoi valori,per l’affermazione dei quali sono stati uccisi in adempimento dei loro doveri civili e/o istituzionali,anche il senso cristiano della vita e del loro dovere istituzionale

Il progetto,nella sua attuazione pratica,prevedeva i seguenti obiettivi di fondo:

1-fare conoscere a una pluralità di soggetti che vivono in alcuni comuni dell’Arcidiocesi alcune figure di Santi espressione della vita di fede e dei valori evangelici incarnati in questo territorio unitamente ad alcuni martiri della giustizia che hanno trovato la morte,per mano mafiosa,in questo territorio come figure da far conoscere alle giovani generazioni e da imitare per una sana crescita civile ed etica dei giovani;

2-portare ad una riflessione circa il concetto cristiano di Perdono e come cammino della vita di fede dei credenti e come medicina per lenire,nella società civile, l’odio e la vendetta scaturenti da fatti criminosi;

3-porre l’attenzione su un corretto uso dei beni materiali e del denaro e dare una lettura etica,morale,ecclesiale e sociale della triste piaga dell’usura.

4-proporre la riflessione su alcuni scritti,di notevole interesse,di vittime della mafia.

Pertanto si sarebbero dovuti svolgere 4 incontri sui seguenti temi e nelle seguenti località:

I: Alcune figure di santità della chiesa locale e alcune figure di

“martiri della giustizia e indirettamente della fede”;(Partinico).

II: L’usura come problema etico-morale e sociale;(Carini).

III: La prevenzione del crimine,oggi,nei giovani a rischio;(Torretta).

IV:Un fronte comune contro le mafie;(Terrasini).

Infine,il progetto si proponeva di approfondire le predette tematiche in alcune scuole secondarie di primo e secondo grado, dei comuni più popolati della diocesi, per l’anno scolastico 2007-08.

Il progetto fu presentato a Camporeale il 5-06-05.

LE MENSE DI SAN GIUSEPPE A BORGETTO.

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San Giuseppe (padre putativo di Gesù)

Giuseppe, secondo il Nuovo Testamento, è lo sposo di Maria e il padre putativo di Gesù. Il nome Giuseppe è la versione italiana dell’ebraico Yosef, attraverso il latino Ioseph.

Giuseppe, Maria e Gesù bambino sono anche collettivamente chiamati Sacra famiglia.

// Padre putativo

I Vangeli e la dottrina cristiana affermano che il vero padre di Gesù fu Dio stesso: Maria lo concepì miracolosamente senza aver avuto rapporti sessuali con alcuno, per intervento dello Spirito Santo. Giuseppe, messo al corrente di quanto era accaduto da una visione avuta in sogno, accettò di sposarla e di riconoscere legalmente Gesù come proprio figlio. Perciò la tradizione lo chiama padre putativo di Gesù (dal latino puto, “credo”), cioè colui “che era creduto” suo padre.

Vita

Le notizie dei Vangeli su san Giuseppe sono molto scarne. Parlano di lui Matteo e Luca: essi ci dicono che Giuseppe era un discendente del re Davide ed abitava nella piccola città di Nazaret. Riguardo alla sua professione, egli è definito in greco tèkton: secondo l’interpretazione tradizionale significa falegname, altre possibili traduzioni sono: carpentiere, carradore, fabbricatore di oggetti in legno, oppure muratore o manovale. Non è quindi chiaro se avesse una bottega propria, o se fosse dipendente, o addirittura lavorante a giornata.

Insieme a Maria, Giuseppe si spostò a Betlemme a causa di un censimento, e qui nacque Gesù; essi rimasero a Betlemme per un periodo non ben determinato, sembra da un minimo di 40 giorni (Luca 2,22;2,39) a un massimo di due anni (Matteo 2,16), dopo di che secondo Matteo fuggirono in Egitto fino alla morte del re Erode (nel 4 a.C.), quindi ritornarono a Nazaret. Luca non menziona il soggiorno in Egitto, ma concorda sul ritorno a Nazaret, dove Gesù visse fino all’inizio della sua vita pubblica.

Certamente Giuseppe era ancora vivo quando Gesù aveva dodici anni (vedi Luca 2,41-52); quando invece Gesù iniziò la sua vita pubblica, molto probabilmente era già morto. Infatti non è mai più menzionato dai Vangeli dopo il passo di Luca sopra citato (talvolta Gesù è chiamato “figlio di Giuseppe”, ma questo non implica che fosse ancora vivente), e quando Gesù è in croce, affida Maria al suo discepolo Giovanni, il quale “da quel momento la prese nella sua casa”, il che non sarebbe stato necessario se Giuseppe fosse stato in vita.

I Vangeli apocrifi forniscono altre notizie, che tuttavia vengono generalmente ritenute leggendarie. Secondo il Protovangelo di Giacomo, Giuseppe era molto anziano quando sposò Maria, e fu scelto tra gli altri pretendenti perché il suo bastone, posto fra gli altri sull’altare, fiorì miracolosamente. Per questo motivo san Giuseppe è tradizionalmente raffigurato con Gesù bambino in braccio e con in mano un bastone dal quale sbocciano dei fiori (generalmente un giglio bianco).

Poiché i Vangeli menzionano a volte dei “fratelli di Gesù“, alcuni ipotizzano che Giuseppe avesse avuto altri figli da Maria o da un matrimonio precedente. La Chiesa cattolica rifiuta questa interpretazione, e sostiene che si trattasse di cugini o altri parenti stretti (in greco antico vi sono due termini distinti: adelfòi, fratelli, e kasìghnetoi, cugini, ma in ebraico una sola parola è usata per indicare sia fratelli sia cugini) oppure collaboratori.

Le qualità

Nei Vangeli non viene riportata alcuna parola di Giuseppe; vengono riportate solamente le sue azioni dalle quali traspaiono le sue qualità.

  • “Uomo obbediente”. Conosciuto il volere di Dio attraverso un sogno, Giuseppe si appresta ad eseguirlo. E così sposa Maria anche se lei aspetta un figlio che non è suo; fugge in Egitto con Maria ed il bambino Gesù per sfuggire alla persecuzione di Erode; torna a Nazaret alla morte di Erode.
  • “Uomo giusto”. L’evangelista Matteo parla di Giuseppe come uomo «giusto». Il termine non significa soltanto correttezza, fare ciò che è dovuto e che noi diciamo giusto. In senso biblico, «giusto» è il timorato di Dio, l’obbediente ai suoi progetti. Giuseppe è giusto in quanto cerca di adeguarsi al piano di Dio nella vita di Maria. Non rinuncia al suo amore per Maria, glielo dichiara anzi, «prendendola con sé».

Culto

La Chiesa cattolica ricorda san Giuseppe il 19 marzo con una solennità a lui intitolata. Lo ricorda il 1° maggio col titolo di Lavoratore. Inoltre la Domenica tra il Natale ed il 1 gennaio (in caso che non ricorra la domenica il 30 dicembre) lo si festeggia insieme alla sua famiglia: la Sacra famiglia (Giuseppe, Maria e Gesù).

Il culto di san Giuseppe, padre putativo di Gesù e simbolo di umiltà e dedizione, nella Chiesa d’Oriente era praticato già attorno al IV secolo: intorno al VII secolo la chiesa Copta ricordava la sua morte il 20 luglio. In Occidente il culto ha avuto una marcata risonanza solo attorno all’anno Mille, come attestato dai martirologi, primo fra tutti quello del monastero di Richenau, ricordandolo al 19 marzo, data diventata festa universale nella Chiesa con Gregorio XV nel 1621.
La prima chiesa dedicata a san Giuseppe sembra essere quella di Bologna eretta nel 1130.
Nel 1621 i Carmelitani posero l’intero ordine sotto il suo protettorato.
L’8 dicembre 1870 Pio IX lo proclamò patrono della Chiesa universale, dichiarando esplicitamente la sua superiorità su tutti i santi, seconda solo a quella della Madonna.
Papa Leone XIII scrisse la prima enciclica interamente riguardante il santo: la Quamquam pluries, del 15 agosto 1889.
Il 26 ottobre 1921, Benedetto XV estese la festa della Sacra Famiglia a tutta la Chiesa.
La festa di Giuseppe artigiano fu istituita nel 1955 da Pio XII e fissata il 1° maggio: la festa dei lavoratori fino a quel momento era appannaggio della cultura socialcomunista.
Nel 1962 Giovanni XXIII introdusse il suo nome nel canone della Messa, oltre ad affidargli lo svolgimento del Concilio Vaticano II. Fino al 1977 il giorno in cui la Chiesa cattolica celebra San Giuseppe era considerato in Italia festivo anche agli effetti civili ma con legge 5 marzo 1977 n. 54, questo riconoscimento fu abolito e da allora il 19 marzo divenne un giorno feriale come tutti gli altri.

La devozione a san Giuseppe nel monrealese
In tutto il territorio dell’arcidiocesi il culto al santo patriarca è diffusissimo e vivissimo. Anche questo culto è di derivazione ottocentesca, periodo in cui il culto a san Giuseppe ebbe il suo massimo splendore. Il fatto più importante fu la proclamazione, l’8 dicembre del 1870, ad opera di Pio ix, di san Giuseppe a patrono di tutta la Chiesa. Già nel 1847, lo stesso pontefice, aveva esteso a tutta la Chiesa la festa del patrocinio del santo fino ad allora celebrata solo da alcuni grandi ordini religiosi come i carmelitani.

Il culto al santo patriarca assume lo stesso significato di quello della sua sposa: proteggere la Chiesa. La festa fu fissata per il 19 di marzo. Il 15 agosto del 1889 Leone xiii con l’enciclica Quamquam pluries dichiarò san Giuseppe patrono speciale della Chiesa cattolica. Lo stesso papa, il 3 marzo del 1891, dichiarò il 19 marzo essere festa di precetto. Nacquero le litanie del santo, la pratica dei sette dolori e delle sette allegrezze, il rosario di san Giuseppe, lo scapolare, il mercoledì a lui dedicato e il mese di marzo a lui dedicato. Nacquero anche confraternite a lui intitolate, pie unioni, sodalizi, congregazioni religiose a lui intitolate.

Il culto a san Giuseppe si esprime, nella quasi totalità dei comuni dell’arcidiocesi monrealese, con la creazione delle mense per i poveri, degli altari o delle tavolate in suo onore. Le mense o altari sono quasi sempre degli ex voto per grazie ricevute. L’elemento dominante è il pane, insieme all’offerta delle primizie e all’ostentazione di prodotti vari (generi alimentari, vestiti, ecc.) che alla fine del banchetto vengono distribuite ai “santi”, cioè ai ragazzi invitati al banchetto, poiché appartenenti a famiglie bisognose. In qualche comune dell’arcidiocesi i santi sono tre, in altri cinque o addirittura sette come a Chiusa Sclafani. I santi simboleggiano la sacra famiglia, se sono solo tre, cinque anche due angeli, sette anche alcuni santi protettori cui è devota la famiglia che crea la mensa. I pani votivi, chiamati con nomi diversi a secondo dei paesi (cuddure, cucciddati, ucchialeddu), sono preparati dalle donne con varietà di forme e dimensioni e dopo essere stati benedetti vengono posti sulle mense per essere distribuiti nel giorno della festa.

Sulle tavolate di Prizzi si usa mettere le coffe, cioè dei grandi pani di forma diversa. Quello dedicato alla Madonna si chiama pupa e su di esso si scolpisce una borsa, un bracciale, una collana, la treccia e un mazzetto di fiori. Quello dedicato a san Giuseppe si chiama varva, mentre quello dedicato a Gesù si chiama, a Prizzi, cuffitedda e su di esso si pone un pane a forma di scala, uno a forma di martello e un altro a forma di sega, che simboleggiano gli arnesi del lavoro di san Giuseppe e il fatto che Gesù aiutò il suo padre putativo nel suo lavoro.

In tutte le mense dei comuni dell’arcidiocesi non vi è presenza di piatti a base di carne e di pesce. In molti comuni si usa fare il cosiddetto San Giuseppi addumannaatu o mezzu addumannatu: chi ha fatto il voto va in giro per il paese a chiedere l’elemosina per allestire la mensa mentre il mezzu addumannatu comporta che metà delle spese vengano affrontate dalla famiglie e l’altra metà vengano elemosinate. La questua di soldi, in qualche comune come Prizzi, viene fatta a piedi scalzi. Anche a Bisacquino,Borgetto e Corleone si fanno i santi addumannati.

A Giuliana, come altrove, ci si prepara alla festa con una novena, durante la quale si recita la coroncina dei sette dolori e delle sette allegrezze di san Giuseppe e il seguente rosario:

 

San Giusippuzzu vui siti lu patri,

virgini siti comu la matri,

Maria è la rosa.

Vui siti lu gigliu.

Datimi aiutu, riparu e cunsigliu.

Pi lu nomi di Maria sarvati l’arma mia.

 

Al rosario si uniscono anche delle giaculatorie:

 

San Giusippuzzu unn’abbannunati

nn’è nostri bisogni e nicissitati

e ludatu e binidittu sia

’u nomi di Gesù, Giuseppi e Maria.

 

La festa di san Giuseppe, a Giuliana, è preceduta dalla festa du bamminu che si svolge nei tre giorni precedenti il 19 marzo. La statua di Gesù adolescente viene staccata dalla mano del padre putativo e viene portata in pellegrinaggio presso alcune famiglie del paese, per poi ricongiungersi con il simulacro del santo prima della processione del 19 sera.

A Giuliana, ancora oggi, i devoti recitano i sei misteri del rosario di san Giuseppe. I misteri, come scrive Governali, «evocano vari momenti della vita del santo, al quale si attribuiscono sentimenti, paure, sospetti e risentimenti propri di ogni essere umano».

I racconti del rosario di Giuliana si ispirano ai racconti dei vangeli apocrifi. Le mense di Balestrate sono caratterizzate per la grande quantità, oltre che di pane anche di agrumi. Anche a Corleone, così come a Partinico, fino a qualche tempo, fa si creavano le tavolate e le mense: oggi sono molto ridotte. A Corleone si invitavano 5 santi i quali si riunivano il mattino della festa, vestiti con delle tuniche di colore diverso, viola o verde san Giuseppe, rosa la Madonna e bianco Gesù bambino. Anche i due angeli indossavano delle tuniche bianche. Venivano accompagnati in chiesa dal suono del tammurinaru, e quindi partecipavano alla messa. All’uscita i santi si recavano nella propria mensa dove iniziava il lauto pranzo. I santi venivano serviti dai padroni di casa e dovevano essere i primi a mangiare assaggiando un po’ di tutte le pietanze preparate. Tutto ciò avviene ancora oggi a Borgetto, dove ogni anno, vengono allestite così tante mense che in certi anni hanno superato anche le trenta unità. Le mense di Borgetto sono davvero uniche nel loro genere. I santi sono tre. A Borgetto, prima di iniziare il pranzo, vengono recitate, davanti alle mense, le cosiddette parti in dialetto siciliano. Dopo la recita delle parti tutti entrano nella casa, la padrona di casa fa salire il bambino che interpreta la parte di Gesù su una sedia, gli fa intingere due dita in un bicchiere d’acqua e gli fa benedire la mensa. Poi inizia il pranzo dei santi. Da qualche anno a Borgetto la novena di san Giuseppe viene celebrata al mattino presto con la straordinaria partecipazione di fedeli adulti.

Le mense di san Giuseppe sono preparate da tutti i ceti sociali. In alcuni comuni, come ad esempio Partinico e Corleone, dove le mense presso le famiglie sono in via di estinzione, la tradizione delle mense e delle tavolate rivive grazie all’opera preziosa di docenti, alunni e delle loro famiglie che accettano di fare le mense a scuola.

Nonostante il processo di forte cristianizzazione in atto ormai da tempo,evidenziato anche da alcune leggi civili come la N.54 del 1977,il culto a San Giuseppe rimane radicatissimo in tutta la Sicilia e in particolar modo nella Valle dello Jato e nel comune di Borgetto in esso ricadente.

La cittadina di Borgetto sorge sul declivio di una collina, nel versante opposto alla Conca d’Oro.

Confina ad Est e a Sud con Monreale, ad Ovest e a Nord con Partinico. Sull’emblema del Comune risulta a destra una torre in campo rosso, a sinistra il leone rampante su campo stellato.

Dal latino Burgettum, (Borgetto), nome italianizzato dal volgare Burgettu. Molti storici e filologi, fanno derivare questo nome dal greco Burgos, termine che significa Torre-Castello. Infatti, si ha notizia di un castello nel feudo di Borgetto, intorno al 1294 e di un agglomerato di case chiamato appunto (Lu Casali di Lu Burgettu). Lungo i secoli, attorno al Castello si andò sviluppando un agglomeralo che prese il nome di Borgetto.

E’ certo che la fortezza è stata eretta propria da un potente signore, forse durante la dominazione Saracena o Normanna.

Il primo documento che tratta di Borgetto è una pergamena del 1294, conservata presso l’archivio di Stato. In esso si parla di un certo Simone Descolo, nobile cittadino, possessore di un casale chiamalo Borgetto.

Questi, privo di eredi maschi, nel 1337 lasciò il feudo alla figlia Margherita, che essendosi ribellata a re Pietro II, insieme al marito Federico di Antiochia Fellone, fu dichiarata decaduta dal beneficio del feudo con decreto reale del 20 gennaio 1339.

Il re Pietro II, lo affidò a Raimondo De Peralta, conte di Caltabellotta, che per i molti debiti vendette il feudo di Borgetto a Perrone de Campsore, il quale, con atto del 13 marzo 1347 lo ipotecava a Guglielmo De Martino, per garanzia di once

d’oro 133, prezzo d’olio acquistato a credito. Ma questi non riuscì a soddisfare il debito e allora il feudo venne messo all’asta pubblica nel 1351. Lo stesso venne acquistato da Margherita De Bianco. Costei, essendo senza figli, con testamento

del 1355 lasciò il feudo e casale ai PP. Benedettini di S. Martino delle Scale, con obbligo però di erigere nel feudo un Monastero dedicato a S. Benedetto.

Da questo periodo comincia la secolare signoria del Monastero di S. Martino delle Scale su Borgetto e la grande opera di colonizzazione e di sviluppo della zona.

Alla seconda metà del 1600, i PP. Benedettini dettero i primi permessi di fabbricazione nel feudo e le case sorsero sparse qua e là con preferenza nella parte bassa del feudo, attuale (lazzo Vecchio).

Nel 1703, l’Abbate di S. Martino ordinò che tutti gli abitanti si stabilissero in un luogo vicino al castello, attuale Largo Villa Migliore.

Si desume quindi, che il primo quartiere sia stato quello della Matrice o Santa Maria Maddalena, ultimato nel 1705, li vicino sorgeva il già esistente castello attuale Villa Migliore, come detto sopra. Quasi contemporaneamente nacquero altri

due quartieri, quello di S. Antonio e quello di S. Nicolò e dopo alcuni anni quello delle Guardiole.

Fin dal 1710, si ha notizia di un’Amministrazione Comunale detta “Universitas Terrae Burgetti”, composta da quattro Giurati e un Capitano. In seguito sostituita col Decurionato formato da 12 persone detti “Decurioni” con a capo il Sindaco

Nel 1826 il comune prese in enfiteusi dal dottor Santi Migliore uno stabile posto nella Piazza Matrice per fissarvi gli uffici comunali, le scuole ed il carcere.

Nella valle dello lato grande risalto ha la devozione a San Giuseppe con la creazione delle cosidette Mense o Altari in onore del Santo. Le più maestose e visitate sono,appunto, quelle del comune di Bor­getto , un paese agricolo sviluppatosi all’interno del declivio contrario ai monti della conca d’oro, Da secoli, in questo comune del palermitano, si preparano le mense in se­guito a grazie ricevute per l’intercessione del Santo o a promesse fatte al Santo dai devoti. L’incremento della devozione a San Giuseppe risale alla fine del 1800,allorquando Papa Pio IX lo proclamò patrono universale della Chiesa e Leone XIII,con l’enciclica Quamquam pluries del 15 agosto del 1889 ne chiese l’incremento del culto nel giorno del 19 di Marzo in opposizione ad una sempre maggiore scristianizzazione del lavoro ad opera delle idee del socialismo ateo e anticlericale. Scopo principale della Mensa è,ancora oggi, quello caritatevole verso famiglie povere affinchè non manchi mai il pane, si vuole che s’invitino alla mensa tre bambini poveri o di modeste condizioni, che rievocano la fuga di Gesù, Giuseppe e Maria ai quali viene servito lo sfarzoso pranzo, tra canti e filastrocche dialettali .Il lavoro di preparazio­ne è lungo e molto faticoso e richiede la collaborazio­ne anche dei parenti degli amici e dei vicini che so­stengono il lavoro della pa­drona di casa. La preparazione di una mensa di medie proporzio­ni dura da due a tre mesi e i preparativi iniziano subito dopo le feste natalizie. In prossimità della festa si prepara la stanza più gran­de della casa le cui pareti e il cui soffitto dovranno ri­sultare sfarzosi e scintillan­ti e la stanza dotata di una ricca illuminazione .Per realizzare tutto ciò si prepara una intelaiatura di legno, insieme a corde e fili di acciaio che vengono attaccati lungo le pareti, le quali vengono rivestite di tessuti, festoni, coperte e fiori il tutto, preferibilmente, di colore bianco. Alle pareti vengono ap­puntati lunghi metri di tulle, veli nuziali e raso bianco. In previsione delle mense le spose cristiane di Bor­getto e dei paesi vicini pre­stano i loro veli nuziali che vengono utilizzati per l’ad­dobbo delle mense, che non è soggetto a nessuna regola precisa ma si rispet­ta ormai una prassi più che consolidata.Nel tempo gli addobbi sono cambiati, basti pen­sare che in passato veni­vano utilizzate delle coper­te di ciniglia di colore bor­deaux con raffigurazioni di angeli o delle coperte di conca d’oro, rosa o celeste pastello, con immagini raf­figuranti Giulietta e Ro­meo.Al centro della stanza troneggia l’altare dove vie­ne posto il quadro di San Giuseppe o della Sacra Famiglia o la statua del Santo. Finito l’addobbo della stanza si preparano le tavolate ai lati delle pareti lascian­do al centro il maestoso alta­re. Il pane è il protagonista principale delle mense poiché esso occupa un posto molto rilevante nella storia dell’umanità, esso riveste un significato sociale, religioso e sacro-santo, simbolo fondamentale del lavoro umile del Santo e dell’Eucarestia. E’ preparato in diverse forme. La palma per ricordare la verginità della Madonna, mentre quello di Gesù bambino è a forma di buccellato ( dolce tipico della gastronomia locale e che si prepara nel periodo natalizio), un cesto con gli attrezzi per il lavoro del falegname per rievocare l’operosità del Santo.

Le tavole vengono allesti­te in due o tre ri­piani sui quali vengono poste numerose portate: alimenti quotidiani come pasta, zucchero, olio, farina, uova, latte, biscot­ti, caffè, ortaggi, legumi, frutta secca, dolci caseari, pietanze cotte in casa. C’è anche la tavolata con fritture di tutte le pie­tanze tipiche di Borgetto.In nessuna mensa vi sono pietanze a base di carne per non spezzare l’astinenza quaresimale. Infatti la festa di San Giuseppe nel mezzo del periodo quaresimale costi­tuisce una sorta di “abbuf­fata” e di sostanziale sospensione del digiuno quaresimale.Al centro della stanza si apparecchia la tavola per il pranzo dei tre bambini bi­sognosi, che nel giorno della festa rappresentano Gesù, Giuseppe e Maria, con la tovaglia più bella, tre mezze arance tagliate a stella, tre pani, vino, ac­qua, asciugamani ricamati e con frange che useranno coloro che imboccheranno, durante il pranzo i bambini. Le mense possono essere preparate di tasca propria o attraverso Ia richiesta elemosinata di soldi, cibi, vestiti quant’ altro possa essere utile per la creazione della mensa: in questo caso la mensa viene definita “addumannata” o anche “mezza-addumannata” per metà della spesa contribuisce il devoto e I’altra metà vieni chiesta ad amici, parenti, conoscenti o anche a persone che si incontrano per strada durante la questua. La questua fa parte del voto e viene in tesa come penitenza. A Borgetto le mense con l’altare possono essere di due tipi: “parate” cioè la stanza in cui è creata la mensa è occupata per intero. Essa è sfarzosa e ricca di ogni ben di Dio, “private” cioè modesta con l’addobbo di una sola parete della stanza La preparazione delle mense, soprattutto quelle “parate” può essere letta anche come espressione di ascesi sociale o di una consolidata posizione economica. Infatti preparare una mensa sfarzosa significa porsi al centro dell’attenzione dei paesani e dei visitatori esterni. Le mense si visitano la vigilia della festa dalle 21 fino a tarda notte e ai visitatori vengono offerti pane con olive e vino. La mattina della festa i bambini, vestiti con tuniche bianche, si fanno trovare davanti la porta della chiesa prelevati dal “tammurinaru”(suonatore di tamburo) che li accompagna in chiesa per assistere alla messa insieme a coloro i quali hanno allestito la mensa. Finita la celebrazione li­turgica i bambini vengono riaccompagnati alle rispet­tive mense e davanti ad ognuna di essa vengono recitate le cosìdette parti in dialetto siciliano.Le “Parti” furono rimate da un poeta dialettale, Leonardo D’Arrigo,d’allora ogni anno la sua famiglia per tradizione li recita, ad essa si è unita la famiglia Liparoto che per devozione recita le “parti” senza alcun compenso. Dopo la recita delle “parti” tutti en­trano in casa e il padrone di casa invita tutti a grida­re: “Viva San Giuseppe, Viva”; poi si accen­de l’incenso e la padrona di casa fa salire il bambino che impersona Ge­sù su una sedia gli lava le mani, gliele asciuga, gli fa intin­gere due dita in bic­chiere d’acqua e gli fa benedire la men­sa. Dopo la benedizio­ne ha inizio il lungo pranzo che si svol­ge secondo in ri­tuale ben codificato e rigido. Infatti i tre bambini vengono imboccati da tre ragazzi o ra­gazze non sposati che por­tano sopra la spalla sini­stra un asciugamano di te­la bianco e ricamato. I tre bambini devono mangiare,oltre che per primi, almeno i primi tre boc­coni di tutti i cibi preparati, dopo di ché si possono di­stribuire le pietanze a tutti i presenti.Il primo piatto che viene assaggiato dai tre bambini è la pasta con le sarde e la mollica, seguono le polpet­te di sarde e di uova e le fritture varie.In ultimo i dolci: cassa­telle, pignoccata, sfinge, cannoli, pecorelle di pasta reale, uova di Pasqua, per concludere con la frutta fresca e secca.A conclusione del pran­zo vengono prelevati i pani, dall’altare centrale, e tutto quanto è stato deposto sul­le tavolate laterali e vengo­no dati ai tre bambini i qua­li, con l’aiuto dei genitori e dei parenti, portano tutto nelle loro case. Gli emigrati borgetani negli USA, nel quartiere Astoria di New York, mantengono la stessa tradizione e ogni anno chi non può ritornare in paese o manda i soldi o ripete con nostalgia le mense in quel lontano continente dove migliaia di borgetani ad oggi vivono. Quest’anno la festa di San Giuseppe si celebrerà Sabato 15 Marzo poiché giorno 19 è il Mercoledì Santo.

Orazione a San Giuseppe

Di Papa Leone XIII

A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo, e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio dopo quello della tua Santissima Sposa.

Deh! per quel sacro vincolo di carità che ti strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio, e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, guarda, te ne preghiamo, con occhio benigno la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potere ed aiuto sovvieni ai nostri bisogni.

Proteggi, o provvido Custode della divina Famiglia, l’eletta prole di Gesù Cristo; allontana da noi, o Padre amantissimo, la peste di errori e di vizi che ammorba il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta contro il potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore; e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del pargoletto Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità: e stendi ognora sopra ciascuno di noi il tuo patrocinio, affinché sul tuo esempio, e mercé il tuo soccorso, possiamo vivere virtuosamente, piamente morire, e conseguire l’eterna beatitudine in cielo. Così sia.