Domenica di Pasqua 2015.

Piana degli Albanesi (Pa):donne con il tradizionale costume.
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Settimana Santa 2015.(I)

DOMENICA DELLE PALME
PIANA DEGLI ALBANESI:

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BUSETO PALIZZOLO:VIA CRUCIS CON PERSONAGGI VIVENTI.
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MARTEDI’SANTO
TRAPANI:PROCESSIONE DELLA MADONNA DEI MASSARI.

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S.Giuseppe 2015.

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I vescovi calabresi: “La ‘ndrangheta non è cristiana”.

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“Testimoniare la verità del Vangelo” è la nuova nota pastorale diffusa dalla Conferenza episcopale della Calabria

(ANSA) – REGGIO CALABRIA, 2 GEN – La ‘ndrangheta “è contro la vita dell’uomo e la sua terra. E’, in tutta evidenza, opera del male e del Maligno”. Così si esprime la Conferenza episcopale della Calabria in una pastorale sulla ‘ndrangheta “Testimoniare la verità del Vangelo”. “La ‘ndrangheta non ha nulla – scrivono i vescovi – di cristiano. Attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule che scimmiottano il sacro, si pone come una forma di religiosità capovolta, sacralità atea e negazione dell’unico vero Dio. “La ‘ndrangheta – scrivono ancora i vescovi nella pastorale presentata stamani a Reggio Calabria dal presidente e dal vice presidente della Cec, mons. Salvatore Nunnari e mons. Francesco Milito – è un’organizzazione criminale fra le più pericolose e violente. Essa si poggia su legami familiari, che rendono più solidi sia l’omertà, sia i veli di copertura. Utilizzando vincoli di sangue, o costruiti attraverso una religiosità deviata, nonché lo stesso linguaggio di atti sacramentali (si pensi alla figura dei ‘padrini’), i boss cercano di garantirsi obbedienza, coperture e fedeltà. Lì dove attecchisce e prospera svolge un profondo condizionamento della vita sociale, politica e imprenditoriale nella nostra terra”.
“Con la forza del denaro e delle armi – sostengono ancora i vescovi calabresi – esercita il suo potere e, come una piovra, stende i suoi tentacoli dove può, con affari illeciti, riciclando denaro, schiavizzando le persone e ritagliandosi spazi di potere. E’ l’antistato, con le sue forme di dipendenza, che essa crea nei paesi e nelle città. È l’anti-religione, insomma, con i suoi simbolismi e i suoi atteggiamenti utilizzati al fine di guadagnare consenso. È una struttura pubblica di peccato, perché stritola i suoi figli”. “L’appartenenza ad ogni forma di criminalità organizzata – è scritto nella pastorale – non è titolo di vanto o di forza, ma titolo di disonore e di debolezza, oltre che di offesa esplicita alla religione cristiana. L’incompatibilità non è solo con la vita religiosa, ma con l’essere umano in generale. La ‘ndrangheta è una struttura di peccato che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale”.
“La Calabria – sostengono ancora i Vescovi – è una terra meravigliosa, ricca di uomini e donne dal cuore aperto ed accogliente, capaci di grandi sacrifici. D’altra parte, però, la disoccupazione, la corruzione diffusa, una politica che tante volte sembra completamente distante dai veri bisogni della gente, sono tra i mali più frequenti di questa nostra terra, segnata, anche per questo, dalla triste presenza della criminalità organizzata, che le fa pagare un prezzo durissimo in termini di sviluppo economico, di crisi della speranza e di prospettive per il futuro”. (ANSA)
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“L’Eucarestia mafiosa”.

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Cos’hanno in comune le organizzazioni criminali e la Chiesa di Roma? Com’è possibile che proprio nelle quattro regioni più devote di Italia – Sicilia, Calabria, Puglia e Campania – siano nati questi fenomeni criminali così feroci?
L’eucaristia mafiosa – La voce dei preti, opera prima di Salvo Ognibene, affronta il controverso rapporto tra mafia e Chiesa cattolica, una storia che va dal dopoguerra ai giorni nostri. Una storia di silenzi e di mancate condanne che dura da decenni e che è stata interrotta da rari moniti di alti prelati, dall’impegno di pochi ecclesiastici e da alcune morti tristemente illustri come padre Pino Puglisi e don Peppe Diana.
La riflessione prende il via dal tema della ritualità come manifestazione di potere: la processione come compiacenza; l’affiliazione come nuova religione; uomini che indossano la divisa di Dio per esercitare il loro potere in terra. Uomini di morte e di pistola con i santi sulla spalla. La fede di Provenzano nel libro di Dio, la Bibbia, ma anche l’ateismo di Matteo Messina Denaro. Le due facce della mafia nello scontro con i mezzi di Dio. Pur percorrendo la linea già segnata da due grandi studiosi come Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, L’eucaristia mafiosa – La voce dei preti si presenta con un taglio diverso: non si basa su strutture, non dialoga con i sistemi, ma indaga la realtà di prima mano, interroga i protagonisti di questo dualismo e cattura le ‘voci’, gli esempi concreti del presente per rivalutare la missione e la posizione della Chiesa di oggi. Le voci dei religiosi-testimoni all’interno del libro ripercorrono tutta l’Italia: Monsignor Pennisi; Don Giacomo Ribaudo; Monsignor Silvagni; Don Giacomo Panizza; Don Pino Strangio, Suor Carolina Iavazzo. Preti e suore che hanno preso posizione e hanno fatto del Cattolicesimo, ognuno a modo proprio, uno strumento di lotta alle mafie.
In una nazione in cui l’azione cattolica è ancora fortemente coinvolta nel tessuto politico e sociale, questo lavoro si pone come strumento essenziale di ‘pratica civile’ e di informazione sull’uso della liturgia della fede come strumento di propaganda mafiosa.
Maggiori informazioni nel sito http://www.eucaristiamafiosa.it/

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Indice

Prefazione

1. Storia dei rapporti tra Chiesa, mafia e religione
2. Il Dio dei mafiosi
3. La Chiesa tra peccato, ritardi e giustizia
4. Il Vangelo contro la lupara
5. La voce dei preti
6. Biografie

Salvo Ognibene,
L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti

Navarra Editore, Marsala (TP)
Categoria: Saggistica
Anno: 2014
Pagine: 144
Prezzo: 12,00 €
ISBN: 978-88-98865-11-6
Formato: 14×21

Contro Satana.

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All’inizio del 2011 padre Matteo La Grua pronunciò parole profetiche alla giornalista Roberta Ruscica: “Fai in fretta… Vorrei vedere questo libro stampato. Mi resta poco da vivere”. Era vero. Padre La Grua morì pochi giorni dopo, il 15 gennaio, a 97 anni. Nel racconto di una vita tutta dedita a combattere le forze del male, padre Matteo lascia la sua eredità e riflette sull’avvento dei tempi messianici e sulla urgente necessità di conversione dell’umanità intera. E impossibile quantificare miracoli, guarigioni e liberazioni dal demonio da lui operate. Noto e stimato in tutto il mondo, rimase lontano dai riflettori della stampa e dai salotti tv che se lo contendevano. Di sé padre Matteo diceva: “Sono un semplice figlio della Vergine Maria. Sono strumento del Suo grande Amore. Non ho alcun merito”. Eppure i fedeli, a migliaia, facevano attese di ore per assistere alle sue “messe di guarigione” celebrate a Margifaraci, centro di spiritualità sorto a due passi dal cimitero della mafia, quelle fosse comuni in cui furono ritrovate tante vittime della guerra di Cosa Nostra. Uomo di intensa preghiera e di profonda umiltà, ricercato da personaggi famosi e da gente comune, da ricchi uomini d’affari e da poveri sbandati, aprì la porta della sua casa a chiunque avesse bisogno. Questo libro-intervista – da lui fortemente voluto negli ultimi mesi prima di morire – è dedicato a quanti, lontani dall’amore di Dio, sono vittime del demonio.

L’Arcivescovo di Aleppo(Siria) a Monreale.

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Arcidiocesi di Monreale

Ufficio Comunicazioni Sociali

L’ARCIVESCOVO DI ALEPPO (SIRIA) A MONREALE

RACCONTA LA SUA CHIESA PERSEGUITATA

Divina Liturgia nel Duomo con Russia Cristiana e

Incontro Interreligioso con il Rabbino Capo di Sicilia e l’Imam della grande moschea di Roma

Monreale 14.01.2015 – Al termine della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e nel mese della pace, due importanti momenti di riflessione e preghiera consentiranno di approfondire il tema della pace attraverso la testimonianza preziosa dell’Arcivescovo di Aleppo.

La Siria, infatti, è oggi una terra insanguinata, in cui i cristiani e altre minoranze religiose sono perseguitati a causa della loro fede dal fondamentalismo del sedicente Stato Islamico dell’Iraq e della Grande Siria (ISIS).

Una tavola rotonda con l’arcivescovo di Aleppo, il rabbino capo di Sicilia e l’imam della grande moschea di Roma rifletterà sul tema: “Libertà religiosa, via per la pace”, che verrà preceduta dal gesto simbolico della piantumazione di un albero di ulivo, simbolo della pace.

Il 24 Gennaio alle 10.30 presso il palazzo Arcivescovile di Monreale, S.E. Mons. Jean-Clément Jeanbart, Arcivescovo greco-melkita di Aleppo, su invito di Mons. Michele Pennisi, Arcivescovo di Monreale, darà una testimonianza della tragica situazione della sua Chiesa. Nel pomeriggio, alle 17.00, Mons. Jeanbart terrà una Lectio Magistralis: I Cristiani in Medio Oriente, per il conferimento del titolo di Accademico Ordinario dell’Accademia Teutonica Enrico VI di Hohenstaufen.
La giornata si chiuderà alle ore 20.00 in Cattedrale con un Concerto per Organo offerto dal Maestro Diego Cannizzaro per la Siria.

Domenica 25 Gennaio, l’Arcivescovo di Aleppo, alle 11.30, presiederà la Divina Liturgia in rito Bizantino-Slavo, nel Duomo di Monreale, con la partecipazione del coro dell’Associazione Russia Cristiana di Roma, del presidente Mons. Francesco Braschi e di Padre Rostislav Kolupaev, sacerdote Russo Cattolico di rito Bizantino.

Il pomeriggio del 25 Gennaio, alle 16.00, presso il giardino del Seminario verrà piantumato un albero d’ulivo, simbolo di pace, subito dopo al Palazzo Arcivescovile, si terrà una Tavola Rotonda Interreligiosa a cui siederanno oltre L’ARCIVESCOVO greco-melkita Mons. Jeanbart, anche il RABBINO capo del Centro Sefardico Siciliano, Prof. Stefano Di Mauro, Itzaak Ben Avraham e l’IMAM della grande moschea di Roma, Sami Salem.

L’incontro, promosso anche dall’Azione Cattolica Diocesana, servirà a riflettere sul tema: “Libertà religiosa, via per la Pace” che pur essendo stato organizzato già da tempo, pare rispondere alle domande e alle paure di questi giorni all’indomani delle stragi di Parigi e di Baga in Nigeria.

Il Direttore

Don Antonio Chimenti

L’attentato a Parigi…..

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L’attentato di Parigi. L’editoriale di Massimo Introvigne sul “Mattino” di Napoli
L’Europa al buio con la testa sotto la sabbia
Massimo Introvigne (il Mattino, 8 gennaio2015)

Il 7gennaio 2015 si è spenta a Parigi una luce sull’Europa, e Dio solo sa quando mai sarà riaccesa. I terroristi – qualunque sia la congrega di tagliagole cui davvero appartengono – hanno mostrato di poter colpire non solo in Iraq o inSiria, non solo nei luoghi nomadi dove si viaggia in aereo o in metropolitana, ma di giorno, in una grande città, nella sede di un giornale, cioè in uno di quei luoghi che ci sembrava potessero godere di un qualche statuto di zona franca. Ma non esistono più zone franche: ogni luogo, ogni uomo, ogni donna è un obiettivo di questa guerra maledetta.
Sì, la luce si è spenta. Si è spenta sui sogni di Hollande,di Obama, dell’Unione Europea, delle Nazioni Unite, e anche dei nostri politici italiani di potersi permettere di non occuparsi dell’ISIS, del califfo, di al-Qa’ida che si riorganizza e che forse, a un anno dalla rottura con il Califfato, sta riannodando le fila di un grande cartello del Male che raduni tutti i terroristi dell’ultra-fondamentalismo islamico. Ci si illudeva in Francia, ci si illude anche da noi che, se non ci occupiamo dei terroristi, se non mandiamo neppure un soldato a combattere in Medio Oriente o a difendere i cristiani massacrati e crocefissi o le donne della minoranza yazida violentate e vendute come schiave – perché ogni soldato che torna a casa in una bara fa perdere voti al governo che lo ha mandato a combattere – i terroristi ci lasceranno in pace. Ma se noi non ci occupiamo dei terroristi, i terroristi si occupano di noi, e torna a casa in una bara chi è semplicemente andato a lavorare nel centro di una delle nostre capitali. Possiamo condannare, deprecare, firmare appelli, ma le chiacchiere stanno a zero e si combatte il terrorismo solo andandolo a estirpare nei suoi santuari, con gli stivali delle truppe sul terreno e non con la semplice propaganda o i droni di Obama. Altrimenti diamo ragione a Osama bin Laden, il quale sosteneva che tra chi non vuole rischiare di morire e chi ama la morte vince sempre il secondo – e il primo muore comunque.
Sì, la luce si è spenta. Si è spenta su chi non ha capito la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona e oltre Ratisbona, che non offendeva affatto l’Islam – chi ha risposto alla satira di «Charlie Hebdo» con gli omicidi è un miserabile farabutto, e tuttavia i discorsi di Papa Ratzinger e le vignette non sono sullo stesso piano – ma lo invitava a riannodare le fila di un dialogo fra fede e ragione partendo dalla sua stessa tradizione, senza rinnegarla ma nello stesso tempo senza rifiutare di vederne gli aspetti oscuri e problematici. Non hanno capito quella lezione i buonisti per cui tutti i musulmani sono amanti della pace, gentili e magari amici degli animali e dei fiori. Ma non l’hanno capita neanche i «cattivisti» che oggi se la prendono con Papa Francesco perché non hanno mai letto Papa Benedetto, il quale affermava anche, il 28 novembre 2006, che il dialogo con i musulmani «non può essere ridotto ad un extra opzionale: al contrario, esso è una necessità vitale, dalla quale dipende in larga misura il nostro futuro».
Sì, la luce si è spenta. Si è spenta sui politicanti estremisti e sciacalli di tutte le risme, i quali sperano di lucrare su queste tragedie per fare i martiri con il sangue degli altri alla ricerca di un miserabile tornaconto elettorale, o per arruolare anche i poveri morti di Parigi in rese dei conti ecclesiastiche che oggi hanno di mira Papa Francesco, accusato di inventare un dialogo con l’islam che invece già Benedetto XVI definiva «non opzionale», cioè obbligatorio.
Mantenere i nervi saldi quando la luce si spegne è molto difficile. Ma chi sa vedere nel buio comprende che la «strategia Francesco» che Papa Bergoglio ha più volte proposto di fronte alle stragi dell’ISIS è l’unico modo ragionevole di rispondere a questa criminale follia. Non è delegando a qualche generale medio-orientale con gli stivali sporchi di sangue la repressione insieme dell’islam politico e dei diritti umani nel suo Paese, e non è strillando in piazza che tutti i musulmani sono terroristi che si disinnesca l’ultra-fondamentalismo assassino. Al contrario, lo si alimenta, e si spengono altre luci. Oriana Fallaci, poco prima di morire, aveva riferito che Benedetto XVI in un colloquio privato con lei aveva definito il dialogo con il mondo islamico «impossibile ma obbligatorio». In giornate come quella di oggi il dialogo sembra davvero impossibile. Ma è solo trovando interlocutori islamici disposti non a rinnegare la propria storia e la propria identità ma a cercare con fatica al loro interno le ragioni per condannare e isolare i terroristi che questi assassini potranno essere davvero sconfitti. È la strategia di Papa Francesco, era la vera strategia di Papa Benedetto. È la strategia più difficile. Ma non ce ne sono altre.
Benedetto XVI ama ricordare un proverbio della sua terra, la Baviera. Quando la luce si spegne si possono fare due cose: maledire l’oscurità, che non serve a nulla, o accendere una fiammella. Oggi ci sembra che anche la fiammella serva a poco. Ma se ognuno di noi accende la sua fiammella, alla fine tornerà la luce. Alla fine non avremo più paura del buio, e potrà perfino capitare che sia il buio ad avere paura di noi.

Il Denaro:Benedizione o Tentazione?Per una riflessione teologica.

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A cura di Massimo Naro.
M.N.
estratto Storia e Politica

Presentazione del volume:”De Gasperi uno studio,la politica,la fede,gli affetti familiari.

De Gasperi
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Libri, “De Gasperi, uno studio”. Intervista all’autore Giuseppe Sangiorgi: questa Europa è profondamente lontana da quella da lui concepita
La vita e gli ideali di De Gasperi come spunto per analizzare l’Europa di oggi e fare il punto sulla strada ancora da percorrere è filo conduttore che Giuseppe Sangiorgi, 66 anni, giornalista, saggista e segretario generale dell’Istituto Luigi Sturzo, ha proposto nel suo libro, dal titolo ‘De Gasperi. Uno studio’, pubblicato recentemente.
Erano le 2 del mattino del 19 agosto del 1954, 60 anni fa: a Sella di Valsugana, nel Trentino, moriva Alcide De Gasperi. Dagli storici è considerato uno dei più grandi statisti italiani, l’uomo a cui si legano gli anni della ricostruzione dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Sulla sua figura, il segretario generale dell’Istituto Sturzo, Giuseppe Sangiorgi, ha scritto il libro “De Gasperi, uno studio”, edito da Rubbettino. Alessandro Guarasci lo ha intervistato:
R. – Il messaggio di De Gasperi è duplice. Uno è rivolto, diciamo, alla comunità politica nella sua interezza e questo significa quindi avere una visione della politica prevalentemente di carattere internazionale e capire che la politica interna è un di cui della politica internazionale e non viceversa. E poi c’è il messaggio di De Gasperi rivolto al mondo politico cattolico: i cattolici possono fare semplicemente una politica da cattolici, quindi con un di più di moralità, di onestà, di attenzione alle classi più disagiate, oppure possono fare una politica di ispirazione cristiana, che è un’altra cosa, più complicata, molto più impegnativa e anche molto più affascinante. De Gasperi faceva e ha fatto una politica di ispirazione cristiana, con quella quasi impossibile mediazione tra cielo e terra, tra giustizia divina e giustizia umana.
D. – Secondo lei, De Gasperi che cosa direbbe oggi di questa Europa, molto lacerata e molto fondata sui parametri finanziari?
R. – Che questa è un’Europa estremamente lontana – perché è ancora un’Europa degli Stati – da quella che aveva concepito lui, che era quella degli Stati Uniti d’Europa. Però, avrebbe fatto anche una annotazione positiva: con la Prima Guerra Mondiale e la Seconda Guerra Mondiale l’Europa è stata un immenso campo di battaglia. Oggi, da oltre mezzo secolo, l’Europa è un’enorme area, la più grande area strutturata del mondo, pacifica, che attrae e che espande un’idea pacifica della politica. Stare dentro l’Europa è anche stare dentro un enorme sogno e guai a svegliarsi e a perdere quel sogno lì…
D. – Secondo lei, ci sono delle aree inesplorate nei rapporti di De Gasperi con la Chiesa? Insomma, un rapporto non sempre idilliaco…
R. – E’ stato sempre difficilissimo il rapporto di De Gasperi con la Chiesa, perché De Gasperi compie una trasformazione che la Chiesa non aveva mai accettato fino in fondo fino a quel momento. La Chiesa aveva finalmente condiviso l’idea di una democrazia sociale, ma De Gasperi trasforma l’idea di una democrazia sociale in democrazia politica: è un salto di qualità che la Chiesa ha sempre fatto con una certa difficoltà. Leone XIII aveva parlato sì di democrazia cristiana, ma con un valore sociale e Murri era stato scomunicato perché aveva fatto una prima democrazia cristiana come partito politico. Quell’antico problema è rimasto soprattutto nei rapporti tra De Gasperi e Pio XII. Alessandro Guarasci, Radio Vaticana, Radiogiornale del 19 agosto 2014.
Quale era l’idea di Europa di De Gasperi e come si coniuga con la situazione attuale?
“Il libro è la ricostruzione della vita di De Gasperi ma anche un pretesto per parlare di oggi. De Gasperi è uno dei padri dell’Unione Europea ma immaginava di raggiungere gli Stati Uniti d’Europa. Un traguardo federativo che è ancora lontano, la strada è ancora molto lunga. Emblematico, ai tempi di De Gasperi, il caso della Ced, la Comunità europea della difesa. In Corea la parte comunista aggredisce la parte libera e in Ue molti hanno paura che la Russia possa fare altrettanto. Quindi molti, a partire dai francesi, pensano ad un sistema di difesa comune. Al suo interno il progetto prevedeva un ente sovranazionale. Nel ’54, quando De Gasperi muore, il progetto del Ced naufraga e quello che sembrava essere un grande successo anche di De Gasperi si blocca. Quindi bisogna ripartire da lì, dal superamento dell’Europa degli Stati in favore degli Stati Uniti d’Europa. Questo implica almeno un sistema economico, fiscale e di diritti di cittadinanza civili più omogeneo”.
Cosa è cambiato per l’Italia con il voto alle ultime elezioni europee e cosa potrà fare l’Italia durante il semestre di presidenza?
“Bisogna fare in modo che ci si senta cittadini europei. Questa è la scommessa, questa è la via: chi la segue farà del bene all’Ue. Anche perché l’Europa ha già vinto un sfida, è l’area stabilizzata e pacifica più grande del mondo”.
Come vede l’ascesa degli euroscettici?
“Ogni crisi ha in sè una chance. Anche l’euroscetticismo può essere una chance, una spinta per portare avanti questo progetto. Ovviamente ci deve essere una convenienza per gli Stati, ad esempio in termini di affermazione e opportunità. Lo sforzo delle istituzioni, quindi, è proprio coniugare idealità e convenienza”.
Cosa si aspetta dal premier Matteo Renzi in ambito europeo?
“Mi auguro che porti pochi punti ma che abbiano risvolti concreti. Anche perché se si è attenti alle scadenze il tempo a disposizione è davvero poco. Considerando il mese di agosto, che è tutto fermo, si arriverà ad ottobre. Da qui si capisce come i tempi siano particolarmente stretti. L’ideale sarebbero solo due o tre decisioni. Una di carattere fiscale come un tetto minimo e massimo alla tassazione dei singoli Paesi per evitare disparità così enormi. Il secondo riguarda i diritti di cittadinanza e in particolare l’immigrazione. A fronte di 800 milioni di cittadini in Ue nel 2050 si stima che in Africa ci saranno 3 miliardi di persone. Quindi 3 individui di colore ogni bianco. Sarà la demografia a prendere il sopravvento. Ci vogliono politiche continentali per governare questo cambiamento, interventi sul posto per risolvere i problemi che o si affrontano o ci travolgeranno. Non possiamo fare finta di nulla e chiudere gli occhi”.
“Con la sua vita attraversa tre secoli di storia italiana. Nella prima parte è figlio della pace di Vienna, dell’Ottocento. Infatti è cittadino austriaco ma vuole essere italiano. La seconda parte è pienamente calata nel ‘900 con il ruolo che ha ricoperto per la politica italiana. La terza, invece, attraversa il secolo che stiamo vivendo per la sua idea di Europa. Ha molte cose da dirci in termini di sviluppo e amore per la libertà”.
Sangiorgi, attuale segretario generale dell’Istituto Luigi Sturzo, è stato direttore responsabile del Popolo, presidente dell’Istituto Luce e commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Giornalista, è autore di varie pubblicazioni tra le quali ‘Il romanzo del Popolo’, ‘Piazza del Gesù un diario politico’, ‘Rivoluzione Quirinale’.

Il Natale dei poeti evento eterno presente.

Presepe
Presepe 1
I versi di Luzi e Turoldo escono dai luoghi comuni sul Presepio per entrare nell’incontro con la Storia.
Testo di Massimo Naro.
estratto Luoghi dell’Infinito

“E nessuno lo sappia….”.Per un ricordo di Padre Calcedonio Ognibene.

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Copertina (4)
Don Ognibene (2)

“La mafia è contro il Vangelo: non basta la scomunica”.

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L’arcivescovo Vincenzo Bertolone, postulatore del martire anti-clan don Puglisi, riapre la discussione sulla sanzione canonica per i mafiosi

giacomo galleazzi
città del vaticano

“La mafia è contro il Vangelo”. Dopo il monito di papa Francesco ai clan (“offendono gravemente Dio”) nel messaggio del 1° gennaio alla Giornata mondiale della pace, a riaprire con questa intervista a “Vatican Insider” il dibattito sulla scomunica dei mafiosi è l’arcivescovo di Catanzaro, Vincenzo Bertolone (postulatore della causa di beatificazione del martire anti-mafia don Pino Puglisi). Secondo il presule della congregazione Missionari Servi dei Poveri “Boccone del Povero”(S.d.P) ed ex viceministro vaticano degli Istituti di Vita consacrata e delle Società di vita apostolica, prima della pena canonica serve un radicale cambiamento “educativo e pastorale”.

Può essere utile un decreto di scomunica dei mafiosi?
«E’ una questione che va affrontata. Negli ultimi decenni, e in particolare dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha usato sempre meno il provvedimento della scomunica. Non che esso sia scomparso o che la Chiesa abbia scelto la strada del buonismo, ma il popolo dei credenti e i suoi pastori hanno scelto di abbracciare il mondo in un modo diverso, con tutte le sue ombre e le sue luci. Da una Chiesa che si limitava a denunciare il male e associare la pena canonica di riferimento si è passati ad una Chiesa che “esce da se stessa”, che si impegna a creare una nuova coscienza, che sceglie la strada dell’incontro umano e dell’evangelizzazione come risposta al male. Papa Francesco, ultimamente, ci sta esortando ad essere una Chiesa aperta che si sporca e si ferisce le mani per accompagnare l’uomo offrendogli la luce del Vangelo. Ora, nel caso della mafia – e il ministero di padre Puglisi lo dimostra – sono tante le cose che la Chiesa può e deve fare, prima e al di là di una pena canonica. Inoltre poi, mi chiedo: oggi c’è una sensibilità ed una formazione religiosa tale che faccia comprendere la gravità di un tale provvedimento? Detto ciò, restiamo fermi nella condanna assoluta della mafia e di ogni organizzazione in contrasto palese col Vangelo. Resta prioritario invece che la Chiesa prosegua nella sua opera pastorale educativa e preventiva, in un comune sforzo di nuova evangelizzazione che comporta attività pastorale, annuncio biblico, dottrinale ed esercizio di opere di misericordia».

Per i funerali dei mafiosi, si può applicare il modello seguito a Roma per il nazista Priebke, cioè una benedizione privata della salma senza pubbliche esequie?
«Va anzitutto detto che dinanzi al mistero della morte bisogna imparare a far tacere i giudizi umani e restare in rispettoso silenzio. Anche la morte di un criminale o di un mafioso non deve diventare occasione di giudizio. La Chiesa ha sempre creduto e crede che il giudizio ultimo e fondamentale spetti a Dio. Dunque, il funerale non è una benedizione delle opere e della vita del defunto, e con la preghiera la Chiesa lo affida, al di là di tutto, al giudizio misericordioso di Dio Padre. Inoltre, il funerale è un atto comunitario che accompagna i parenti e gli amici del defunto in un momento di dolore. Da questo punto di vista, non dovrebbe essere negato. Si dà però il caso di chi, notoriamente e ostinatamente, ha preso parte pubblicamente e in prima persona, ovvero come mandante, come collaboratore o esecutore consapevole, a crimini efferati, quali furono i massacri dei nazisti e quali sono oggi stragi, assassini, violenze, soprusi ed esecuzioni delle organizzazioni criminali e/o mafiose. Anche in questo caso, la Chiesa non si sostituisce al giudizio di Dio; tuttavia, il funerale di queste persone può essere strumentalizzato trasformandolo da momento di preghiera in occasione di gloria e di manifestazione di potere della mafia stessa, e di qui una indebita legittimazione di cui, anche senza volerlo, ci si può rendere complici e diventare motivo di scandalo per i fedeli . Ora, nel territorio, la Chiesa è tenuta ad essere sempre un segno profetico che chiama le cose per nome e sta dalla parte delle vittime. In considerazione di questo e di altre circostanze pastorali, in occasione di richieste di esequie si valuterà tutto con la dovuta intelligenza e sapienza evangelica».

Il magistrato calabrese Nicola Gratteri ha lanciato un allarme attentati: la ‘ndrangheta potrebbe reagire violentemente all’azione di pulizia di Bergoglio allo Ior, in qualche caso, si sostiene, usato dalla criminalità organizzata per riciclare soldi sporchi. Condivide questa preoccupazione?
«Gratteri, stimato magistrato, ha dati e conoscenze che io non ho e quindi non posso che prendere atto con preoccupazione di quanto da lui affermato. Tuttavia, specie in questi ultimi tempi, la Chiesa è impegnata in un coraggioso rinnovamento di se stessa, delle sue strutture e delle sue azioni di governo. Se Benedetto XVI ha denunciato con coraggio, onestà e sofferenza il male che a volte pervade la stessa istituzione ecclesiastica e i suoi membri attivi, Papa Francesco sta proseguendo energicamente in un processo di cambiamento in direzione della trasparenza, dell’onestà e della sobrietà. Le riforme in atto allo Ior ne sono testimonianza. Tuttavia, lo stesso papa ci ricorda che questa riforma ecclesiale non può avvenire se non con la santità della vita dei suoi membri. La Chiesa, prima che una semplice istituzione terrena, è una comunità vivente: quanto più i suoi membri praticano la radicalità del Vangelo.

La Chiesa di fronte alla criminalità organizzata.

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Intervista a Don Pino Demasi, parroco di Polistena e referente di Libera

(La Redazione di OLIR.it)

Il primo intervento di condanna alla criminalità organizzata dei vescovi calabresi risale al 1975. Che differenza c’è fra la situazione di ieri e quella di oggi? Perché tornare sull’argomento a distanza di quasi 40 anni?

L’episcopato calabro, forse primo rispetto ad altri episcopati, nel 1975 avvertì l’esigenza di una vera e propria condanna al crimine organizzato, elaborando il documento “L’episcopato calabro contro la mafia,disonorante piaga della società”. Da allora continui sono stati gli interventi di singoli Vescovi e dell’intero episcopato sino all’ultima dichiarazione della sessione primaverile di quest’anno della CEC. E’ stato ed è un cammino tuttora in atto, quello dei Vescovi calabresi, che in un certo qual modo sta andando di pari passo con l’evoluzione del fenomeno ndranghetistico.
Per quanto riguarda la ‘ndrangheta, si è passati, in questi anni, dalla ‘ndrangheta vissuta e percepita solo come organizzazione criminale ad una ‘ndrangheta “liquida” che si infiltra dappertutto e si interfaccia con gli altri sistemi di potere, producendo valori e cultura. Un’organizzazione globalizzata, fatta di famiglie che vivono in tutti gli angoli della terra, capace ormai essa stessa di farsi istituzione.
Gli interventi dei Pastori della Chiesa, dall’altra parte, sono stati innanzitutto di denunzia; man mano che si è andati avanti si è passati dalla semplice denuncia della ‘ndrangheta, come un “cancro”, una zavorra, un triste peso, ad indicazioni pastorali abbastanza puntuali e precise. Interessante il documento del 2007 ”Se non vi convertirete, perirete tut ti allo stesso modo”, dove si mette in evidenza che la ‘ndrangheta è soprattutto un fatto culturale e che per sconfiggerla serve un’azione incisiva che pervada ogni settore della società.
C’è da dire, però, che la ricaduta nella base di questi documenti è stata “timida”. Abbiamo assistito infatti a comportamenti di accondiscendenza nei confronti del fenomeno mafioso, ma anche a fulgidi esempi di contrasto e di grande coraggio e determinazione. E’ mancata però in questi anni una prassi pastorale collettiva e condivisa.

Il documento della Cei del 21 febbraio 2010 “Per un paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno” afferma (paragrafo 9) che le mafie “non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione”.

Come la Chiesa può concretamente educare alla legalità?

Oggi di fronte alla presa di coscienza sempre più diffusa dell’insostenibilità dell’assurdità del costume mafioso, la risposta che la Chiesa è chiamata a dare non può essere quella esclusiva di una denuncia o di una reprimenda. E’ necessario prendere sempre più sul serio il ministero della evangelizzazione e della liberazione affidato alle nostre comunità, partendo dalla presa di coscienza delle nostre responsabilità.
Com’è possibile, infatti, che terre come la Calabria, dove esiste ancora una fortissima presenza della Chiesa, dove la partecipazione popolare alle funzioni ecclesiastiche, alle processioni, alle messe, all’ora di religione è ancora fortissima rispetto ad altri territori, com’è poss ibile che una presenza così forte possa coesistere con uno dei fenomeni più violenti, più crudeli, più illegali, più contrari al bene comune, come quello della ‘ndrangheta?
E poi come abbiamo potuto permettere alle varie associazioni o famiglie mafiose di utilizzare nei loro codici d’onore il linguaggio e i simboli religiosi? O come abbiamo potuto permettere agli uomini di ‘ndrangheta di utilizzare la religiosità popolare e in particolare le sue feste come momento per trovare legittimazione sociale e spesso anche per sancire vincoli, formalizzare spartizioni, stabilire gerarchie, decretare ed eseguire sentenze mafiose? Gli stessi riti religiosi, in alcune situazioni, sono stati oggetto di manipolazione. Attraverso di essi è avvenuto lo sfoggio del potere mafioso.
Ecco questo è lo scandalo da cui dobbiamo partire, per costruire un modello ecclesiologico ed una conseguente prassi pastorale.
Nel documento Chiesa Italiana e Mezzogiorno i Vescovi italiani hanno affermato: «rivendichiamo alla dimensione educativa, umana e religiosa, un ruolo primario nella crescita del Mezzogiorno: uno sviluppo autentico ed integrale ha nell’educazione le sue fondamenta più solide, perché assicura il senso di responsabilità e l’efficacia dell’agire, cioè i requisiti essenziali del gusto e della capacità di intrapresa. I veri attori dello sviluppo non sono i mezzi economici, ma le persone» .
Le Chiese del Sud sono chiamate in questo campo a dare il loro essenziale contributo, con la loro pastorale ordinaria, trasformata in profondità, puntando soprattutto ad un nuovo protagonismo dei laici. Laici maturi, impegnati e responsabili, protagonisti del cambiamento.
Occorre, allora, restituire le comunità cristiane a uno stile pastorale evangelico superando un male atavico delle nostre parrocchie: il dualismo sa cro-profano, secondo il quale quando il fedele varca la soglia del tempio, la sfera della sua vita professionale, familiare, sessuale, civile, ecc., viene lasciata dietro le spalle e diventa importante solo in quanto lettore, catechista, accolito, ministro straordinario dell’eucaristia. Si spoglia della sua veste tra virgolette profana e acquista quella di cristiano. Quando il fedele varca in senso inverso la soglia del tempio ritorna ad essere il professionista di trecento euro a visita, l’amministratore che chiede il pizzo per poter fare andare avanti una pratica o che la fa andare avanti solo per gli amici suoi, il professore svogliato che arriva sempre tardi a scuola, il padre nervoso e distratto che se ne sta tutto il giorno fuori, insomma dentro il tempio siamo nel sacro e ci salviamo l’anima, fuori dimentichiamo di essere membri di una comunità cristiana.
Nel documento Educare alla legalit&a grave; del 1991 l’indicazione che vi è fornita appare chiarissima: «Il cristiano non può accontentarsi di enunciare l’ideale e di affermare i principi generali. Deve entrare nella storia ed affrontarla nella sua complessità, promuovendo tutte le realizzazioni possibili dei valori evangelici e umani della libertà e della giustizia».
Concetti netti, che saldano l’etica dei princìpi e l’etica della responsabilità, la dimensione spirituale con l’impegno civile, e richiamano chi si professa credente ad una coerenza che non ammette intervalli, né accomodamenti.

Basta invitare chi sbaglia al pentimento o bisogna pensare anche a delle sanzioni canoniche come ha fatto, ad esempio, il Vescovo di Acireale che ha emanato un decreto circa la Privazione delle esequie ecclesiastiche per chi è stato condannato per reati di mafia (20 giugno 2013)?

Fermo restando che la conversione per tutti i cristiani passa attraverso un reale pentimento e ravvedimento e che quindi la strada da seguire è quella indicata da Zaccheo “Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho defraudato qualcuno di qualcosa, gli restituirò quattro volte tanto” (Lc. 19,8), io personalmente mi trovo d’accordo con il Vescovo di Acireale sulla necessità di qualche sanzione quando ci troviamo in situazioni in cui manca con chiarezza il ravvedimento ed il pentimento.
E’ un modo questo per superare quel dualismo sacro- profano di cui parlavo prima e per affermare con fermezza e senza tentennamenti che la mafia è una struttura di peccato e che vivere da cristiani è un non vivere da mafiosi, rifiutarsi e sempre più potersi rifiutare di vivere da mafiosi.
Non a caso, Il decreto di Mons. Raspanti si apre c on una citazione dettata da San Giovanni Paolo II nella storica visita alla Valle dei Templi di Agrigento il 9 maggio 1993: “La fede […] esige non solo un’intima adesione personale, ma anche una coraggiosa testimonianza esteriore, che si esprime in una convinta condanna del male. Essa esige qui, nella vostra terra, una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile”.

Che lei sappia solo la Chiesa calabrese è impegnata nella lotta alla criminalità organizzata oppure questa lotta vede impegnate anche altre conferenze episcopali regionali?

Il cammino di consapevolezza della pericolosità delle mafie e quindi la conseguente ricerca di una pastorale adeguata ha visto in questi ultimi decenni come protagoniste non solo le Chiese di Calabria, ma anche le Chiese del resto del Paese e soprattutto di quelle aree maggiormente interessate al fenomeno mafioso. Le linee direttive dei vari episcopati regionali, dell’episcopato italiano e dei Sommi Pontefici non ammettono ormai più passi e ritorni indietro.
Molto di nuovo anche in questo campo sta nascendo nella Chiesa. L’ascolto del popolo, del suo malessere, della sua soggezione, l’ascolto del grido degli onesti e degli indifesi che reclamano il bisogno di dignità umana e di reale libertà sta scuotendo ormai tutte le chiese, incoraggiate anche da Papa Francesco.
E’ certamente il tempo della speranza, intesa non come un’attesa fatalistica di cambiamento, un appigliarci all’eventualità che accada qualcosa in grado di scacciare, come per incanto, paure e incertezze. E’ Il tempo di quella speranza che ha il volto dell’impegno, del mettersi in marcia (in latino la parola speranza, spes, richiama del resto il termine pes, piede) di quella speranza, stretta parente del realismo, che risveglia il desiderio di reagire, di rialzare la testa.

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Non so se hai presente un uomo…..

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Diocesi di Padova:festival biblico.

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La settimana santa a Vallelunga Pratameno(CL).

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Vallelunga Pratameno è un piccolo paese a vocazione agricola, come dimostra il suo stemma civico con due grappoli di uva, bianca nel primo e nera nell’altro, fra bionde spighe di grano. I Vallelunghesi sono stati sempre gente laboriosa e onesta. Ancorata ai veri valori della vita, al rispetto della famiglia, delle donne, dei bambini e degli anziani.

Le sue origini affondano le radici tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento e fanno parte di quelle manifestazioni che subirono nuovi impulsi dopo il Concilio di Trento (1545-1563), che con la Controriforma avviò un rafforzamento dei principi religiosi intorno alla rivitalizzazione dei riti della tradizione cattolica.
L’identità civile è coincisa, per secoli, con quella religiosa i cui valori di riferimento affondano le loro radici nel crisitianesimo-cattolico. Infatti i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio culturale e artisitico, oltre che religioso, del popolo italiano. Cosicché la fede dei Valleunghesi è rimasta saldamente ancorata, sino ad oggi, nella tradizione cattolica. Nonostante l’imperversare del fenomeno della secolarizzazione e, ad oggi, di quello del relativismo etico-culturale, che mina alle radici le identità delle nostre comunità, quella vallelunghese ha conservato intatta la sua di identità, civile e religiosa, che si esprime ogni anno anche con determinati avvenimenti religiosi, il cui compito principale, dal punto di vista sociologico, è di cementare la comunità vallelunghese. Uno di questi momenti fondamentali è la Settimana Santa.
In Sicilia, come scrive G. Cammareri, di simani santi ce ne sono davvero tante. “Se ne possono incontrare di meste, chiassose, nevrotiche, follemente amate e disprezzate, profumate dal vino che lava le notti e dall’acre odore dei ceri che le sporca dolcemente, profumate da tanti fiori e illuminate da tantissime luci. Simani gonfiate con l’elio dei palloncini, fatte di mille macchine fotografiche al collo, di bambini vestiti da angioletti e di mamme che li accompagnano, di vecchietti piangenti ai balconi al passaggio di Cristi e Madonne…. Croci, pennacchi, spade attaccate alla vita da centurioni più o meno baffuti e ancora il gesto per un altro e un altro ancora “clic” di quelle mille macchine fotografiche il cui piccolo rumore annega, miseramente, in un mare di note scandite da suonatori infiocchettati nella divisa di questa o quella banda”.
I riti liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa vallelunghese servono a tramandare quella che gli israeliti chiamarono Pesach, che significa passaggio. Dal “passare oltre” della tradizione biblica dell’A.T., che testimonia la mano potente di Dio-salvatore, nella notte tra il 14 e il 15 del mese di Abib, quella dell’uccisione dei primogeniti, risparmiò i bambini ebrei, al “passare oltre” di Cristo dalla morte alla resurrezione.
La Pasqua cristiana se, da un lato, integra quella ebraica, dall’altro le si contrappone divenendo, dal II secolo D.C., a più solenne delle feste cristiane e divenendo il fulcro dell’anno liturgico nella storia della Chiesa.
Questo mio modesto contributo vuole essere un momento di riflessione sulla Settimana Santa e sulla Pasqua a Vallelunga, perché, spero, avvenga, nei miei cinque lettori, anche una comprensione del passato e del presente, della storia civile e religiosa della nostra comunità. Infatti tutti noi abbiamo bisogno di coglierci come uomini del presente ma fortemente legati al nostro passato per seppellirlo, come dice lo storico francese De Certò. Per vivere il presente è necessario seppellire il passato non nel senso di obliarlo, di oscurarlo o, peggio ancora, di cancellarlo, ma di metabolizzarlo.
Questo mio contributo, per citare una espressione del predetto storico francese, è un voler “seppellire” il nostro passato, cioè un riconoscerci nel nostro presente come dipendenti e, nello stesso tempo, ormai distanti da un passato che è inevitabilmente tramontato. Un passato che, pur essendo già tramontato, ha lasciato, però, una eredità civile e religiosa fondamentale, consentendo a tutti noi di coglierci come presente, legati al passato e proiettati al futuro.
In questo contesto,come quello attuale, che non vede più una coincidenza tra la comunità civile e quella ecclesiale, si sente il bisogno di cogliere sempre meglio la propria identità, civile e religiosa,cioè le nostre radici,come antidoto ad ogni forma di relativismo culturale ed etico che distrugge ogni identità anche di natura locale.
Possiamo sostenere, grazie anche al supporto del contributo fotografico,che la Settimana Santa,a Vallelunga è un momento nel quale la nostra comunità pone in essere oltre che una identità cattolica forte anche una forte identificazione.
I riti extraliturgici della Settimana Santa, non vanno considerati come momenti staccati, o addirittura opposti, rispetto alle celebrazioni liturgiche. La testimonianza di tutto ciò è data proprio da ciò che avviene,ogni anno, durante il triduo pasquale anche a Vallelunga.
Tutti noi siamo inseriti in una “traditio” composta da valori civili,sociali,familiari e religiosi, mediati e trasmessi dall’importantissimo processo educativo, connotandoci, appunto, come “civis” e, per chi crede,come credenti.
Lo stesso identico meccanismo avviene per l’esperienza religiosa,quando si entra a far parte di una determinata religione si entra in un solco già tracciato da altri, si entra in una “traditio fidei” con la quale si sono tramandate, di generazione in generazione, le grandi verità di fede credute,celebrate e vissute da una determinata religione,soprattutto se essa ha un fondamento storico,una forte dimensione salvifica e una finalità escatologica, come appunto è l’intero messaggio del cristianesimo.
Il cristianesimo,infatti, ha tutte e tre queste caratteristiche ed ha una sua specificità,che altre religioni non hanno:la fede in Dio fattosi Uomo.
I fatti e le vicende storiche della prima Settimana Santa, documentate minuziosamente dai Vangeli e dal Nuovo Testamento, non si ripeteranno mai più, dal punto di vista della loro storicità ma continuano a ripetersi,da duemila anni circa, dal punto di vista del Mistero Salvifico.
Che cos’è il mistero salvifico?La presenza di Dio-Salvatore nella storia degli uomini, cosicchè ogni anno, durante i riti liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa, viene data al credente la possibilità di partecipare al mistero di salvezza,in chiave liturgico- sacramentale- mistagogica, e di ottenere questa salvezza nell’oggi della storia attraverso la presenza della comunità credente,la Chiesa,cioè la comunità di tutti i battezzati che credono in Gesù-Cristo sofferente,morto e risorto,che continua nella storia la celebrazione del Mistero pasquale.
Nel contemplare le foto , che hanno “immortalato” alcuni momenti di alcuni riti extraliturgici della Settimana Santa a Vallelunga, non si può prescindere da quanto detto fin ora. La Settimana Santa,cioè, è espressione della l’inculturazione della fede cattolica nelle nostre popolazioni. L’inculturazione è l’incontro tra la fede annunciata nei secoli e il recepimento della stessa da parte del popolo credente.
Essa,come scrive V.Sorce, “ha una forte valenza teologica fondata sugli eventi dell’Incarnazione e della Chiesa locale”, e si inserisce in un solco già dato,si inserisce nella cattolicità e all’interno di essa ,attraverso la “traditio fidei”,cioè,appunto, il tramandare la fede, si ricollega, attraverso il ricordo liturgico, ai fatti storici della prima Settimana Santa e della prima Pasqua.
Potremmo dire che la Settimana Santa,a Vallelunga è la stessa,per esempio, di quella di altri comuni presenti in altre regioni d’Italia?Assolutamente no. In che senso c’è diversità?Non nella sostanza dell’Evento e della celebrazione dello stesso, ma nelle modalità di recezione del messaggio del cristianesimo e nel modo con cui ogni comunità credente ha vissuto e vive, nell’oggi della storia, il mistero salvifico di Gesù-Cristo morto e risorto. Tutto ciò si chiama inculturazione della fede.
La Settimana Santa, in Sicilia, è il frutto di una duplice tradizione:
la prima legata alle sviluppo della inculturazione della fede in Sicilia: per cui è possibile parlare di una sorta di “Cristo Siciliano”.
–la seconda legata alla sviluppo del cattolicesimo in questo territorio che ha fatto propri gli influssi derivanti: dal concilio di Trento e dall’influsso bizantino e spagnolo.
In che senso si può parlare,allora, di un Cristo “siciliano”?
Nella cultura e nella pietà popolare siciliana esiste una interpretazione e un vissuto della figura di Gesù-Cristo che è caratterizzata da tratti propri. L’aggettivo “siciliano” ci dice qualcosa di culturalmente significativo,cioè a dire la cultura siciliana ha “segnato” la figura del Cristo con alcuni suoi tratti specifici. Questo “Cristo siciliano” sarebbe in opposizione a quello della predicazione ufficiale della Chiesa, dei dogmi e della liturgia?Addirittura lo si potrebbe considerare un Cristo fuori dalla Chiesa cattolica o,addirittura, contro di essa?Un “Evangelium extra ecclesiam?”
Secondo le tesi di alcuni studiosi il “Cristo siciliano” potrebbe benissimo essere considerato il Cristo delle classi deboli e oppresse o, come dice Gramsci, delle classi popolari che sono “strumentali e subalterne”. Molti studiosi,di indirizzo marxista, infatti, sostengono che la religiosità popolare ,che trova il proprio culmine nei riti della Settimana Santa, sarebbe l’espressione di un cristianesimo vissuto fuori dalla Chiesa e di un “Cristo-popolare” oggetto di un conflitto esistente, di fatto, tra la gerarchia cattolica e il popolo credente.
Stanno davvero così le cose? La risposta negativa si evince, meravigliosamente, da ciò che avviene ogni anno a Vallelunga che ci aiuta a cogliere il fatto che la pietà popolare,quella legata,anche, ai riti della Settimana Santa e della Pasqua, in Sicilia, ha un’anima teologica;cioè l’humsus,il terreno in cui essa affonda le radici è costituito dalle grandi verità proprie del cattolicesimo credute,comprese (attraverso un cammino di “intellectus fidei”),celebrate e vissute.
Non c’è,dunque, nessun conflitto tra la Chiesa “gerarchica” e il popolo credente, per il semplice motivo che anche la gerarchia cattolica partecipa ai riti extraliturgici della Settimana Santa.
Dove sta allora l’equivoco?proprio nel significato che si dà al termine “pietà popolare” intesa non come esperienza di fede del popolo credente ma come momento di opposizione delle classi subalterne alle classi colte e,soprattutto,alla religione “ufficiale”. Dunque una lettura sociologica e non teologica del fenomeno.
Quali sono,allora, le caratteristiche del “Cristo siciliano”in relazione agli eventi della Settimana Santa e della Pasqua?
Il siciliano è uno che vuole vedere e toccare,è fondamentale per il siciliano la RES,la cosa,(pensiamo alla tematica verghiana della roba) e tutto ciò perché il siciliano ha alle sue spalle una esperienza storica tragica, poichè ha visto decine e decine di colonizzatori venire nell’isola e, spesso, maltrattare il popolo. Tutto ciò lo ha spinto a proiettare questa sofferenza, accumulata nei secoli, nell’attaccamento alla res,spesso anche con modalità eccessive e devianti, come si configura il fenomeno mafioso. Come se la “materialità” delle cose lo salvasse dall’insicurezza e dalla sofferenza accumulate nei secoli.
Questa mentalità della Res,nel senso migliore del termine , cioè cosa vissuta,esperienza fatta, viene applicata anche nel vissuto religioso del siciliano. In questa cementificazione di quotidianità sofferta,la Sicilia celebra la cultura della sofferenza e in tutti i paesi dell’isola la Settimana Santa costituisce l’approdo di un modello irrepetibile verace,insostituibile salvataggio. Il Siciliano trova, negli eventi,liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa, la teologia della kènosis,ossia il fatto che Dio non ha disdegnato di farsi Uomo e di assumere su di se’ tutta la sofferenza,fisica e morale,del genere umano.
Infatti in Sicilia è forte la concentrazione sul “Corpo di Cristo”. L’attenzione,la contemplazione del corpo di Cristo va dal Gesù-Bambino a tutta la vicenda della passione-morte-resurrezione, con particolare attenzione al corpo di Cristo deposto dalla croce e sepolto.
Il corpo di Gesù-Cristo non è mai solo, ma viene associato a quello della madre,dalla culla alla tomba. E’ l’insieme dei due corpi che costituisce il cuore della Pietas proprio del Venerdì Santo,al punto tale che in alcune circostanze i due simulacri si fondono quasi a divenire una sola cosa,cosicché il siciliano non concepisce il corpo di Gesù-Cristo se non associato a quello della madre. I due corpi vengono associati nel dolore del Venerdì Santo e nella gioia della Domenica di Pasqua, allorquando la Madre ritrova il figlio risorto:l’Incontro che si celebra in molti comuni dell’isola proprio la mattina di Pasqua.
Da che cosa scaturisce questa concentrazione sulla tematica del Corpo di Cristo?
Le origini sono lontane,bisogna risalire al 1700,secolo in cui si realizzarono in Sicilia,come sostiene lo storico Cataldo Naro,le istanze innovatrici del concilio di Trento,prima fra tutte la predicazione al popolo ad opera soprattutto degli ordini religiosi. Nacque, proprio dalla predicazione itinerante dei Cappuccini,dei Gesuiti e dei Redentoristi, l’attenzione al Corpo di Cristo.
Fu il francescanesimo ad introdurre la pietas verso Gesù Bambino(la creazione del primo presepe vivente,a Greccio,la notte di Natale del 1223, ad opera di Francesco D’Assisi),ripresa nel 1700 da sant’Alfonso de Liguori. I religiosi,grazie ai quaresimali,le 40 ore,i panegirici,gli esercizi spirituali,le missioni popolari,la creazione di tante confraternite, diffusero la pietas,cioè il rapporto tra il credente e “U Signori”,inteso, come Dio padre a volte (U Signori fici u munnu”), ma quasi sempre riferito a Cristo: “U signori murì pi nuatri poveri piccatura”.
Tutto ciò avvenne proprio nel 1700. Proprio il “secolo dei lumi” ci insegna una notevole vivacità, alimentata dalle pratiche di pietà sul mistero di Cristo semplice, povero e crocifisso e dalla necessità di garantirsi la salvezza che, sebbene eterna, deve essere sperimentata già nel quotidiano.
La pietà settecentesca è prevalentemente cristologia. Vanno ricordati, a tal proposito, i componimenti di Sant’Alfonso sul Natale e i crocifissi scolpiti da fra Umile da Petraia. Essa, in sostanza, è riportata agli eventi decisivi della storia della salvezza: l’incarnazione, la passione e la morte in croce, la devozione verso l’umanità di Gesù, vengono radicati nel popolo grazie a preghiere, canti, quadri devozionali.
Essenzialmente,dunque, gli influssi maggiori che hanno caratterizzato la Settimana Santa in Sicilia sono di duplice derivazione:
l’influsso bizantino,
con la nascita delle devozioni popolari e all’interno di esso il movimento francescano con la devozione verso Gesù bambino e, per il nostro tema, verso il Cristo sofferente e il tenero amore verso Maria Addolorata. Il periodo che va dal XIII al XV secolo vide la comparsa delle prime statue dei crocifissi che esprimono la sofferenza e la morte di Cristo.
Il devozionismo a partire proprio da questo periodo si è insinuato profondamente nella coscienza e nelle espressioni di fede dei credenti ponendo le premesse per il nascere e lo svilupparsi anche delle tradizioni popolari siciliane della Settimana Santa.
L’influsso spagnolo,
il periodo che va dalla fine del XVI secolo fino al XVIII secolo. Il dominio degli spagnoli ha contribuito alla strutturazione definitiva dei riti della Settimana Santa in Sicilia.
Per il nostro discorso lo spagnolismo diede vita all’ anticipazione del cosidetto “Sepolcro”(tecnicamente Altare della reposizione) del Signore alla sera del giovedì santo. Risale, al XVI secolo, l’usanza di deporre nel sepolcro l’immagine del Cristo morto,esponendo sopra il sepolcro il SS. Sacramento nell’ostensorio coperto da un velo.
Nacque,così come documentato dal Plumari, l’identificazione dell’altare della reposizione con il Sepolcro. Infatti,sino ad oggi,nella coscienza popolare vi è una dissolvenza di significati tra l’adorazione della “presenza reale-ostia”conservata nel tabernacolo-custodia e del corpo-ostia del Signore conservato nel tabernacolo-sepolcro.
I riti liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa trovano il loro culmine nel triduo pasquale in cui avviene un meraviglioso connubio tra liturgia e pietà popolare.
La pietà polare,come scrive Vincenzo Sorce,accentua di più l’immagine, la liturgia, il segno.
Continua il Sorce, è lo stesso popolo,il popolo di Dio,che vive lo stesso mistero e lo esprime con linguaggi diversi.
Nella pietà popolare,l’uomo di Sicilia,in modo particolare nella Settimana Santa,vive ed esprime la partecipazione alla passione ,morte e resurrezione di Cristo,con la totalità della sua struttura antropologica,che è simbolista,fortemente sensoriale:vivendo la dimensione della festività e della tragicità.
Attraverso le foto si coglie “un popolo che esce dalla solitudine,vive la comunione. Dando spazio ai suoi sentimenti,alle sue emozioni,con la totalità del linguaggio corporeo,la gestualità,il canto,gli aromi,i colori,il pianto,il grido”.
L’uomo di Sicilia si rimette in marcia. Si libera dal pianto,grida il suo dolore,la sua angoscia,la sua paura davanti alla morte. Si identifica con l’uomo dei dolori ,appeso alla croce.Da spazio ai suoi sentimenti,piange. Prende contatto con i suoi vissuti,li esprime,li condivide,li grida,li urla. Psicoterapia e salvezza radicale s’incrociano nel Crocifisso,l’uomo dei dolori,l’uomo ferito e la risposta di Dio”.
Il Giovedì Santo,a Vallelunga, vede la creazione,ad opera dei confrati delle tre Confraternite esistenti in paese,(quella del SS.Sacramento,della Madonna del Rosario e di Maria SS. Addolorata) ,nei rispettivi oratori,delle cosiddette CENE. Una creazione che si ripete da decenni e che ha ereditato la tradizione dei “pupi di zucchero” tipica del palermitano.
Vengono create,da ogni confraternita, delle mense su cui vengono deposti 13 agnelli di zucchero di media grandezza,raffiguranti Cristo e i dodici apostoli che celebrano l’ultima cena, accompagnate da 13 pani da cena(dolce tipico pasquale Vallelunghese) insieme a 13 lattughe , cedri, arance e finocchi.
Al centro della tavola,troneggia una statua,sempre di zucchero opera di artigiani palermitani cui le confraternite si rivolgono ogni anno, raffigurante il Cristo Risorto,insieme al pane e al vino,simboli dell’Eucarestia. Ogni anno,per ogni confraternita, vengono sorteggiati 12 confrati tra quelli che hanno pagato l’annualità,ossia la quota associativa.
Quattro dei dodici sorteggiati,per ogni confraternita,vanno a svolgere il ruolo che fù dei 12 apostoli nella messa vespertina “In Cena Domini”,nella quale si ricorda l’istituzione dell’Eucarestia e la carità fraterna. Saranno i protagonisti della lavanda dei piedi. Alla fine della Messa, i dodoci confrati sorteggiati da ogni confraternita,unitamente agli altri confrati e alle loro famiglie ,si riuniscono presso la loro chiesa di riferimento e dopo aver contemplato la bellezza della Cena,ricevono in dono l’ Agnello di zucchero,un pane da cena,un cedro,una lattuga,un finocchio e un arancio che portano a casa. Ai confrati non sorteggiati viene dato un piccolo agnello di zucchero. La sera del giovedì santo si conclude con la visita all’unico “Sepolcro”creato nella cappella del SS.Sacramento della Chiesa madre .L’adorazione eucaristica si protrae sino alla mezzanotte.Chiusa la chiesa avviene,notte tempo,la spogliazione del sepolcro e la preparazione del simulacro del Cristo morto.
Il Venerdì Santo, nella pietà popolare siciliana, emerge il culto della passione e morte di Gesù nella quale la nostra gente si immedesima in partecipazione comunitaria. Ha scritto a tal proposito il Prof. Basilio Randazzo che «la vera pietà di una volta all’anno, raccolta in tutto un anno, si comunica nel dolore della settimana santa, e in particolar modo il venerdì santo si celebra il «Tutto di Tutti», cioè il mistero della Passione, come «prototipo teologicamente unitario con uno stile culturalmente conforme ma con un atteggiamento che varia da comunità a comunità».
Nella pietà popolare del Venerdì Santo, scrive Angelo Plumari, l’uomo di Sicilia vive ed esprime la partecipazione alla passione, morte e resurrezione di Cristo con la totalità della sua struttura antropologica, cosicché un popolo esce dalla solitudine, vive la comunione dando spazio ai suoi sentimenti alle sue emozioni con la totalità del linguaggio corporeo, con la gestualità, con il canto, i colori, il pianto, il grido.
Il venerdì santo è emblematico e paradigmatico come i siciliani si ritrovino e si identifichino nel dolore del Cristo morto, stando muti davanti alla bara, e in quello dell’Addolorata, dinnanzi ai quali sentono che il dolore umano, il loro dolore è stato assunto da Dio.
Durante le processioni del Venerdì santo,il popolo che partecipa “esplode con il linguaggio dei segni:piedi scalzi,canti lancinanti,incensi che bruciano,fiaccole accese,
silenzio pieno di mistero,intensa commozione,profonda meditazione. Si ricompongono celebrazione,gestualità,simbolismo,sensorialità. E’il trionfo dell’opera mistagogica”.
Inoltre la mistagogia dei simboli del Venerdì Santo è estremamente interessante oltre che variegata:la presenza delle confraternite incappucciate o a volto coperto,indacano,secondo B.Randazzo,la perdita di personalità o la comunione nel dolore; Il passo professionale a due passi avanti e uno indietro,ansia di sofferenza,i cilii o candele accese,l’umanità;
la fiamma,la purificazione e la luce della Resurrezione; le marce funebri,l’accentuazione sensibilizzata di stati d’animo in pianto del peccato di Deicidio.
Tutto ciò comunica il fatto che “l’uomo siciliano è celebrante simbolista”. Il Venerdì santo inizia con la visita ai sepolcri, poco conosciuti come altari della reposizione, poiché si continua ad identificare, così come sostiene il Plumari, l’altare della reposizione con il sepolcro del Signore creando, nella coscienza popolare, una identificazione di significati tra l’adorazione della presenza reale-ostia e il corpo-ostia, per cui il tabernacolo è, allo stesso tempo, sepolcro.
I riti extraliturgici del venerdì santo si svolgono secondo quattro tipologie presenti nell’Isola:
1.le processioni funebri del Cristo morto accompagnato dalla Madre addolorata;
2.la processione dei misteri;
3.le processioni in cui si compie la mimesi cronologica degli eventi della passione;
4.la processione del solo Crocifisso
Anche a Vallulunga i riti si svolgono secondo la prima e la terza tipologia: a mezzogiorno si porta il Cristo al calvario,che si trova all’uscita del paese in direzione per Palermo, lo si crocifigge, la sera lo si va a riprendere,lo si mette dentro l’urna e lo si porta,in processione, presso l’oratorio del SS.Sacramento,sito in piazza, seguito dalla Madre addolorata.
In molti comuni dell’isola, tra cui Vallelunga, nella mattina del Venerdì Santo si ripete uno dei riti più antichi e più suggestivi della Settimana Santa in Sicilia. L’effige del Cristo morto viene deposto su un tavolo coperto di drappi rossi e i fedeli si recano presso la Chiesa madre, la Chiesa intitolata alle Anime Sante del purgatorio e la Chiesa del SS. Crocifisso, toccando e baciando la statua del Cristo morto, con una preghiera corale:
Pietà e misericordia Signuri.
Un via vai di persone, in assoluto silenzio e con grande fede e devozione, si nota per le strade di Vallelunga sin dalle prime ore dell’alba. Questo gesto di pietà dura tutta la mattinata e si conclude a mezzogiorno del Venerdì Santo. Nel pomeriggio si svolge la celebrazione liturgica della commemorazione della morte del Signore.
La preparazione dell’urna dove la sera verrà deposto il simulacro del Cristo morto avviene ad opera dei confrati del SS.Sacramento,mentre la vara dell’Addolorata ad opera dell’omonima confraternita che ha sede presso la chiesa del SS.Crocifisso. Alla processione serale,vi partecipa un grandissimo numero di fedeli,con in testa il clero locale e i confrati vestiti con i loro abitini tradizionali. La banda musicale suona marce funebri. Arrivati in piazza,un predicatore rivolge un sermone penitenziale al popolo.
Il Sabato santo,tutta la comunità credente si prepara alla celebrazione della solenne Veglia Pasquale.

La scuola italiana da Papa Francesco.

LA SCUOLA ITALIANA DAL PAPA – 10 maggio 2014

Lo spazio dei Fratelli.

cop Sintesi&Proposte 65
Invito conf. confraternite

Il ministero presbiterale di Cataldo Naro.

A cura del Prof.Francesco Lo Manto docente di storia della chiesa presso la Facoltà Teologica di Sicilia “S.Giovanni Evangelista”Palermo.
estratto Cataldo Naro Lomanto