“La mafia è contro il Vangelo: non basta la scomunica”.

P

L’arcivescovo Vincenzo Bertolone, postulatore del martire anti-clan don Puglisi, riapre la discussione sulla sanzione canonica per i mafiosi

giacomo galleazzi
città del vaticano

“La mafia è contro il Vangelo”. Dopo il monito di papa Francesco ai clan (“offendono gravemente Dio”) nel messaggio del 1° gennaio alla Giornata mondiale della pace, a riaprire con questa intervista a “Vatican Insider” il dibattito sulla scomunica dei mafiosi è l’arcivescovo di Catanzaro, Vincenzo Bertolone (postulatore della causa di beatificazione del martire anti-mafia don Pino Puglisi). Secondo il presule della congregazione Missionari Servi dei Poveri “Boccone del Povero”(S.d.P) ed ex viceministro vaticano degli Istituti di Vita consacrata e delle Società di vita apostolica, prima della pena canonica serve un radicale cambiamento “educativo e pastorale”.

Può essere utile un decreto di scomunica dei mafiosi?
«E’ una questione che va affrontata. Negli ultimi decenni, e in particolare dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha usato sempre meno il provvedimento della scomunica. Non che esso sia scomparso o che la Chiesa abbia scelto la strada del buonismo, ma il popolo dei credenti e i suoi pastori hanno scelto di abbracciare il mondo in un modo diverso, con tutte le sue ombre e le sue luci. Da una Chiesa che si limitava a denunciare il male e associare la pena canonica di riferimento si è passati ad una Chiesa che “esce da se stessa”, che si impegna a creare una nuova coscienza, che sceglie la strada dell’incontro umano e dell’evangelizzazione come risposta al male. Papa Francesco, ultimamente, ci sta esortando ad essere una Chiesa aperta che si sporca e si ferisce le mani per accompagnare l’uomo offrendogli la luce del Vangelo. Ora, nel caso della mafia – e il ministero di padre Puglisi lo dimostra – sono tante le cose che la Chiesa può e deve fare, prima e al di là di una pena canonica. Inoltre poi, mi chiedo: oggi c’è una sensibilità ed una formazione religiosa tale che faccia comprendere la gravità di un tale provvedimento? Detto ciò, restiamo fermi nella condanna assoluta della mafia e di ogni organizzazione in contrasto palese col Vangelo. Resta prioritario invece che la Chiesa prosegua nella sua opera pastorale educativa e preventiva, in un comune sforzo di nuova evangelizzazione che comporta attività pastorale, annuncio biblico, dottrinale ed esercizio di opere di misericordia».

Per i funerali dei mafiosi, si può applicare il modello seguito a Roma per il nazista Priebke, cioè una benedizione privata della salma senza pubbliche esequie?
«Va anzitutto detto che dinanzi al mistero della morte bisogna imparare a far tacere i giudizi umani e restare in rispettoso silenzio. Anche la morte di un criminale o di un mafioso non deve diventare occasione di giudizio. La Chiesa ha sempre creduto e crede che il giudizio ultimo e fondamentale spetti a Dio. Dunque, il funerale non è una benedizione delle opere e della vita del defunto, e con la preghiera la Chiesa lo affida, al di là di tutto, al giudizio misericordioso di Dio Padre. Inoltre, il funerale è un atto comunitario che accompagna i parenti e gli amici del defunto in un momento di dolore. Da questo punto di vista, non dovrebbe essere negato. Si dà però il caso di chi, notoriamente e ostinatamente, ha preso parte pubblicamente e in prima persona, ovvero come mandante, come collaboratore o esecutore consapevole, a crimini efferati, quali furono i massacri dei nazisti e quali sono oggi stragi, assassini, violenze, soprusi ed esecuzioni delle organizzazioni criminali e/o mafiose. Anche in questo caso, la Chiesa non si sostituisce al giudizio di Dio; tuttavia, il funerale di queste persone può essere strumentalizzato trasformandolo da momento di preghiera in occasione di gloria e di manifestazione di potere della mafia stessa, e di qui una indebita legittimazione di cui, anche senza volerlo, ci si può rendere complici e diventare motivo di scandalo per i fedeli . Ora, nel territorio, la Chiesa è tenuta ad essere sempre un segno profetico che chiama le cose per nome e sta dalla parte delle vittime. In considerazione di questo e di altre circostanze pastorali, in occasione di richieste di esequie si valuterà tutto con la dovuta intelligenza e sapienza evangelica».

Il magistrato calabrese Nicola Gratteri ha lanciato un allarme attentati: la ‘ndrangheta potrebbe reagire violentemente all’azione di pulizia di Bergoglio allo Ior, in qualche caso, si sostiene, usato dalla criminalità organizzata per riciclare soldi sporchi. Condivide questa preoccupazione?
«Gratteri, stimato magistrato, ha dati e conoscenze che io non ho e quindi non posso che prendere atto con preoccupazione di quanto da lui affermato. Tuttavia, specie in questi ultimi tempi, la Chiesa è impegnata in un coraggioso rinnovamento di se stessa, delle sue strutture e delle sue azioni di governo. Se Benedetto XVI ha denunciato con coraggio, onestà e sofferenza il male che a volte pervade la stessa istituzione ecclesiastica e i suoi membri attivi, Papa Francesco sta proseguendo energicamente in un processo di cambiamento in direzione della trasparenza, dell’onestà e della sobrietà. Le riforme in atto allo Ior ne sono testimonianza. Tuttavia, lo stesso papa ci ricorda che questa riforma ecclesiale non può avvenire se non con la santità della vita dei suoi membri. La Chiesa, prima che una semplice istituzione terrena, è una comunità vivente: quanto più i suoi membri praticano la radicalità del Vangelo.

Dalla Sicilia alla Puglia.La Festa di San Giuseppe.

talmus san giuseppe
volantinoSGiuseppe
talmus Sgarbi Musardo
Il volume è stato presentato dal Prof. Vittorio Sgarbi e dal Prof. Rodo Santoro su invito della Delegazione Sicilia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio e la TALMUS ART EDITORE il 18 marzo presso la Chiesa di San Nicolò daTolentino, a Palermo
Dalla Presentazione:
“Lo studio di questa particolare festa della tradizione religiosa cristiana è oggi più che mai prezioso perché compendia quella civiltà contadina che oggi rischia definitivamente di scomparire.
Un libro che ne racconta l’origine e l’evoluzione, è un’opera indubbiamente meritoria. Questo, in particolare, oltre al ricco corredo fotografico, costituisce, per il rigore scientifico e per la linearità della scrittura didattica che ne fa un libro di ampia divulgazione, un prezioso contributo alla conoscenza e all’approfondimento di San Giuseppe e dei riti religiosi a lui ispirati
. ” [Vittorio Sgarbi]

Dalla Sicilia alla Puglia la festa di San Giuseppe è una semplice raccolta di santini e immagini sacre riferite al santo di Nazareth? E’ il peregrinare faticoso per paesi e città alla ricerca del misto sacro-profano? E’ l’esercizio retorico culturale per ricostruire feticismi e misticismi profani e poplari? No. E’ la saggezza mirata a rivalutare un culto che è di popolo, che è di piazza, che è di fede, che è cultura, storia e arte, senza confusioni. E’ un capolavoro di immagini e di testi, freschi di stampa, uscito in questi giorni, e concepito da chi ne è stata la curatrice, la dottoressa Vincenza Musardo Talò, per volere di una giovane casa editrice pugliese, la Talmus Art. Il santo degli artigiani, degli operai e dei falegnami; della buona morte e della vita indissolubile chiamata matrimonio, conquista un posto d’onore nella iconografia, ma, anche, nella ripresa e rivalutazione di un culto molto diffuso in due regioni meridionali: la Sicilia e la Puglia. Due realtà lontane, ma affini, definite nel testo “regioni sorelle”, perché di esse è stato colto il senso vero di una appartenenza, di una identità consacrata nella icona di un santo che pulsa nel cuore dei due popoli, segnandone la storia, i ritmi, i passi, l’autenticità di una fede; di un connubio antico, nuovo, moderno, sancito, non solo da quel mare Mediterraneo che unisce, ma dalla sacralità di due mondi che si incontrano sull’altare dell’amore verso lo sposo di Maria Vergine.
Culti isolati, personali e soggettivi, ma, anche comunitari, collettivi nella espressione di Confraternite, sodalizi religiosi, Pie Unioni. Una coralità di cuore che esprime generosità e gratitudine, senza finzioni, senza ipocrisie, senza falsi ed inutili pudori, perché la fede autentica è quella che si manifesta e non quella che viene nascosta o repressa per rispetto umano. In questa opera nuova, non è da sottovalutare il coraggio mostrato da Vittorio Sgarbi, il quale ha saputo leggere i segni di un popolo, della gente autenticamente genuina; ha saputo intercettare le istanze di fede raccolte non in un crogiuolo, non in fazzoletto bagnato di lacrime, ma nello specchio di una vita, perché la vita di Giuseppe è stato specchio di fedeltà, di servizio, di obbedienza, di silenzio, di operosità. A questo meritorio lavoro va il plauso verso i tanti che hanno collaborato con la loro esperienza, con la loro voglia di ricercare, studiare, approfondire, conoscere e far conoscere il valore di un personaggio, staccato dal cuore della storia della Redenzione, per diventare medaglia di ogni singolo credente; di ognuno che ha sentito il bisogno del rifugio sicuro e sereno in colui che protesse nel rifugio del suo cuore immenso, la vita di Maria e di suo figlio, Gesù Cristo. Brevi considerazioni le nostre. Per meglio entrare nel clima di quest’opera, abbiamo affidato il compito alla sua curatrice, Vincenza Musardo Talò, che dobbiamo definire instancabile zelante e zelatrice di una missione.(Giuseppe Massari).

Partire per un viaggio – sia pure per immagini e narrati – nel magico labirinto di antichi sapori e colori delle solari regioni di Puglia e Sicilia, le due Terre più fascinose del Mediterraneo, cariche della voce dei secoli e laboratorio interculturale di civiltà lontane…
Viaggiare per antiche e nuove contrade, nella veste di umili pellegrini della cultura, per rivisitare uno dei più ricchi patrimoni di rituali, di cui si adorna la devozione popolare: la festa di S. Giuseppe…
Entrare, con rispetto, nella intima microstoria di tante comunità, che da secoli, con la tenacia della fede e l’umiltà dei semplici, affidano il loro vissuto al patrocinio potente di questo santo Patriarca…
Questi gli obiettivi del presente volume, accostato da studiosi di legittimato spessore scientifico e documentato da un corredo iconografico, proveniente dagli scatti artistici di esperti della fotografia o dalla istantanea e fresca foto-ricordo del devoto visitatore e del turista, unitamente ad alcuni rari esemplari di piccole immagini devozionali, riemersi da prestigiose collezioni private…
E il tutto sapientemente supervisionato dall’occhio “critico” di Vittorio Sgarbi: uno dei più stimati e accreditati studiosi di Estetica, nonché profondo e severo conoscitore dell’Arte, che la contemporaneità possa vantare. Il libro racconta l’origine e l’evoluzione della festa di San Giuseppe dalla Sicilia alla Puglia. Grazie alla ricca dotazione di illustrazioni, al rigore scientifico utilizzato nella descrizione e la linearità della scrittura didattica, il libro è adatto ad un’ ampia divulgazione, ed è un prezioso contributo per far conoscere ed approfondire il culto di San Giuseppe.

D. Fra i tanti santi, perchè una ricerca e uno studio monografico sul culto riservato a San Giuseppe e una presentazione affidata ad un critico d’eccezione quale è Vittorio Sgarbi?

R. La volontà di realizzare un volume di studi e ricerche sul culto popolare di san Giuseppe nel Mezzogiorno d’Italia era da tempo fra le pieghe programmatiche della Casa Editrice TALMUS ART, che ha voluto affidarmi il progetto, libera di impiantarlo e strutturarlo al meglio. Un personale interesse sul culto e le tradizioni della festa del Santo, in termini socio-antropologico-culturale e religioso, mi hanno indirizzato in tal senso. Il pensare al prof. Sgarbi non solo come attore della Presentazione al volume, ma anche come co-autore, è dipeso dal desiderio di avere all’interno del volume, scritto da accreditati autori vari, una voce autorevole, un intellettuale di rilievo che accompagnasse il lavoro di tanti. Fuori da ogni retorica, abbiamo apprezzato il suo gesto generoso e tutti gli Autori gli sono grati. E’ inutile, poi disquisire sul valore del suo contributo, offerto al volume, circa l’iconografia Giuseppina nell’arte colta.

D. Perchè il riferimento solo a due regioni meridionali e non ad altre?

R. La volontà ad accostare una ricerca fondamentalmente sulle due regioni Puglia-Sicilia, trova giustificazione nel fatto che a noi questo binomio è sembrato essere il più esaustivo per raggiungere le finalità del volume stesso. E’ incredibilmente fascinoso e suggestivo il patrimonio di storia e di tradizioni su san Giuseppe fra le strade delle tante luminose civiltà che hanno attraversato queste due regioni-sorelle. E il volume ne dà ampiamente conto.

D. Considerando la diversità e la distanza dei luoghi presi in esame, cosa accomuna realtà territoriali e geografiche diverse tra loro per questa devozione?

R. Le connotazioni essenziali che accomunano queste due Terre solari e ricche di tanta laboriosa umanità, si riscontrano in quella tenace e caparbia volontà a mantenere, tutelare e valorizzare un’antica devozione, una testimonianza di fede dei Padri, i quali affidarono al Santo degli umili, dei poveri, del silenzio e del nascondimento, le angosce e le paure di una quotidianità sofferta e sofferente.

D. Fra i tanti santi, perchè una ricerca e uno studio monografico sul culto riservato a San Giuseppe e una presentazione affidata ad un critico d’eccezione quale è Vittorio Sgarbi?

R. La volontà di realizzare un volume di studi e ricerche sul culto popolare di san Giuseppe nel Mezzogiorno d’Italia era da tempo fra le pieghe programmatiche della Casa Editrice TALMUS ART, che ha voluto affidarmi il progetto, libera di impiantarlo e strutturarlo al meglio. Un personale interesse sul culto e le tradizioni della festa del Santo, in termini socio-antropologico-culturale e religioso, mi hanno indirizzato in tal senso. Il pensare al prof. Sgarbi non solo come attore della Presentazione al volume, ma anche come co-autore, è dipeso dal desiderio di avere all’interno del volume, scritto da accreditati autori vari, una voce autorevole, un intellettuale di rilievo che accompagnasse il lavoro di tanti. Fuori da ogni retorica, abbiamo apprezzato il suo gesto generoso e tutti gli Autori gli sono grati. E’ inutile, poi disquisire sul valore del suo contributo, offerto al volume, circa l’iconografia Giuseppina nell’arte colta.

D. Perchè il riferimento solo a due regioni meridionali e non ad altre?

R. La volontà ad accostare una ricerca fondamentalmente sulle due regioni Puglia-Sicilia, trova giustificazione nel fatto che a noi questo binomio è sembrato essere il più esaustivo per raggiungere le finalità del volume stesso. E’ incredibilmente fascinoso e suggestivo il patrimonio di storia e di tradizioni su san Giuseppe fra le strade delle tante luminose civiltà che hanno attraversato queste due regioni-sorelle. E il volume ne dà ampiamente conto.

D. Considerando la diversità e la distanza dei luoghi presi in esame, cosa accomuna realtà territoriali e geografiche diverse tra loro per questa devozione?

R. Le connotazioni essenziali che accomunano queste due Terre solari e ricche di tanta laboriosa umanità, si riscontrano in quella tenace e caparbia volontà a mantenere, tutelare e valorizzare un’antica devozione, una testimonianza di fede dei Padri, i quali affidarono al Santo degli umili, dei poveri, del silenzio e del nascondimento, le angosce e le paure di una quotidianità sofferta e sofferente.

D. Quanto la iconografia dei santini, predisposta da Stefania Colafranceschi, ha contribuito alla buona riuscita dell’impresa?

R. Attraverso un variegato universo di costumanze e tradizioni comuni, il volume legge anche un aspetto delicato e intimo della devozione popolare a san Giuseppe, raccolto e testimoniato nei santini di una volta e magistralmente esemplato nella ricerca di Stefania Colafranceschi. A guardarli, questi minuti miracoli di carta, si coglie il delicato sentire delle folle devote dinanzi a una iconografia certamente popolare, ma capace di un trasporto di emozioni e di fede robusto verso il Santo che dopo Gesù e Maria fu il terzo protagonista del progetto salvifico dell’Altissimo. E voglio anche evidenziare l’impegno e l’attenzione delle confraternite di san Giuseppe, da sempre tese a mantenere e veicolare una devozione fatta di rituali segnici, che accompagnano la religiosità popolare nell’alveo sicuro della liturgia, nel mentre si mostrano degne custodi di un prezioso serto di valori e ideali del vivere umano, tanto magistralmente esemplato nella vita del Santo falegname di Nazaret. Ma, nel complesso, l’intero lavoro di studi e ricerche, depositato e offerto in questo volume, si configura come un’occasione di affettuosa condivisione di tante testimonianze di fede in san Giuseppe, comuni non solo in Sicilia e in Puglia, ma sparse per tutte le strade dell’ecumene, là dove è caro il nome di questo Santo patrono della Chiesa Universale.
(Intervista alla Prof.ssa Vincenza Musardo Talò a cura di Giuseppe Massari).

Volume rilegato con copertina telata e sovracoperta con impressioni in oro.
carta patinata lucida 200gr/mq interamente a colori riccamente illustrato,
208 pag. formato 21×30 e elegante custodia con impressione in oro.
É un regalo per lo studioso e il cultore di tradizioni popolari.
É un regalo per la festa del Papà e uno strumento di promozione turistica

Sommario
Presentazione [Vittorio Sgarbi]
Nota del curatore [V. Musardo Talò]
Parte prima: Sicilia. Terra di san Giuseppe
La festa di san Giuseppe: geografia cultuale in Terra di Sicilia [D. Scapati]
Tra miti e credenze. Patronage giuseppino nelle contrade siciliane [C. Paterna]
I pani merlettati di Salemi, capitale del culto siciliano in onore di san Giuseppe [P. Cammarata]
Pietanze della tradizione nelle tavolate di Vita e dintorni [S. Fischetti e AA.VV.]
Parte seconda: Puglia. Omaggio a san Giuseppe
La Puglia per san Giuseppe. Storia e devozione [V. Fumarola]
A oriente di Taranto, cuore pugliese del culto giuseppino [S. Trevisani]
San Giuseppe nel Salento: riti e tradizioni [E. Imbriani]
Architetture dell’anima: i magici altarini di san Giuseppe [V. Musardo Talò]
Asterischi
Iconografia giuseppina nell’arte colta [V. Sgarbi]
Dalla Sicilia alla Puglia:
le Confraternite di san Giuseppe custodi della religiosità popolare [V. Musardo Talò]
“A Te, o beato Giuseppe…”: il culto di san Giuseppe nei santini [S. Colafranceschi]
Autore :Autori Vari.
presentazione di Vittorio Sgarbi
Edizione: Talmus-Art – 2012
ISBN 9788890546075
Prezzo 54,60 euro

I Valori straordinari della nostra civiltà.

DI MASSIMO INTROVIGNE

Una circostanza veramente felice ci porta a riflettere sul Vercelli Book a pochi giorni dalla visita in Gran Bretagna di Benedetto XVI. Infatti, il Vercelli Book è un testo essenziale per comprendere le radici cristiane dell’Inghilterra. Risale al decimo secolo ed è uno dei quattro più antichi codici poetici in inglese, essenziali per lo studio della formazione di questa lingua, senza che si possa dire con certezza quale di questi quattro testi sia il più antico. La presenza a Vercelli di questo libro, casuale o se si preferisce provvidenziale, è dovuta a un intreccio di strade che portavano monaci e pellegrini dalla lontana Gran Bretagna a Roma e ritorno, già di per sé un elemento che mostra l’unità spirituale dell’Europa del Medioevo. Il Vercelli Book è una prova particolarmente eloquente, che ancora oggi possiamo vedere e consultare, delle radici cristiane della Gran Bretagna e dell’Europa. I temi che tratta sono profondamente religiosi e cristiani, e nello stesso tempo profondamente britannici ed europei. Le storie dei santi e dei primordi della Cristianità intrecciano elementi biblici e altri che derivano dai poemi epici celtici, non giustapposti ma fusi insieme armonicamente. Dalle pagine del Vercelli Book esce viva una cultura che è insieme celtica e cristiana, formata nei monasteri, e che ci ricorda come alle radici greche, romane e bibliche dell’Europa se ne aggiunga, a formare la Cristianità, una quarta, anglo-germanica e appunto celtica, che non va mai trascurata.
In qualunque Paese di tradizione cristiana si siano recati, il venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005) e Benedetto XVI sempre hanno insistito sul fatto che le origini e la storia di questo Paese sono segnate dall’opera dei santi. Infatti, «le antiche nazioni dell’Europa hanno un’anima cristiana, che costituisce un tutt’uno col “genio” e la storia dei rispettivi popoli, e la Chiesa non cessa di lavorare per mantenere continuamente desta questa tradizione spirituale e culturale» (Benedetto XVI, 2010d).
Benedetto XVI è tornato sistematicamente nel suo recente viaggio al tema della «lunga storia dell’Inghilterra, così profondamente segnata dalla predicazione del Vangelo e dalla cultura cristiana dalla quale è nata» (Benedetto XVI 2010c), e delle «profonde radici cristiane che sono tuttora presenti in ogni strato della vita britannica» (Benedetto XVI 2010a). Il Papa ha richiamato il ruolo essenziale svolto per la nascita delle nazioni che compongono la Gran Bretagna dai «monaci che hanno così tanto contribuito alla evangelizzazione di queste isole. Sto pensando ai Benedettini che accompagnarono Sant’Agostino [di Canterbury, 534-604] nella sua missione in Inghilterra, ai discepoli di San Columba [521-597], che hanno diffuso la fede in Scozia e nell’Inghilterra del Nord, a San Davide [ca. 512-601] e ai suoi compagni nel Galles» (Benedetto XVI 2010b).
E nel secolo successivo all’epoca d’oro dei santi inglesi, il settimo, il Papa evoca la figura del benedettino san Beda il Venerabile (672-735), dalla cui testimonianza preziosa ricaviamo qualche notizia sui primi grandi poeti cristiani in lingua inglese, Cynewulf e Caedmon, i cui testi più antichi ci sono conservati nel Vercelli Book: Il destino degli Apostoli, Elena e forse Andreas per Cynewulf, Il sogno della croce per Caedmon, senza peraltro che le attribuzioni siano del tutto sicure. Certo invece è che questa altissima poesia nasce come si è accennato dall’incontro fra l’epica celtica e la lettura della Bibbia nei monasteri, nell’epoca d’oro del primo cristianesimo inglese.
«Fu l’impegno dei monaci nell’imparare la via sulla quale incontrare la Parola Incarnata di Dio che gettò le fondamenta della nostra cultura e civiltà occidentali» (Benedetto XVI 2010b). In Inghilterra il Papa ha specificamente richiamato il suo discorso del 12 settembre 2008 al Collège des Bernardins a Parigi (Benedetto XVI 2008), da molti giudicato uno dei grandi discorsi del suo pontificato insieme a quello del 12 settembre 2006 all’Università di Ratisbona che lo precede esattamente di due anni. Al Collège des Bernardins il Papa fa notare che le radici cristiane dell’Europa sono, più precisamente, radici monastiche.
Le «radici della cultura europea» si trovano nei monasteri, i quali «nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi» non solo conservano «i tesori della vecchia cultura» ma insieme ne formano una nuova (ibid.). Per la verità, i monaci non avevano come scopo la cultura: «si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio» (ibid.). Non si trattava però di una ricerca senza bussole né di «una spedizione in un deserto senza strade» (ibid.). Al contrario, «Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso» e dato ai cercatori una via: «la sua Parola», consegnata agli uomini nelle Sacre Scritture (ibid.).
La cultura dei monaci era così necessariamente una «cultura della parola», e i monaci avevano bisogno di studiare le «scienze profane», a partire dalla grammatica, non perché coltivassero la scienza per la scienza ma perché per la loro ricerca di Dio avevano bisogno di comprendere la Scrittura, e questo non poteva avvenire senza le scienze. Benedetto XVI cita ripetutamente lo storico benedettino dom Jean Leclercq, O.S.B. (1911-1993), per il quale nell’esperienza dei monaci del Medioevo désir de Dieu e amour des lettres procedevano necessariamente insieme. Così, ogni monastero aveva sempre una biblioteca e una scuola, perché senza questi strumenti era impossibile prepararsi e preparare a comprendere la Parola di Dio e quindi cercare Dio. Dunque, anche se lo scopo dei monaci non era creare la cultura europea di fatto essi furono condotti a crearla e a trasmetterla alle generazioni successive.
Per comprendere bene la Parola di Dio e per annunciarla i monaci dovevano studiare il greco, il latino, la cultura biblica e anche le tradizioni dei popoli in mezzo ai quali vivevano e cui dovevano annunciare il Vangelo. Nasce qui quel grande dialogo fra tradizione culturale celtica e sapienza biblica della cui espressione in forma poetica il Vercelli Book è eloquente testimone. Si pensi al primo poema del Vercelli Book, Andreas. Qui sant’Andrea, il santo patrono della Scozia la cui crux decussata o croce diagonale, su cui fu martirizzato, costituisce la bandiera scozzese ed è parte della bandiera britannica detta Union Jack, cerca di salvare il collega apostolo san Matteo che è stato rapito dai cannibali Mirmidoni. Del leale equipaggio della sua nave – un tipico comitatus, o gruppo di uomini, come s’incontra tanto spesso nella letteratura celtica e britannica – fanno parte un timoniere e due marinai, che sono in realtà Gesù e due angeli sotto mentite spoglie. Ma sant’Andrea non lo sa, e annuncia loro il Vangelo. Gesù ne è così soddisfatto che gli concede prima il dono dell’invisibilità, grazie al quale sant’Andrea riesce a penetrare nelle terre dei Mirmidoni, poi la forza – quando è scoperto – di resistere alle loro torture e infine di convertire i cannibali al Vangelo e liberare san Matteo. Anche questo poema ci fa vedere come nasce l’Europa nei monasteri: le radici della storia sono greche e derivano dagli Atti di Andrea nel quarto secolo, con un’ovvia eco dell’Odissea di Omero, ma la materia è rielaborata con l’andamento fiero e quasi militare delle epopee celtiche, su una base che rimane quella della Bibbia e della storia della salvezza cristiana.
E il messaggio è cristiano. I Mirmidoni che si cibano della carne degli uomini rappresentano, come il drago ucciso da san Giorgio, il paganesimo con i suoi sacrifici umani e con tutti i suoi aspetti oscuri che il cristianesimo sconfigge e incatena. Ma i Mirmidoni non sono il drago, cioè Satana: sono uomini, vittime del drago. Sant’Andrea dunque li sconfigge, ma non li distrugge: li converte. Così fa il cristianesimo europeo, che non distrugge l’eredità precristiana ma la purifica dai suoi aspetti inaccettabili e, convertendola, la preserva e ne fa una componente del tessuto dell’Europa.
Non potendo citare tutti i testi del Vercelli Book, vorrei fare almeno un riferimento a Elena, capolavoro di Cynewulf che vi appone anche la sua firma, una classica storia di inventio di una reliquia, anzi della reliquia per eccellenza, la Santa Croce, da parte di sant’Elena (ca. 250-330), madre dell’imperatore Costantino (272-337). L’episodio è storico, come la grande passione di sant’Elena per le reliquie, ma il poema è deliziosamente anacronistico, perché mette in scena nella Gerusalemme dei tempi di Costantino gli Unni e i Franchi. Sant’Elena è trasfigurata in una tipica eroina della mitologia celtica. Arriva a Gerusalemme alla testa di un’armata e compie diverse azioni eroiche e meritorie per ritrovare la Vera Croce, compresa la conversione di quello che emerge come il suo principale oppositore, l’ebreo Giuda. Alla fine di una ricerca davvero epica, in cui Satana stesso ostacola l’intrepida Elena, si scoprono non una ma tre croci, e nessuno sa quale sia quella di Gesù Cristo. Sono poste sopra un morto, e solo la Vera Croce lo fa risorgere. La Elena guerriera e nordica si trasfigura in una zelante ed eloquente predicatrice della verità del cristianesimo.
Forse il testo del Vercelli Book che ha avuto la maggiore influenza nella formazione della cultura britannica è The Dream of the Rood, talora tradotto come «Il sogno della croce». Rood è il legno dell’albero da cui è tratta la Vera Croce, oggetto di una visione in cui il legno stesso appare, parla e racconta la storia della crocefissione dal punto di vista della Croce stessa. Ora, un albero che vive e parla è un elemento tipico del folklore celtico, e se ne ritrovano le tracce ancora nell’opera di John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973). Ma i tentativi moderni di ridurre The Dream of the Rood a un testo pagano non possono che fallire. Lo specifico albero da cui è tratta la Vera Croce è eminente per il suo rapporto con la Passione di Gesù Cristo, e il suo messaggio annuncia Cristo crocifisso e destinato a risorgere, non gli alberi o un mito pagano della natura. Contrapporre la radice celtica e quella cristiana del poema è, anche qui, un errore. I due elementi vivono e compongono un gioiello della poesia europea proprio in quanto stanno insieme.
Porzioni di The Dream of the Rood sono incise sulla croce di Ruthwell, un’opera dell’arte anglo-sassone dell’ottavo secolo che è una vera Biblia pauperum e corrisponde a un vasto programma catechistico sviluppato attraverso le immagini. È significativo che la croce sia stata distrutta da protestanti iconoclasti nel 1664, i quali però provvidenzialmente non ne dispersero i pezzi, così che nel secolo XIX è stato possibile il restauro dell’opera che oggi si trova nella chiesa scozzese di Ruthwell.
Il Vercelli Book non contiene solo poesia. C’è anche prosa: in particolare, una vita di san Guthlac di Croyland (673-714), un santo tuttora molto venerato nell’Inghilterra Orientale. San Guthlac ci richiama a un’altra radice del cristianesimo inglese ricordata da Benedetto XVI nel suo viaggio, quella regale e nobiliare. Rivolgendosi alla regina Elisabetta II il Papa così si è espresso: «I monarchi d’Inghilterra e Scozia erano cristiani sin dai primissimi tempi ed includono straordinari Santi come Edoardo il Confessore [1002-1066] e Margherita di Scozia [1045-1093]. Come Le è noto, molti di loro hanno esercitato coscienziosamente i loro doveri sovrani alla luce del Vangelo, modellando in tal modo la nazione nel bene al livello più profondo. Ne risultò che il messaggio cristiano è diventato parte integrale della lingua, del pensiero e della cultura dei popoli di queste isole per più di un millennio. Il rispetto dei vostri antenati per la verità e la giustizia, per la clemenza e la carità giungono a voi da una fede che rimane una forza potente per il bene nel vostro regno» (Benedetto XVI 2010a).
San Guthlac, nobile guerriero imparentato con re degli antichi popoli inglesi e maestro di futuri re come Etebaldo di Mercia (?-757), conclude – come altri nobili inglesi di quell’epoca – la sua vita diventando monaco, nutrendosi – come ci assicura il Vercelli Book – di pane ed acqua e vestendosi di sole pelli di animale. A riprova dell’intreccio culturale di cui il libro è testimone, il testo di Vercelli deriva da una più antica Vita Sancti Guthlaci in latino, quasi contemporanea al santo e per questo particolarmente attendibile. Insieme, la duplice vita di san Guthlac come guerriero e come monaco ci richiama alla complessità delle radici dell’Europa, la cui identità è stata difesa contro tanti nemici, con le armi e con i libri. In questo senso, la riflessione sulle radici monastiche e regali della cultura europea costituisce un nuovo richiamo a riscoprire quel segreto dell’Europa, l’armonia fra fede e ragione, fra religione e vita civile che già era al cuore del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona.
Riferimenti
Benedetto XVI. 2008. Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins. Discorso del Santo Padre, Parigi, 12-9-2008.Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/6d9grq.
Benedetto XVI. 2010a. Visita a Sua Maestà la Regina e incontro con le Autorità nel Parco del Palazzo Reale di Holyroodhouse a Edimburgo, del 16-9-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/326oxo3.
Benedetto XVI. 2010b. Incontro con il mondo dell’educazione cattolica nella cappella e nel campo sportivo del St Mary’s University College a Twickenham (London Borough of Richmond), del 17-9-2010. Indirizzo agli insegnanti ai religiosi. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/3xlcshd.
Benedetto XVI. 2010c. Celebrazione Ecumenica nella Westminster Abbey (City of Westminster), del 17-9-2010. Parole introduttive nella recita dei Vespri. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/38438hj.
Benedetto XVI. 2010d. Il viaggio apostolico nel Regno Unito, Udienza generale in Piazza San Pietro, del 22-9-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/34qjaxw.

RIANIMARE I MOSAICI ASSOPITI.


di CIRO LO MONTE con un inedito di MARCEL PROUST
COVILE_575
Tratto da:Il Covile,N 575 Anno X,27 Febbraio 2010.

Quasi sottotraccia….



Di

    Massimo Naro

(Docente di Teologia Dogmatica presso al Facoltà Teologica di Sicilia e Direttore del Centro Studi “A.Cammarata” di San Cataldo).
Dovresti piangere, perché il minareto delle nostre moschee scrive sopra le città il nome di Allah, il campanile delle chiese scrive quello di Cristo”:così Jean Marie Roger Tillard, teologo domenicano morte qualche anno fa, si sentì apostrofare da un suo amico musulmano il giorno in cui insieme assistettero alla demolizione del campanile di un convento ceduto ad un’impresa edile dai frati ormai troppo anziani e sparuti per potersene prendere cura. Tillard, a partire da quel fatto, rifletteva poi sul dibattito che divide ancor oggi chi auspica la tenuta del cristianesimo ecclesiale quello “confessionalmente” credente – e chi invece s’accontenta dell’importanza, implicitamente ed esclusivamente culturale, del cristianesimo. Questo non avrebbe più bisogno delle espressioni visibili della fede ricevuta dalle generazioni passate da trasmettere a quelle future dato che i suoi valori etici – il rispetto per la dignità di tutti, l’impegno per la giustizia e per il bene comune, la solidarietà verso i deboli – sarebbero ormai stati assimilati dal sentire diffuso della gente che vive in terre di antica cristianizzazione come la nostra Europa, causandone l’irreversibile evoluzione morale.
Continuare a faticare per trasmettere la fede cristiana di generazione in generazione, oggi, sarebbe dunque tempo sprecato, perché il fine intrinseco al sorgere del cristianesimo stesso sarebbe stato già raggiunto: la totale umanizzazione del Dio incarnatosi in Gesù, vale a dire l’assimilazione dell’idea suprema del bene all’interno della coscienza degli uomini dei nostro tempo.
Le recenti notizie elvetiche sui minareti vietati curiosamente concomitanti con quelle che in Italia promettono la svendita dei siti chiesastici chiusi al culto, fanne sospettare che, in realtà, scomparendo i segni visibili della fede cristiana si affievoliscono rapidamente, nella coscienza della gente, anche le sue tracce più profonde. E fanne perciò sentire il bisogno di rivitalizzare la dinamica delta trasmissione della fede, che storicamente ha avuto una sua sintassi comunicativa ben precisa.
Emile Poulat ha individuato le forme più emblematiche di tale sintassi: la dottrina certamente, ma anche e soprattutto la testimonianza e il simbolo,
La fede cristiana, infatti, non è arrivata a noi solamente nelle formule del dogma e attraverso la tematizzazione teologica degli interrogativi sull’identità di Cristo e del Dio da lui predicato. La fede cristiana è giunta sino a noi innanzitutto in forza delta testimonianza di coloro che hanno sperimentato l’incontro con Cristo e hanno appreso da lui a ricomprendere e a rivivere il loro rapporto con Dio. All’inizio si trattò della testimonianza dei primi compagni di viaggio del Maestro dì Nazareth, dei pescatori di Galilea, e della testimonianza di coloro che accettarono di essere compagni di viaggio del Risorto di due anonimi discepoli lungo la via dì Emmaus, di Paolo lungo la via di Damasco, Poi è venuta la testimonianza di quelli che come Paolo hanno potuto affermate: “non io, ma Cristo in me”; è la testimonianza dei santi, che trasmette, in una sorta di vivificante “contagio”come ha scritto Yyves Congar, il nucleo principiale del credente cristiano cioè la disponibilità a riconoscersi in Cristo come uomini che ne condividono il rapporto con Dio ch’egli chiamava Padre suo. La fede cristiana,inoltre,è giunta sino a noi grazie alla forza dei simboli,cioè delle celebrazioni e della raffigurazioni capaci di dire la contemporaneità di Cristo ad ogni generazione di credenti. Si tratta dei segni liturgici che permettono di ricevere continuamente ciò che i primi discepoli ebbero in dono e trasmisero cioè l’annuncio evangelico della Pasqua, “in memoria” di Cristo, come accade nella celebrazione eucaristica sin dal tempo di Paolo.
Ma si tratta anche di ciò che fa da contesto all’azione liturgica.
Le opere d’arte cristiana, per esempio. specialmente quelle destinate a costituire, oltre che ad adornare, i luoghi in cui si celebra la liturgia sono sempre state come delle traduzioni figurali del messaggio biblico proclamato all’interno della liturgia stessa, leggere il racconto genesiaco della creazione del mondo e dell’uomo o rievocare le vicende dei patriarchi d’Israele narrare i miracoli compiuti da Gesù e proclamare la memoria evangelica della sua Pasqua in una chiesa come la cattedrale di Monreale,i cui interni sono ricoperti da mosaici che illustrano le pagine della Scrittore sacra, significa partecipare di una formidabile riscrittura del messaggio biblico-cristiano che interpella il fedele e accanto a lui ormai anche il turista, mentre essi se ne stanno lì ad ascoltare ma pure a guardare l’annuncio evangelico.
Oggi, pero, i canali catechistici – che traducono in termini culturali correnti il profilo dottrinale della fede cristiana – sembrano non essere più né efficienti né efficaci. E anche i registri simbolici – liturgici ed artistici – sembrano non avere più la loro antica capacità comunicativa, mentre l’indole testimoniale del cristianesimo rimane spesso sotto traccia, sepolta tra le polemiche attorno alla sua (ir)rilevanza pubblica. L’appello conciliare al rinnovamento talvolta è stato disatteso e talvolta persino frainteso e ha portato a scelte pratiche nella liturgia, nella catechesi, nella pastorale – arbitrarie rispetto a quelle decise dal Vaticano II – che non sempre risultano congeniali alla trasmissione della fede.
Per superare questa “impasse” non basta tentare il ritorno al passato. La trasmissione della fede non consiste nel restaurare il passato dottrinale, simbolico e spirituale del cristianesimo, ma nell’ attualizzarlo. La tradizione ecclesiale stessa non è una specie di archivio o di museo della Chiesa. Prima e più che uno scrigno contenente bellezze e simboli antichi, essa e’ un’azione vitale, tramite cui si realizza il rapporto fra le generazioni dei credenti. Essa è l’atto stesso del trasmettersi credente da una generazione all’ altra. Ciò avviene veramente se la generazione che riceve il messaggio cristiano lo fa radicalmente proprio, apprendendolo di nuovo senza limitarsi a replicare la comprensione che ne ebbe la generazione precedente ma reinterpretandolo profondamente. C’è, nella tradizione ecclesiale, un sottofondo di continuità: è il vangelo di Cristo ad essere di volta in volta ricevuto e trasmesso: è lo Spirito che pervade quell’unico vangelo a prolungare la sua eco lungo i secoli. Ma c’è anche l’irrompere della discontinuità: quel vangelo eterno dev’essere ascoltato con le orecchie dell’epoca in cui esso va risuonando. Questa irrinunciabile novità è la conversione cui tutte le generazioni cristiane sono chiamate, quell’intimo cambiamento spirituale che porta i credenti a immedesimarsi nel Cristo narrato dai vangeli, finendo per iò per incarnare a loro volta l’avventura e diventando altrettanti “evangeli”. La fede è veramente tale se creduta, cioè se è vissuta in personale responsabilità: all’oggettività della fede deve corrispondere la soggettività del credente, Cristiani non si nasce ma si diventa affermava già nel III secolo Tertulliano.
In questo senso la trasmissione della fede è un permanente concepimento, una gestazione, un dare alla luce, un allevare le nuove generazioni di credenti. La Chiesa – con le sue guide pastorali, con i suoi fedeli, con le sue varie articolazioni – e per questo come una famiglia, il cui compito più necessario è quello di curare, in modi adeguati alle cangianti situazioni, l’educazione alla Fede, Da questa dipende non soltanto la corretta ed efficace trasmissione della lede alle nuove generazioni, ma anche lo stimolo a maturare una qualità alta della vita credente, E un compito performativo: illustrare ai nostri giovani il mistero ecclesiale e testimoniare loro il vangelo in maniera tale che essi possano entrarvi e possano viverlo Oggi più che mai dobbiamo sentite la responsabilità di diventate maestri capaci d’essere ancor prima e ancor più testimoni di ciò che insegniamo.

La via della Bellezza!

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La dimensione estetica è essenziale nella vita umana. A detta di Dostoevskij (I demoni), la bellezza è «il vero frutto dell’umanità intera e, forse, il frutto più alto che mai possa essere». «Quale bellezza salverà il mondo?», si chiede allora lo scrittore russo nell’Idiota.
Charles Moeller in Saggezza greca e paradosso cristiano dice: la bellezza dell’arte su questa Terra è superata dalla bellezza dei santi, quindi dell’uomo, che di Dio è immagine. «La gloria di Dio è l’uomo vivente», aveva affermato prima di lui icasticamente sant’Ireneo.
Tutto ciò non può che aiutarci ad apriare gli occhi su quel brutto a cui ci siamo abituati e che sta diventando categoria di giudizio per venire, pian piano, istradati dentro quella via pulchritudinis che davvero rappresenta l’urgenza educativa del nostro tempo».

In questo contesto si inserisce il Duomo di Monreale con lo splendore incomparabile dei suoi mosaici. Il duomo di Monreale è una delle testimonianze più impressionanti di quella stagione artistica straordinaria che la Sicilia visse nel XII secolo.
Sulle pareti del duomo si snoda un ciclo musivo, conservatosi pressoché intatto, che racconta la storia della salvezza, dalla creazione del mondo alla resurrezione di Cristo, in un percorso che ha alle sue estremità le due figure imponenti del Cristo pantocratore dell’abside, le cui braccia si aprono in un abbraccio commovente che accoglie il fedele lasciandolo senza parole, e della Vergine nella controfacciata, la cui maternità è segno perenne del rinnovarsi della presenza di Cristo che accompagna la vita degli uomini, posto genialmente sopra la porta attraverso la quale i fedeli lasciano la basilica per portare nel mondo la loro speranza.
Oltre alla sequenza narrativa vetero e neotestamentaria, le pareti della basilica ospitano una impressionante serie di ritratti di santi, testimonianze perenni della vita della Chiesa. Anche in questo caso, la loro collocazione rivela un progetto geniale:
se infatti le absidi laterali ospitano i due capisaldi della fede cristiana, Pietro e Paolo, lungo le pareti del presbiterio e nei sottarchi delle navate si susseguono figure intere, busti e volti di monaci, vescovi, laici, eremiti, uomini e donne che hanno testimoniato la loro fede, chiesa trionfante sempre più vicina alla chiesa militante che affolla ogni giorno la chiesa, per concludersi nella controfacciata, accanto alla figura di Maria, con gli esempi più vicini alla gente di Monreale, Cassio, Casto e Castrense, i “loro” santi.
Il ciclo musivo di Monreale dispiega così un inno alla Chiesa di eccezionale bellezza.

Un patrimonio artistico di eccezionale bellezza mai documentato prima d’ora con tale ampiezza di immagini, realizzate mediante una apposita campagna fotografica e strumenti tecnici all’avanguardia.

«Il duomo di Monreale mostra tutta la sua bellezza quando vi si celebra la liturgia. È stato costruito per la liturgia. E per una liturgia regalmente solenne. È nel momento liturgico che esso appare davvero una reggia, una bellissima reggia, una regale casa di Dio, in cui si celebrano i divini misteri e sulle cui pareti si leggono i racconti della Bibbia, le storie di Dio. Tutto vi dice la presenza del Cristo risorto. Tutto aiuta a farsi presenti alla Divina Presenza. Il mondo di Dio e il mondo degli uomini vi appaiono contigui. Chi lo progettò e ne ideò i cicli musivi aveva molto vivo il senso della trascendenza di Dio e, insieme, della regalità divina di Gesù Cristo, il Figlio eterno di Dio fattosi uomo e morto e risorto per la nostra salvezza.»
S.E. Mons. Cataldo Naro

Testi di David Abulafia e Massimo Naro
Presentazione di Cataldo Naro
Curatore campagna fotografica: Giovanni Chiaramonte
Fotografi: Daniele De Lonti, Santo Eduardo Di Miceli, Jurij Gallegra
Coedizione Itaca – Libreria Editrice Vaticana

Il duomo di Monreale – Recensioni
Per chi… cerca Dio nel bello. «Il duomo di Monreale»,
«Famiglia Cristiana», n. 50, 13 dicembre 2009
Duomo_Monreale-FC50-2009.pdf (265,6 KB)

Sorpreso dal Signore….

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IL DUOMO di MONREALE.Lo splendore dei mosaici.

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A quasi tre anni dalla morte,tanto repentina quanto eccessivamente improvvisa….., dell’Arcivescovo di Monreale Mons.Cataldo Naro,avvenuta il 29-09-2006,vede la luce un altro volume dedicato allo splendore dei mosaici del Duomo di Monreale in cui Cataldo Naro ebbe la sua “cattedra” come Pastore e Maestro per circa quattro anni.

L’Arcivescovo Naro fu un grandissimo estimatore del significato teologico,biblico-catechetico,artistico,liturgico-mistagogico del duomo e dei sui meravigliosi mosaici che il Re normanno Guglielmo II fece costruire.

Mons.Naro fece,davvero,tanto per rilanciare il significato spirituale e storico culturale del “suo” amato Duomo come luogo di preghiera,personale e comunitaria e d’incontro con il Cristo Risorto e Pantocratore della chiesa locale. Cristo come alfa e omega,il principio e la ricapitolazione,Colui che E’,prima del tempo,che si è fatto carne e che ritornerà,alla fine dei tempi,a giudicare i vivi e i morti:il suo regno non avrà fine!

I testi del  volume, edito da Itaca libri, sono curati da David Abulafia e Massimo Naro.La presentazione,postuma,è dello stesso Mons.Cataldo Naro.

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 Un patrimonio artistico di eccezionale bellezza mai documentato prima d’ora con tale ampiezza di immagini, realizzate mediante una apposita campagna fotografica e strumenti tecnici all’avanguardia. 

Il duomo di Monreale è una delle testimonianze più impressionanti di quella stagione artistica straordinaria che la Sicilia visse nel XII secolo. 
Sulle pareti del duomo si snoda un ciclo musivo, conservatosi pressoché intatto, che racconta la storia della salvezza, dalla creazione del mondo alla resurrezione di Cristo, in un percorso che ha alle sue estremità le due figure imponenti del Cristo pantocratore dell’abside, le cui braccia si aprono in un abbraccio commovente che accoglie il fedele lasciandolo senza parole, e della Vergine nella controfacciata, la cui maternità è segno perenne del rinnovarsi della presenza di Cristo che accompagna la vita degli uomini, posto genialmente sopra la porta attraverso la quale i fedeli lasciano la basilica per portare nel mondo la loro speranza.
Oltre alla sequenza narrativa vetero e neotestamentaria, le pareti della basilica ospitano una impressionante serie di ritratti di santi, testimonianze perenni della vita della Chiesa. Anche in questo caso, la loro collocazione rivela un progetto geniale: 
se infatti le absidi laterali ospitano i due capisaldi della fede cristiana, Pietro e Paolo, lungo le pareti del presbiterio e nei sottarchi delle navate si susseguono figure intere, busti e volti di monaci, vescovi, laici, eremiti, uomini e donne che hanno testimoniato la loro fede, chiesa trionfante sempre più vicina alla chiesa militante che affolla ogni giorno la chiesa, per concludersi nella controfacciata, accanto alla figura di Maria, con gli esempi più vicini alla gente di Monreale, Cassio, Casto e Castrense, i “loro” santi. 
Il ciclo musivo di Monreale dispiega così un inno alla Chiesa di eccezionale bellezza. 
«Il duomo di Monreale mostra tutta la sua bellezza quando vi si celebra la liturgia. È stato costruito per la liturgia. E per una liturgia regalmente solenne. È nel momento liturgico che esso appare davvero una reggia, una bellissima reggia, una regale casa di Dio, in cui si celebrano i divini misteri e sulle cui pareti si leggono i racconti della Bibbia, le storie di Dio. Tutto vi dice la presenza del Cristo risorto. Tutto aiuta a farsi presenti alla Divina Presenza. Il mondo di Dio e il mondo degli uomini vi appaiono contigui. Chi lo progettò e ne ideò i cicli musivi aveva molto vivo il senso della trascendenza
di Dio e, insieme, della regalità divina di Gesù Cristo, il Figlio eterno di Dio fattosi uomo e morto e risorto per la nostra salvezza.»
S.E. Mons. Cataldo Naro

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 Testi di David Abulafia e Massimo Naro
Presentazione di Cataldo Naro
Curatore campagna fotografica: Giovanni Chiaramonte
Fotografi: Daniele De Lonti, Santo Eduardo Di Miceli, Jurij Gallegra

La devozione a San Calogero a S.Giuseppe Jato.

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La devozione al taumaturgo S. CALOGERO si intreccia con la storia della Parrocchia che è stata eretta  il 19 settembre 1779. Fin dalle origini infatti, ogni anno, la prima domenica di agosto numerosi fedeli pellegrini vengono a sciogliere il voto,portando al Santo varie forme di pane, dai paesi vicini: Camporeale, Borgetto, Piana degli Albanesi e S. Cristina Gela.

Egli nacque in Calcedonia (Turchia) nella seconda parte del V C secolo da ricchi e pii genitori. Giovinetto ancora senti il fascino della vita di solitudine ne! deserto della Tebaide per dedicarsi a Dio nella vita contemplativa Quando, per obbedienza, ricevette l’ordine sacerdotale donò se stesso alla vita missionaria per l’evangelizzazione della Sicilia. L’isola di Lipari e Lilibeo (Marsala) divennero così il campo delle sue fatiche apostoliche. Tutta la fascia della Sicilia occidentale, Agrigento, Naro, Licata etc, conobbero il suo zelo e la sua santità nel calore della carità inesauribile verso i poveri e gli ammalati. Morì quasi centenario nei giugno del 667 sui Monte Cronio (Sciacca) dove sono conservate le sue reliquie e dove sorge il celebre Santuario con le grotte curative che portano il suo nome.

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Anche in altre zone della Sicilia,dove si è diffuso il culto al Santo,c’è la tradizione del voto del pane.A Vallelunga Pratameno,lo stesso identico rito( la festa di San Calogero apre il ciclo annuale delle feste vallelunghesi che hanno il loro culmine la quarta domenica di Settembre,con i solenni festeggiamenti in onore della patrona  Maria SS.di Loreto) si svolge l’ultima domenica di Agosto. Perchè nel mese di Agosto? E qual è il senso del donare il pane al Santo?

Con tutta probabilità la festa del Santo celebrata in Agosto e con l’offerta votiva del pane,era legata alla chiusura della stagione della mietitura che durava da Giugno sino al Agosto.Dunque offrire al Santo il frutto del novello grano,cioè il pane.

Ma l’offerta del “ pane, come altri cibi, è stato usato ben prima dell’avvento del cristianesimo in riti religiosi come oggetto da offrire alla divinità. Dall’Epopea di Gilgamesh, un racconto epico di fondamentale importanza della religione babilonese, apprendiamo che già nel secondo millennio a.C. il pane era offerto agli dèi come oggetto consacrato. Anche in altre culture del Mediterraneo antico, in cui si coltivava il grano e l’alimentazione era incentrata sul consumo dei cereali, il pane ha avuto un posto d’onore nei rituali. Soltanto nel cristianesimo, d’altro canto, la consacrazione del pane e il suo sacrificio in quanto «corpo di Cristo» hanno assunto un valore così centrale e assoluto. Su questo punto, il cristianesimo si differenzia dalle religioni classiche come quella greca e quella romana. Per i greci, il cibo privilegiato offerto nei grandi sacrifici pubblici – che costituivano il cuore della religione delle città greche – era la carne degli animali uccisi per essere offerti alle varie divinità. Questa carne era cotta e offerta alla divinità nelle parti ritenute più preziose, mentre il resto veniva diviso tra i sacerdoti officianti e distribuito al popolo che partecipava al rito. Anche i greci avevano una divinità protettrice dei cereali (e dunque del pane), Demetra, in onore della quale, a partire dal vii secolo a.C., si celebrarono in una cittadina vicino ad Atene, Eleusi, riti misterici celebri. Proprio, però, la natura misterica di questi riti, che impediva agli iniziati di svelarne il contenuto, ci impedisce di sapere se per esempio a Demetra fosse offerto in sacrificio il pane.

Se si vuole trovare un precedente al rito cristiano, occorre guardare alla religione dell’Israele antico. In alcune antiche feste ebraiche, attestate nell’Antico Testamento, sono presenti usi sacrali del pane. Per Shavu’ot, la festa del raccolto o Festa delle Settimane, ad esempio, gli israeliti recavano al loro Dio come oblazione due pani di grano. Questa festa aveva luogo cinquanta giorni (sette settimane) dopo la Pasqua e divenne perciò nota col nome greco di Pentecoste: commemorava il giorno in cui Mosè ricevette le Tavole della Legge sul monte Sinai. Vi era poi Hagha-Matsot, la festa del Pane Azzimo, una delle tre grandi feste agricole celebrate dagli israeliti dopo il loro stanziamento nella terra di Canaan. Essa era originariamente un rito di ringraziamento all’inizio del raccolto del grano, ma più tardi venne unita alla festa pastorale nomade della Pasqua, la commemorazione storica dell’uscita di Israele dall’Egitto. Per sette giorni gli ebrei mangiavano solo pane non lievitato, come segno di un nuovo inizio. Un precedente importante del rito cristiano è, infine, il «pane della presenza», che gli israeliti erano soliti deporre davanti al Santo dei Santi nel Tempio di Gerusalemme (Levitico 24,5-9): sopra una tavola, su due pile, venivano poste dodici focacce di pura farina di grano, rappresentanti le dodici tribù di Israele e la loro alleanza eterna con Jahvé. Ogni sabato esse venivano rimpiazzate e mangiate dai sacerdoti. Proprio questi precedenti, d’altro canto, aiutano a comprendere meglio la profonda e radicale novità rappresentata dal rito cristiano, che presuppone l’identificazione di Gesù come «pane di vita» (Giovanni 6) col pane offerto dal sacerdote. Se si vuole trovare un parallelo occorre guardare a una religione lontana nel tempo e nello spazio, una religione tipicamente sacrificale come quella degli aztechi. Essi usavano fare un impasto simile al pane dai semi del papavero e lo modellavano a forma del dio Huitzilopochtli. Questo pane a forma di figura umana veniva poi spezzato e mangiato dai sacrificanti, con lo scopo di «mangiare il dio» per assimilarne sostanza e poteri”. (Prof.Giovanni Filoramo)

“Altari” di S.Giuseppe nella valle del Belice…

COMUNE DI SANTA NINFA(TP)

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COMUNE DI GIBELLINA(TP)

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La tavolata di Ciminna(Pa).

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San Giuseppe 2009:altari,mense,tavolate…

VALLELUNGA PRATAMENO (CL)

Istituto San Pio X-Casa del Fanciullo

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TERRASINI (PA)

Abitazioni private

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SAN CATALDO (CL)

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Chiesa di San Giuseppe-San Cataldo.