Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,
nell’arcana sorte
tutto è doglia del parto:
quanto morir perché la vita nasca!
pur da una Madre sola, che è divina,
alla luce si vien felicemente:
vita che l’amor produce in pianto,
e, se anela, quaggiù è poesia;
ma santità soltanto compie il canto.
CLEMENTE REBORA, Curriculum vitae (1955).
La resurrezione
(Il Vangelo secondo Jonathan)
Signore, Dio della vita,
rimuovi le pietre dei nostri egoismi,
la pietra che soffoca la speranza,
la pietra che schiaccia gli entusiasmi,
la pietra che chiude il cuore al perdono.
Risuscita in noi la gioia,
la voglia di vivere,
il desiderio di sognare.
Facci persone di resurrezione
che non si lasciano fiaccare
dalla morte, ma riservano sempre
un germe di vita in cui credere.
Rispondendo Giobbe prese a dire: «Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s’incidessero sulla roccia! Io so che il mio redentore è vivo e che, ulti-mo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro». Giobbe 19,1.23-27a
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Pa-dre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo cacce-rò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiun-que vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». Gv 6,37-40
La speranza e l’invocazione di Giobbe di una comunione con Dio dopo la morte (prima lettura) trova eco nella promessa di Gesù di risuscitare coloro che il Padre gli ha affidato (vangelo). La stessa morte di Gesù, vivificata dall’amore di Dio, è stata fattore di riconciliazione, di vittoria sul peccato, di vittoria della vita sulla morte (seconda lettura).
«Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi uomini abitiamo una città senza mura». La morte, ricorda Epicuro, pone un sigillo di precarietà e di insicurezza sulla vita umana. E l’insicurezza produce la paura, e la paura schiavizza. Gli uomini, ricorda la lettera agli Ebrei, sono schiavi tutta la vita a causa della paura della morte (Eb 2,15). E sentendoci città senza mura, cerchiamo di costruirci prote-zioni e difese che, mentre vogliono preservarci da morte in realtà ci allontanano dalla vi-ta. E tanta parte della nostra vita passa in questo inganno. Le parole di Gesù nel vangelo non invitano ad atteggiamenti difensivi e di paura, ma alla fede, ad affidarsi al Signore, a credere in lui. «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna» (Gv 6,40); e ancora: «Chi crede in me, fosse anche morto, vivrà» ( Gv 11,25); «Chi crede ha la vita eterna» ( Gv 6,47). La fe-de in Cristo è il luogo della resurrezione.
Quando la nostra persona si decide a un affidamento al Signore senza riserve, senza nulla da difendere, senza mura e baluardi, allora essa abita lo spazio della resurrezione e conosce l’amore e la speranza, l’audacia e la libertà che Gesù stesso ha vissuto. E Gesù ha vissuto le sue relazioni con gli altri sotto il segno del dono del Padre e del suo perso-nale affidamento al Padre che è divenuto la sua consegna ai fratelli: gli altri sono ciò che il Padre gli ha dato (Gv 6,37.39) e di cui lui assume la responsabilità fino in fondo (Gv 13,1). Affidandosi al Padre egli non respinge da sé chi viene a lui, non rigetta, non si di-fende dagli altri, ma accoglie. Vivendo il primato della fede nel Padre che l’ha mandato, Gesù vive non per fare la sua volontà, ma la volontà del Padre, che è volontà di vita pie-na per ogni uomo. Una vita così vissuta, è una vita che integra la morte e la trasforma in amore, che è forza di resurrezione. Se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore è la forza della resurrezione.
Non vi è solo la paura della morte che ci porta a difenderci, ma anche e soprattutto la paura della vita, delle perdite che il vivere comporta, dei confronti impietosi con gli altri che ci conducono a chiuderci in noi e a vivere nel risentimento, nel timore che gli altri ci possano sottrarre qualcosa. Aver fede in Gesù Cristo significa fare dell’amore il luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita, e anzitutto della vita degli altri. In tutto questo ci vengono in aiuto le esperienze di morte che la vita ci fa fare. L’esperienza del lutto segna lo scacco del narcisismo e rivela la vanità del perseguire la volontà propria, del costruire barriere per difenderci dalla morte che la vita ci potrebbe recare. E ci può aprire, con la sua muta lezione, all’unica cosa necessaria e vitale: credere l’amore, vivere l’amo-re, fare della vita un atto di amore.
La logica della resurrezione, espressa nei termini di non perdere nulla e nessuno di quanto il Padre ha dato al Figlio (Gv 6,39), è la logica dell’amore. Quella logica che spesso non è nostra perché noi sappiamo perdere l’altro, le relazioni, i doni ricevuti.
Una comunità cristiana è fatta anche di una memoria condivisa e le persone che sono morte e che abitano la memoria di ciascuno, e che ciascuno coglie oggettivamente nella fede nel Cristo morto e risorto e porta nell’eucaristia, chiedono di rendere sempre più armonici i rapporti tra le membra del corpo affinché sia l’agape la linfa vitale che percorre e unifica il corpo comunitario e sia la gratitudine l’alveo in cui essa vive. Allora potrà avve-nire forse anche a noi di morire nella gratitudine e nella benedizione, dando sostanza cri-stiana alla bella e antica immagine formulata dall’imperatore filosofo: «L’oliva matura cade benedicendo la terra che l’ha portata in sé e rendendo grazie all’albero che l’ha fatta crescere» (Marco Aurelio).
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