Indagine su Gesù.

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Chi è Gesù? Perché nessuno, dopo duemila anni, si sottrae al suo fascino? Anche i “lontani” non sanno nascondere lo stupore, l’ammirazione e l’incanto per quest’uomo misterioso, potente e buono, unico al mondo, “il più bello fra i figli degli uomini”: da Marx a Renan, da Rousseau a Nietzsche, da Borges a Kafka, da Camus a Salvemini, da Kerouac a Pasolini, da un “persecutore” come Napoleone a una personalità come Gandhi, fino al libro dell’islam, il corano.
Come e perché in soli tre anni di vita pubblica egli ha potuto capovolgere la storia umana? Lo affermano anche pensatori laici come Benedetto croce: “il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto”. Ha portato nel mondo la libertà, la dignità di ogni persona (a partire dai più derelitti), le nozioni di diritti dell’uomo e di progresso, un oceano di carità. Ha spazzato via la schiavitù, ha salvato la cultura antica, ha dato nobiltà al lavoro ricostruendo un’Europa devastata, inventando la tecnologia, le università, la scienza, gli ospedali, l’economia, l’arte, la musica.

Il libro di Antonio Socci ricostruisce questa straordinaria rivoluzione e indaga sul mistero di Gesù, preceduto da duemila anni di attesa e seguito da altrettanti di amore. circa trecento profezie messianiche, nelle Sacre Scritture, con secoli di anticipo hanno tracciato il suo perfetto identikit: data e luogo di nascita e di morte, le sue opere, addirittura il supplizio della crocifissione. infine si realizza sotto i nostri occhi la principale profezia fatta ad Abramo di una discendenza che abbraccia tutti i popoli. Uno studioso ebreo come Pinchas Lapide riconosce: “Gesù di Nazaret è diventato il salvatore dei gentili. Per questo non occorre una teologia. Per affermarlo occhi e orecchi mi bastano”. Ma soprattutto Socci affronta il più grande mistero di Gesù: la sua resurrezione. La scoperta delle prove antiche e di quelle attuali è un’avventura sorprendente. Un caso unico nella storia che non ha spiegazione umana.
Cari amici,
molti voi mi hanno scritto per saperne di più del mio libro “Indagine su Gesù” che la Rizzoli ha mandato in libreria dal 26 novembre. E’ un’impresa a cui lavoravo da anni così ho colto l’occasione anche per rispondere a tante corbellerie che in questi tempi sono state date alle stampe sull’argomento. Ma soprattutto, devo confessarvi, questo lavoro mi ha appassionato, entusiasmato, commosso perché mi ha fatto fissare lo sguardo sul più appassionante degli argomenti e dei volti: Gesù. E’ impossibile posare gli occhi e il pensiero su di lui senza restarne affascinati. Per chiunque. Del resto in uno dei primi capitoli del libro sono proprio andato alla ricerca dell’impatto che Gesù ebbe su personaggi a lui lontanissimi e nemici (da Marx e Nietzsche, per capirci) ed è stato sorprendente per me scoprire come tutti abbiano avvertito lo stupore di una presenza eccezionale. “Cristo me trae tutto, tanto è bello”, scriveva Jacopone da Todi.

A conclusione della mia indagine, che ho condotto come un “inquirente” obiettivo, con criteri giornalistici, laici, sul “caso Gesù”, sulla veridicità dei racconti evangelici, sui dati storici, sulle prove della sua divinità e della sua resurrezione, mi resta questa struggente sensazione di una bellezza incomparabile. Con cui si vorrebbe stare sempre. Ogni giorno, ogni istante.

Comprendo allora le parole di S. Agostino che, col pensiero di tutto il tempo perso dietro alle cose del mondo, guarda il suo Salvatore e scrive: “Tardi ti ho amato, o Bellezza, sempre antica e sempre nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo ed io nella mia deformità mi gettavo sulle cose ben fatte che tu avevi creato. Tu eri con me ed io non ero con te.

Quelle bellezze esteriori mi tenevano lontano da te e tuttavia se esse non fossero state in te non sarebbero affatto esistite.

Tu mi hai chiamato e hai squarciato la mia sordità; tu hai brillato su di me e hai dissipato la mia cecità; tu hai emanato la tua fragranza e io ho sentito il tuo profumo e ora ti bramo; ho gustato e ora ho fame e sete; tu mi hai toccato e io bramo la tua pace”.

Spero di essere riuscito a fare un lavoro utile e bello. Sarò lieto di conoscere le vostre impressioni se vorrete scrivermele qui, al sito. Grazie.

Antonio Socci

Antonio Socci,Indagine su Gesù,Rizzoli,2008.

Zapatero e il pensiero di Alice….

Spagna: Gustavo Bueno, filosofo ateo, afferma che il programma anticristiano di Zapatero è folle
Gustavo Bueno, Zapatero e il pensiero di Alice. Un presidente nel Paese delle Meraviglie.
Secondo Gustavo Bueno, in Spagna il potere ha indotto un conflitto tra la sinistra e la destra. «L’opposizione tra la sinistra e la destra è antecedente al XIX secolo. Non c’è tale distinzione in senso politico. La destra è divenuta socialista da molto tempo. Si è indirizzata alla questione sociale dai tempi di Maura e dopo ha proseguito con Primo de Rivera e Franco. La sinistra è rimasta senza programma».

«Dalla Transizione (periodo di passaggio dal regime franchista alla democrazia, ndr) e dalla Costituzione – ha detto ancora il filosofo – è stata superata la distinzione tra la sinistra e la destra. Ma dalla seconda vittoria di Aznar, quando la sinistra ha cominciato a temere di non tornare più al governo, ha reinventato il mito della destra e della sinistra, delle due Spagne di Machado (Poeta spagnolo che, con la proclamazione della Repubblica, parlò di una Spagna popolare viva e di una Spagna putrefatta legata al gesuitismo, ndr). In realtà si tratta di un meccanismo elettorale per identificare il Partito Popolare con Franco. È un conflitto indotto dal potere, che approfitta dell’ignoranza della gente che continua a leggere sempre meno».
http://centroculturalelugano.blogspot.com/2008/12/spagna-gustavo-bueno-filosofo-ateo.html

SPAGNA/ La storia della “guerra” che la sinistra di Zapatero ha innescato alla ricerca del potere

Fernando De Haro
mercoledì 17 dicembre 2008
Il filosofo Gustavo Bueno, che si dichiara ateo, sostiene che «è assurdo togliere i crocefissi». «Il crocefisso – afferma uno dei più autorevoli pensatori spagnoli – è un simbolo storico, teologico e artistico che fa parte della nostra cultura. Togliere il crocefisso è come togliersi un vestito. Chi sostiene questa battaglia manca di conoscenza. Basterebbe leggere Hegel, e non San Tommaso, per sapere che il crocefisso non si può togliere».

Il leader della scuola del materialismo filosofico ha anche sostenuto che «la Chiesa cattolica ha salvato la ragione nella storia dell’Europa. Di fronte all’Islam, che in realtà è un’eresia del cristianesimo, un’eresia ariana, e di fronte al gnosticismo, la Chiesa ha mantenuto i criteri della filosofia greca che ha incorporato nella teologia dogmatica».

Bueno ha inoltre assicurato che sono stati invertiti i termini: «La gente dice che non crede nella Chiesa, ma che crede in Dio. In verità la cosa è al contrario. Credere in Dio è qualcosa di metafisico, la Chiesa è qualcosa di storico. Bisogna stare nella realtà e sapere ciò che ha rappresentato la Chiesa nella storia».

Secondo Gustavo Bueno, in Spagna il potere ha indotto un conflitto tra la sinistra e la destra. «L’opposizione tra la sinistra e la destra è antecedente al XIX secolo. Non c’è tale distinzione in senso politico. La destra è divenuta socialista da molto tempo. Si è indirizzata alla questione sociale dai tempi di Maura e dopo ha proseguito con Primo de Rivera e Franco. La sinistra è rimasta senza programma».

«Dalla Transizione (periodo di passaggio dal regime franchista alla democrazia, ndr) e dalla Costituzione – ha detto ancora il filosofo – è stata superata la distinzione tra la sinistra e la destra. Ma dalla seconda vittoria di Aznar, quando la sinistra ha cominciato a temere di non tornare più al governo, ha reinventato il mito della destra e della sinistra, delle due Spagne di Machado (Poeta spagnolo che, con la proclamazione della Repubblica, parlò di una Spagna popolare viva e di una Spagna putrefatta legata al gesuitismo, ndr). In realtà si tratta di un meccanismo elettorale per identificare il Partito Popolare con Franco. È un conflitto indotto dal potere, che approfitta dell’ignoranza della gente che continua a leggere sempre meno».
http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=10092

Messina 1908-2008 Un Terremoto Infinito….

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Prefazione
Con un racconto agile, denso di testimonianze, di cifre, di dettagli, Eleonora lannelli ricostruisce i cento anni dal grande terremoto di Messina. Un secolo di storia fluisce veloce in queste pagine. E nelle prime, ossessiva ritorna l’ora della catastrofe: quelle 5,21 di lunedì 28 dicembre che divisero la storia della città in un prima e in un dopo in cui nulla fu più uguale, segnando l’annientamento di quella che era stata per secoli una delle capitali più belle e vivaci della Sicilia.
Molte immagini s’imprimono nella memoria del lettore: i bambini rimasti orfani che il “Giornale di Sicilia” descrive mentre scendono smarriti dai treni alla stazione di Palermo, rischiando d’essere preda di «brutti ceffi»; la mano di donna che si sporge dalle macerie per chiedere aiuto e ha le dita troncate da uno sciacallo che le ruba gli anelli; il re Vittorio Emanuele, in visita alla città nell’aprile del 1909, che, turbato dalle lentezze della ricostruzione, ai cerimoniosi funzionari del Genio Civile intima rudemente «Andate a lavorare». Impressionante è il campionario di vergogne che segue al disastro, anticipo di altre vergogne che catastrofi più recenti ci hanno insegnato a conoscere: i ritardi e la confusione nei soccorsi, lo spreco delle donazioni internazionali, il losco frugare tra le macerie alla ricerca di tesori sepolti più che di vittime, le canaglierie e i soprusi di una burocrazia lenta, stupida e inetta.
Dalle lentezze, dagli imbrogli, dai pasticci della ricostruzione emerge la città delle baracche, che è il cuore di questo libro. La Messina che incantava i viaggiatori con la strepitosa invenzione urbanistica della Palazzata si trasforma nella miserabile città delle catapecchie. E come un malvagio incantesimo, quella forma degradata dell’abitare diventa una costante del paesaggio urbano, incancellabile, insuperabile.
Scrive l’autrice che un’unica baracca del dopo terremoto sopravvive ancora oggi, orribile cimelio di una provvisorietà che si ostina a durare, ma ben 3.016, costruite negli anni, costellano il territorio messinese, abitate da 15 mila persone. Come se il disastro, e l’estenuante dopo terremoto, col suo vischioso protrarsi, avessero fiaccato l’anima della città, sprofondandola in un attendismo rancoroso, sottraendole ogni desiderio di definitiva ricostruzione, oscurando ogni progetto di futuro.
Sulle ragioni di questo sprofondare Eleonora lannelli indaga interrogando storici, urbanisti, studiosi. Fino a evocare un’ipotesi di grande suggestione: un mutamento di codice genetico, innescato dall’azione invisibile di un gas, il radon. Liberato dalla potenza del sisma, quel gas avrebbe alterato per sempre il dna dei messinesi. Affascinante teoria, se non altro perché, come il terremoto, libera gli esseri umani dal dovere di costruirsi un destino, e di renderne conto.
                                                                                                  BIANCA STANCANELLI

Eleonora Iannelli,Messina 1908-2008 Un Terremoto Infinito. Storia di una città tornata alla vita ma rimasta incompiuta. Kalòs,2008.

Il Natale è per l’uomo.Di Enzo Bianchi.

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Il Natale è per l’uomo
Il Natale, ormai, è una festa non solo riservata ai cristiani ma sempre più carica di una valenza antropologica. I valori della quotidianità, del tessuto della vita, le relazioni umane, l’amicizia, l’amore, la fraternità sono ormai legati a questo giorno al punto che anche là dove vi è contrapposizione tra credenti e non credenti, la festa rimane tale per tutti: magari, invece di «Buon Natale! » i non credenti si augurano un più generico «Buone Feste!», ma il clima dell’incontro, della gioia, dell’intimità è da tutti condiviso. Il Natale è un’autentica occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti noi sappiamo benissimo «cos’è» il Natale.
Eppure ciascuno di noi ne ha un’immagine personalissima, legata ai ricordi d’infanzia e ai tanti Natali vissuti, a volti e parole di persone amate, a consuetudini che ha voluto conservare o ricreare, e ciascuno cerca di viverlo ogni anno secondo quell’immagine. Del resto, il porre l’accento sull’uno o sull’altro degli aspetti del mistero dell’incarnazione risale fino alle origini stesse della festa. E’ almeno dal IV secolo che i cristiani il 25 dicembre fanno memoria della nascita di Gesù Cristo a Betlemme di Giudea: una data scelta perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il «sole invitto», il sole che in quel giorno terminava il suo progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto nel cielo, aumentando cosi la durata della luce offerta alla terra. La notte, che dal 24 giugno aveva sempre accresciuto le sue ore, cominciava ad arretrare davanti al sole vincitore che come un prode cresceva all’orizzonte. E siccome per i cristiani Gesù il Messia è il «sole di giustizia», la «luce vera», fu naturale collocare in quel giorno di festa pagana la celebrazione della natività del loro Signore. D’altronde la venuta del Messia era già stata salutata da Israele e dai profeti come «venuta, apparizione della luce», come «luce che risplende per quelli che stanno nelle tenebre».
Questa inculturazione del cristianesimo non è stata facile e forse il Natale dei cristiani conservò, almeno per i più, qualcosa di pagano, di estraneo alla fede se papa Leone Magno nel v secolo doveva biasimare «quei cristiani che prima di entrare nella basilica di San Pietro dopo aver salito la scalinata che porta all’atrio superiore si volgono verso il sole e piegano il capo in suo onore»! La meditazione cristiana faceva di quella festa il giorno dell’incarnazione di Dio, il giorno in cui è avvenuto uno scambio: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio».
Poi, nel II millennio, soprattutto in Occidente, la meditazione del Natale si è progressivamente concentrata sul «bambino Gesù», sulla sua umanità, sulla sua debolezza e sulla «novità ordinaria» costituita dal venire al mondo di un uomo: l’evento non fu più letto tanto come manifestazione, venuta di Dio, quanto come mistero della povertà, dell’umiltà, della debolezza di Dio.
Francesco d’Assisi seppe interpretare bene questo aspetto, creando il presepe di Greccio: una stalla, una mangiatoia, Maria, Giuseppe e il neonato, un asino e un bue, i pastori venuti ad adorare il bambino su invito dei messaggeri di Dio. Il presepe è la riproposizione iconica o scultorea di quell’evento umile e povero che, se ci pensiamo bene, è tra i più umani e quotidiani: una donna che partorisce un figlio. Scena oggi più rara in Occidente, e per lo più relegata negli ospedali, ma un tempo abituale anche nelle nostre famiglie. Si, una nascita, un essere umano che viene al mondo, è di per sé qualcosa che nella sua normalità stupisce: emerge il «terzo», appare il nuovo e lo si accoglie con gioia e con buona disposizione del cuore. E un evento di speranza: chi vi assiste, in particolare se ormai avanti negli anni, è abitato e consolato dal pensiero che il mondo va avanti, che la vita fiorisce e si moltiplica, che un futuro migliore è possibile, segno tangibile del nostro essere immessi in una catena di generazioni. Credo sia anche per questo che il presepe ha avuto tanta fortuna nell’Occidente cattolico, ma anche tanta narrazione iconografica nell’ Oriente ortodosso.
Nel Nord invece, dove il sole non dà evidenti segni di vittoria nel gelido inverno, la festa è segnata da un albero, l’abete, evocazione dell’albero della vita: un albero che resta vivo e verde nel bianco della neve è il vincitore sul rigore del freddo nelle steppe brulle. Ecco allora l’albero vicino alle case e alle chiese o addirittura al loro interno, addobbato di colori e di luce, quasi obbligato a fiorire e risplendere al cuore della notte invernale. Se il modo di percepire e celebrare il Natale è cambiato nei secoli, i mutamenti si sono fatti più rapidi in questi ultimi decenni, al punto che chi è anziano può misurarli nell’arco della sua stessa esistenza. Un tempo, negli anni dell’immediato dopoguerra e fino al boom economico, periodo da me trascorso nella campagna monferrina, il Natale era davvero la festa più importante dell’anno e non certo per i regali, allora tali per modo di dire e ben scarsi. Alcune volte c’era qualcosa da donare ai figli, ma altre volte i genitori sconsolati dicevano con molta naturalezza che non c’era niente perché l’annata era stata cattiva. Quando c’erano, i regali erano frutta secca, cioccolatini, caramelle, il panettone oppure, se ci si scostava dai dolci, un quaderno più bello, una nuova penna, qualche matita colorata…
Eppure, si attendeva il Natale con ansia. Iniziata la novena di preparazione, noi bambini andavamo nei boschi a raccogliere il muschio, cercavamo carta da pacco che spruzzavamo con vari colori e poi l’accartocciavamo perché assumesse la forma di rocce, grotte, speroni di montagna. Quindi su un tavolo in cucina o nella sala si disponevano le statuine del presepe, cercando ogni anno che la composizione assumesse un aspetto diverso. Era davvero come allestire un dramma sacro: nella grotta si metteva la mangiatoia vuota, Maria e Giuseppe, l’asino e il bue; sulla soglia i pastori che adoravano e portavano i loro semplici doni; più sopra gli angeli sormontati dalla stella che brillava in alto luminosa (li venivano in aiuto le prime luminarie che cominciavano a diffondersi nei negozi e sulle bancarelle del mercato); attorno, la campagna riproduceva ambienti familiari: specchi d’acqua con le oche, prati con pecore, agnelli e asini, poi le case con la gente intenta ai propri mestieri: il mugnaio, il fabbro, il falegname… Lontano, ai margini, austero su una rocca, vi era il castello di Erode e lassù erano collocati i magi con i loro cammelli, che ogni giorno venivano spostati di qualche passettino in modo che giungessero alle soglie della grotta il giorno dell’Epifania. Noi bambini mettevamo tanta cura in quell’allestimento perché sentivamo di poter vivere dentro di noi quello che cercavamo di raffigurare. Mi ricordo che mi mettevo accanto al presepe con il Vangelo in mano e che, in base a quello che vi leggevo, disponevo e spostavo statuine e personaggi. Ero sorpreso di non trovare nel Vangelo l’asino e il bue, che pure mi erano così familiari e che consideravo necessari per riscaldare quel bambino che stava per venire «in una grotta al freddo e al gelo»! Il parroco mi aveva rassicurato dicendomi che il profeta Isaia aveva scritto che «il bue riconosce il suo Signore e l’asino riconosce la greppia del suo padrone» (Isaia 1.3). Questo mi aveva tranquillizzato e, poco alla volta, portato a capire che anche le povere bestie, cosi come i semplici pastori e i sapienti magi, avevano saputo riconoscere la venuta di Dio nel mondo, mentre invece re potenti, sacerdoti, scribi, uomini religiosi non se ne erano accorti. La vigilia di Natale, poi, si pregava tutti attorno al presepe: noi bambini contemplavamo quelle lucine che nella povertà del dopoguerra erano capaci di stupirci con i loro colori e il loro lampeggiare, ma nello stesso tempo eravamo attratti dal mistero di un infante deposto sulla paglia, incapace di parlare, eppure proprio quel bambino era il Dio per noi e tra di noi, il Dio che per amore nostro volle farsi uno di noi.
Qualcuno, invece del presepe, addobbava l’albero, anche se quest’usanza non era gradita al parroco, perché aveva un vago sapore «protestante», e l’ecumenismo doveva ancora trovare spazio nella chiesa. Io li preparavo entrambi, l’uno accanto all’altro, e quando mi mancava il pino, piantavo in un vaso una scopa di saggina capovolta, la scompigliavo e la addobbavo di luci e palle colorate. Si, nello stupore creativo di noi bambini anche la scopa, cosi umile e necessaria, a Natale conosceva il suo momento di gloria luminosa.
Ma ciò che faceva percepire a tutti la gioia del Natale erano i preparativi per il pranzo, anche nelle famiglie più povere: le pentole che bollivano con il cappone, le donne che si riunivano per preparare insieme i ravioli e predisporre le sette portate «canoniche», indispensabili perché il pranzo fosse «il pranzo di Natale», un unicum in tutto l’anno. Gli uomini invece cercavano il ceppo da mettere nel camino: non la solita legna, ma un ceppo nodoso e grande, che durasse dalla sera fino al ritorno dalla messa di mezzanotte, quando si rientrava a casa intirizziti dal freddo, perché la chiesa non era riscaldata e per molti il tragitto fino a casa era lungo. E a quella messa andavano tutti, anche quelli che durante l’anno non si facevano mai vedere in chiesa:
l’umile semplicità del Figlio di Dio, che appariva come il figlio di una coppia di poveri in viaggio, inteneriva anche i cuori più duri.
Il parroco dal canto suo sapeva cogliere quell’opportunità unica, sapeva far valere la sua autorità che stava tutta in una parola franca, schietta, nel suo sapersi fare eco della buona notizia del Natale. Cosi, semplicemente, chiedeva a tutti di essere più buoni, di riconciliarsi con coloro con i quali si era in lite, di perdonare le offese. Non chiedeva altro, perché nel suo sapiente discernimento sapeva che per quei contadini che uscivano dal paese solo per andare al mercato nella città vicina, ciò che condizionava la loro vita e la loro felicità, oltre al pane, la casa e il vestito, erano i rapporti quotidiani con gli altri: parenti, vicini, conoscenti. Si, pace, concordia, armonia erano capite cosi: la pace, quella che era sperimentata con il finire della guerra, era percepita come una «grazia»: «Questo non è più un Natale di guerra, — dicevano, — siamo contenti e ringraziamo Dio». Con la consapevolezza cioè che quel tipo di pace non dipendesse da loro, ma dai potenti che decidevano le sorti della pace e della guerra. Mentre la pace quotidiana, l’armonia nella vita familiare e nei rapporti sociali, quella si che dipendeva da ciascuno custodirla e farla vivere. Cosi il parroco non dedicava parole e pensieri ai grandi del mondo, ma esortava con voce accorata quelli che lo ascoltavano anche solo in quell’occasione affinché coltivassero durante tutto l’anno quel desiderio di armonia e concordia sperimentato nella notte di Natale.
Così, anche il Dio che a volte nelle parole del parroco era il Dio irato che mandava la grandine sulla vigna di quelli che lavoravano alla domenica o che bestemmiavano, tornava al suo volto autentico: un Dio buono, che capiva gli uomini e chiedeva loro solo di essere buoni, sull’esempio di suo Figlio, Gesù. E quest’immagine di un Dio umanissimo riaccendeva la speranza di una vita migliore anche in quegli uomini rudi, che silenziosi si mettevano in fila come bambini per baciare il piedino di quella che era si solo una statua, ma capace di rievocare tutta l’inerme innocenza di un neonato.
Oggi queste usanze, cose legate a una vita contadina e a un mondo più semplice e più povero che in Occidente non conosciamo più, sono scomparse, e i cristiani scoprono di non essere più «padroni» del Natale, una festa ormai strappata loro di mano. Tuttavia sta proprio a loro, con la loro «differenza» nel vivere il Natale, essere i custodi del senso profondo della festa e i testimoni della speranza che celebrano: «l’uomo è un animale chiamato a diventare Dio». Si, attraverso un’umanizzazione della loro vita, della vita con gli altri, della vita nella polis, i cristiani saranno più fedeli che mai alla loro identità mentre coloro che cristiani non sono potranno solo beneficiare del servizio per una migliore qualità della vita offerto dai cristiani. Non si celebra la venuta di Cristo nella carne contrapponendosi agli altri, mostrandosi angosciati e cinici e limitandosi a demonizzare quanti non vivono il Natale da cristiani perché non hanno la fede. «Non di tutti è la fede», ci ricorda sempre l’apostolo Paolo, ma tra tutti è possibile tessere cammini di pace, di giustizia, di perdono, di ascolto reciproco.

Tratto da:Enzo Bianchi,Il Pane di Ieri,Einaudi,Torino,2008,pp.79-86.

Hanno sloggiato Gesù. Di Chiara Lubich.

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Hanno sloggiato Gesù

S’avvicina Natale e le vie della città s’ammantano di luci.

Una fila interminabile di negozi, una ricchezza senza fine, ma esorbitante.

A sinistra della nostra macchina ecco una serie di vetrine che si fanno notare. Al di là del vetro nevica graziosamente:

illusione ottica.

Poi bambini e bambine su slitte trainate da renne e animaletti waltdisneyani.

E ancora slitte e babbo-Natale e cerbiatti, porcellini, lepri, rane burattine e nani rossi. Tutto si muove con garbo.

Ah! Ecco gli angioletti…

Macché!

Sono fatine, inventate di recente,

quali addobbi al paesaggio bianco.

Un bambino coi genitori si leva

sulle punte dei piedini e osserva, ammaliato.

Ma nel mio cuore l’incredulità e

poi quasi la ribellione: questo mondo ricco

si è “accalappiato” il Natale e tutto il suo contorno,

e hanno sloggiato Gesù!

Ama del Natale la poesia, l’ambiente,

l’amicizia che suscita, i regali che suggerisce,

le luci, le stelle, i canti.

Punta sul Natale per il guadagno migliore dell’anno.

Ma a Gesù non pensa.

“Non c’era posto per lui nell’albergo”…

Nemmeno a Natale.

Stanotte non ho dormito.

Questo pensiero mi ha tenuta sveglia.

Se rinascessi farei tante cose.

Se non avessi fondato l’Opera di Maria,

ne fonderei una che serve i Natali degli uomini sulla terra.

Stamperei le più belle cartoline del mondo.

Sfornerei statue e statuette coll’arte più pregiata.

Inciderei poesie, canzoni passate e presenti,

illustrerei libri per piccoli e adulti

su questo “mistero d’amore”,

stenderei canovacci per rappresentazioni e film.

Non so quel che farei…

“Venne fra i suoi e non lo ricevettero…”

Oggi ringrazio la Chiesa che ha salvato le immagini.

Quando sono stata, venticinque anni fa,

in una terra in cui dominava l’ateismo,

un sacerdote scolpiva statue d’angeli

per ricordare il Cielo alla gente. Oggi lo capisco di più.

Lo esige l’ateismo pratico

che ora invade il mondo dappertutto.

Certo che questo tenersi il Natale e

bandire invece il Neonato è

qualche cosa che addolora.

Che almeno in tutte le nostre case

si gridi Chi è nato, facendogli festa come non mai.

Chiara Lubich

L’emozione non ha voce di Adriano Celentano

 

Io non so parlar d’amore 
l’emozione non ha voce 
E mi manca un po’ il respiro 
se ci sei c’è troppa luce 
La mia anima si spande 
come musica d’estate 
poi la voglia sai mi prende 
e mi accende con i baci tuoi 

Io con te sarò sincero 
resterò quel che sono 
disonesto mai lo giuro 
ma se tradisci non perdono 

Ti sarò per sempre amico 
pur geloso come sai 
io lo so mi contraddico 
ma preziosa sei tu per me 

Tra le mie braccia dormirai 
serena..mente 
ed è importante questo sai 
per sentirci pienamente noi 

Un’altra vita mi darai 
che io non conosco 
la mia compagna tu sarai 
fino a quando so che lo vorrai 

Due caratteri diversi 
prendon fuoco facilmente 
ma divisi siamo persi 
ci sentiamo quasi niente 
Siamo due legati dentro 
da un amore che ci dà 
la profonda convinzione 
che nessuno ci dividerà 
Tra le mie braccia dormirai 
serenamente 
ed è importante questo sai 
per sentirci pienamente noi 

Un’altra vita mi darai 
che io non conosco 
la mia compagna tu sarai 
fino a quando lo vorrai 

poi vivremo come sai 
solo di sincerità 
di amore e di fiducia 
poi sarà quel che sarà 

Tra le mie braccia dormirai 
serenamente 
ed è importante questo sai 
per sentirci pienamente noi 
pienamente noi uhu uhu 

Vieni….

vieni

Educare ai Mass-Media.

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NELLA SCUOLA L’EDUCAZIONE AI MASS-MEDIA

L’Aiart ha lanciato una nuova campagna raccolta firme. Una forte e generale mobilitazione di raccolta firme per una proposta di legge d’iniziativa popolare – studiata e messa a punto con la collaborazione determinante degli amici del MED – per introdurre, nei programmi della scuola, l’Educazione ai Media.

Proposta di legge per l’introduzione dell’insegnamento della ME nella scuola

Modulo raccolta firme ME

Manifesto campagna raccolta firme ME

E’ stato unanime il consenso – espresso dai responsabili territoriali dell’aiart nell’assemblea svoltasi a Roma il 4 ottobre scorso – alla proposta di avviare una campagna nazionale di raccolta firme per una proposta di legge d’iniziativa popolare, tendente ad inserire nei programmi della scuola primaria e della scuola media l’insegnamento dell’Educazione ai media e dell’Educazione con i media. L’iniziativa dell’Aiart, da sempre impegnata sul duplice piano della protesta-denuncia e della formazione-proposta, mira innanzitutto a far accrescere nei giovani, nelle famiglie, nelle comunità, nell’intera popolazione, la consapevolezza della necessità di un’educazione con i media e ai media.
E’ sotto gli occhi di tutti quella che è stata autorevolmente chiamata l’emergenza educativa. Ne ha parlato in modo esplicito Benedetto XVI richiamando in particolare la famiglia al diritto-dovere di educare i figli. Il rischio che le principali “agenzie educative”, che sono la famiglia e la scuola, siano nei fatti espropriati della funzione formativa è quanto mai reale. Su questo punto forze culturali, politiche, religiose e sociali sono concordi. Meno concordia c’è, ovviamente, nell’individuazione delle cause e delle responsabilità per l’attenuato o carente ruolo formativo della scuola e della famiglia. Fra queste, tuttavia, è indubitabile che vi sia l’influenza dei mass media, (televisione, radio, internet, telefonia, videogiochi ecc) sempre più presenti nella vita delle persone ed in particolare dei minori, dei ragazzi, dei giovani. Da qui nasce l’esigenza di “preparare” soprattutto i giovani a fruire, con senso di responsabilità, di questi straordinari mezzi e di “educarsi” con essi.
A chi compete questo ruolo di “educare ai media ed educare con i media”? A tutta la società, a tutte le sue articolazioni; alle famiglie, alle associazioni, alle comunità, alle forze culturali, politiche, economiche e sociali; alla stampa, ai centri universitari e di ricerca, alla Chiesa; ma soprattutto questo ruolo compete alle istituzioni ed in particolare alla scuola.
Purtroppo la scuola italiana è segnata da una grave crisi e mostra in modo impietoso la sua inadeguatezza ad evolversi in sintonia con le continue e rapide trasformazioni della società italiana e le continuamente mutevoli esigenze di formazione dei giovani. Di questo “grave” ritardo un indice incontrovertibile è fornito proprio dalla mancata (parziale o totale) attenzione ai “media” e alla loro influenza sui processi formativi dei giovani, influenza che spesso – per non dire quasi sempre – è di gran lunga maggiore di quella esercitata dall’attività didattica. Le cause di tale preoccupante ritardo sono molteplici, ma tutte riconducibili ad una generale sottovalutazione dell’influenza dei media sulle nuove generazioni, derivante spesso da una sorta di “indisponibilità” (per non dire altro) degli insegnanti a sintonizzare la loro attività docente con quella di mezzi straordinari, – quanto a capacità di “comunicare”, di “orientare”, di “formare” – propria dei media. Se, poi, a questa sottovalutazione dell’influenza dei media si aggiunge una forma di più o meno inconscia “chiusura” ai nuovi mezzi, in particolare ad internet, perché meravigliarsi che da parte degli insegnanti, in generale, si segnala l’indisponibilità e l’incapacità a educare ai media e, soprattutto, ad educare con i media?
Da queste considerazioni, sviluppate per grandi linee, discende l’iniziativa dell’Aiart di raccogliere firme per avviare un percorso che ha come traguardo la presentazione in Parlamento di una proposta di legge per inserire, nei programmi della scuola primaria e media, la educazione ai media.
Questa proposta, studiata e messa a punto con la collaborazione determinante degli amici del MED (Associazione Italiana per l’educazione ai media e alla comunicazione), è aperta al contributo di quanti ne condividono il significato e la valenza; in particolare alle associazioni di genitori, di insegnanti, di utenti, di famiglie,a tutto il vasto associazionismo cattolico. Soprattutto a loro è rivolto il nostro invito a sottoscrivere, A METTERE UNA FIRMA e sostenere in tal modo l’iniziativa dell’Aiart.
Un impegno particolare è rivolto agli iscritti e alle strutture dell’Aiart. Innanzitutto firmare e fare firmare, utilizzando il modulo allegato (che potete fotocopiare o scaricare dal sito Aiart) e inviare poi – o tramite le strutture Aiart o direttamente – alla sede nazionale, Via Albano 77 Roma, 00179.
Le strutture regionali e/o provinciali sono, poi, invitate ad organizzare incontri, convegni, dibattiti sul tema della media-education, potendo contare sul pieno sostegno organizzativo ed economico dell’Aiart nazionale, concordando tempi e modalità di svolgimento delle iniziative finalizzate a propagandare la raccolta firme e anche a raccogliere firme.
Il Telespettatore ed il sito http://www.aiart.org forniranno tutte le informazioni sull’andamento della Raccolta-firme e, come sempre, sono aperti ai suggerimenti, alle critiche, ai consigli dei lettori.
Non resta che “partire” e “partire” con la convinzione di operare per un obiettivo di grande valenza etica, culturale e sociale.
Auguri a tutti e a tutta l’Aiart!

Primi passi nella media education
Filippo Ceretti,Damiano Felini,Roberto Giannatelli (a cura di).
Curricolo di educazione ai media per la scuola primaria, Erickson, 2006

Il manifesto dell’iniziativa raccolta firme

web project & design:

PROPOSTA
PER UNA LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE
IN MATERIA DI MEDIA EDUCATION

Art. 1
Considerata la sempre maggiore incidenza e l’importanza strategica degli strumenti e delle tecnologie della comunicazione sociale in ogni settore della vita, al fine di promuovere la competenza delle giovani generazioni a riguardo di detti strumenti e tecnologie per il conseguimento di una effettiva cittadinanza nella società del nostro tempo, ai sensi degli art. 2 della Legge 28 marzo 2003, n. 53 e dell’art. 1 della Legge ottobre 2008 n.169, viste le analisi contenute nel “Quaderno bianco sulla scuola”, settembre 2007, relativamente al rapporto fra istruzione e cittadinanza, produttività e mobilità sociale e l’ormai ampia riflessione pedagogica su educazione e media, il Ministero dell’Istruzione, per avviare l’inserimento dell’insegnamento di Educazione ai media nella scuola primaria e secondaria di primo grado, attiva specifici percorsi di formazione degli insegnanti.

Art. 2

I percorsi di formazione sono rivolti agli insegnanti di qualunque area disciplinare; intendono fornire informazioni teoriche e strumenti pratici per l’attivazione di attività didattiche di Media Education. Ogni istituzione scolastica individua al proprio interno almeno un insegnante per la partecipazione ai suddetti percorsi.

Art. 3

I percorsi di formazione sono attivati in tutte le Regioni dalle rispettive Direzioni Regionali Scolastiche sulla base di indicazioni di contenuto elaborate dal Ministero dell’Istruzione e nelle modalità ritenute più efficaci al fine di consentire l’effettiva partecipazione degli insegnanti.
Le Direzioni Regionali Scolastiche potranno sottoscrivere accordi di collaborazione con le Università, con i Co.Re.Com e con tutte le altre istituzioni pubbliche e private che possano contribuire alla qualità della proposta formativa.

Art. 4

Al fine di valorizzare le iniziative promosse dalla presente Legge e di stabilizzare le attività didattiche di Educazione ai media, presso l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione) è costituito un “Centro di documentazione delle iniziative di Educazione ai media” a disposizione delle istituzioni scolastiche e degli insegnanti.

http://www.aiart.org/

Dalla pelle al cuore di Antonello Venditti

 

Il sesso fa partire 
l’amore fa tornar da te 
e dalla pelle al cuore 
che adesso sto davanti a te 

So che mi perdonerai 

mi devi perdonare 
so che tu ce la farai 

e dalla pelle al cuore 
che devo ritornare 
senza più parole 
senza farti male 

e dalla pelle al cuore 
e tu lo capirai 
solo da uno sguardo 
tu lo scoprirai 

Non cerco comprensione 
e lacrime che tu non hai 
è stata un’emozione 
che mi ha rubato l’anima 

Dolcissimo mio amore 
e non mi ha fatto vivere 
si apre il tuo portone 
e adesso sei davanti a me 

e dalla pelle al cuore 
che devo ritornare 
senza più parole 
senza farti male 

e dalla pelle al cuore 
e tu lo capirai 
solo da uno sguardo 
tu lo scoprirai 

mi perdonerai 
mi perdonerai 
mi devi perdonare sai 
mi perdonerai 

e dalla pelle al cuore 
che devo ritornare 
senza più dolore 
senza farti male 

e dalla pelle al cuore 
e tu lo capirai 
solo da uno sguardo 
tu lo scoprirai 

mi perdonerai 
mi perdonerai 
mi devi perdonare sai 
mi perdonerai 

Mi perdonerai 

Bariona o il figlio del tuono: Il natale di J.P. Sartre

sartrejean-paul-bariona

Racconto scritto e rappresentato da Sartre nel Natale del 1940 per i suoi compagni di prigionia nel campo di Treviri. La storia ruota intorno alla figura di Bariona, capo di un villaggio vicino a Betlemme, ed è ambientata nell’epoca in cui la Giudea era oppressa dai Romani e vessata da continue richieste di tributi. Il testo si offre al lettore come l’immagine di un’esperienza religiosa che raggiunge il suo apice nella descrizione del rapporto di intimità che lega la Madonna al Bambino, e nel contempo come esperienza politica che, nella chiara allusione alla Francia occupata dai nazisti, vuole creare aggregazione e solidarietà tra i prigionieri, credenti e non credenti, e sollecitarli alla resistenza contro gli invasori.
Bariona,dunque, è un originalissimo testo teatrale poiché Sartre ebbe modo allora di conversare a lungo con i preti detenuti, discutendo in fraterna sincerità di fede e teologia. E’ alla luce di questa esperienza che Sartre scrive un testo teatrale sul mistero del Natale. Lo compone in sei settimane, sceglie gli attori, assiste alle prove, crea la messa in scena ed i costumi lui stesso. Vi partecipa come attore nella parte del Re Magio Baldassarre.
Il racconto ruota intorno alla figura di Bariona (dal curioso soprannome di “figlio del tuono”), capo di un villaggio vicino a Betlemme. La storia è ambientata nell’epoca in cui la Giudea era oppressa dai Romani e vessata da continue richieste di tributi. All’annuncio della nascita di Gesù Bambino Bariona abbandona ogni diffidenza e si apre alla speranza. Il testo si offre allo spettatore come l’immagine di un’esperienza religiosa e raggiunge il suo apice nella descrizione poetica del rapporto di intimità che lega la Madonna al Bambino. Disse una volta Sartre: “Ho sempre avuto un rapporto difficile ed impossibile con Dio”. Oggi, la visione di quest’opera, offre l’occasione di ripensare l’ateismo di Sartre e la sua filosofia dell’esistenza.

Jean-Paul Sartre, Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per Cristiani e non credenti, Cristian Marinotti Editore, Milano 2003
di Cristina Ficorilli

Treviri, Notte di Natale 1940.

Si chiude il sipario.
«Madeleine Chapsal. — Non è uno “ strano” mestiere quello di scrittore ? Esso esige, certamente, dell’energia, ma non riposa anche su una sorta di debolezza?
Jean-Paul Sartre. — Personalmente, io, lo ho scelto contro la morte e perché non avevo la fede: ciò rappresenta effettivamente una sorta di debolezza …Il cristiano, in linea di massima non teme la morte poiché per lui è necessario morire per cominciare la vera vita. La vita terrestre rappresenta un periodo di prova per meritare la vita celeste. Questa implica degli obblighi precisi, dei riti da osservare ed include anche dei voti : obbedienza, castità, povertà. Io prendevo tutto questo e lo trasponevo in termini di letteratura : potrei non essere riconosciuto per la mia vita terrena, ma meriterei la vita eterna per la mia dedizione alla scrittura e per la mia integrità professionale…» [J.-P.Sartre, Sur moi-même. « Les écrivains en personne », in Situations,IX, Mélanges,1972, p.32. La traduzione è la mia]
Terra e cielo, reale e immaginario, uomo e donna, nascita e morte, passione e lotta, dolore e assenza, fine e inizio, amore e pietà, onore e disonore fuoriescono dal grido disperante di Bariona. E’ uno strepito, un tuono in cui riluce il bagliore dell’anelito ad un “non”, ad un “no” contro il mero “non esser nato che per esser nato” della realtà umana.
E’ un “non” che trova la sua massima espressione nella negazione e nell’interdizione, da parte del capo di un villaggio fantasma alle pendici del dramma dell’infertilità e dell’oppressione, a perseverare la vita.
Il comando di Bariona è l’ingiunzione al suicidio dell’avvenire, d’ogni futuro umano e dono di vita. E’ un appello al silenzio che si spegne pian piano per mancanza di voci, è la rivolta del nulla contro l’essere, contro l’obbedienza ad un “si” estorto di necessità all’uomo una volta che la vita ha preso possesso di lui. E’ la rinuncia ad “un oltre” che è solo prolungamento di sofferta ripetizione, è il rifiuto di ciò che Bariona sente inesorabilmente di essere, è il diniego della scintilla che l’uomo guarda nel fondo degli occhi di un uomo, di ciò che Bariona troverà negli occhi di Giuseppe dove il faro della vita illumina altra vita, dove futuro, presente e passato indicano ancora quel “poter essere” che l’uomo interpreta.
All’interno di quel “non” risuona al tempo stesso la complessità del “non” del non-essere di L’être et le néant che Sartre di lì a pochi anni scriverà, in cui il “non” viene a sciogliersi nel “per” di un “per-sé”, libero progetto di esistere. …Ed ecco… , infatti,…..appare… Re Baldassarre, personaggio che “nei panni di Sartre”, interpreta, in unicum, proprio quel “per” del “non essere” che Bariona in quanto uomo è.
In uno: speranza e disperazione, nascita e morte progetto e situazione, scacco e ripresa di sé, autenticità e malafede. E’ il valore della congiunzione “e” che sartrianamente unisce Bariona e Baldassarre, credenti e non credenti, a far sì che Bariona o il figlio del tuono possa essere, come sottotitola la Christian Marinotti Edizioni, un “Racconto di Natale per cristiani e non credenti”.
E’ l’e che rende il teatro, in quanto specchio dell’umano, la doppia faccia di una medaglia che, orientata in duplice prospettiva, lascia scorgere un “teatro in situazione” e un “teatro di libertà”.
“Se è vero che l’uomo è libero in una situazione data e che si sceglie libero in una situazione data e che sceglie se stesso in essa e attraverso essa, allora bisogna mettere sulla scena situazioni semplici e umane e libertà che si scelgono in queste situazioni…Un carattere del suo farsi è quanto di più commovente possa mostrare il teatro, ossia il momento della scelta, della libera decisione che impegna una morale e tutta una vita. E poiché non si fa teatro se non si attua l’unità di tutti gli spettatori, bisogna trovare situazioni tanto generali da poter essere comuni a tutti. Non sono pochi i nostri problemi: quello del fine e dei mezzi, della legittimità della violenza, il problema delle conseguenze dell’azione, quello dei rapporti tra l’individuo e la collettività, tra l’impresa individuale e le costanti storiche, e cento altri ancora. Ora a me sembra che il compito del drammaturgo sia quello di scegliere, tra queste situazioni-limite, quella che esprime meglio i suoi problemi e di presentarla al pubblico come l’istanza che si pone a determinate libertà”.
[J.P.Sartre, in F. Jeanson, Sartre, 1995; tr.it. Sartre. Teatro e filosofia,1996, pp.3-4; corsivo mio]
Credenti e non credenti, oltre ad essere un epiteto rappresentativo dell’umano appare qui emblematico della realtà del campo di detenzione per prigionieri di guerra in cui Sartre insieme a molti si trova rinchiuso sotto l’oppressione tedesca, ed i cui membri assistono uniti, nella notte di natale del 1940, allo spettacolo del mistero della vita e della nascita, arcano che al di là del bene e del male accomuna l’intera umanità.
“Se ho preso il mio soggetto nella mitologia del Cristianesimo, ciò non significa che la direzione del mio pensiero sia cambiata, fu un momento, durante la cattività. Si tentava semplicemente d’accordo con i preti prigionieri, di trovare un soggetto che potesse realizzare, in quella sera di Natale, l’unione più vasta di cristiani e non credenti.” [p.1.]

Ed il campo di prigionia si trova trasposto scenicamente nelle vicende dell’impervio villaggio di Béthaur, in Giudea, a 25 miglia da Betlemme al tempo della nascita di Gesù. Béthaur è un villaggio che sanguina, è una muraglia di terra abitata da uomini vecchi e da magri pascoli, corroso dalle imposte che la dominazione romana esige dall’alto del suo potere.
Di fronte ad un’ulteriore richiesta d’innalzamento delle tasse – cui “Roma si trova costretta”- da parte di un funzionario dell’impero, la cui venuta al villaggio rappresenta l’incipit dell’azione teatrale e l’inizio della catastrofe di Béthaur, già caduta in rovina, Sartre affronta con tenore emotivo alto e temperato di lucidità, il tema della filiazione. Tema che prende vita da diversi orizzonti di trattazione: la luce della pittura, dall’annunciazione alla natività, fa da strada al racconto; attraverso l’oscurità degli occhi privi di vista del narratore d’immagini, preposto a prologo della pièce, procede l’intreccio narrativo in sette quadri: la buona novella perduta in Maria, signora delle madri, “come un viaggiatore si perde nei boschi”, l’assenso materno al destino del proprio ventre e ad una nuova vita convivono con la religione del nulla professata da Bariona, colui che, contestualmente all’atto d’affermazione del proprio credo, pone un veto alla nascita ventura del proprio bambino, lottando per l’estinzione d’ogni figlio dell’avvenire e d’“ogni nuova edizione del mondo”. [p.1 e p.36]

“Più bambini. …Non vogliamo più perpetuare la vita, né prolungare le sofferenze della nostra razza…Il villaggio agonizza da quando i Romani sono entrati in Palestina e quello che tra noi procrea è colpevole poiché prolunga questa agonia…il mondo non è che una caduta interminabile e molle…Gente e cose appaiono improvvisi in un punto della caduta e appena apparsi, sono presi da questa caduta universale; si mettono a cadere, si disgregano e si disfano…tutto è capitato sempre molto male e la più grande follia della terra, è la speranza. …Osereste dunque creare giovani vite con il vostro sangue marcio? Volete rinnovare con uomini nuovi l’interminabile agonia del mondo? [pp. 27-30.]
Ragione sociale e lume più intimo della ragione individuale convergono nell’invettiva di Bariona; lo spettro di un futuro senza avvenire, di un aldilà che è giro di vite attorno ad una libertà oramai velata, conduce Bariona ad assumere su di sé, in “malafede”, direbbe L’etre et le néant, la responsabilità del non riconoscimento del proprio del volto umano.
La scelta di Bariona è un abdicare alla necessità, è un rendere necessario un possibile, è “essere” e subire piuttosto che “far essere”, è sfuggire quel “sé-come-essere-in-sé-mancato” che dà senso alla realtà umana. Il progetto di Bariona si colloca fra le note di una musica che l’uomo non può suonare, è il frutto dell’illusione che vuole l’uomo come un superamento continuo di sé volto al raggiungimento di una coincidenza con sé, che invece, seguendo Sartre, non è mai data.
E’ altro ciò che l’uomo può fare: contro l’illusoria speranza in un mito che non è popolato di gesta umane, la pièce teatrale di Sartre apre il sipario sulla speranza autentica nel radicale trascendere dell’esistere della realtà umana che procede cristallina, indissolubilmente ancorata all’accettazione d’ogni espressione di lutto che accompagna dal suo sorgere l’esistere, quell’ingiustificata presenza al mondo che la coscienza trasparente del per-sé deve elevare all’esistenza nella sua libera spontaneità.
In tal senso opera il dire di Re Baldassarre quando, nel narrare le parole della creazione, sottolinea la consustanzialità tra realtà umana e la sua condizione di “speranza e preoccupazione…poiché l’uomo è sempre molto di più di quel che è…ovunque sia un uomo…è sempre altrove ” [p.69]
L’uomo non è ciò che è, ed è ciò che non è: egli esiste e nel valore della negazione che egli stesso esprime si concentra il senso del suo far-esistere tutto ciò che egli è nel modo del non esserlo, vale a dire la responsabilità del progetto che estaticamente egli dà di se stesso per la costituzione protenzionale e progettuale di una coscienza, i cui momenti si rivelano come una incessante “invenzione” di un nuovo inizio.
Tale scissiparità della coscienza e desolidarizzazione da sé, tale idea di “una serie unitaria d’acquisizione-rifiuti” [ J.-P. Sartre, L’Être et le néant, Paris, 1943; tr.it. L’essere e il nulla, Milano, 1997;.p.189.” ] che rappresenta una coscienza concepita come “il suo superamento” [ibidem.] costituisce — per il configurarsi della temporalità estatica del per-sé come qualcosa in cui una nuova scelta è un nuovo inizio e un nuovo fine — il leit-motiv che attraversa l’evolversi del pensare sartriano e l’oggetto tematico di ciò che Sartre in L’Esistenzialismo è un Umanismo definisce il “rigore ottimista” del proprio filosofare. [J.-P. Sartre, L’Existentialisme est un humanisme, Paris, 1946 ; tr.it., L’Esistenzialismo è un Umanismo, Milano, p.57.]
” …l’idea che io non ho mai cessato di sviluppare è che, in fin dei conti, ciascuno è sempre responsabile di ciò che si è fatto di lui- anche se egli non potesse far niente di più che assumere questa responsabilità. Io credo che l’uomo può sempre fare qualcosa di ciò che si è fatto di lui. E’ questa la definizione che io darei oggi della libertà: quel piccolo movimento che rende un essere sociale totalmente condizionato una persona che non restituisce in toto ciò che ha ricevuto dal proprio condizionamento.” [J.-P. Sartre, Sur moi-même…,op.cit p.101. La traduzione è mia]

La stessa irruzione del magico, l’apparizione dell’angelo, l’epifania del divino e la mirabile descrizione che Sartre ne fa assumono i tratti di una aderenza del tutto incondizionata al carattere coerente del libero progetto d’esistere del trascendere della coscienza, la quale assume l’incantatorio incontro col magico come l’innesto per una nuova condotta umana che cambia i suoi rapporti col mondo in un mondo che cambia le sue qualità, il cui linguaggio ed i cui codici permettono alla coscienza di credere al mondo cui si riferisce esattamente così come essa lo sente. E’ questo il varco aperto dai gesti della speranza che accompagna lo “scacco” della condizione umana.
Benny Lévy — Ed è inevitabile questo scacco ?
Jean-Paul Sartre — io ho pensato sempre di più – ed attualmente lo penso in modo assoluto – che una caratteristica essenziale dell’agire umano…sia la speranza. E la speranza implica che io non possa intraprendere un’azione senza contare che la realizzerò. Io non ritengo… che questa speranza sia un’illusione lirica, essa è nella natura stessa dell’azione… e nella speranza vi è anche una sorta di necessità. L’idea dello scacco non trova in me, in questo momento, un fondamento profondo: al contrario è la speranza- in quanto rapporto dell’uomo al proprio fine, rapporto che esiste anche se il fine non è raggiunto- ciò che dimora nei miei pensieri. [J.-P. Sartre-Benny Lévy, L’espoir maintenant. Les entretiens de 1980, Verdier, 1991, p.25. .La traduzione è la mia]
Si apre il sipario…

Anima mia dei Cugini di campagna

 

 

Andava a piedi nudi per la strada 
mi vide e come un’ombra mi seguì 
Col viso in alto di chi il mondo sfida 
e tiene ai piedi un uomo con un sì. 

Nel cuore aveva un volo di gabbiani 
ma un corpo di chi ha detto troppi sì. 
Negli occhi la paura del domani 
come un ragazzo me ne innamorai. 

La notte lei dormiva sul mio petto 
sentivo il suo respiro su di me 
E poi mi dava i calci dentro il letto 
c’è ancora il suo sapore qui con me. 

Anima mia torna a casa tua 
ti aspetterò dovessi odiare queste mura 
Anima mia nella stanza tua 
c’è ancora il letto come l’hai lasciato tu. 
Avrei soltanto voglia di sapere [non cercarmi] 
che fine ha fatto e chi sta con lei [non pensarmi] 
se sente ancora freddo nella notte 
se ha sciolto i suoi capelli oppure no. 

Palermo cento chiese nell’ombra.

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Protagonista di questo libro non è il complesso monumentale delle chiese palermitane, ma il ricco repertorio di piccoli edifici religiosi o “chiese nell’ombra” che sono espressione talvolta non trascurabile di un’architettura considerata “minore”.

Giulia Sommariva indaga sulla storia di centocinque tra questi monumenti poco noti o del tutto nascosti agli occhi dei visitatori, illustrandone il valore artistico e raggruppandoli secondo criteri topografici. Il volume, quindi, può guidare il lettore alla scoperta di inconsueti itinerari nel sacro. Il ricco corredo fotografico, realizzato appositamente da Andrea Ardizzone, conferisce al testo valore di documentazione e lo rende colorito ed efficace.

Da questo insolito viaggio tra le “chiese nell’ombra” emerge un quadro certamente affascinante, ma talvolta anche desolato, specie quando ci si confronta con lo stato di abbandono degli edifici più trascurati. Nel libro, una posizione di primo piano la rivestono le confraternite, vive e attive nel contesto religioso e sociale della città. Ad esse è dedicato l’ultimo capitolo, incentrato sulle processioni del Venerdì Santo, riti secolari che mescolano fede e folclore in modo inestricabile.

Articolo di seguito è stato ospitato nel recente
Bollettino dell’Ordine degli ingegneri della provincia di Palermo

QUANDO NASCERA’ UNA MOBILITAZIONE GENERALE PER RESTAURARE LE CENTO, MILLE CHIESE IN OMBRA DEI CENTRI STORICI DELL’ISOLA?

Una ricerca provocatoria di Giulia Sommariva in una recente pubblicazione.

di Ferdinando Russo

” Cento chiese nell’ombra “di Palermo, riscoperte nel recente volume della giornalista Giulia Sommariva, edito da Dario Flaccovio, (1) ripropongono alla nostra attenzione le chiese esistenti nell’Isola,a volte, incustodite o burocraticamente affidate a diverse istituzioni titolate alla gestione, conservazione, e uso: Prefetture, Sovrintendenze, Ordini religiosi, Palazzi nobiliari, Curie vescovili, Parrocchie.

Si tratta di un patrimonio inestimabile d’arte, di fede, di storia, verso il quale non può mancare l’interesse degli Ordini Professionali degli Ingegneri e degli Architetti, così come delle Istituzioni pubbliche, delle Università, delle Fondazioni, delle Agenzie ed Associazioni educative.

Parlarne nel Bollettino dell’Ordine non vuole essere, pertanto, solo una recensione formale di un libro che interessa gli storici, o i cultori dell’arte e della fede popolare, o l’associazionismo del volontariato, quanto il sottolineare un’emergenza artistica, carica di valori religiosi, culturali, museologici, economici, turistici.

Cento, ma forse mille le chiese, nell’attesa di trovare diecimila progetti di restauro ed uso, cento e più mila cittadini interessati a fruirne, nei diversi quartieri delle città, come riferimenti religiosi, collegati alle Parrocchie del territorio, ai centri di formazione e educazione, ai laboratori d’arte sacra ed ai musei delle tradizioni religiose, luoghi d’accoglienza in grado di testimoniare la vera identità dell’Isola.
Un fondo regionale per finanziare la stesura di tali progetti è ipotizzabile per una nobile gara culturale a servizio del patrimonio religioso e artistico che vive nell’ombra? Un augurio.

Sono ormai numerose le ricerche che Giulia Sommariva ha condotto, con scrupolosa attenzione ed eleganza descrittiva, su ciò che racchiude e rappresenta l’identità della città di Palermo attraverso le opere dell’ingegno umano, degli artisti, dei letterati, degli architetti e degli ingegneri, che ne hanno disegnato, nei secoli, lo sviluppo.

La sua attenzione e curiosità storica a disseppellire palazzi, ville, alberghi, oratori, conventi, spesso nascosti ai più, in questa meravigliosa città, hanno prodotto opere (2) che testimoniano il suo amore di studiosa per la storia e la cultura degli abitanti e dei visitatori del capoluogo dell’Isola, di ieri e d’oggi.

Né la sua è stata solo una rappresentazione intellettuale per conservare la memoria di ciò che è stato bello, armonioso, esemplificativo delle molte epoche vissute, con avvenimenti, mode, costumi, interrelazioni, che hanno caratterizzato la vita della città e del suo territorio.

La Somariva è nota per avere illustrato sulle riviste più prestigiose e significative della Sicilia, e nei suoi saggi, le ville, i palazzi nobiliari, gli alberghi storici, gli usi, i costumi, le tradizioni e le molteplici espressioni artistiche, portando così, con i suoi scritti, tasselli importanti alla ricostruzione esaustiva ed alla conoscenza più diffusa dell’edilizia sacra e profana e dell’identità culturale ed urbanistica della città.

Ed è come scavare, non tanto nell’archeologia di Palermo, quanto nella religiosità della popolazione dal Paleocristiano ai Normanni, attraverso le Chiese dei quattro Mandamenti, volute e costruite a volte su templi pagani.
Un’opera d’archeologia umana, d’antropologia cristiana, questa ricerca sui valori e sulle testimonianze che sembrano, quasi seppelliti, con i tesori dell’arte nascosti, nella città della violenza, della criminalità, delle stragi, dei furti, degli scippi, degli incendi, degli usurai.

Le Cento chiese in ombra di Palermo sono state costruite dal popolo, dalle confraternite laicali, dalle Congregazioni, in ogni Mandamento, rione, quartiere, zona abitata: Monte di Pietà, Albergheria, Loggia, Kalsa, con le Sante Patrone Oliva, Cristina, Agata, Ninfa, Silvia, quasi dimenticate, con le roccaforti monastiche della Kemonia, con gli Oratori, gli Altari, le processioni del Venerdì Santo.

Queste chiese palermitane furono punto obbligato di transito dei pellegrini e oggi ci appaiono di una modernità sorprendente nell’accoglienza, di un afflato missionario da emulare.
Nella Sicilia bizantina, normanna e aragonese, furono riferimenti importanti, lungo il percorso della famosa via francigena del pellegrinaggio medioevale che portava i fedeli del Mediterraneo verso la Spagna, al celebre santuario di Santiago di Campostela, o verso Roma sulla tomba di Pietro o verso i luoghi santi della Terra Santa.
E, già allora, la Chiesa di Sicilia mostrava a Palermo la sua vocazione all’accoglienza con le sue chiese, ora in ombra, come quella di S.Giacomo della confraternita degli Scarpari, con le opere assistenziali approntate, quali i cosiddetti “Hospitalia”, complessi ospedalieri e ricettivi al servizio dei pellegrini forestieri, con gli oratori e gli ospizi ove Guglielmo Borremans avrebbe lasciato l’affresco “Sara, Abramo e i tre Angeli “, icona storica dell’impegno cristiano all’ospitalità che fa onore al nostro contemporaneo Biagio Conte ed alla Chiesa di Ruffini, Carpino, Pappalardo, De Giorgi, ed ora di Romeo.

Il volume della Sommariva s’inserisce, ora, nell’opera socio-culturale e religiosa, tesa all’attivazione, nei quattro Mandamenti, dei molti edifici d’edilizia sacra da restaurare per utilizzarli come luoghi di culto, come centri di formazione e educazione, come musei per la diffusione dell’arte, per la conoscenza della storia di Palermo e per il recupero delle tradizioni religiose, con l’aiuto delle Parrocchie e del laicato cittadino.

“ Cento Chiese nell’ombra” è, pertanto, un libro significativo, un itinerario per riscrivere altri cento libri; è, infatti, uno dei primi documenti che il mondo letterario della città, attraverso una laica credente del Serra Club, giornalista, scrittrice d’emergenze storiche e d’intense pagine di fede, consegna al nuovo Arcivescovo Metropolita Ecc.za Mons. Paolo Romeo, quale ispiratore del recupero di tutto ciò che è pervaso di fede, di devozione, di spirito di comunione, di Chiesa, popolo. di Dio.

Le Cento Chiese in ombra, riscoperte dalla Sommariva, sono, in tal senso, presentate e riofferte ai laici ed ai religiosi del nostro tempo, per riattivarle come luoghi di culto, di preghiera, d’azione educativa, di carità, di testimonianza evangelica.
Potrebbero rispondere al bisogno di nuovi punti e luoghi di riferimento capillare, per alimentare la religiosità del popolo, l’attaccamento alla famiglia, l’educazione dei ragazzi e dei giovani al bene comune.
Quando, infatti, le parrocchie ci appaiono, sommerse dalla primaria doverosa somministrazione dei sacramenti ai fedeli abitudinari e rifuggono dall’azione missionaria, gli edifici sacri, di cui parla la Sommaria, si presentano come sedi importanti per una presenza più capillare delle chiese palermitane nel tessuto sociale della città.

L’inaspettata esplorazione della ricerca sulla Palermo sacra, la cui origine è passata da queste chiese, richiama ad una maggiore consapevolezza i laici credenti dei movimenti, delle associazioni e delle aggregazioni ecclesiali, dai carismi vari, e sembra invitarli a riappropriarsi dei luoghi e degli edifici di culto degli antenati, da restaurare, come più volte segnalato dall’Università nel Piano dei Servizi. Una volta salvati, potranno contribuire a far rivivere testimonianze di fede, d’arte, di devozione, e di quelle virtù civiche necessarie per una nuova fraternità cittadina, da ristabilire tra quanti per la mobilità urbana e per il restauro del Centro storico, sono venuti ad abitare i quartieri delle Chiese in ombra.Tra costoro non mancano gli immigrati di colore, che, dalla religione dell’amore (Deus Caritas est), attendono l’abbraccio dell’accoglienza da parte dei fratelli laici.

Un fotografo artista, schivo del successo, Andrea Ardizzone, è detto nella presentazione del volume, ha raccolto le immagini, le strade, le piazze, i prospetti, gli interni delle cento chiese in ombra, con i tesori sfuggiti ai ladri d’opere d’arte.Queste foto sono riportate per illustrare l’opera della Sommariva, quasi guide satellitari per quanti, diaconi, volontari, dirigenti di movimenti di spiritualità, confraternite, seminaristi, parroci titolari dei territori assegnati e laici dalle specifiche vocazioni del nostro tempo, ingegneri, architetti, urbanisti, sociologi, mostrano interesse, vocazione e voglia di recuperare alla storia dell’architettura sacra, alla letteratura, al turismo culturale e religioso, all’azione missionaria quest’immenso patrimonio della cattolicità, creato, nei secoli, per una diffusa azione d’evangelizzazione.
Il nuovo arcivescovo Mons.Paolo Romeo è ad attenderli, con la sua dichiarata disponibilità al servizio ecclesiale alle nuove periferie cittadine, tra le quali ricadono le aree che si rianimano, rivivono ed insistono negli antichi quartieri del Centro Storico, al quale le Istituzioni sembrano volere dedicare, negli ultimi anni, intelligenza e passione propulsiva (da Orlando al Sindaco Cammarata, dall’Assessore Mario Milone a Scimemi, proveniente dall’Assessorato Regionale Beni culturali).

Il vasto mondo dei valorosi Architetti e Ingegneri, di cui gode Palermo, e la Sicilia, gli Ordini professionali, le imprese artigiane, i restauratori, gli artisti, che trovano spesso ispirazione nel divino, coglieranno l’occasione offerta dall’opera della Sommariva per offrire consulenze e progettualità, spiccate proposte di professionalità, per ridare agli edifici in questione quella neomodernità culturale ed artistica e quella centralità e relazionabilità con le chiese parrocchiali e le comunità di quartiere, riportando alla luce un’umanità nuova, allontanando le ombre cresciute attorno alle chiese, quasi nascoste, nelle circoscrizioni, ove sono localizzate.

Il volume della Sommariva sembra ancora, delicatamente, rivolto a quanti esercitano pubblica professione di fede e dispongono di surplus nei loro redditi aziendali, a quanti, specie se a capo delle Fondazioni culturali, hanno a cuore la storia di questa città ed avvertono l’utilità e la necessità di dare alla vita comunitaria nuove occasioni d’aggregazione attorno ai valori che la Chiesa tramanda.

Né manca, pertanto, un appello forte, che la Sommaria rende comprensibile nell’Introduzione, rivolto alle Istituzioni pubbliche ed ai cittadini privati, per offrire alla Chiesa di Palermo, alla cultura, al turismo, un patrimonio religioso in cui affonda l’identità vera della città.

Una mobilitazione d’energie, di risorse, a volte pur esse in ombra, negli studi di progettazione, nell’Università, presso i laboratori degli artisti, presso le Gallerie d’Arte cittadine, nelle Fondazioni, potrà ridare alla città, con la riattivazione delle chiese semi abbandonate, una nuova rete extra catacombale di stimoli religiosi, umanitari, per la vita operosa dei suoi abitanti.

Questo libro, stimola, anche fuori del territorio in cui nasce, l’attenzione attorno alle chiese in ombra, per le tante vicende storiche lasciate spesso al saccheggio dei ladri d’opere d’arte, o trascurate nel culto per mancanza di sacerdoti, o incustodite per mancanza di mezzi protettivi da parte delle istituzioni titolate.

Il primate della Chiesa di Palermo e Presidente della C.E.Si, Mons.Paolo Romeo, potrà proporre, all’Autore ed ai laici attenti alle storie locali, di estendere, sulla base di questa ricerca, analoghi studi sulle altre Chiese in ombra della provincia e delle altre diocesi, così come recentemente è avvenuto nella Russia e in molti paesi dell’Oriente.

Non avere interesse per la memoria delle opere della fede, da parte del laicato ,credente e non,, è far crescere l’apatia morale, l’indifferenza verso i luoghi di culto e la Chiesa,ed è qualvolta l’inizio per l’abbandono di Dio.

All’editore Dario Flaccovio, così attento alla storia ed alle produzioni artistiche dell’Isola,ed al fotografo Andrea Ardizzone, può rivolgersi l’apprezzamento ed il riconoscimento per la professionalità e la scelta operata, non legata a problemi economici, ma offerta quale contributo di un’editoria storica, che affonda le sue radici nella religiosità e nella nobiltà del pensiero e che sa correre il doveroso rischio quando una proposta, come quella della Sommariva, è così carica di finalità e d’obiettivi non gridati, ma umilmente rappresentati, dopo lunghe ricerche e studi, a servizio dell’identità della città.

Ing.Ferdinando Russo
già sottosegretario Ministero Interno

(1) G.Sommariva-Palermo, Cento Chiese nell’ombra; fotografie d’Andrea Ardizzone Editore D. Flaccovio Palermo 2007
(2) G.Sommariva, Bagli e ville di Palermo e dintorni editore D.Flaccovio, Palermo 2005
(3) G.Sommariva, Palazzi nobiliari di Palermo, editore D.Flaccovio, 2004
(4) A.Turrisi ,in Giornale di Sicilia del 7 dicembre 2007
(5)L.Nobile, Piccole Chiese,grandi tesori ,in La Repubblica del 12 dicembre 2007
(6)O.Germanese, Palermo cento chiese nell’ombra in, CNTN Anno VIII N.12, Dicembre 2007.

Giulia Sommariva,Palermo cento chiese nell’ombra,Flaccovio editore,2007,pp.304,€ 38,00.

La Fatica della Complessità….

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Nel 1994 il Cesnur – il Centro Studi sulle Nuove Religioni, diretto dal sociologo delle religioni Massimo Introvigne – realizza una ricerca, poi pubblicata con il titolo La sfida infinita, per documentare la presenza delle nuove credenze e delle nuove appartenenze religiose nel Nisseno. Circa dieci anni dopo, nel 2005, lo stesso Cesnur pubblica un ulteriore volume, Identità e identificazione, per dare conto di un’analoga indagine dedicata all’entroterra palermitano e al territorio dell’arcidiocesi di Monreale, allora guidata dal compianto vescovo monsignor Cataldo Naro (1951-2006).
Sulla base di queste premesse, i ricercatori dell’équipe del Cesnur sono tornati nel 2008 in Sicilia, questa volta nel territorio della diocesi di Piazza Armerina, per svolgere un inventario delle presenze di religioni diverse dalla cattolica, che si è posto anche l’obiettivo di verificare se e cosa, in più di dieci anni, è cambiato in Sicilia. Il risultato di questa indagine – oggetto di un convegno, svoltosi il 2 dicembre al Museo diocesano di Piazza Armerina con Massimo Introvigne, nonché di una pubblicazione preliminare dal titolo La fatica della complessità – non è soltanto un’affascinante fotografia del pluralismo religioso nel XXI secolo in un angolo di Sicilia e d’Italia. La ricerca offre, infatti, anche la possibilità di riflettere su come questo pluralismo non rimanga uguale a se stesso, ma muti.
I risultati dell’indagine testimoniano una presenza articolata e per certi versi senza eguali in Italia, particolarmente per una presenza del pentecostalismo con cifre statistiche di assoluto rilievo, e aprono una nuova finestra sul pluralismo religioso in Sicilia, a partire dal caso dei dodici comuni che costituiscono la diocesi di Piazza Armerina. Di più, il lavoro di ricerca svolto ha permesso di pervenire a un quadro statisticamente e sociologicamente rilevante, con alcuni risultati per certi versi imprevisti e sorprendenti, che tuttavia costituivano l’ipotesi di partenza che tale indagine intendeva verificare: ovvero che il territorio rappresenta un caso forse unico non solo nel contesto siciliano o nazionale, ma probabilmente europeo.
In un territorio la cui superficie si estende su 2.003 chilometri quadrati, nel quale – secondo stime di fine 2007 – risiede una popolazione di 220.643 persone, sono state censite e documentate 28 realtà religiose di minoranza, che costituiscono un variegato pluralismo religioso. L’ambito di religiosità minoritaria più rappresentato entro i dodici comuni che costituiscono la diocesi è indubbiamente il cosiddetto “protestantesimo pentecostale”, che nella sommatoria delle quindici realtà individuate – Assemblee di Dio in Italia, Chiesa Cristiana Pentecostale Italiana, Congregazioni Cristiane Pentecostali, Kurion Iesoun, Chiesa Apostolica in Italia, Chiesa Apostolica Antica, Chiesa Evangelica Cristiana Pentecostale, Missione Popolare Libera, Comunità Cristiana, Chiesa sulla roccia, Ekklesia, Chiesa Evangelica Internazionale, Chiesa Evangelica della Riconciliazione, Missione Cristiana, Missione Cristiana Carismatica – totalizza 4.214 aderenti, ovvero il 55,3% del totale di appartenenti a minoranze religiose nel territorio e l’1,9% dell’intera popolazione.
Comprendendo il complesso mosaico delle realtà derivanti dal protestantesimo di matrice pentecostale, le realtà che derivano – direttamente o indirettamente, in forma implicita o esplicita – da un substrato dottrinale d’impronta cristiana costituiscono la quasi totalità assoluta del panorama religioso incontrato (87,7% delle minoranze, 3% della popolazione), mentre le altre minoranze religiose presenti totalizzano 935 aderenti, pari al 12,3% delle minoranze e allo 0,4% della popolazione.
Singolarmente considerati, i Testimoni di Geova costituiscono la seconda minoranza religiosa più rappresentata – dopo la Chiesa Cristiana Pentecostale Italiana, che da sola rappresenta il 22,4% delle minoranze e lo 0,8% della popolazione; anche questo un dato significativo, considerando che ovunque sul territorio nazionale i Testimoni di Geova rappresentano sempre la prima minoranza organizzata – con 1.610 “presenti alle adunanze”, pari al 21,1% del totale di appartenenti a minoranze religiose nel territorio e allo 0,7% dell’intera popolazione. Le 28 realtà religiose di minoranza totalizzano 7.626 aderenti e rappresentano una quota vicina al 3,5% della popolazione residente, contro una percentuale di circa il 2% riscontrata su scala nazionale: un dato quest’ultimo, è vero, che non includeva la presenza islamica – per le note difficoltà di effettuare una stima precisa dei musulmani in Italia –, la quale tuttavia nella considerazione del territorio della diocesi di Piazza Armerina non rappresenta che lo 0,3%, ovvero non modificando significativamente il valore della stima.
Oltre alla ricostruzione di fenomeni ben noti e discussi, anche a livello nazionale, come la “storica” presenza della Chiesa valdese a Riesi – che se ha avuto, e ha tuttora, un impatto socioculturale d’indubbio rilievo, tuttavia conta oggi solo un centinaio di membri –, la ricerca condotta dal Cesnur mette in luce il caso del tutto particolare relativo al comune di Gela dove, a fronte di 77.175 residenti, si contano circa 4.407 persone appartenenti a religioni di minoranza, pari al 5,7% della popolazione.
Così, in filigrana, la “fatica della complessità” si rivela duplice: la fatica sia di rilevare dati in una situazione di società complessa, sia di organizzare la convivenza a fronte di rapidi mutamenti nella composizione religiosa. Si ripropone così il quesito antico sul binomio “identità-identificazione”: quanto si riscontra a livello di appartenenza si traduce necessariamente in comportamenti? Tale dialettica, mentre pone problemi decisivi al sociologo, fa tornare chi si occupa di teologia e di pastorale a riflettere sul tema della nuova evangelizzazione.
Alberto Maira,La sfida del Pluralismo,Avvenire 7-12-2008,supplemento per la Sicilia e la Calabria,p.1

Torniamo ad evangelizzare ,anche con i Mass-Media
Di Sua Ecc.Rev.ma Mons.Michele Pennisi
Vescovo di Piazza Armerina

La recente ricerca sociologica del Cesnur nella diocesi di Piazza Armerina, pubblicata nel volume La fatica della complessità, che mette in evidenza la presenza del pluralismo religioso non soltanto nelle grandi aree metropolitane ma anche nelle zone periferiche, ha per la nostra Chiesa un indubbio interesse pastorale riguardante non solo il dialogo ecumenico e interreligioso ma anche le prospettive di una nuova evangelizzazione. Il pluralismo religioso rappresenta assieme un’opportunità e una sfida. Se da una parte documenta la presenza del senso religioso nella maggior parte della popolazione e favorisce un confronto leale e franco, dall’altra ci spinge ad interrogarci sul perché persone provenienti dal cattolicesimo siano passate ad altre religioni o ad altre confessioni cristiane. Dobbiamo rispondere con onestà alla domanda posta da Massimo Introvigne se la forza delle minoranze religiose non dipenda dalle debolezze della nostra Chiesa. Noi cristiani siamo chiamati a comunicare a tutti che Gesù Cristo è il figlio unigenito di Dio e l’unico salvatore di tutta l’umanità. Il Natale ce ne offre l’opportunità nella misura in cui non ci lasciamo abbagliare dalle luci e dai regali dimenticando il festeggiato, che non è uno dei miliardi di bambini venuti al mondo nella più estrema povertà, ma è la rivelazione definitiva dell’amore gratuito di Dio. Solo chi lo accoglie con fede viva nel proprio cuore e lo riconosce nei piccoli, nei poveri, nei malati, negli emarginati, negli stranieri, potrà dare gloria a Dio e sperimentare la vera pace. In questo Natale, in un clima di crisi economica e di conflittualità politica e sociale, siamo chiamati a educarci al dialogo, all’accoglienza e alla condivisione, alla mondialità. Il Natale ha la pretesa di fare luce sulla verità dell’uomo a partire dalla Parola incarnata di Dio, sorgente di amore, di libertà, di giustizia e di pace.
In quest’anno pastorale che la diocesi ha dedicato alla Parola di Dio siamo invitati a nutrirci della Sacra Scrittura per sperimentare una nuova primavera di santità e un rinnovato dinamismo missionario che dia spazio alla comunicazione, nei nuovi aeropaghi, della buona notizia dell’avvenimento di Dio che si è fatto uomo. I vari mezzi di comunicazione sociale sono una preziosa risorsa per la missione della Chiesa in quanto ci aiutano a leggere con gli occhi della fede i “segni dei tempi”. Per questo abbiamo fondato il nostro settimanale diocesano Settegiorni dagli Erei al Golfo. Il quotidiano Avvenire da quarant’anni con la sua originale lettura dei fatti costituisce un importante strumento culturale e un apprezzato punto di riferimento, che tutti dobbiamo valorizzare.

Il Natale in Sicilia.

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Il Natale in Sicilia è un evento di straordinaria importanza. Vissuto,nei secoli, nel suo genuino significato religioso,ossia l’incarnazione di Dio, ha dato vita nel tempo a tutta una serie di manifestazioni religiose,artistico-culturali,tradizioni popolari di cui ancora oggi rimangono segni evidenti.
A partire dalla novena in lingua siciliana scritta dal canonico monrealese Antonio Di Liberto,meglio conosciuto con lo pseudonimo di Binidittu Annuleru,dal titolo
U Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca San Giuseppi in Betlemmi.,
che da metà del 1700 si è diffusa in tutta l’isola ed ancora oggi viene cantata o nelle chiese o per le strade,nei giorni che preparano il Natale. O Giacomo D’Orsa, colto poeta di Piana dei Greci, vissuto tra il Seicento e il Settecento e autore di un altro importante componimento poetico natalizio, il Curteggiu di li Pastura a lu Santu Bambinu Gesù.
Ma la tradizione siciliana del natale ha creato,a partire sempre da metà ‘700 in seguito alle predicazioni itineranti dei vari ordini religiosi e sulla scia di quella napoletana,i presepi con i materiali propri dell’Isola. Da quelli raffinati e pregiati della tradizione trapanese in avorio e corallo, a quelli di Caltagirone in terra cotta colorata, da quelli palermitani creati con il favo d’api a quelli nisseni creati con il marmo. Inoltre sono stati usati,nel tempo,anche il legno, il vetro e la farina di grano per creare meravigliosi presepi.
Di antichissima tradizione è quello presente nella Cappella Palatina di Palazzo dei Normanni che raffigura la natività con la tecnica del mosaico.
A ciò si aggiunga l’addobbo delle tante cappelle votive,sparse per le vie delle città e dei tanti comuni dell’isola, con gli agrumi di stagione:arance,mandarini,limoni,cedri.
Non mancano le rappresentazioni del presepe con la tecnica dell’Icona presente soprattutto nelle chiese di rito bizantino di Mezzojuso e Piana degli Albanesi.
Inoltre,la tradizione siciliana ha sviluppato tutta una serie di dolci propri del tempo natalizio a base di fichi secchi,mandorle e altre elementi coltivati nell’isola.
Una raccolta di tutto ciò è egregiamente riportato nel volume in oggetto che si compone di due parti:i testi scritti sono ad opera del prof.Antonino Buttitta e le meraviglioso foto del fotografo Melo Minnella.

Antonino Buttitta-Melo Minnella,Feste Sacre in Sicilia, Natale in Sicilia (Vol I),Promo Libri,2003.

Margherita di Riccardo Cocciante

 

Io non posso
stare fermo
con le mani nelle mani
tante cose devo fare
prima che venga domani
E se lei sta già  dormendo
io non posso riposare
farò in modo che al risveglio
non mi possa più scordare
Perchè questa lunga notte
non sia nera più del nero
fatti grande dolce luna
e riempi il cielo intero
e perchè quel suo sorriso
possa ritornare ancora
splendi sole domattina
come non hai fatto ancora
E per poi farle cantare
Le canzoni che ha imparato
io le costruirò un silenzio
che nessuno ha mai sentito.
Sveglierò tutti gli amanti,
parlerò per ore ed ore
abbracciamoci più forte
perchè lei vuole l’amore
Poi corriamo per le strade
e mettiamoci a ballare
perchè lei vuole la gioia
perchè lei odia il rancore
Poi coi secchi di vernice
Coloriamo tutti i muri
case vicoli e palazzi
perchè lei ama i colori
Raccogliamo tutti i fiori
che può darci primavera
costruiamole una culla
per amarci quando è sera.
Poi saliamo su nel cielo
e prendiamole una stella
perchè Margherita è buona
perchè Margherita è bella
Perchè Margherita è dolce
perchè Margherita è vera
perchè Margherita ama
e lo fa una notte intera
Perchè Margherita è un sogno
Perchè Margherita è il sale
perchè Margherita è il vento
e non sa che può far male
Perchè Margherita è tutto
ed è lei la mia pazzia
Margherita è Margherita
Margherita adesso è mia.
Margherita è mia.
Margherita è mia.

La donna cannone di Francesco De Gregori

 

buttero’ questo mio enorme 
cuore tra le stelle un giorno 
giuro che lo faro’
oltre l’azzuro della tenda
nell’azzuro io volero’
quando la donna cannone
d’oro e d’argento diventera’
senza passare per la stazione
l’ultimo treno prendera’
e in faccia ai maligni e ai superbi
il mio nome scintillera’
dalle porte della notte
il giorno si blocchera’
un applauso del pubblico pagante
lo sottolineera’
e dalla bocca del cannone
una canzone suonera’
e con le mani amore
per le mani ti prendero’
e senza dire parole
nel mio cuore ti portero’
e non avro’ paura se non saro’
bella come dici tu
ma voleremo in cielo in carne ed ossa
non torneremo piu’uuuu . . . . . . . . .
e senza fame e senza sete
e senza ali e senza rete voleremo via
cosi’ la donna cannone
quell’enorme mistero volo’
tutta sola verso un cielo
nero nero si incammino’
tutti chiusero gli occhi 
nell’attimo esatto in cui spari’
altri giurarono e spergiurarono
che non erano mai stati li’
e con le mani amore
con le mani ti prendero’
e senza dire parole
nel mio cuore ti portero’
e non avro’ paura se non saro’
bella come vuoi tu
ma voleremo in cielo in carne ed ossa
non torneremo piu’uuuu . . . . . . . . .
e senza fame e senza sete
e senza ali e senza rete voleremo via
e senza ali e senza rete voleremo via

I Diritti Umani dei Pigmei.

– Africa: Missione Cuore per la Vita –

CAMPAGNA DI RACCOLTA FONDI PER VACCINAZIONI E AIUTI UMANITARI

ALLA POPOLAZIONE DEI PIGMEI DELLA FORESTA EQUATORIALI

– INVITO –

Mercoledì 10 Dicembre 2008

60° Anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani 1948/2008

Evento di Sensibilizzazione organizzato

da Ali per Volare e Missione in Web

dalle ore 9:30 Musica, Filmati e Testimonianze

presso il Centro “Gesù Liberatore” in Via Margifaraci – Palermo

INTERVERRANNO:

Padre Matteo La Grua (Guida Spirituale del RnS)

Don Fortunato Di Noto (Fondatore dell’Ass. Antipedofilia “Meter”)

Rino Martinez (Cantautore e Messaggerio di Pace nel Mondo)

Prof. Salvatore Li Bassi (Insegnante e Scrittore)

Prof. Giovani D’Alessandro (Docente dell’Acc. di Belle Arti di Palermo)

Personalità Istituzionali – Religiose – Civili – Militari

Scolaresche e Scuole di Ballo

Artisti del mondo dello spettacolo

___________________________________________________________________

– INVITO –

DAL 15 AL 21 DICEMBRE 2008

A PIAZZA POLITEAMA – PALERMO

“Il Gazebo della Solidarietà”

L’Associazione Missionaria Interculturale

“Ali per Volare” – ONLUS

SCENDE IN PIAZZA

per promuovere la Campagna di Raccolta Fondi

a sostegno della Missione Umanitaria

– Africa: Cuore pera la Vita –

INTRATTENIMENTO MUSICALE

DEL CANTAUTORE MISSIONARIO

Rino Martinez

VI ASPETTIAMO NUMEROSI

Uniti SI Vince

Rino Martinez e Fabrizio Artale

http://www.rinomartinez.com http://www.missioneinweb.it

Diritti umani,ma non per tutti.

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Il 10 Dicembre 2008 si celebrà il 60esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani,sospinti dalle terribili atrocità disumane che il mondo aveva vissuto durante il II conflitto bellico.Vi proponiamo un’intervista a Giuliano Ferrara sulle tematiche evocate dal 60esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani.

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Direttore, in questo 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani si resta colpiti dall’anacronismo del testo, tutto centrato sui diritti dell’individuo, mentre oggi si mette l’accento sui diritti delle categorie: le donne, i diversi, le comunità variamente intese. Allora non c’è un po’ di ipocrisia nelle attuali celebrazioni?
Ha ragione, ma gli anacronismi sono almeno due. Il primo riguarda il diritto alla vita, citato all’articolo 3 come diritto basilare. Però della vita non viene data una definizione. La dichiarazione è stata stesa cinque anni prima della scoperta del Dna e quindi non tiene conto delle conseguenze di questa scoperta per quanto riguarda la formazione e l’inizio della vita. Così come non tiene conto del fatto che la vita oggi può essere procreata in provetta, può essere fabbricata con modalità inedite. Anche per quanto riguarda la fase finale della vita, la “vita morente”, i mezzi attuali di sostegno e di cura e le conseguenze deontologiche per i medici non erano conosciuti. Né la discussione sulla morte cerebrale, base della pratica degli espianti. La dichiarazione è vecchia, non protegge la vita dalla formidabile capacità manipolatoria che si è poi affermata e che implica, sul suo versante negativo, la selezione eugenetica, sessista e razzista. Tutto questo la dichiarazione universale non lo affronta. Poi c’è la cosa che richiamava lei: oggi il diritto individuale come diritto universale si scontra con l’ideologia dei diritti umani, che è cosa diversa dalla teoria dei diritti umani. In Tom Payne e nella Costituzione americana i diritti sono fondati su una base creaturale, discendono dal modo in cui il Creatore ha fatto l’uomo. Oggi i diritti della differenza, cioè i diritti gay, i diritti di genere, l’affirmative action, sono fuori da quell’orizzonte e in parte lo contraddicono. Sono ideologia, sono falsa coscienza dei diritti umani. Certo, non esistono solo i diritti naturali, che siano di ragione o creaturali. Esistono anche diritti che si definiscono all’interno della storia della civilizzazione, e alcuni dei diritti che si rivendicano come diritti delle minoranze a me vanno anche bene, sono un progresso. L’importante è che questa nuova teoria dei diritti non tenda ad avvilire, a scompaginare i diritti naturali e l’antropologia su cui sono fondati. I diritti dei gay vanno bene se non diventano un attacco al matrimonio, il diritto per uomini e donne di condurre una vita libera va bene, ma non deve diventare uno scardinamento ideologico della nozione di famiglia.

Il linguaggio della dichiarazione universale in materia di diritto alla vita è anacronistico, ma anche i gruppi odierni di militanza per i diritti umani hanno una visione parziale di quel che è richiesto per la protezione della vita: chiedono l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo, ma non si pronunciano sull’aborto o sull’eutanasia.
Questa è l’ideologia di cui dicevo. Per celebrare seriamente il 60° anniversario della dichiarazione universale bisognerebbe avviare un serio lavoro di riflessione sulla definizione della vita, che oggi è astratta e prescinde dai concreti dati scientifici che nel frattempo sono stati acquisiti. Invece ci si concentra in modo ideologico sull’abolizione della pena di morte. L’abolizionismo è una posizione pienamente legittima, alla quale entro certi limiti anch’io aderisco. Però nel momento in cui ci si oppone alla pena di morte nei termini di una moratoria universale, se a questo non aggiungi una moratoria sull’aborto – che non significa reprimere penalmente l’aborto, ma vietare l’aborto di Stato selettivo, razzista e sessista, e promuovere politiche pubbliche costruite sulla necessità di scongiurare l’aborto – la tua posizione è di pura propaganda politica.

Il Pontificio consiglio per la giustizia e la pace vaticano scrive che la Dichiarazione è «un momento di fondamentale importanza nella maturazione, da parte dell’umanità, di una coscienza morale consona alla dignità della persona». Non è un po’ strano questo entusiasmo da parte della Chiesa, stante che il documento ignora i doveri dell’uomo e i diritti di Dio, e che l’articolo 18, quello sulla libertà religiosa, resta inapplicato soprattutto a danno dei cristiani?
Il Vaticano ha una sua logica diplomatica per quanto riguarda i rapporti con l’Onu. Negli interventi di certi suoi organi il contenuto di valore è subordinato alla disciplina diplomatica. Però il Papa nel suo incontro con gli ambasciatori nel gennaio scorso ha detto chiaramente che è ora di aprire una discussione sulla vita e sul suo valore proprio perché è stata approvata la moratoria sulla pena di morte, e ricordo molti interventi di vescovi su questa linea. Anche per quanto riguarda la libertà di religione, la Chiesa è sempre divisa fra lo spirito missionario a partire dal quale difende i cristiani d’Asia e d’Africa e contemporaneamente la necessità della Santa Sede di mantenere rapporti con i governi dei paesi in cui essi si trovano.

Nella sua lettera a Marcello Pera, pubblicata nell’introduzione del libro Perché dobbiamo dirci cristiani, Benedetto XVI scrive che non può esserci un liberalismo «senza radicamento nell’immagine cristiana di Dio», perché altrimenti il liberalismo si suicida. è giusto dire questo anche per quel che riguarda i diritti umani?
Indubbiamente. Pensiamo a John Locke. Era antipapista perché difendeva il pluralismo religioso come garanzia di pluralismo politico ed equilibrio fra i poteri dello Stato, ma nessun grande liberale, proprio a partire da John Locke, ha mai pensato che si potesse costruire un sistema di legittimazione anche solo giuridica – per non parlare di quella morale – del potere, dell’autorità, senza un riferimento chiaro e preciso a Dio o alla legge di natura o alla legge di ragione, che sono Logos e quindi sono Dio. L’oggetto proprio del libro di Pera è perfetto da questo punto di vista, le sue idee sono ampiamente condivisibili e sono state sempre predicate da quelli come noi che pensano non sia possibile fondare i diritti su altre basi che non siano quelle di un asse di trasmissione ereditario dei diritti. Questo asse poi può essere concepito direttamente come religione rivelata – i diritti esistono perché sono iscritti nelle Tavole insieme ai comandamenti e ai precetti, o in virtù del Genesi, cioè del fatto che gli uomini sono tutti discendenti di Adamo – oppure lo puoi interpretare in una forma più mediata dalla cultura e dalla storia della civiltà. Ma c’è sempre un elemento che dipende se non da una posizione esplicitamente teista, almeno da una posizione culturalmente cristiana: è Gesù Cristo che come fatto storico ha incarnato non solo l’umanità di un Messia nel nome del Padre, ma ha incarnato anche una lectio umana che ha avuto la forza e il vigore, dal discorso della Montagna ad oggi, che tutti sappiamo. Fuori da questo doppio orizzonte – Dio e suo Figlio incarnato in terra – mi sembra molto difficile fondare diritti. Ci hanno provato molti, ci hanno provato i positivisti giuridici, anche la Dichiarazione universale dei diritti umani in fondo è un tentativo in quella direzione, ma in tutto questo c’è l’imperfezione o comunque un debito non riconosciuto. Cioè tu scrivi un buon testo di diritti, ma è implicita la Grundnorm, la norma fondamentale che non ricavi da altre norme, ma dall’asse ereditario di cui dicevamo: ti viene dalla rivelazione o da una cultura, da un’antropologia.

John Locke era antipapista, invece Giuliano Ferrara si dichiara «papista non cattolico». Cosa significa?
Ho ripreso una battuta di Oscar Wilde, uomo di paradossi dandisticamente innamorato di quello che significava la bellezza, la potenza, la centralità della Chiesa di Roma. Io non sono un dandy ma ho usato quella battuta per contrappormi alle dottrine che oggi in un certo ambito cattolico parlano di «ipertrofia papale» o di «papolatria». Io non sono d’accordo, io penso che la Chiesa è sì grande perché ha forza di popolo, si poggia sull’intuito di fede della folla dei fedeli, ma è grande anche per questa reductio ad unum che è il Papa.
http://www.zammerumaskil.com/rassegna-stampa-cattolica/speciali/diritti-universali-ma-non-per-tutti.html

A Cruna…di Sara Favarò.

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Sara Favarò, nata a Vicari (Pa) , palermitana di adozione, è scrittrice, cantautrice, poetessa, ricercatrice di tradizioni popolari, giornalista e attrice.
Studiosa di tradizioni popolari, poetessa, scrittrice di saggistica e di narrativa, cantautrice, artista e interprete di quegli stessi componimenti da lei amorosamente studiati. Nel 2002 Sara Favarò pubblica un saggio dedicato ai canti popolari siciliani a tema religioso:Natale nei Canti polari siciliani,Poetica spontanea o vulgata catechesi?
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Grande “divulgatrice” di cultura, nel senso migliore del termine. Nel senso, cioè, della riproposizione e diffusione di un patrimonio etnomusicale che -tramandato attraverso i secoli – ora sembra incorrere nell’indifferenza e nell’oblio.
Eppure, si tratta di un patrimonio di musica e poesia estremamente ricco e complesso. Popolare, certamente, con riguardo alla sua diffusione e alle sue infinite varianti. Non già per l’origine. Lo chiarisce l’Autrice, con una bella metafora: “… Le preghiere e i canti popolari religiosi sono come fiumi che scendono a valle dividendosi o arricchendosi tra rivoli ed affluenti, ma che alla foce sono spesso originati da eruditi intelletti …”.
Come Antonio Di Liberto, il canonico di Monreale meglio conosciuto con lo pseudonimo di Binidittu Annuleru, autore del famoso U Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca San Giuseppi in Betlemmi. O Giacomo D’Orsa, colto poeta di Piana dei Greci, vissuto tra il Seicento e il Settecento e autore di un altro importante componi mento poetico natalizio, il Curteggiu di li Pastura a lu Santu Bambinu Gesù, qui pubblicato, come il precedente.
E cosi, tra ricostruzione filologica e disamina storico-critica si snoda l’excursus nel mondo dei canti devozionali della tradizione, con frequenti richiami all’interpretazione esoterica e numerologica – anch’essa, dunque, di matrice colta – delle strofe. Sullo sfondo, emerge l’importante azione di catechesi fra gli strati popolari condotta dalla Chiesa, ancor prima della Controriforma, grazie all’uso del dialetto in canti e drammatizzazioni. Riusciamo cosi a scoprire i canali di comunicazione attraverso i quali si da voce ad una fede semplice, che riflette modi di vita, sofferenze, sogni, delusioni e speranze di un piccolo mondo fatto di contadini, pastori, artigiani. Gli stessi che portano i loro modesti doni al Bambino appena nato, piangendo e scusandosi per la povertà dell’offerta (“… lagrimannu l’offeriu / nun aju autru, amatu Diu”), Gli stessi che si rivolgono a Dio, Gesù e alla Madonna come ad “entità profondamente umane e, come tali, soggette ad emozioni e sentimenti che in ogni caso i fedeli auspicano, cantano, supplicano attraverso la preghiera”,così come scrive l’autrice.
Adesso è la volta di un altro interessante volume denominato A Cruna.
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“Per anni l’autrice ha raccolto materiale sui Rosari siciliani. Ha ascoltato, registrato, consultato e studiato dal punto di vista della ricercatrice delle tradizioni popolari. Tutto il materiale raccolto è stato poi oggetto di comparazione e riportato – comprese le partiture musicali – in questo volume, indispensabile a chi vuole anche semplicemente comprendere quale cultura, quale tradizione si cela dietro una pratica oggi desueta, ma un tempo comune in tutte le famiglie siciliane, sia povere che patrizie: la recita del Santo Rosario.”

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Un’Antologia di rosari siciliani.

E’ forte in Sara Favarò l’esigenza di conservare la tradizione. Quella tradizione che un tempo si tramandava oralmente e che oggi, se non fosse per opere come la sua, finirebbe col cadere nell’oblio collettivo. Nel novero delle sue opere di raccolta e sistematizzazione di testimonianze del passato rientra ‘A Cruna (Città Aperta, pp. 300, euro 25), la prima antologia di rosari siciliani.

È molto raro ma non impossibile, imbattersi ancora oggi, in alcuni piccoli paesi della Sicilia, in gruppi di anziani radunati per calari la cruna (scorrere la coroncina). E sono stati questi anziani, insieme alle centinaia di altri anziani incontrati e intervistati dall’autrice nel corso di trent’anni di ricerche, che le hanno fornito il materiale utile alla stesura della raccolta. Il testo racchiude una ricca rassegna di rosari fedelmente trascritti così come venivano recitati un tempo, la traduzione in italiano e diverse piccole curiosità che gravitano intorno al rito di recitare insieme il rosario.

SANDRA VTALE

LA SICILIA del 22-1 1 —2008 p.32

«A Cruna», prima antologia di rosari siciliani.

PALERMO. (ala) Un ricordo infantile risvegliato da una litania recitata dai nonni materni. Un ritorno alle origini di quella lingua perduta usata per intonare i rosari. Una ricerca meticolosa, durata trent’ anni, ha registrato, trascritto, comparato e tradotto in italiano le preghiere siciliane degli anziani. 11 risultato è A Cruna, la prima antologia di rosari siciliani scritta da Sara Favarò e pubblicata da Città aperta edizioni e presentata all’archivio storico comunale di Palermo, «Una preziosissima indagine sul campo – sottolinea l’ assessore alla Cultura, Giampiero Cannella -,che coniuga aspetti scientifici ed esperienza vissuta, lavoro sulle fonti e contatti con le persone».

In alcuni casi le preghiere sono accompagnate da partiture musicali, «Per non far disperdere il suono delle litanie», spiega l‘autrice. A confluire nella raccolta anche parte del materiale del progetto «Un viaggio nella fantasia nella Valle del Torto e dei Feudi» raccolto dagli studenti di 13 Comuni della Provincia di Palermo che hanno intervistato genitori, zii e parenti per ricostruire preghiere, filastrocche e giochi in siciliano che altrimenti sarebbero andati perduti. Un’iniziativa che ha stimolato la curiosità dei giovani verso le proprie radici. Nei ricordi dell’autrice, andata via da Vicari (il paese

di provenienza) a  11 anni, la recitazione e i ritmi del rosario da parte della famiglia matriarcale al completo, riunita attorno al letto della bisnonna: «Era la Mamà granni, eredità linguistica di grand mère e della Magna Mater dei romani – sottolinea Favarò -, cioè la bisnonna, a dare l’intonazione e a declamare le preghiere, mentre gli altri le rispondevano in coro>. Un compito al quale nessun familiare si sottraeva, a parte il nonno paterno Ciccio «buon cristiano – aggiunge la scrittrice –

che però preferiva stare lontano dalle lunghe orazioni e che mi ripeteva spesso: Monaci e parrini, vinci a missa e stoccaci i rini! (Monaci e preti, assisti alla messa, ma stanne lontano)». Una tradizione linguistica che si è tramandata anche alla morte della bisnonna, ma che stava rischiando di essere smarrita. E così dalla ricerca, primo lavoro sistematico dopo le raccolte di Giuseppe Pitrè, sono emerse alcune scoperte, a partire dalla tipologia dei rosari dell’isola: «Sono diversi – specifica la scrittrice ’ come quello alla Madre Sant ‘Anna, che testimonia quanto l’elemento femminile sia preminente nelle preghiere popolari siciliane>’. E una smentita: che le orazioni siano il frutto di una fede spontanea. «Non furono create dal popolo, ma da chi aveva una profonda conoscenza dei testi sacri-spiega Favarò – ai popolo, in tempi di grande analfabetismo e di forte oralità, il compito di modificarli e diffonderli».

ANTONELLA LOMBARDI

GIORNALE Dl SICILIA 22-11 -2008 p.40

Più bella cosa di Eros Ramazzotti

 

Com’è cominciata io non saprei 
la storia infinita con te 
che sei diventata la mia lei 
di tutta una vita per me 
ci vuole passione con te 
e un briciolo di pazzia 
ci vuole pensiero perciò 
lavoro di fantasia 
ricordi la volta che ti cantai 
fu subito un brivido sì 
ti dico una cosa se non la sai 
per me vale ancora così 
ci vuole passione con te 
non deve mancare mai 
ci vuole mestiere perché 
lavoro di cuore lo sai 
cantare d’amore non basta mai 
ne servirà di più 
per dirtelo ancora per dirti che 
più bella cosa non c’è 
più bella cosa di te 
unica come sei 
immensa quando vuoi 
grazie di esistere… 
com’è che non passa con gli anni miei 
la voglia infinita di te 
cos’è quel mistero che ancora sei 
che porto qui dentro di me 
Saranno i momenti che ho 
quegli attimi che mi dai 
saranno parole però 
lavoro di voce lo sai 
cantare d’amore non basta mai 
ne servirà di più 
per dirtelo ancora per dirti che 
più bella cosa non c’è 
più bella cosa di te 
unica come sei 
immensa quando vuoi 
grazie di esistere…