S.Giuseppe 2015.

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Dalla Sicilia alla Puglia.La Festa di San Giuseppe.

talmus san giuseppe
volantinoSGiuseppe
talmus Sgarbi Musardo
Il volume è stato presentato dal Prof. Vittorio Sgarbi e dal Prof. Rodo Santoro su invito della Delegazione Sicilia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio e la TALMUS ART EDITORE il 18 marzo presso la Chiesa di San Nicolò daTolentino, a Palermo
Dalla Presentazione:
“Lo studio di questa particolare festa della tradizione religiosa cristiana è oggi più che mai prezioso perché compendia quella civiltà contadina che oggi rischia definitivamente di scomparire.
Un libro che ne racconta l’origine e l’evoluzione, è un’opera indubbiamente meritoria. Questo, in particolare, oltre al ricco corredo fotografico, costituisce, per il rigore scientifico e per la linearità della scrittura didattica che ne fa un libro di ampia divulgazione, un prezioso contributo alla conoscenza e all’approfondimento di San Giuseppe e dei riti religiosi a lui ispirati
. ” [Vittorio Sgarbi]

Dalla Sicilia alla Puglia la festa di San Giuseppe è una semplice raccolta di santini e immagini sacre riferite al santo di Nazareth? E’ il peregrinare faticoso per paesi e città alla ricerca del misto sacro-profano? E’ l’esercizio retorico culturale per ricostruire feticismi e misticismi profani e poplari? No. E’ la saggezza mirata a rivalutare un culto che è di popolo, che è di piazza, che è di fede, che è cultura, storia e arte, senza confusioni. E’ un capolavoro di immagini e di testi, freschi di stampa, uscito in questi giorni, e concepito da chi ne è stata la curatrice, la dottoressa Vincenza Musardo Talò, per volere di una giovane casa editrice pugliese, la Talmus Art. Il santo degli artigiani, degli operai e dei falegnami; della buona morte e della vita indissolubile chiamata matrimonio, conquista un posto d’onore nella iconografia, ma, anche, nella ripresa e rivalutazione di un culto molto diffuso in due regioni meridionali: la Sicilia e la Puglia. Due realtà lontane, ma affini, definite nel testo “regioni sorelle”, perché di esse è stato colto il senso vero di una appartenenza, di una identità consacrata nella icona di un santo che pulsa nel cuore dei due popoli, segnandone la storia, i ritmi, i passi, l’autenticità di una fede; di un connubio antico, nuovo, moderno, sancito, non solo da quel mare Mediterraneo che unisce, ma dalla sacralità di due mondi che si incontrano sull’altare dell’amore verso lo sposo di Maria Vergine.
Culti isolati, personali e soggettivi, ma, anche comunitari, collettivi nella espressione di Confraternite, sodalizi religiosi, Pie Unioni. Una coralità di cuore che esprime generosità e gratitudine, senza finzioni, senza ipocrisie, senza falsi ed inutili pudori, perché la fede autentica è quella che si manifesta e non quella che viene nascosta o repressa per rispetto umano. In questa opera nuova, non è da sottovalutare il coraggio mostrato da Vittorio Sgarbi, il quale ha saputo leggere i segni di un popolo, della gente autenticamente genuina; ha saputo intercettare le istanze di fede raccolte non in un crogiuolo, non in fazzoletto bagnato di lacrime, ma nello specchio di una vita, perché la vita di Giuseppe è stato specchio di fedeltà, di servizio, di obbedienza, di silenzio, di operosità. A questo meritorio lavoro va il plauso verso i tanti che hanno collaborato con la loro esperienza, con la loro voglia di ricercare, studiare, approfondire, conoscere e far conoscere il valore di un personaggio, staccato dal cuore della storia della Redenzione, per diventare medaglia di ogni singolo credente; di ognuno che ha sentito il bisogno del rifugio sicuro e sereno in colui che protesse nel rifugio del suo cuore immenso, la vita di Maria e di suo figlio, Gesù Cristo. Brevi considerazioni le nostre. Per meglio entrare nel clima di quest’opera, abbiamo affidato il compito alla sua curatrice, Vincenza Musardo Talò, che dobbiamo definire instancabile zelante e zelatrice di una missione.(Giuseppe Massari).

Partire per un viaggio – sia pure per immagini e narrati – nel magico labirinto di antichi sapori e colori delle solari regioni di Puglia e Sicilia, le due Terre più fascinose del Mediterraneo, cariche della voce dei secoli e laboratorio interculturale di civiltà lontane…
Viaggiare per antiche e nuove contrade, nella veste di umili pellegrini della cultura, per rivisitare uno dei più ricchi patrimoni di rituali, di cui si adorna la devozione popolare: la festa di S. Giuseppe…
Entrare, con rispetto, nella intima microstoria di tante comunità, che da secoli, con la tenacia della fede e l’umiltà dei semplici, affidano il loro vissuto al patrocinio potente di questo santo Patriarca…
Questi gli obiettivi del presente volume, accostato da studiosi di legittimato spessore scientifico e documentato da un corredo iconografico, proveniente dagli scatti artistici di esperti della fotografia o dalla istantanea e fresca foto-ricordo del devoto visitatore e del turista, unitamente ad alcuni rari esemplari di piccole immagini devozionali, riemersi da prestigiose collezioni private…
E il tutto sapientemente supervisionato dall’occhio “critico” di Vittorio Sgarbi: uno dei più stimati e accreditati studiosi di Estetica, nonché profondo e severo conoscitore dell’Arte, che la contemporaneità possa vantare. Il libro racconta l’origine e l’evoluzione della festa di San Giuseppe dalla Sicilia alla Puglia. Grazie alla ricca dotazione di illustrazioni, al rigore scientifico utilizzato nella descrizione e la linearità della scrittura didattica, il libro è adatto ad un’ ampia divulgazione, ed è un prezioso contributo per far conoscere ed approfondire il culto di San Giuseppe.

D. Fra i tanti santi, perchè una ricerca e uno studio monografico sul culto riservato a San Giuseppe e una presentazione affidata ad un critico d’eccezione quale è Vittorio Sgarbi?

R. La volontà di realizzare un volume di studi e ricerche sul culto popolare di san Giuseppe nel Mezzogiorno d’Italia era da tempo fra le pieghe programmatiche della Casa Editrice TALMUS ART, che ha voluto affidarmi il progetto, libera di impiantarlo e strutturarlo al meglio. Un personale interesse sul culto e le tradizioni della festa del Santo, in termini socio-antropologico-culturale e religioso, mi hanno indirizzato in tal senso. Il pensare al prof. Sgarbi non solo come attore della Presentazione al volume, ma anche come co-autore, è dipeso dal desiderio di avere all’interno del volume, scritto da accreditati autori vari, una voce autorevole, un intellettuale di rilievo che accompagnasse il lavoro di tanti. Fuori da ogni retorica, abbiamo apprezzato il suo gesto generoso e tutti gli Autori gli sono grati. E’ inutile, poi disquisire sul valore del suo contributo, offerto al volume, circa l’iconografia Giuseppina nell’arte colta.

D. Perchè il riferimento solo a due regioni meridionali e non ad altre?

R. La volontà ad accostare una ricerca fondamentalmente sulle due regioni Puglia-Sicilia, trova giustificazione nel fatto che a noi questo binomio è sembrato essere il più esaustivo per raggiungere le finalità del volume stesso. E’ incredibilmente fascinoso e suggestivo il patrimonio di storia e di tradizioni su san Giuseppe fra le strade delle tante luminose civiltà che hanno attraversato queste due regioni-sorelle. E il volume ne dà ampiamente conto.

D. Considerando la diversità e la distanza dei luoghi presi in esame, cosa accomuna realtà territoriali e geografiche diverse tra loro per questa devozione?

R. Le connotazioni essenziali che accomunano queste due Terre solari e ricche di tanta laboriosa umanità, si riscontrano in quella tenace e caparbia volontà a mantenere, tutelare e valorizzare un’antica devozione, una testimonianza di fede dei Padri, i quali affidarono al Santo degli umili, dei poveri, del silenzio e del nascondimento, le angosce e le paure di una quotidianità sofferta e sofferente.

D. Fra i tanti santi, perchè una ricerca e uno studio monografico sul culto riservato a San Giuseppe e una presentazione affidata ad un critico d’eccezione quale è Vittorio Sgarbi?

R. La volontà di realizzare un volume di studi e ricerche sul culto popolare di san Giuseppe nel Mezzogiorno d’Italia era da tempo fra le pieghe programmatiche della Casa Editrice TALMUS ART, che ha voluto affidarmi il progetto, libera di impiantarlo e strutturarlo al meglio. Un personale interesse sul culto e le tradizioni della festa del Santo, in termini socio-antropologico-culturale e religioso, mi hanno indirizzato in tal senso. Il pensare al prof. Sgarbi non solo come attore della Presentazione al volume, ma anche come co-autore, è dipeso dal desiderio di avere all’interno del volume, scritto da accreditati autori vari, una voce autorevole, un intellettuale di rilievo che accompagnasse il lavoro di tanti. Fuori da ogni retorica, abbiamo apprezzato il suo gesto generoso e tutti gli Autori gli sono grati. E’ inutile, poi disquisire sul valore del suo contributo, offerto al volume, circa l’iconografia Giuseppina nell’arte colta.

D. Perchè il riferimento solo a due regioni meridionali e non ad altre?

R. La volontà ad accostare una ricerca fondamentalmente sulle due regioni Puglia-Sicilia, trova giustificazione nel fatto che a noi questo binomio è sembrato essere il più esaustivo per raggiungere le finalità del volume stesso. E’ incredibilmente fascinoso e suggestivo il patrimonio di storia e di tradizioni su san Giuseppe fra le strade delle tante luminose civiltà che hanno attraversato queste due regioni-sorelle. E il volume ne dà ampiamente conto.

D. Considerando la diversità e la distanza dei luoghi presi in esame, cosa accomuna realtà territoriali e geografiche diverse tra loro per questa devozione?

R. Le connotazioni essenziali che accomunano queste due Terre solari e ricche di tanta laboriosa umanità, si riscontrano in quella tenace e caparbia volontà a mantenere, tutelare e valorizzare un’antica devozione, una testimonianza di fede dei Padri, i quali affidarono al Santo degli umili, dei poveri, del silenzio e del nascondimento, le angosce e le paure di una quotidianità sofferta e sofferente.

D. Quanto la iconografia dei santini, predisposta da Stefania Colafranceschi, ha contribuito alla buona riuscita dell’impresa?

R. Attraverso un variegato universo di costumanze e tradizioni comuni, il volume legge anche un aspetto delicato e intimo della devozione popolare a san Giuseppe, raccolto e testimoniato nei santini di una volta e magistralmente esemplato nella ricerca di Stefania Colafranceschi. A guardarli, questi minuti miracoli di carta, si coglie il delicato sentire delle folle devote dinanzi a una iconografia certamente popolare, ma capace di un trasporto di emozioni e di fede robusto verso il Santo che dopo Gesù e Maria fu il terzo protagonista del progetto salvifico dell’Altissimo. E voglio anche evidenziare l’impegno e l’attenzione delle confraternite di san Giuseppe, da sempre tese a mantenere e veicolare una devozione fatta di rituali segnici, che accompagnano la religiosità popolare nell’alveo sicuro della liturgia, nel mentre si mostrano degne custodi di un prezioso serto di valori e ideali del vivere umano, tanto magistralmente esemplato nella vita del Santo falegname di Nazaret. Ma, nel complesso, l’intero lavoro di studi e ricerche, depositato e offerto in questo volume, si configura come un’occasione di affettuosa condivisione di tante testimonianze di fede in san Giuseppe, comuni non solo in Sicilia e in Puglia, ma sparse per tutte le strade dell’ecumene, là dove è caro il nome di questo Santo patrono della Chiesa Universale.
(Intervista alla Prof.ssa Vincenza Musardo Talò a cura di Giuseppe Massari).

Volume rilegato con copertina telata e sovracoperta con impressioni in oro.
carta patinata lucida 200gr/mq interamente a colori riccamente illustrato,
208 pag. formato 21×30 e elegante custodia con impressione in oro.
É un regalo per lo studioso e il cultore di tradizioni popolari.
É un regalo per la festa del Papà e uno strumento di promozione turistica

Sommario
Presentazione [Vittorio Sgarbi]
Nota del curatore [V. Musardo Talò]
Parte prima: Sicilia. Terra di san Giuseppe
La festa di san Giuseppe: geografia cultuale in Terra di Sicilia [D. Scapati]
Tra miti e credenze. Patronage giuseppino nelle contrade siciliane [C. Paterna]
I pani merlettati di Salemi, capitale del culto siciliano in onore di san Giuseppe [P. Cammarata]
Pietanze della tradizione nelle tavolate di Vita e dintorni [S. Fischetti e AA.VV.]
Parte seconda: Puglia. Omaggio a san Giuseppe
La Puglia per san Giuseppe. Storia e devozione [V. Fumarola]
A oriente di Taranto, cuore pugliese del culto giuseppino [S. Trevisani]
San Giuseppe nel Salento: riti e tradizioni [E. Imbriani]
Architetture dell’anima: i magici altarini di san Giuseppe [V. Musardo Talò]
Asterischi
Iconografia giuseppina nell’arte colta [V. Sgarbi]
Dalla Sicilia alla Puglia:
le Confraternite di san Giuseppe custodi della religiosità popolare [V. Musardo Talò]
“A Te, o beato Giuseppe…”: il culto di san Giuseppe nei santini [S. Colafranceschi]
Autore :Autori Vari.
presentazione di Vittorio Sgarbi
Edizione: Talmus-Art – 2012
ISBN 9788890546075
Prezzo 54,60 euro

Piatti tipici siciliani.


La foto del “Tagano” è della Dott.ssa Silvia Crucitti:www.kitchenqb.it
Pane Nero di Castelvetrano La forma è quella di una pagnotta rotonda, che in siciliano si chiama vastedda, la crosta è dura e color caffè (cosparsa di semi di sesamo), la pasta è morbida e giallo grano. Celebre in tutta la Sicilia, il pane di Castelvetrano è diventato negli anni sempre più raro e ha rischiato addirittura di scomparire per la sua particolarità di essere cotto esclusivamente nei forni a legna.
Il suo colore deriva dalla materia prima. Si impasta con due farine, quella di grano biondo siciliano (duro e integrale) e quella ricavata da un’antica varietà di frumento locale, la tumminìa. Ed è proprio grazie alla rarissima tumminìa che il pane di Castelvetrano diventa nero e straordinariamente dolce e gustoso, con profumi intensi e un particolare aroma di tostato. Gli altri ingredienti sono acqua, sale e lievito naturale (lu criscenti, la madre). Prima della cottura l’impasto deve lievitare a lungo.
Ogni fornaio ha un vecchio magazzino ben areato dove far seccare la potatura degli olivi. Le fronde servono per alimentare i forni di pietra. Il fuoco – vivace e brillante – arroventa le pareti e la temperatura, nel punto più alto, raggiunge i 300°C. A fiamme spente si ripulisce accuratamente il forno con una scopa di palma nana (curina) dal manico molto lungo e si inforna il pane, che cuoce lentamente e senza fuoco diretto via via che la temperatura decresce. Quando il forno si è raffreddato, il pane è cotto.
Il Presidio ha riunito i panificatori in un piccolo consorzio e ora lavora in collaborazione con il Consorzio Ballatore per ricostruire l’intera filiera: incrementando la coltivazione della varietà locale di grano (la tumminìa), e ridando un po’ di ossigeno ai numerosi mulini a pietra locali, attualmente sottoutilizzati.
La tradizione vuole che il pane nero di Castelvetrano appena sfornato e ancora caldo sia diviso in due e conciato con olio extravergine (meglio se della locale Nocellara del Belìce), sale, origano, pomodoro a fette, formaggio tipico della zona (primosale o Vastedda), acciughe o sarde diliscate e basilico. Una colazione o un pasto straordinario. Quando è fresco ha note tostate nettissime al naso, quasi di malto e di mandorla tostata, che si uniscono al leggero sentore aromatico del legno di olivo al cui fuoco viene cotto.

Area di produzione
Comune di Castelvetrano (provincia di Trapani).

Pane Fritto
E’ una preparazione che ormai sta scomparendo dalle tavole siciliane, lasciando il posto a tartine e bruschette, che, per carità sono buone, ma non hanno quella forte connotazione della cucina povera siciliana Per me è una delle cose più buone che possano esistere: sarà perchè legata ai ricordi di infanzia. Anche questa ricetta serviva a recuperare e a non buttar via il pane raffermo di 2-3 giorni. La particolarità di questa ricetta semplicissima è che da infinito spazio alla fantasia. Infatti una volta preparato il pane fritto, lo può condire come vuoi, puoi farne un appetizer salato o un dolce per la merenda.
Ingredienti per 4 persone
10-12 fette di pane raffermo(quello di pasta dura modicano sarebbe l’ideale, ma…)
latte
olio extravergine d’oliva
Preparazione
In una teglia larga adagiare le fette di pane e bagnarle con il latte e farle ammorbidire. Attenzione a non versare troppo ltte perché, poi, le fetto potrebbero disfarsi.
Sgocciolate le fette di pane dal latte in eccesso e ponetele in una padella in cui avrete fatto scaldare l’olio d’oliva.
fatele friggere dorandole uniformemente da ogni parte; quindi mettetele su un piatto con carta assorbente da cucina per elimare ogni eccesso d’olio.
Ora non resta altro che dare sfogo alla vostra fantasia.
se volete consumarlo nella sua versione salata basta salare ogni fetta, metterci sopra una fettina di mozzarella ed una spolverata d’origano, oppure adagirvi una piccola fetta di mortadella o salame, o una fettina di ricotta ed un tocchetto di salame, o ancora, per chi le ama, una fettina di formaggio forte ed un filetto d’acciuga.
Se invece ne volete fare un dolcetto sfizioso potete solo spolverarlo di zucchero, oppure spalmare le fette con miele o marmellate varie, o preparare della ricotta dolce e con questa spalmare le fettine, magari grattugiandovi sopra del cioccolato fondente.

Tagano (Aragona)
Ricetta
tortiglioni 1kg
uova 30 (grandi)
tuma siciliana 700g
prezzemolo un mazzetto
pepe nero macinato 80g
caciocavallo grattugiato 250g
brodo vegetale 500ml
sale qb
olio qb
farina qb
Cuocere in abbondante acqua salata i tortiglioni portandoli a mezza cottura. In un grande recipiente rompere le uova aggiungere una bella presa di sale, il prezzemolo tritato e aiutandovi con delle fruste lavoratele in modo da amalgamare il tutto. Tagliare a fette la tuma e metterla da parte. A questo punto prendete un tegame (30cm di diametro 30cm di altezza) spennellatelo con l’olio e passate la farina nel suo interno facendo in modo che aderisca in tutte le pareti della pentola. Scolare la pasta e passarla per un attimo sotto un getto d’acqua fredda per fermare la cottura. Allora nel tegame cominciate ad assemblare a strati gli ingredienti: uno strato di pasta, il caciocavallo grattugiato, una presa di pepe, due mestoli di composto di uova e a coprire le fette di tuma. Continuare con questa sequenza fino a raggiungere l’altezza dei manici del tegame (si sconsiglia di formare gli strati fino all’orlo del tegame perchè in forno gonfia un pò). L’ultimo strato fatelo solo con pasta e il composto di uova. Una volta finiti gli strati aggiungete a filo lateralmente al tegame il brodo vegetale, se ne dovrebbe prendere circa mezzo litro. Il brodo non deve coprire tutto, muovendo il tegame si deve vedere appena. Preriscaldate il forno a 180°/200° e cuocetelo per due ore circa utilizzando il forno in modalità normale. Sformare e mettere in un piatto servire tiepido o freddo.
Note: Esistono delle versioni di tagano, se non sbaglio proprio quella originale, con delle polpettine di carne nel suo interno. Colgo l’occasione per ricordarvi che per chi fosse interessato ad assaggiarlo e si trova dalle parti di aragona (Ag) nel periodo di Pasqua può andare a vedere la sagra del tagano.

Babbaluci a picchipacchi
Ingredienti:
babbaluci (cioè lumachine, non crastuna) – pomodori maturi – cipolle – olio di oliva – crusca – sale e pepe.

Mettere le lumache in una scatola di cartone bucherellata, con un po’ di crusca sul fondo al fine di farle spurgare per una intera settimana.
Oppure acquistarle già spurgate.
Quindi lavarle in acqua corrente e poi in acqua e aceto, cambiandola spesso, finchè non faranno più schiuma.
Metterli in una pentola, coprirli con acqua e farli cuocere a fuoco lento.
Intanto, in un tegame si sarà fatto appassire nell’olio la cipolla tritata e i pomodori a tocchetti. Salare, pepare e lasciare cuocere per 15 minuti circa. Versare la salsa ottenuta sulle lumache ben sgocciolate, e cuocere ancora, mescolando il tutto per almeno altri 5 minuti. La variante più nota e maggiormente adoperata nel palermitano, spesso nel periodo di ferragosto, è quella dei babbaluci fatti solo con aglio e prezzemolo.

Pasta alla Norma
Ricetta tradizionale della pasta alla norma:

Ingredienti per 4 persone:
400 gr di spaghetti
800 gr di pomodori perini
2 melanzane
50 gr di cipolle
9 cucchiai di olio extravergine d’oliva
2 spicchi d’aglio
qualche foglia di basilico
sale e pepe q.b.

Preparazione:

Per il sugo di pomodoro: scottate brevemente i pomodori in acqua bollente, passateli sotto l’acqua fredda, pelateli, divideteli a metà, togliete i semi e tagliate la polpa a dadini. Sbucciate le cipolle e l’aglio e tritateli finemente. Scaldate in una pentola 4 cucchiai d’olio e soffriggetevi leggermente la cipolla e l’aglio; aggiungete i pomodori, condite con sale e pepe e fate bollire finchè il liquido è quasi completamente evaporato.
Lavate le melanzane e tagliatele a fette spesse 1 cm., mettendole per un’ora in un tegame forato con una spolverata di sale fra una fetta e l’altra e un peso sopra in modo che perdano il succo amaro. Poi lavatele bene e premetele fra le mani per far uscire il liquido residuo. Conditele quindi con sale e pepe. In una padella scaldate il restante olio e doratevi da ambo i lati le fette di melanzana finchè diventano croccanti.
Cuocete gli spaghetti al dente in acqua salata, scolateli e conditeli con il sugo di pomodoro. Disponete la pasta nei piatti, condite col sugo e sistematevi sopra le fette di melanzana. Cospargete con le foglie di basilico e servite ben caldo.

Pasta alla trapanese

Ingredienti sono: pomodorini, aglio a piacere di solito 1 spicchio a testa, basilico, mandorle, olio.
Preparazione: frullare il tutto, (nella ricetta tradizionale bisognerebbe usare il mortaio si pesta prima l’aglio si aggiunge il basilco, le mandorle, l’olio e poi alla fine i pomodorini)
Chi vuole può aggiungere mentre si frulla del pecorino.
Tumazzu di pecura ccu pipi (o pecorino pepato)
Materia prima: vedasi tumazzu di piecura.

Tecnologia di lavorazione: vedasi tumazza di piecura. Nella fase di sottrazione del siero vengono però aggiunti grani di pepe nero. Più raramente può trovarsi un prodotto con aggiunta di pecorino rosso essiccato e frantumato. In questo caso si mangia fresco come un “primosale”.

La cucina siciliana!

Nel corso della storia diverse sono state le civiltà che si sono succedute in questa grande e splendida isola: Elimi, Punici, Greci. Normanni, Romani, Arabi, Spagnoli s Francesi hanno lasciato importanti tracce del loro passaggio e la cucina siciliana così colorata, speziata e sfarzosa è strettamente collegata alla vicende storiche, culturali e religiose di tutti questi popoli.
Della civiltà greca rimangono soprattutto la cottura alla griglia, l’uso dell’origano, delle olive e l’ estensivo utilizzo di verdure quali la melanzana, regina della cucina siciliana. Gli Arabi erano un popolo di grandi agricoltori e introdussero in Sicilia la coltivazione della canna da zucchero, del riso e quella degli agrumi.
L’influenza araba si riscontra principalmente nella pasticceria, la cassata stessa,dolce tipico della Sicilia, deve il suo nome dal termine arabo “quas’at” (casseruola) che indica lo stampo di forma rotonda che si utilizza per prepararla. Anche il termine marzapane deriva dall’arabo “mauthaban”. La cultura gastronomica regionale della Sicilia è molto complessa e articolata, ricca di sapori antichissimi e di ineguagliabili profumi. In nessun luogo al mondo la cucina è mai stata cosi “povera ma ricca” nello stesso tempo. Poveri sono gli ingredienti che questa terra e il mare che la circonda offrono così generosamente e ricca invece la fantasia e la varietà. Una cucina, quella siciliana, che è sempre stata una vera tentazione per gli occhi e per il palato, capace di sedurre e soddisfare tutti i gusti dai più classici ai più stravaganti. Una cucina di volta in volta reinterpretata dai popoli che qui lasciavano qualcosa di loro e prendevano qualcosa di questa straordinaria terra.
Una terra che grazie ad uno splendido clima e ad un terreno ricco di minerali favorisce l’agricoltura fornendo prodotti con i quali è un piacere sbizzarrirsi in cucina. Parliamo dei saporitissimi agrumi di Ribera, delle nocciole di Piazza Armerina, dei fichi d’India dell’Etna, delle mandorle d’Avola, dei pistacchi di Bronte, delle lenticchie di Ustica, dei pomodori di Pachino, dei capperi di Pantelleria.
Uno spazio a parte va riservato alla coltivazione di olio e vino. Nell’ isola non c’è provincia da Selinunte alle pendici dell’Etna, dove non si produca olio che è la base della maggior parte dei condimenti, essendo la cucina siciliana quasi totalmente priva di grassi animali. L’olio siciliano è un olio molto ricco, denso, leggermente salato con un retrogusto amarognolo. In tempi recenti si è cominciato a produrre olio nell’isola di Pantelleria dove gli ulivi, della varietà “biancolella”, crescono fra le rocce laviche e danno un olio molto delicato e leggero con retrogusto di mandorla.
La vite è presente nella maggior parte del bacino del Mediterraneo sin dai tempi più remoti e la Sicilia grazie alla temperatura mite, alle colline, alla brezza di mare e al sole caldo risulta il territorio ideale dove farla crescere.
La tradizione vinicola siciliana affonda le sue radici sin dall’ epoca della colonizzazione dei greci che, arrivati a Naxos,(la greca Taormina) si occuparono con dedizione a questa coltura. In seguito grazie agli scambi commerciali dei Fenici, risaputi navigatori e mercanti, i vini siciliani vennero conosciuti in tutto il mondo. La vite in Sicilia fornisce uve per vini forti e densi molto apprezzati che sono il risultato di una produzione di alta qualità tanto che diversi vini siciliani hanno ottenuto la Denominazione d’ Origine Controllata e Garantita (DOCG). La produzione di vini siciliani con uve autoctone va dai secchi bianchi della zona di Alcamo, ai rossi dalla parte meridionale dell’ Isola ai vini tratti da uve passite e molto zuccherine quali il Passito di Lipari e il più famoso Marsala. Il Marsala è un vino molto pregiato conosciuto e apprezzato già nel 1800. Ha alle spalle una lunga storia che non l ha però preservato da un periodo di ombra in cui venne un po’ declassato. La zona di produzione di questo vino è racchiusa nella provincia di Trapani. Il gusto del Marsala può essere dolce liquoroso, semisecco o secco a seconda dell’ anno di invecchiamento e della lavorazione. Vini molto importanti e corposi sono quelli prodotti dalle aziende vinicole dell’area dell’ Etna che comprendono il Bianco, il Rosso e il Rosato. I vini nati sulle pendici del grande vulcano hanno la particolarità di essere ottenuti da uve ricche in nutrienti grazie al terreno lavico.
Altro vino rappresentativo siciliano è lo Zibibbo originario dell’ Egitto e diffuso in Italia grazie ai Romani, deve il suo nome al termine arabo “zibibb”, uva secca. E’ disponibile in versione vino Moscato e vino liquoroso.
Oggi i liquori e i rosoli, prodotti seguendo le “ricette della nonna”, sono stati riscoperti dopo un periodo in cui sono stati bistrattati in quanto considerati di poco valore. Sono stati recuperati i liquori di frutta come quello di agrumi, di menta, di susine, di fragole, il famoso nocino e il liquore al caffè. Seguendo antiche ricette dei monaci si producono amari centerbe o il celebre liquore all’ anice.
Non si può parlare di Sicilia senza pensare al profumo dei suoi agrumi. La loro coltivazione ha una storia importante, introdotta in Europa dall’ Oriente intorno al 1100, raggiunge il massimo livello in Sicilia nel XVIII-XIX secolo e dopo le due guerre quando si ebbe un aumento della disponibilità di acqua per l’irrigazione.
In passato il periodo della raccolta degli agrumi equivaleva ad un periodo di grande benessere per tutti, dai padroni che vedevano il risultato dei loro investimenti, ai lavoratori impegnati nella raccolta e nel trasporto dei frutti dorati. Dopo duecento anni gli splendidi e profumatissimi agrumeti siciliani continuano a fornire agrumi di ottima qualità quali clementine, mandarini, limoni, pompelmi, bergamotti e le inconfondibili arance nelle varietà Sanguinello, Ovale, Moro e le succosissime Tarocco.
Le caratteristiche nutritive degli agrumi li rendono uno degli alimenti principali per conservare una buona salute soprattutto per l’alto contenuto di vitamina C. In cucina gli agrumi trovano largo utilizzo, dai dolci per cui vengono usate le scorze candite, alle insalate fino a piatti più elaborati come la gelatina di mandarini o la crema di limoni senza contare che sono un ottimo condimento per piatti di carne e pesce.
Uno degli ingredienti principali della cucina siciliana è sicuramente il cappero cioè il bocciolo del fiore del cappero ancora chiuso. Cresce bene in terreni di origine vulcanica come nelle isole di Salina e Pantelleria. I capperi vengono lavorati e portati sul mercato sotto sale marino, in salamoia e sott’aceto.
Una grande importanza nella tradizione della cucina siciliana rivestono il pane e la pasta, un po’ bistrattati negli ultimi tempi per via delle diete, ma parte importantissima della maggior parte dei pasti di una volta dei quali spesso costituivano il piatto unico.
Il pane fresco di forno si consuma volentieri con l’aggiunta di acciughe, aglio e dell’ ottimo olio d’ oliva mentre, indurito, diventa la base di molte zuppe calde di verdure. Il pane bianco è spesso cosparso di semi di vario genere dal sesamo ai semi di papavero che lo rendono speciale. Infine le pagnotte vengono consumate con ripieni di carne, formaggio o creme dolci di ricotta e pezzi di cioccolato.
La regina indiscussa della cucina siciliana, come peraltro della dieta mediterranea, è sicuramente la pasta; fresca, lunga o corta si presta a molteplici ricette che vanno dal semplice condimento di aglio, olio e peperoncino ai sughi ricchi di ortaggi e verdure dell’ isola, ai formaggi. al pesce e alla carne. Così arricchita la pasta costituisce spesso il piatto principale e unico del pasto.
Condimento ideale e salutare della pasta rimane il pomodoro e in particolare il “pomodoro ciliegino di Pachino”, un piccolo pomodoro a grappolo dall’ inconfondibile profumo.
La zona di produzione di questo tipo di pomodoro è la zona che comprende il comune di Pachino appunto, la zona di Capo Passero e parte dei territori dei comuni di Noto e Ispica.
Questa zona di produzione è caratterizzata dalla vicinanza del mare e quindi da un clima dalle temperature molto alte e sole praticamente tutto l’anno. Le prime coltivazione di pomodoro in questa zona risalgono alla prima metà del 1900 anche se solo nel 2003 ha ottenuto il riconoscimento della certificazione IGP. E’ risaputo che jl pomodoro ha importanti proprietà nutritive tra cui l’ apporto di vitamina A e C, e di potassio. E’ divenuto ormai simbolo della dieta mediterranea e si presta a varie preparazioni dai piatti freschi, alla pizza e naturalmente la pasta.
Affianca la pasta il riso, importato in Europa dall’Oriente, anche se più che come primo piatto, come nel nord Italia, viene usato come base per crocchette, arancinj e dolci.
Essendo la Sicilia circondata da tre mari non può che utilizzare in abbondanza per la sua cucina i prodotti ittici presenti in gran quantità lungo la costa catanese, nella zona delle isole Eolie ed Egadi. Allo straordinario “pesce azzurro” (sarde, acciughe, sgombri, pesci spada e tonni) si
aggiungono dentici, orate, gamberi, scampi, aragoste e astici.
Il pesce spada, ritenuto il re dei pesci, si presta a diverse preparazioni e si può gustare crudo in carpaccio, cotto al forno, in umido o fritto, costituisce sempre un ottimo secondo piatto genuino e leggero.
Il tonno che si pesca con tecniche che seguono tradizioni e metodi tramandati dagli arabi, soprattutto nell’isola di Favignana nel trapanese, dove ha sede la tonnara più grande d’ Europa, era considerato la carne dei poveri in quanto non si buttava mai via nulla. Come il pesce spada, il tonno è cucinato in vari modi, grigliato, fritto, cotto al forno o lessato e viene conservato affumicato o sott’olio. Con le uova di tonno si ottiene la bottarga da gustare grattugiata sulla pasta. Il tonno siciliano è più magro rispetto ai tonni pescati nel nord Europa ed è quindi indicato anche nell’ alimentazione dei più piccoli. Una della più caratteristiche ricette a base dì tonno è il ragù, tipico piatto della tradizione culinaria trapanese.
Le oggi famose zuppe di pesce sono un’ eredità degli Spagnoli, cariche di sapori e condite in vari modi risultano sempre un piatto ricco e molto apprezzato da tutti. Mentre il cuscus di pesce oggi piatto tipico del trapanese è decisamente di origine araba anche se nel nord Africa è molto più consumato il cuscus di carne.
La carne bovina non ha un grande impiego nella cucina siciliana in quanto i pascoli sono sempre stati scarsi e quindi le carni non risultavano particolarmente pregiate.
Si consumano maggiormente carni di ovini, suini, pollame e conigli più facili da allevare un po’ ovunque. La cottura della carne è molto varia, come per il pesce, si va dalla semplice e veloce cottura alla griglia fino alle lunghe cotture in tegame in umido arricchite da verdure e spezie. Una valida alternativa ai secondi di pesce o carne e senza dubbio costituita dai formaggi che sono il frutto dell’ antica e ricca tradizione casearia siciliana che impiega latte vaccino, di pecora e di capra per la produzione di ricotta, primo sale, pecorino, provola e caciocavallo. I primi dati storici che riportano notizie sul formaggio siciliano risalgono ai tempi del mondo greco classico.
I formaggi siciliani sono caratterizzati da un’ alta qualità che li distingue. E’ un alimento molto importante a livello nutritivo in quanto fornisce calcio, proteine e fosforo necessari all’ organismo umano.
Vista l’ alta percentuale di calorie e di colesterolo contenuta nei formaggi stagionati è auspicabile non associano ad altri cibi ricchi in proteine animali come uova e carne. Elencare tutte le varietà di formaggio prodotto in Sicilia è un’ impresa alquanto difficile, si va dai formaggi pregiati come il “fiore sicano”, al “maiorchino” di latte di pecora a quelli più conosciuti e diffusi come il “ragusano” dop, un formaggio a pasta filata che si ottiene dalla lavorazione del latte intero di mucche della razza modicana allevate allo stato brado. Spesso al latte vengono aggiunte spezie quali il pepe in grani o lo zafferano come nel caso del Piacintinu, formaggio di pecora tipico della zona di Enna o del caciocavallo ragusano proposto in versione naturale o con aggiunta di pepe. Per arricchire alcuni pecorini si usano invece i pistacchi. Tra i formaggi non va dimenticata la ricotta, un formaggio fresco ricavato da latte vaccino o di pecora che deve il suo nome al fatto che gli ingredienti vengono cotti due volte appunto “ricotti”. La ricotta viene consumata in svariati modi: da sola, come base di molti dolci tipici siciliani e della famosa “pasta alla Norma” nella versione salata.
Il “dulcis in fundo” della cucina è rappresentato dai dolci che risvegliano il massimo del piacere del gusto e soprattutto i dolci siciliani che sono tutti molto ricchi e quindi rappresentativi di questo “vizio”. I dolci siciliani esprimono tutto il colore e la fantasia dei siciliani, colori che si ritrovano nei paesaggi, nei mercati e nei famosissimi carretti.
In nessuna altra regione d’ Italia esiste una così grande varietà di dolci come in Sicilia. Il dolce nasce come “pane speciale” per giorni speciali ed è il simbolo della festa, di occasioni particolari, di una cerimonia e in genere è legato alle varie ricorrenze dell’ anno.
Gli arabi hanno lasciato in Sicilia l’arte della cassata e della pasta di mandorle associate al piacere dei colori vivaci e ai profumi intensi quali il gelsomino.
Ai greci si deve l’uso di miele e di ricotta per la preparazione di molti dolci tra cui i famosissimi cannoli. I Bizantini amavano in particolare i profumi intensi di cannella e vaniglia mentre dai francesi viene la passione per il cioccolato.
Fra gli ingredienti più importanti per i dolci siciliani è bene ricordare la frutta secca e in particolare le mandorle i pistacchi.
Mandorli divenuti famosi sono quelli di Agrigento festeggiati verso la fine di Febbraio con la “sagra del mandorlo in fiore” che segna l’inizio della primavera. Nella zona della Valle dei Templi sono coltivate e conservate come patrimonio genetico più di 200 varietà di mandorlo, alcune in estinzione. Grande centro di produzione di mandorle è senza dubbio Noto, in provincia di Siracusa. dove si coltiva la famosa mandorla d’Avola, dalla forma ovale regolare, perfetta per la produzione di confetti. I pistacchi sono stati introdotti fra le coltivazioni in Sicilia dagli Arabi e nella zona di Bronte. ai piedi dell’ Etna trovano un terreno ricco di minerali ìdeale per la loro crescita. Verso la fine di Settembre il pistacchio di Bronte, che ha ottenuto il riconoscimento DOP, si festeggia con una importante sagra dove si possono assaggiare le varie specialità culinarie ottenute da questo frutto, dal pesto per condire la pasta, alla crema dolce spalmabile.
L’ abbondanza di frutta secca nella regione, soprattutto di mandorle, permette la preparazione della pasta reale fondamentale per la lavorazione della coloratissima “frutta martorana” tradizionale specialità tramandata dalle monache del Convento palermitano della Martorana appunto. Altro grande favoloso dolce tipico di cui le uniche depositarie della ricetta sono le monache di clausura del Monastero agrigentino di Santo Spirito, è il cuscus dolce. La frutta secca costituisce inoltre 1’ ingrediente base della preparazione di biscotti, latte di mandorla e degli splendidi torroni nella versione morbida o croccante ricoperti o meno di semi di sesamo o glassa.
Grande importanza riveste anche la forma di alcuni dolci come ad esempio la “mezzaluna” cioè la luna, introdotta in Sicilia dagli Arabi, che la ritenevano di buon auspicio. Di questa forma sono i ravioli dolci ripieni di mandorle, cacao. farina di ceci e scorza di limone e i pasticciotti di pasta frolla ripiena di cedro.
Il cerchio rappresenta da sempre il simbolo della completezza ed eternità e da questo nascono dolci importanti come tutta una serie di torte e crostate tra i quali primeggia naturalmente la cassata.
Da ricordare fra i dolci tipici della tradizione siciliana è senza dubbio il cioccolato di Modica preparato con l’antica ricetta azteca qui arrivata dall’ America grazie ai grandi dominatori spagnoli. Si presenta come un cioccolato molto scuro e ruvido in cui sono incastonati cristalli di zucchero intatti. Fra i dolci siciliani più noti riveste un’ importanza particolare il gelato conosciuto in tutto il modo per l’unicità dei suoi sapori e della sua morbidezza come il gelato alla rosa, al gelsomino, alle fragoline di Noto, ai fichi d India, alla cannella. al mandarino e ai frutti di gelso.
Il gelato in Sicilia viene gustato già a colazione come ripieno di una fragrante brioche accompagnata da una ricca granita al caffè con panna. Il turista di ritorno da un viaggio in questa splendida isola che è la Sicilia, porterà con sé un grande ricordo di storia. Arte, natura ma anche un buonissimo ricordo della splendida cucina siciliana.
Foto di:Giuseppe Terranova e Michele Vilardo.

Il Carciofo…..

IL Carciofo per tutti gli usi

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 La parola carciofo procede dall’arabo al-kharshûf.

Documentazioni storiche, linguistiche e molecolari sembrano indicare che la domesticazione del carciofo (Cynara scolymus) dal suo progenitore selvatico (Cynara cardunculus) possa essere avvenuta in Sicilia, a partire dal I secolo circa.

La pianta chiamata Cynara era già conosciuta dai greci e dai romani, ma sicuramente si trattava di selvatico. A quanto sembra le si attribuivano poteri afrodisiaci, e prende il nome da una ragazza sedotta da Giove e quindi trasformata da questi in carciofo.

Nel secolo XV il carciofo era già consumato in Italia.Portato dagli Arabi in Sicilia, appare in Toscana verso il 1466. Nella pittura rinascimentale italiana, il carciofo è rappresentato in diversi quadri: “L’ortolana” di Vincenzo Campi, “L’estate” e “Vertumnus” di Arcimboldo.

La tradizione dice che fu introdotto in Francia da Caterina de’ Medici, la quale gustava volentieri i cuori di carciofo. Sarebbe stata costei che lo portò dall’Italia alla Francia quando si sposò con il re Enrico II di Francia. Luigi XIV era pure un gran consumatore di carciofi.

Gli olandesi introdussero i carciofi in Inghilterra: abbiamo notizie che nel 1530 venivano coltivati nel Newhall nell’orto di Enrico VIII.

I colonizzatori spagnoli e francesi dell’America introdussero il carciofo in questo continente nel secolo XVIII, rispettivamente in California e in Louisiana Oggi in California i cardi sono diventati un’autentica piaga, esempio tipico di pianta invadente di un habitt in cui non si trovava precedentemente.

C1Generalmente si pensa al carciofo come a un’ottima verdura dal gusto ( particolare. in realtà, il carciofo è pianta dai vari utilizzi. I garden designer la prediligono come pianta decorativa per le sue belle foglie, grandi e argentate, che si prestano a creare macchie di colore nei cosiddetti bordi misti a fioriture continue e nei “giardorti”, gli orti disegnati oltre che per un uso alimentare anche per un uso estetico.

I fioristi usano invece spesso il carciofo come fiore protagonista, di dimensioni notevoli e di lunga durata: in pratica, il carciofo per fini estetici è lasciato maturare con il gambo in acqua al punto da aprirsi ed emettere una bellissima infiorescenza blu violacea; dei vegetale originario, rimangono le foglie esterne e il gambo. In erboristeria, invece, il carciofo è considerato un grande amico del fegato, un alleato della salute per le sue virtù depurative e per le sue proprietà anticolesterolo.

 Il carciofo nell’orto e non solo

La pianta cresce spontaneamente nei climi mediterranei, dove è praticamente perenne. Ha radice fittonante, foglie di colore grigio-verde dal cui centro parte un fusto ramificato che termina, a ogni diramazione, con un capolino fioraie, cioé la parte commestibile dell’ortaggio, con o senza spine a seconda della varietà. Tra le diverse varietà, il carciofo più indicato da mangiare crudo è lo spinoso della Liguria.

La pianta del carciofo, il cui nome latino è cynara scolymus, si può coltivare per la raccolta dei frutti, ma anche per la sua bellezza e per il colore particolare delle foglie. In terra o in un vaso profondo, ben concimato, la pianta di carciofo svetta imponente per oltre tre mesi.

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Terreno, semina e concime

Il carciofo ama un clima temperato o caldo, non umido, ma si adatta facilmente a qualsiasi tipo di terreno purché senza ristagni. Un esempio ne è il carciofo violetto di Chioggia che vegeta addirittura in terreno salmastro. Il carciofo non si semina perché produrrebbe carciofi piccoli e spinosi ma si impianta per mezzo di “carducci”: verso la fine del ciclo produttivo la pianta emette dal basso gemme che, alla ripresa vegetativa, si sviluppano con foglie, i carducci appunto; questi, recisi al piede, si ripiantano moltiplicando così la pianta. Per un raccolto primaverile, si staccano i carducci in ottobre e si interrano in buche profonde 30 cm, distanti fra loro circa i metro, rincalzandoli in inverno, mentre per il raccolto autunnale si prelevano i carducci in primavera e si ripiantano cimando leggermente le foglie. Esistono anche cultivar rifiorenti che producono due volte all’anno, da aprile a giugno, da agosto ai geli. Il terreno deve essere ben concimato.

Irrigazione e lavori colturali

Le irrigazioni devono essere abbondanti sia all’impianto che alla ripresa vegetativa. I lavori più importanti sono: rincalzare con terra o letame non maturo da copertura durante l’inverno, sarchiare il terreno in primavera per incorporare il letame, diradare i carducci alla base della pianta per non toglierle vigore, eliminare via via le parti secche.

Idee con i carciofi

Carciofi per la salute

Il carciofo è ricco di sali minerali, di potassio e di vitamine, mentre fornisce scarso apporto calorico ed è per questo particolarmente indicato in caso di diete. Per il suo gusto amaro, è sconsigliato alle donne che allattano, ma è assai utile per tutti per depurare l’organismo. Il carciofo infatti, sia consumandone le foglie che la parte interna del gambo, stimola l’attività biliare ed epatica; inoltre, rende inattivi i grassi nocivi cioè svolge una sicura azione anticolesterolo e antitrigliceridi. Poiché il processo di cottura neutralizza molti principi attivi del carciofo, è meglio consumarlo crudo: ne trarranno particolare giovamento le persone debilitate o anemiche. In periodi di stravizi alimentari o di piccoli problemi legati all’alimentazione, quali alitosi, cattiva digestione, sonnolenza a fine pasto, il carciofo svolge un’eccellente funzione depurativa per l’organismo. Oltre al carciofo fresco, si può beneficiare delle sue virtù anche grazie a tisane o infusi utilizzando i succhi già preparati e reperibili in erboristeria o le foglie secche. Anche la radice ha particolari funzioni terapeutiche: è infatti un buon rimedio contro artriti e reumatismi.

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 Il carciofo in tavola

Portiamo in tavola senza paura di pungerci i frutti e i fiori con le spine, belli e di gran carattere. C’è grande libertà di espressione nella decorazione floreale. Quindi non esitate a utilizzare verdure, rami di legno, conchiglie o qualsiasi materiale vi suggerisca la fantasia. Sorprende trovare in questa composizione dei carciofi vicino alle delicate rose color ruggine, così come è inconsueto il ciuffo di saggina abbinato al fiore del luppolo: la nostra proposta non è che un’idea della grande varietà delle creazioni che si possono realizzare con elementi naturali.

Per realizzare la bella composizione fotografata qui a fianco bagnate la spugna da fiori, quindi rivestitela con due grandi foglie di aspidistria (tenete da parte i grossi steli); fissatele con un punto metallico. Inserite nell’ordine i carciofi, direttamente con i loro gambi, le rose, le piante grasse, i gambi di aspidistria, le bacche di rosa canina e di lentaggine. Per riempire i buchi, avvolgete il lungo ramo rampicante del luppolo in fiore. Per ultimo, prendete il ciuffo di saggina, apritelo a metà e inseritelo nella composizione lasciando il gambo esterno alla spugna come se fosse un fiocco.

Per realizzare invece la foto in apertura, che utilizza il carciofo lasciato in acqua con il gambo fino alla fioritura completa, prendete come base la classica spugna imbibita d’acqua, inseritela all’interno del cestino intrecciato in rami di castagno, quindi inserite rami di eucalipto, semi di fior di loto, rami di fico selvatico con i piccoli frutti attaccati, una celosia rossa, dei rami con i kumquat (i mandarini cinesi) e un grosso carciofo al quale spunteranno nel giro di due giorni i bellissimi petali viola.

 Carciofi ripieni alla romana

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 Gli ingredienti per 4 persone

 8 carciofi romani senza spine

50 g di prezzemolo

2 spicchi d’aglio

100 g di ricotta stagionata

olio d’oliva extravergine

menta

sale e pepe

 Preparate un trito con prezzemolo, foglioline di menta, 2 spicchi d’aglio e mettetelo in una scodella con 2 cucchiai d’olio, la ricotta grattugiata, sale e pepe.

Staccate le prime foglie dei carciofi, tagliate la parte superiore e il gambo a 2 cm di lunghezza. Pulite bene all’interno e all’esterno e riempite con il trito, dopo avere allargato un po’ l’apertura dei carciofi per poter togliere la barba dal cuore. Sistemateli capovolti con il gambo rivolto verso l’alto in una pirofila dove andrà messa una parte d’acqua e 2 parti d’olio sino a ricoprire i carciofi quasi per intero.

Mettete in forno caldo a 17000 per circa 1 ora e, a metà cottura, rigirateli con il ripieno verso l’alto cospargendoli con una parte del liquido di cottura. Terminata la cottura, servite i carciofi ripieni ben caldi.

30 minuti-60 minuti

Il Caso della Baronessa di Carini….

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Chi fù la Baronessa di Carini?Personaggio femmineo realmente esistito,Laura Lanza di Trabia,il suo “mito” vive, imperituro, da circa 500 anni. La Baronessa fa,ancora oggi,parlare di sé. Perché? Perché è diventata,nell’immaginario collettivo siculo,l’archetipo del tradimento,dell’amore consumato in gran segreto,contro la volontà del “padre-padrone”.Dunque, amante ideale che volle pagare le sue pulsioni erotiche(per dirla con Freud) con il sacrificio della sua giovane vita. Perchè,dunque,non ricordarla oltre il tempo? Infatti,la storia della avvenente Laura Lanza è stata oggetto di studi e di ricerche,di canzoni popolari,di folclore,di romanzi. E lo sarà ancora…

La storia di Laura ha colpito,è colpisce ancora-come non potrebbe?-perché essa è divenuta il simbolo di un amore “impossibile”.Già,il mito del frutto proibito!Eros e Thanatos,Amore e Morte….Chissà se Freud ha conosciuto la storia della Baronessa…..poichè,essa,si presta molto all’analisi degli amori “proibiti”,a tratti “platonici” e,a tratti terribilmente erotici….di un erotismo fugace,ma intenso. A tratti angelicata,quasi fosse una stella proibita,a tratti donna passionale che non accetta la “ragion di stato” (di machiavelliana memoria)impostale dal padre-padrone.”Sa da fare”,insomma,proprio contro la ragion di stato! Così la Baronessa visse la sua giovane vita dimenandosi tra la ragion di stato del padre-padrone,contro la sua coscienza,e la trasgressione…..

Eppure una domanda sorge spontanea:ad oggi,quante “baronesse” ci sono ancora in giro? Cioè quante donne passionali  che coltivano amori “proibiti”,pur fingendosi,abilmente,donne angelicate e  sostenitrici del puro amore platonico e sempre disposte ad immolarsi per la ragion di stato che il “Papi-padrone”, di turno,chiederà? Insomma,uno spunto per riflettere sul fatto che un briciolo di correttezza,onestà e  dignità non guasta…..!!!

A riproporci tutto ciò il bel romanzo di Mariano Di Giovanni dal titolo emblematico:Il caso della Baronessa di Carini.Laura Lanza di Trabia.

 Interessante il commento,che vi propongo di seguito, di Lelio Rossi.

 La Baronessa di Carini, l’eroina del «Caso», non è soltanto per Mariano Di Giovanni il personaggio del suo romanzo; ma è anche il centro di appassionati studi sul fatto particolare, sulla storia del periodo in cui esso si svolse e sul folclore siciliano.

Il romanzo è un amaro commovente dramma d’amore, in cui due giovani innamorati. Laura Lanza di Trabia e Ludovico Vernagallo, sono inesorabilmente separati dalla volontà del padre di lei, Don Cesare, ligio interprete della legge feudale: Laura è obbligata a sposare il barone di Carini, don Vincenzo La Grua, e Ludovico, prode e leale cavaliere, a spasimare d’amore per Lei, cercando fugaci incontri o un impossibile oblio in qualche avventuroso viaggio. Ma Laura e Ludovico non sono soltanto due tenerissimi amanti; sono anche due spiriti eletti, alieni da ogni viltà e perciò condannati a soffrire ed a soccombere al tradimento altrui. Laura cade trucidata dal padre, Ludovico si lascia trafiggere da un sicario di don Vincenzo La Grua.

La natura della vicenda ed il carattere dei personaggi danno al romanzo un tono tutto particolare, a cui il Di Giovanni ha certamente dato l’accento. Laura e Ludovico sono nella fantasia dell’artista le forze del bene, incapaci di sopravvivere nella lotta che debbono sostenere contro quelle del Male.

Il loro linguaggio è sempre pervaso di questa loro fedeltà al Bene che, dopo tutto, coincide col loro amore; poche volte esprime un proposito di lotta o di reazione; invoca sempre la morte liberatrice. Da questo deriva un carattere di costante ed estrema delicatezza che si palesa soprattutto nel dialogo fra i due amanti, che è sempre musica, talvolta elegiaca, ma sempre legata ad uno stato d’animo sospeso tra il cielo e la terra, tra il sogno e la realtà.

Se la ricostruzione storica del «Caso» è molto vicina alla verità, bisogna dire che la ricostruzione fantastica, fatta dal Di Giovanni, è un grande atto di amore verso i valori che in essa intese onorare.

LELIO ROSSI

Di Pane in Pasta il museo racconta…..

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“Di Pane in Pasta, il Museo racconta …”

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E’ stato indubbiamente un successo per quantità e qualità di pubblico, entsiasmo, e dimostrazione di capacità organizzativa la manifestazione cultural-gastronomica, “Di pane in pasta, il museo racconta … “, viaggio negli antichi sapori mediterranei con maestri panificatori e chef, musica, degustazioni e laboratori del pane e della pasta.

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L’appuntamento con la qualità, la tipicità e i sapori delle tradizioni del pane e della pasta era fissato per l’8 e il 9 Agosto 2009 a Castellammare del Golfo (negli spazi del Castello Arabo- Normanno, Piazza Castello, Piazza Matrice) per la prima rassegna “Di Pane In Pasta”, organizzata dalla Fondazione Annalisa Buccellato e l’omonimo Museo Etno-Antropologico, in collaborazione con il Comune di Castellammare del Golfo, Regione Siciliana (Assessorato Agricoltura e Foreste), Provincia Regionale di Trapani.

E’ stato un affascinante e articolato viaggio con il pane e la pasta, protagonisti donne e uomini del luogo, maestri panificatori, esperti chef, enogastronomi, giornalisti, studiosi, scrittori.

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Relatori del convegno di apertura dal titolo “Pane, Pasta e dieta mediterranea” tenutosi a partire dalle ore 17,30 presso la sala conferenze del Castello Arabo- Normanno di Castellammare del Golfo sono stati: Oretta Zanini De Vita, giornalista e storica dell’enogastronomia, Mario Liberto, funzionario dell’Assessorato Agricoltura e Foreste, esperto eno-gastronomo, Mary Taylor Simeti, giornalista – scrittrice, Cinzia D’agate, medico e presidente Associazione Italiana Celiachia Sicilia, Giuseppe Russo, biologo nutrizionista, dirigente del Consorzio di Ricerca G.P. Ballatore, Luciano Cessari ricercatore del CNR-ITABC di Roma, esperto di mulini ad acqua e sistemi idraulici nel Mediterraneo, Gaetano Basile, giornalista, scrittore. Moderatore del convegno è stato Alfredo Tesio, giornalista e scrittore.

A seguire, il numeroso pubblico ha potuto assistere nella piazza Madrice alla rievocazione del rito della “cacciata”, la trebbiatura del frumento con i cavalli, ed in serata, allo spettacolo del Gruppo Folkloristico della Cordella in Via Re Federico.

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Particolarmente ricca di ditte partecipanti l’expo allestita in piazza Castello e che che ha accompagnato la due giorni castellammarese cui hanno partecipato: il pastificio artigianale Campo, l’ Associazione Libera di Castellammare, l’Associazione Italiana Celiachia, per la sicilia del gusto – pane cena di Caccamo (panificio Briciole di Pane) pani di casa di Roccapalumba (panificio Ganci Peppino & c. snc) pasta Valledoro srl, (pastificio Valledolmo) pane di casa di Lentini, focacce cuddurun (panificio Rosa Nipitella). Presente anche il Salumificio Armetta, il Pane Nero di Castelvetrano e il pane di Lentini. Tra i panifici di Castellammare del Golfo : Zanca , Domingo e Cacioppo.

Di particolare interesse sono stati i laboratori live il primo la sera dell’otto agosto animato da Gaetano Basile giornalista, viaggiatore colto e divulgatore di tutto ciò che è cultura siciliana, che ha parlato sopratutto di pane con toni lievi, talora graffianti, mai seriosi, e che ha messo in scena uno spettacolo di gestualità e fragranze, illustrando la preparazione del pane davanti al pubblico e raccontando le diverse tecniche, l’evoluzione e le tradizioni. Il secondo la sera del nove agosto allietato dallo chef – artista del cibo trapanese Peppe Giuffrè, il quale con la sua officina gastronomica itinerante ha dato vita a momenti di vero e proprio spettacolo e che ha visto anche la partecipazione un pò a sorpresa di Roberto Roversi “turista per caso” a Castellammare, in quanto “testimonial” de “la Route du Jasmin”, regata internazionale, nei medesimi giorni facente tappa nel porto di Castellammare.

Per i due giorni della rassegna è stato possibile visitare ininterrottamente il Museo etno – antropologico, la mostra fotografica “Il Prima e il Dopo” su Castellammare del Golfo, e l’esposizione di pani sacri nella Chiesetta della “Madonna di l’Agnuni”.

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Entusiasmante infine lo spettacolo musicale a conclusione della manifestazione che ha visto l’esibizione degli “Ottoni Animati”, band trapanese che ha eseguito brani delle più belle canzoni del panorama musicale siciliano e nazionale in chiave etnico-bandistico-popolare.

Testo e alcune foto tratte da:http://www.castellammareonline.it/main3/dipaneinpasta.html

Frattanto,sul molo del porto di Castellammare,fa bella mostra di se la mitica 750 di Peppe Giacalone insieme ad una meravigliosa coppia di sposi.

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Lo “schiticchio”.A tavola con il Padrino!

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Avete mai assaggiato i “cannoli dei boss?” oppure la “caponatina alla Al Capone?”;vi siete mai cimentati in cucina con gli “agnelli sacrificali?”, “il silenzio delle sarde al linguate?”.Sapete che cos’è la “latitanza del macco?” e la “la norma della legge?”. A farvelo sapere ci ha provato,egregiamente,Guido Guidi Guerrera* ponendo in essere un volume che ruota attorno al cibo,di matrice sicula, e all’uso che ne fanno i Padrini di Cosa Nostra. Un invito,intriso di ironia, per provare a stare “A tavola con il Padrino” per farsi uno “schiticchio”!

Lo schiticchio in siciliano significa “abbuffata”. Il termine indica per antonomasia, e secondo una tradizione consolidata, il tipico banchetto dei mafiosi e della gente di malaffare in genere. Guido Guidi Guerrera, una delle firme più brillanti e sarcastiche della stampa italiana, ci invita a tavola con il Padrino. Un invito che non si può rifiutare.

Don Saro Partinico da Montelepre, capofamiglia e uomo d’onore, attorno al quale ruota una folla di comprimari e di comparse, è il protagonista indiscusso di questo libro giocato sul filo dell’ironia ma anche dell’analisi, insieme a un comprimario di straordinaria potenza evocativa: il cibo.

Lo schiticchio diventa dunque la metafora di ogni possibile appetito: i mafiosi, afflitti da una voracità declinata in tutti i generi possibili, ridono e si abbracciano, mangiano e parlano di cose sconce, ma nello stesso istante, e continuando a usare identiche forme lessicali, senza neppure mutare l’espressione del volto, con l’aria di non finire mai di scherzare, progettano omicidi e forse stragi. La tavola è il momento della celebrazione di un potere visibile proprio nell’eccesso, come accadeva per gli antichi imperatori, o al giorno d’oggi per ogni dittatore.

Eppure, ogni cibo amato dai padrini è anche sinonimo di un modo semplice se non dialettale di concepire la cucina, che è sempre quella delle madri e delle nonne. Un mangiare “di casa”, sempre preferibile a ogni latitudine a qualsiasi altra raffinatezza troppo distante dai ricordi più cari.

Un libro intriso di atmosfere siciliane alla Puzo, della lingua di Camilleri, di immagini alla Coppola.

Per scoprire, insieme alle ricette di ogni piatto, che lo schiticchio siciliano aveva anche altri significati.

«Se dobbiamo sopportare che Adonis andasse pazzo per la pasta alla norma e Al Capone da tacchino vanitoso per la caponatina, sopportiamolo, anzi: in questo caso non resta altro da fare che associarci. In fondo si tratta di farsi un ottimo schiticchio e, in nome della cucina siciliana, che mi fa battere il cuore allo stesso movimento di quel mare, ci posso stare».(Nino Frassica)

A tavola con il padrino:un invito che non si può rifiutare se è vero che:

  • “ Una goccia di vino dell’Etna è per l’uomo d’onore gradevole quanto una goccia del sangue del suo nemico”( Don Vito Cascio Ferro)
  • “Mi piace la pasta con le sarde,ma sinceramente le preferisco con l’olio che faceva papà” (Michael Corleone)

Un volume da “assaporare” per esportare sempre più la sana e ottima cucina siciliana e,sempre meno, la criminalità mafiosa che ha infangato,oltremodo,questa bellissima isola.

 *Guido Guidi Guerrera scrittore e giornalista per «QN». Tra i massimi esperti di Hemingway in Italia, ha pubblicato, tra gli altri, A spasso con papa Hemingway(Todaro, 2002), Battiato another link (Verdechiaro, 2006), A tavola con Maigret(IL Leone Verde, 2007) e Vivere alla grande (Aliberti, 2008).

Il Carretto siciliano….

Guida ai sapori perduti….

cibo

Per i siciliani il cibo ha grande importanza: in una riunione informale fra amici come in un pranzo ufficiale, l’argomento non manca di eccitare gli animi, di rompere ogni tipo di ghiaccio, di sconfiggere ogni inibizione. Mangiare è sempre un atto culturale, dando alla parola cultura quel senso lato che molti le hanno negato. Non una singola isola, ma un agglomerato di isole, quasi un subcontinente, è la Sicilia, dove la geografia e l’aspra natura del terreno hanno per millenni rappresentato una barriera naturale alla circolazione di merci e di idee. Nel campo culinario molto è sconosciuto anche agli stessi abitanti dell’isola: in Sicilia c’è tutto un universo sommerso di cibi che sono conosciuti solo in una zona, a volte addirittura solo in un quartiere, o che si possono comprare in una singola pasticceria o panificio.Frascatole, ‘nfasciatieddi, funciddi, piscirè, ‘nfigghiulate, e molto altro ancora: vere e proprie reliquie da preservare. Ogni siciliano, specie se di una certa età, conserva alcuni di questi misconosciuti brandelli di cultura legati ai propri ricordi d’infanzia o all’esperienza ancora viva del quotidiano. È importante riunire il maggior numero possibile di queste informazioni, per un atto di conoscenza collettiva e per una speranza di futura memoria.

Introduzione di Giuseppe Barbera

Il cibo di un popolo, non diversamente dal suo paesaggio, esprime risultati dell’incontro tra la natura del luogo e la sua storia, la sua cultura. In Sicilia, che è una terra dove la natura si manifesta in modi straordinariamente differenti, anche i cibi riflettono tale diversità. Sono, prima di tutto, il risultato di una moltitudine di suoli, di morfologie, di esposizioni e di altitudini e, quindi, di climi; gli ingredienti che li compongono hanno origine in una biodiversità animale e vegetale che risulta essere tra le più alte nel Mediterraneo e si esprime in una straordinaria ricchezza di forme, di sapori, di valori alimentari. La diversità biologica dell’isola ha guadagnato, in termini di varietà e cultivar indotte dalla coltivazione nei sistemi produttivi, quello che, in lunghi anni di sfruttamento agricolo e di depauperamento ambientale, ha perso in numerosità di specie per la scomparsa di molti habitat naturali, per la fine dei suoi agrosistemi tradizionali.

Su una base fisica e naturale così varia, la storia dell’uomo ha contribuito non poco ad aumentare la diversità biologica con l’arrivo e l’incontro fecondo di tante civiltà differenti: ciascuna con le sue piante coltivate, le sue tecniche agricole, i suoi costumi alimentari, le sue sapienze gastronomiche. Dal punto di vista della diversità dei saperi umani, il Mediterraneo ha, nella sua posizione geografica, la ragione della ricchezza propria dei confini (gli ecotoni come li chiamano gli ecologi). I margini, cioè, dove si incontrano ambienti naturali e culture umane diverse scambiandosi geni, informazioni, tecniche e arti. Comunicano tra loro tre continenti e la Sicilia è lì al centro del mare che li unisce, al centro di ogni antico viaggio, pensiero, commercio a elaborare e offrire diversità, complessità, stabilità.

Cibi e paesaggi sono palinsesti. In loro la storia e la natura si avvicendano e si sovrappongono mostrando e conservando nelle forme e nelle sensazioni sensoriali che entrambi diversamente suscitano la loro grande molteplicità. Il problema è svelarla, raccontarla, tramandarla.

Marcella Croce riesce a farlo con i cibi della tradizione siciliana. Il suo libro non è un libro di ricette, nè un libro di storia o di ricordi alimentari e neanche una rassegna etnoantropologica o un florilegio di citazioni. È tutto questo insieme. Gli ingredienti della cultura e della natura siciliana sono presenti e bene amalgamati e, direi, cucinati come in un piatto della tradizione. Marcella scrive bene, conosce geografia e storia dell’isola, è curiosa, va in cerca di storie e tradizioni dimenticate o nascoste. Ma ha anche la curiosità rigorosa dei bravi ricercatori: ogni affermazione è confermata da un dato bibliografico o dal parere di un esperto.

Non ho mai amato molto i libri che scrivono delle tradizioni alimentari siciliane. Sono o lunghe rassegne di ricette o somme di cattive e pretenziose informazioni. Sono, di solito, buoni solo in cucina. Non è questo il caso. Il libro di Marcella non va conservato tra il Cucchiaio d’Argento o Il Talismano della Felicità, Il suo posto è in uno scaffale in biblioteca, costringendolo magari ad un continuo andirivieni verso i fornelli della cucina e una sosta alla tavola da pranzo.

Marcella Croce*,Guida ai sapori perduti.Storie e segreti del cibo siciliano con quaranta ricette.Kalòs,2008.

*Marcella Croce ha conseguito il dottorato in letteratura italiana presso la University of Wisconsin-Madison (USA). Ha tenuto conferenze negli Stati Uniti, Giappone e Israele. È giornalista e collabora con il quotidiano “La Repubblica”. Per conto del Ministero degli Esteri ha insegnato italiano all’Università di Isfahan (Iran) e di Kyoto (Giappone). Ha pubblicato Pupi carretti contastorie (1999), Pupari (2003), Le stagioni del sacro (2004), History on the road – The painted carts of Sicily (2005) e Oltre il chador – Iran in bianco e nero (2006) per il quale ha vinto il 1° Premio di scrittura femminile “Il paese delle Donne”, Roma 2007. NeI giugno 2008 è uscito negli USA un suo libro in inglese sul cibo siciliano: Eat smart in Sicily (Ginkgo Press).

 In copertina fotografia di Melo Minnella.s

Foto di seguito,non presenti nel volume,di Michele Vilardo.

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“Altari” di S.Giuseppe nella valle del Belice…

COMUNE DI SANTA NINFA(TP)

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COMUNE DI GIBELLINA(TP)

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La tavolata di Ciminna(Pa).

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Mense di S.Giuseppe 2009:Borgetto e Partinico.

BORGETTO (PA).

IL PANE:dsc01198dsc01203dsc01204dsc01205dsc01201dsc01199dsc01200

Forno di Pietro Grippi-Amoroso.

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Partinico (Pa)

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San Giuseppe 2009:altari,mense,tavolate…

VALLELUNGA PRATAMENO (CL)

Istituto San Pio X-Casa del Fanciullo

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TERRASINI (PA)

Abitazioni private

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SAN CATALDO (CL)

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Chiesa di San Giuseppe-San Cataldo.

Il Natale in Sicilia.

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Il Natale in Sicilia è un evento di straordinaria importanza. Vissuto,nei secoli, nel suo genuino significato religioso,ossia l’incarnazione di Dio, ha dato vita nel tempo a tutta una serie di manifestazioni religiose,artistico-culturali,tradizioni popolari di cui ancora oggi rimangono segni evidenti.
A partire dalla novena in lingua siciliana scritta dal canonico monrealese Antonio Di Liberto,meglio conosciuto con lo pseudonimo di Binidittu Annuleru,dal titolo
U Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca San Giuseppi in Betlemmi.,
che da metà del 1700 si è diffusa in tutta l’isola ed ancora oggi viene cantata o nelle chiese o per le strade,nei giorni che preparano il Natale. O Giacomo D’Orsa, colto poeta di Piana dei Greci, vissuto tra il Seicento e il Settecento e autore di un altro importante componimento poetico natalizio, il Curteggiu di li Pastura a lu Santu Bambinu Gesù.
Ma la tradizione siciliana del natale ha creato,a partire sempre da metà ‘700 in seguito alle predicazioni itineranti dei vari ordini religiosi e sulla scia di quella napoletana,i presepi con i materiali propri dell’Isola. Da quelli raffinati e pregiati della tradizione trapanese in avorio e corallo, a quelli di Caltagirone in terra cotta colorata, da quelli palermitani creati con il favo d’api a quelli nisseni creati con il marmo. Inoltre sono stati usati,nel tempo,anche il legno, il vetro e la farina di grano per creare meravigliosi presepi.
Di antichissima tradizione è quello presente nella Cappella Palatina di Palazzo dei Normanni che raffigura la natività con la tecnica del mosaico.
A ciò si aggiunga l’addobbo delle tante cappelle votive,sparse per le vie delle città e dei tanti comuni dell’isola, con gli agrumi di stagione:arance,mandarini,limoni,cedri.
Non mancano le rappresentazioni del presepe con la tecnica dell’Icona presente soprattutto nelle chiese di rito bizantino di Mezzojuso e Piana degli Albanesi.
Inoltre,la tradizione siciliana ha sviluppato tutta una serie di dolci propri del tempo natalizio a base di fichi secchi,mandorle e altre elementi coltivati nell’isola.
Una raccolta di tutto ciò è egregiamente riportato nel volume in oggetto che si compone di due parti:i testi scritti sono ad opera del prof.Antonino Buttitta e le meraviglioso foto del fotografo Melo Minnella.

Antonino Buttitta-Melo Minnella,Feste Sacre in Sicilia, Natale in Sicilia (Vol I),Promo Libri,2003.

Saperi e Sapori….

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UN ABSTRACT DEL LIBRO

Per usare la metafora della cucina, si tratta di un pasto abbondante, con tantissime portate.
A noi piace immaginare che i lettori l’abbiano gustato come i pranzi di festa di una volta.
Ci si alzava sazi, ma non appesantiti, contenti di avere condiviso non tanto il cibo ma la gioia dello stare insieme.
Oggi questa dimensione si è un po’ perduta, ma chi ha esperienza seria di convivialità sa bene che per arrivare sazi ma non appesantiti alla fine di un lauto pasto, occorre possedere alcuni semplici “segreti”.
Il primo: non iniziare il pasto buttandosi famelicamente sugli antipasti, con abbondante uso di pane. Viceversa, il  “mangiatore saggio” assaggia di tutto, ma con moderazione, assaporando i cibi e ascoltandone i sapori.
Il secondo: usare bene l’arte del conversare, che dà il giusto ritmo al pasto, e “alleggerisce”, quasi magicamente, il cibo, perché noi ci nutriamo anche di parole, e le parole “efficaci” (non le chiacchiere) a loro volta alleggeriscono la vita quotidiana.
Terzo: il saper inframmezzare il cibo e le parole con la musica. Beate quelle tavolate dove a un certo punto salta fuori una chitarra e si comincia a cantare!
Quarto: una bella passeggiata, calma e distesa, alla fine del pasto, in cui “smaltire” quello che si è mangiato…
Se vogliamo proprio esagerare, possiamo immaginarci uno di quei pranzi delle corti medievali, di quelli che prevedevano anche i balli, oltre che i canti. Certo, di fronte alla quantità dei percorsi e delle suggestioni presentate in questo volume, sembra difficile trovare una chiave di lettura unitaria: gli stimoli sono così tanti che si fa fatica a ricondurre il tutto a unità. Eppure, a noi pare che robusti fili di unità possano essere individuati e afferrati, per cogliere il disegno che ha guidato la nostra ricerca. A partire dal titolo, proviamo a indicarne qualcuno.
I saperi.
Se mi piace una bella ragazza e non la conosco, farò di tutto per creare occasioni di conoscenza e contatto: solo in questo modo riuscirò a capire se mi piace davvero, e se lei contraccambia il mio interesse. Non c’è vero amore se non è nutrito dalla conoscenza. Ed è così per ogni attività umana, che trova il suo fondamento nell’esperienza. Io esisto e conosco il mondo a partire dal quel “mondo” così particolare che sono gli altri.
Va detto con molta onestà che nel mondo delle organizzazioni (ma si potrebbe dire lo stesso della politica, dell’economia, eccetera) molto spesso le persone non sanno quello che stanno facendo. E questo, a partire dai capi! Ci raccontava un giovane informatico: il problema di molti manager è che il più delle volte non sanno quello che stanno gestendo. In questo modo, non solo non aiutano i loro collaboratori a svolgere meglio le attività, ma addirittura gliele complicano!
Questo libro, volutamente ricco di contributi anche molto diversi tra loro, ha un primo pregio: tutti gli autori, certo con i limiti di ogni esperienza, conoscono la realtà di cui raccontano. Ne hanno fatto esperienza autentica, cogliendone il senso e cercando di ricostruirne il significato. E poiché ogni esperienza umana apre a molte altre esperienze, tutti gli autori dei diversi contributi sono appassionati ricercatori della verità. E questo ci porta alla seconda chiave di lettura del testo.
I sapori.
Se è vero quindi che non c’è autentico amore senza conoscenza, è però altrettanto vero che ogni conoscenza, se non conduce all’amore, resta vuota e priva di attrattiva.
Perché? Ecco la domanda chiave di ogni esperienza umana.
Per amare ed essere amati. Che è il vero e unico bisogno di ogni donna e ogni uomo che siano minimamente sinceri con se stessi.
Il “sapore” è ciò che dà senso alla vita propria e a quella degli altri. Il gusto, il piacere di fare.
Questo spiega perché l’uomo tende naturalmente al bene, pur essendo egli una contraddizione vivente e sperimentando la sconfitta quotidiana operata dal limite, dalla sofferenza, in definitiva dalla morte. Eppure, nel profondo dell’esperienza umana, il cuore dell’uomo anela ad amare e ad essere amato. Come ha detto il papa Giovanni Paolo II nel messaggio di inizio anno 2005: «L’amore è ciò cui anela il cuore di tutti!».
Nel mondo delle organizzazioni questa evidenza si traduce in conseguenze molto semplici e chiare: non mi interessa tanto se un’organizzazione è “efficiente”, quanto se essa è “efficace”, se produce cioè il “profitto” per cui essa vive e cresce. Il “bene” di un’organizzazione è costituito dalla capacità di essere “ordinata”, cioè di essere sempre “al lavoro”, per realizzare il più possibile armoniosamente i propri scopi. In termini gastronomici: non mi interessa se la ricetta è stata eseguita alla perfezione, mi interessa che il piatto portato in tavola sia buono al gusto e facile alla digestione! Che mi nutra e mi faccia star bene!
A noi piace poi immaginare questo libro come una grande partitura musicale, in cui suonano tanti strumenti, per far “cantare” tante note… Armonia, fatta di incontro, ma anche di scontri, di tensioni, di (ri)soluzioni cercate e trovate insieme. E qui viene fuori una terza chiave di lettura.
Il cammino, la strada.
Il sottotitolo del libro è: Idee e pratiche per umanizzare le organizzazioni.
Diventare ciò che siamo è il grande segreto delle tradizioni filosofiche e religiose dell’umanità.
Siamo portatori di una vocazione e di un destino: diventare pienamente uomini.
Il segreto di ogni attività umana è riuscire a stare sempre in contatto con la propria anima. Non dobbiamo cercare modi strani di realizzare una vita buona per noi stessi, per gli altri, per l’organizzazione cui apparteniamo e in cui viviamo. Ci basta stare ancorati alla nostra umanità.
Tornando all’esempio di prima: mi piace una bella ragazza, cerco di conoscerla; la reciproca conoscenza mi/ci fa capire se la passione è autentica; iniziamo un cammino comune. L’uomo è senza dubbio faber, perché agisce sul mondo e lo trasforma, ma è allo stesso tempo viator, perché è sempre in cammino, sempre in ricerca. Nella strada, si fa esperienza di cosa è davvero necessario, e di cosa si può tranquillamente tralasciare. Sulla strada si incontrano le persone e si realizzano le migliori iniziative: la strada come luogo fondamentale del mondo. Solo per fare un esempio, si pensi a “come” e “dove” è stata fondata la città di Roma: un luogo di commercio e di scambio, sul fiume Tevere, tra le popolazioni etrusche e latine. Così è nel mondo delle organizzazioni: capire cosa serve davvero e cosa in tutta tranquillità si può lasciar perdere, sarebbe un enorme progresso per la produttività e il profitto! Tutti gli autori di questo libro sono infaticabili camminatori sulle strade del mondo e leggendo i loro contributi si avverte il peso e il valore delle esperienze fatte sulla strada…
Ma il libro resta come non finito, per due motivi. Per prima cosa, perché gli autori sono già all’opera su diversi cantieri di lavoro professionale e culturale. Il secondo, perché la loro speranza è che i lettori, cogliendo il senso di ricerca del testo, ne facciano propri, del tutto o in parte, i contenuti e li sviluppino nei diversi contesti di vita e di lavoro.
Buona strada a tutte/i!

Elio Meloni -Valerio Beretta,Saperi e Sapori,idee pratiche per umanizzare le organizzazioni,Monti Editore,2008

http://www.growingmanagement.it/growingmanagement/Saperi_e_Sapori.html

Fumo e arrosto…..di Mary Taylor Simeti*

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Letteratura e cucina, parole e sapori, poetica del gusto e piatti della tradizione: un connubio inscindibile, quello tra arte letteraria e gastronomia, particolarmente per gli scrittori siciliani, da sempre affascinati dal potere evocativo e simbolico del cibo. Ecco così che l’autrice, nelle sue “escursioni nel paesaggio gastronomico della Sicilia” riapre le celebri pagine del “Gattopardo” dedicate alla descrizione sontuosa e dettagliatissima del pranzo in casa Salma e quelle, diversamente evocative e nostalgiche, di Vittorini sul mondo umile e silenzioso dei contadini e degli emigranti. O ancora quelle scritte dall’Abate Meli sotto forma di poesie dialettali in onore delle prelibatezze nate dalle abili mani delle monache dei tanti monasteri che, per secoli, hanno addolcito le tavole delle famiglie palermitane con le loro specialità dolciarie.

E, per permettere al curioso lettore di sperimentare in prima persona le squisitezze passate in rassegna ne sono puntualmente riportate le relative ricette, Un invito stuzzicante a far rivivere piatti come I “Timballo del Gattopardo”, le “Paste delle Vergini” o il “Ragù di tonno”, ormai appartenenti alla storia della gastronomia siciliana.

 

*Nata a New York, Mary Taylor Simeti vive in Sicilia dal 1962. È l’autrice di articoli apparsi sul New York Times, il Financial Times di Londra ed altri periodici, e di vari libri, fra cui On Persephone’s lsland: A Sicilian Journal; Pomp and Sustenance: 25 Centuries of Sicilian Food; e Travels with a Medieval Queen, tutti pubblicati a New York e Londra. Con Flaccovio ha pubblicato Mandorle amare.

 

Mary Taylor Simeti,Fumo e arrosto.Escursioni nel paesaggio letterario e gastronomico della Sicilia.Flaccovio Editore,2008.

Le delizie senza glutine.Ricettario. Di Concetta Grisanti.

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La scia dei tetraedri.Nel mare gastronomico delle egadi.Di Emilio Milana*

Introduzione

La Sicilia è una terra singolare, ricca di storia e di mito, di sereno e di sconvolgente, come i suoi vulcani. Una terra in cui il fascino della millenaria cultura scaturisce dalla perfetta sintesi dei suoi contrasti. Una terra in cui anche i quattro principali sapori legati alla sensorialità dell’uomo — il dolce, l’amaro, il salato e l’acido — giocano in un’altalena di contrapposizioni e apposizioni nel descrivere il mutevole sfaccettarsi del tetraedro del gusto dei Siciliani, fortemente legato al loro temperamento e alla loro antica diversità.

Diceva Thomas Stearns Eliot: “La cultura è ciò che rende degna la vita di essere vissuta e la cucina è una delle sue forme”. Ed è con questo spirito che si vuole vivere, in queste pagine, un’esperienza diversa, quella di ripercorrere, anche se velocemente, quattro millenni di storia osservando le trasformazioni del gusto e del cibo dei siciliani attraverso i cambiamenti della società, dell’economia e a volte della natura, nel segno di un continuum culturale proprio dei discendenti dei Sicani.

Parlare della cucina siciliana è come attraversare la storia dei popoli che si sono incontrati e scontrati nelle acque del Mediterraneo, vero liquido amniotico delle prime civiltà e delle grandi religioni monoteistiche che hanno caratterizzato lo spirito dell’uomo. In questo senso, l’arte culinaria si colloca accanto agli studi delle antichità per ricostruire il percorso dell’uomo fin dal tempo in cui questi iniziò a ridurre la natura alla soddisfazione dei suoi bisogni prima, dei suoi piaceri dopo. Rispetto al patrimonio di reperti e di documenti che si correlano a civiltà ormai storicamente concluse, la cucina continua a essere testimonianza vivente di una realtà che ci accompagna ogni giorno attraverso i sapori, gli odori e i colori.

L’arte culinaria è quanto i Greci definivano col termine gastronomia, vocabolo che secondo un dizionario italiano riporta al “complesso delle regole e delle usanze che sono relative alla preparazione dei cibi”. Tale definizione, tuttavia, appare incompleta se si considera il significato della parola come una funzione del tempo, delle condizioni di vita e della mutevole realtà socioeconomica. Per gastronomia, oggi, può intendersi, in accordo con Slow Food, non solo l’arte di cucinare i cibi, ma anche “l’arte di degustarli, di descriverli e di giudicarli”.

La gastronomia, come arte che prevede delle proprie regole, viene dopo l’alimentazione,che risponde a un’esigenza fisiologica; se questa è, infatti, legata al bisogno di procurarsi un alimento per combattere la fame, quella presuppone il piacere di consumare e gustare il cibo. Non è superfluo, comunque, sottolineare che il piacere non è legato alla condizione socio-economica dell’uomo. Il panino con le panelle1 è quanto di più democratico la cucina della nostra terra abbia inventato, utilizzando elementi semplici che, adeguatamente lavorati, fanno provare lo stesso piacere al palato del ricco e del povero. Il panino con le panelle ha assunto il rango di prodotto gastronomico in quanto, pur nella semplicità della sua preparazione, interessa fortemente la degustazione e il piacere di assaporarlo. La panella era un cibo per poveri, ora è un prodotto gastronomico servito nei ristoranti e nelle rosticcerie più apprezzate.

Bisogna ancora convenire con Slow Food che il fenomeno della globalizzazione ha omologato e impoverito i gusti, condizionati come siamo dall ‘immagine del cibo più che dall’ alimento che la pubblicità ci propone, a danno dell’educazione alimentare e della stessa conoscenza di ciò che mangiamo. Fortunatamente, in controtendenza, sta crescendo l’interesse per il recupero delle tradizioni culinarie, espressione di un tentativo comune di riappropriarci del patrimonio di valori, di intelligenza, di abilità, che distingueva le civiltà passate e ne segnava il grado di evoluzione. La scelta alimentare non è un fenomeno legato alla classe sociale, ma alla cultura: vi sono ricchi che mangiano malissimo, meno ricchi o poveri che riescono a gustare piatti sani e saporiti, tramandati da uno stile secolare di scelta, di abbinamento e di preparazione.

La ragione di circoscrivere l’interesse culinario a un’area così ristretta della Sicilia, che fu dei Sicani e degli Elimi, sta nel desiderio di ritrovare e conservare le essenzialità locali di quest’arte che, di fatto, non è mai stata unitaria su tutto il territorio siciliano, avendo assunto espressioni e stili profondamente legati alle diversità delle genti che l’hanno popolata. Ne è un esempio la pasta con le sarde, oggi servita con immagine e gusto differenti a seconda che ci si trovi a Trapani, a Palermo o a Messina.

Il motivo, poi, di considerare solo il pesce, come elemento conduttore centrale, è dovuto alla peculiarità geografica della zona considerata, alla netta predominanza dell’attività pescatoria su quelle praticate dalla popolazione locale, a partire già dall’età arcaica, e alla profonda sensibilità verso i prodotti del mare, mostrata dai cuochi e dai gastronomi siciliani dell’antichità greca e latina prima, del Medioevo e Rinascimento dopo. Il contenuto si articola in tre sezioni, separatamente sviluppate in tre volumi: la prima dà una “sintesi storico-culturale” dell’evoluzione culinaria siciliana con diretti collegamenti a tematiche fondamentali, come la pasta e il vino; la seconda è la vera e propria sezioneculinaria, costituita da una raccolta di ricette di primi piatti, secondi e contorni ripescati nell’uso e nella pratica comune, nei ricordi degli anziani e nei documenti rinvenuti un po’ ovunque, arricchite da note e riferimenti alle possibili lontane origini; la terza presenta un ricco insieme di profili di pesci commestibili, tipici del mare egadiano, con una breve descrizione delle caratteristiche morfologiche, biologiche e gastronomiche.

Si sono voluti, inoltre, esprimere in “siciliano”2 le espressioni e gli idiomi locali, nel rispetto della conservazione della cultura d’origine, in cui la lingua è l’amalgama, l’anima della cultura stessa e della gente che l’ha creata perché, come ha scritto Ignazio Buttitta,

 

Un populu diventa poviru e servu

quannu ci arrobbanu la lingua

addutata di patri:

é persu pi sempri.

 

(Un popolo diventa povero e servo

quando gli rubano la lingua che gli fu data dai padri:

è perso per sempre.)

 

1 Le panelle sono una sorta di frittelle, sottili e di forma triangolare, fatte con un impasto di farina di ceci e acqua. Spolverate con pepe nero e sale vengono tradizionalmente consumate all’interno di un morbido panino. Come antipasto vanno gustate da sole.

 

2 Il siciliano oggi si deve ritenere una Lingua Regionale o minoritaria ai sensi della Carta Europea delle Lingue Regionali o minoritarie, che all’Art.l afferma che per lingue regionali si intendono “le lingue che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Stato”. La Carta è stata approvata il 25 giugno 1992 ed è entrata in vigore il 10 marzo 1998. L’Italia l’ha firmata il 27giugno 2000. Inoltre, l’industrial Standard Organization (ISO), l’ente internazionale che si occupa di problemi di normalizzazione, nel 2005 ha nconosciuto il siciliano come “lingua’ codificandola come ISO 639-3: scn. Pur essendo parlato da circa dieci milioni di persone in tutto il mondo, il siciliano, oggi, non viene insegnato nelle scuole e non viene nemmeno praticato nella vita pubblica, dove viene soppiantato da una specie di versione dialettale dell’italiano, con vistose mutuazioni grammaticali e fonetiche dal siciliano. “Perché non parli siciliano a tuo figlio? — fu chiesto a una madre marettimara che si esibiva tronfia in questo nuovo linguaggio.— Perché non voglio che si trovi male a scuola come mi sono trovata io” — fu la risposta. E sulla base di queste “profonde convinzioni” un altro dialetto del siciliano, quello marettimaro, sicuramente si avvierà nel desolante e malinconico percorso dell’estinzione, verso lo sradicamento dalla propria identità culturale. Un popolo in fondo, come ha già detto qualcun altro, è soprattutto ciò che entra ed esce dalla sua bocca. Cibo e parole.

 

*Emilio Milana,egadiano,ingegnere optoelettronico.Velista,vive a Bologna.