PIAZZA ARMERINA,”FEDE DEVIATA DI MAFIOSI E LEGALISMO DI PERBENISTI”

PIAZZA ARMERINA. “FEDE DEVIATA DI MAFIOSI E LEGALISMO DI PERBENISTI”

In un’intervista su La Sicilia, il “no” del vescovo Pennisi  e l’invito a “lavorare per”

“La lotta alla mafia si fa all’interno della comunità ecclesiale, puntando ad una nuova evangelizzazione per superare la frattura fra fede e vita, fra il cristiano e il cittadino. La dottrina sociale della Chiesa, che parla di centralità della persona e di bene comune, fa parte integrante della catechesi”. Lo afferma mons. Michele Pennisi, vescovo di Piazza Armerina, in una lunga intervista a pag. 2 del quotidiano La Sicilia. Rispondendo alle domande di Giuseppe Di Fazio, il prelato auspica “un cambiamento di mentalità, una conversione culturale e morale”. “Per i cristiani la mafia va interpretata e contrastata innanzitutto con categorie di fede perché sono insufficienti e inadeguate quelle sociologiche o politiche, o quelle ideologiche che vogliono ridurre il cristianesimo a “religione civile” funzionale alla modernità – dice – i cristiani devono impegnarsi non solo nel “no” alla mafia, ma in positivo lavorare “per” una cultura della vita, della libertà e della responsabilità. Come diceva mons. Cataldo Naro: la santità nella vita ordinaria deve essere il vero antidoto alla mafia. Non esiste legalità senza moralità – continua mons. Pennisi parlando di “fede deviata dei mafiosi e legalismo dei perbenisti” – chi si scandalizza degli omicidi mafiosi, spesso si fa propugnatore dell’aborto. In questo vedo una contraddizione perché si abbassa il livello della moralità e si va contro quel diritto alla vita che tutti dovremmo difendere: nelle vittime della mafia come negli embrioni”. Nell’articolo anche l’attenzione per la questione educativa. “La sfida a cui siamo chiamati è educare la domanda di felicità dei giovani (cioè, capirla, accompagnarla, non condannarla o disprezzarla), per evitare che trovino le risposte in esperienze negative – dice il vescovo di Piazza Armerina – considerato che per i giovani, ancora fragili, è “naturale cadere”, occorrerebbe fare in modo che trovino qualcuno che offra loro una mano per rialzarsi ed aprire il loro cuore alla speranza. Il santo non è chi non cade mai, ma chi dopo la caduta ha il coraggio di rialzarsi, perché si fida di Qualcuno che gli tende una mano. Dietro il disagio e la violenza giovanile  – aggiunge mons. Pennisi – sta l’irresponsabilità e l’inconsistenza di tanti adulti che hanno rinunciato alla loro funzione educativa, lasciando i giovani nella loro solitudine e nel loro vuoto interiore. Spesso l’educazione finisce per essere solo “istruzioni per l’uso”, come usare della vita, senza farsi troppo male. L’emblema è la raccomandazione di una mamma alla figlia che partiva per una gita: “Vai a divertirti, basta che non resti incinta”. Posso testimoniare che nei miei incontri coi giovani ho riscontrato anche tanto bisogno di compagnia, di affetto, di dialogo. Come Chiesa, abbiamo avviato progetti di sostegno a ragazzi in difficoltà. Ma occorre moltiplicare l’impegno”. [01]
26 Maggio 2008

LA MAFIA DEVOTA CHIESA,RELIGIONE,COSA NOSTRA……

Esiste un Dio dei mafiosi?Qual’è il rapporto tra gli uomini d’onore e la religione?Fin dalle origini,la mafia ha attinto alla simbologia cattolica per rinsaldare i legami tra i suoi associati e attribuire dignità alle proprie azioni,creando una “religione capovolta” a propria misura,cercando compiacenza e complicità tra i ministri di culto.L’assassinio per mano mafiosa di padre Pino Puglisi giunge al termine di un lento e difficile processo di maturazione che ha portato le gerarchie ecclesiastiche a una più critica sensibilità verso le ragioni della legalità.Resiste ancora oggi,tuttavia,una chiesa dalle molte anime,in cui l’opera dei sacerdoti impegnati a diffondere sul territorio una pastorale antimafiosa si scontra,spesso, con l’atteggiamento di condiscendenza che altri religiosi mostrano per le ragioni del popolo di Cosa Nostra. Una Chiesa divisa,dunque, da cui il potere mafioso tenta di ricavare il massimo profitto in termini di strumentale legittimazione.In questo libro la Prof.ssa Alessandra Dino,(docente associato di sociologia giuridica della devianza e del mutamento sociale presso l’Università di Palermo e componente del comitato della rivista scientifica “Narcomafie” e del comitato di redazione della rivista “Meridiana”),attingendo ad articoli di cronaca,saggi,documenti giudiziari e parlamentari,fino ai risultati di una ricerca empirica condotta su un campione significativo di parroci siciliani,le sue pagine sondano,scavano,fotografano,interpretano scenari complessi che non si lasciano liquidare entro schemi monolitici:non esiste una sola mafia come non esiste una sola Chiesa.

Lo scenario descritto in molte pagine del saggio-commenta don Luigi Ciotti-di Alessandra Dino sulla “mafia devota”lascia un senso di profondo disgusto.Ma al tempo stesso fa amare ancora di più quella Chiesa capace di vivere sino in fondo il suo ruolo “profetico”,affinchè gli strumenti dell’annuncio e della denuncia si concretizzino nella capacità di rinnovare le coscienze nel segno della giustizia e dei valori etici e civili. Una Chiesa che sappia parlare chiaro in tutte le occasioni-continua don Ciotti- in cui è richiesta una testimonianza coraggiosa,e che non abbia il timore di riconoscere eventuali colpe e omissioni del passato.


TELA DEL PITTORE PARTINICESE PROF.GAETANO PORCASI.

Presentate le tavole del Gravina….

Venerdì 23 Maggio,nel tardo pomeriggio,presso il teatro “Margherita” in Caltanissetta,per festeggiare il 75° anniversario della fondazione dell’editrice nissena “LUSSOGRAFICA”,è stato presentato il volume contenente la ristampa delle tavole cromolitografiche dei mosaici del duomo normanno di Monreale, create, a metà del 1800, dall’abate Domenico Gravina.Ora dedicato alla memoria di Mons.Cataldo Naro,Arcivescovo di Monreale, e, anche per questo, pubblicato nella collana “Scrinia” del centro studi “A.Cammarata”, fondato dall’allora  giovane prete Aldo Naro, 25 anni fa. L’iniziativa della ristampa delle tavole del Gravina, nacque allorquando Mons.Naro,divenuto arcivescovo di Monreale,scoprì l’esistenza dei due volumi dell’abate benedettino ritraenti gli splendidi mosaici del duomo di Monreale e concordò, con l’editore Granata, la ristampa degli stessi. In corso d’opera avvenne l’improvvisa dipartita di Mons.Naro. L’editore non abbandonò il progetto di ristampa della sublime opera del Gravina che è stata portata a termine per rispettare un grande desiderio dell’amico Mons.Naro e per questo motivo a Lui dedicata e stampata presso il Centro Studi “Cammarata”.A presentare la preziosa ristampa sono intervenuti il Prof.Paolucci,direttore dei Musei Vaticani e il Cardinale Camillo Ruini,vicario del Papa per la diocesi di Roma. A moderare l’incontro il direttore delle edizioni vaticane don Costa. Dinnanzi ad un folto pubblico di amici dell’editore Granata e di Mons.Naro,costituito da autorità religiose,civili,militari(tra cui l’Arcivescovo di Monreale Mons.Salvatore Di Cristina e il sindaco Toti Gullo) e da tanta gente comune,Il Prof.Paolucci,già ministro dei beni culturali nel governo Dini, ha presentato,con la sua grande competenza, la grandezza teologica,artistica e catechetica dei mosaici di Monreale.Diecimila metri quadri di mosaici che attestano la straordinaria grandezza del messaggio cristiano e che fanno del duomo normanno una realtà internazionale,un esempio di fede di Guglielmo II e una mediazione del messaggio cristiano i cui valori,da 2000 anni,danno vita ad una infinità di opere d’arte, finalizzate alla testimonianza dell’evento salvifico e alla trasmissione dello stesso,lungo i secoli, da una generazione all’altra. Oggi,in cui queste grandi realtà,sono primariamente oggetto di mete turistiche,come scriveva lo stesso Mons.Naro,urge il fatto di riportarle al centro dell’attenzione soprattutto per il loro grande valore teologico-catechetico e MISTAGOGICO. Cioè la contemplazione della Bellezza( mosaicale per Monreale),unitamente alla grande celebrazione liturgico-sacramentale della vita della Chiesa,consente ai fedeli di porre in essere una vera e autentica relazione con il mistero salvifico di Dio fattosi uomo. Tutto ciò fu colto dal grande teologo Romano Guardini,maestro di Papa Benedetto XVI,che visitò il duomo normanno nei giorni del triduo pasquale del 1929 e ne racconto nel suo “Viaggio in Sicilia”.

Lo visitò nei giorni della Settimana Santa: il giovedì durante la messa crismale e il sabato, durante la veglia che all’epoca si celebrava di mattina.
L’ arcivescovo di Monreale, Cataldo Naro, ha ripreso quel racconto di Guardini dall’originale tedesco, l’ha tradotto e l’ha riproposto ai fedeli all’interno di una lettera pastorale dal titolo “Amiamo la nostra Chiesa”, come a far da guida alle celebrazioni liturgiche d’oggi.
In quella pagina, il grande teologo tedesco scrisse tutto il suo stupore per la bellezza della basilica di Monreale e lo splendore dei suoi mosaici.
Ma, soprattutto, scrisse d’essere stato colpito dai fedeli che assistevano al rito, dal loro “vivere-nello-sguardo”, dalla “compenetrazione” tra questo popolo e le figure dei mosaici, che da esso prendevano vita e movimento.
“Gli sembrò – nota l’arcivescovo Naro nella lettera pastorale – che quel popolo sperimentasse un modo esemplare di celebrare la liturgia: con la visione”. La basilica di Monreale, capolavoro dell’arte normanna del XII secolo, ha le pareti interamente rivestite da mosaici a fondo d’oro con le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, gli angeli e i santi, i profeti e gli apostoli, i vescovi e i re, e il Cristo “Pantocrator”, reggitore di tutto, che dall’abside avvolge con la sua luce, il suo sguardo, la sua potenza il popolo cristiano.

L’intervento del Cardinale Ruini,ha sottolineato,invece,la straordinaria personalità di Mons.Naro,fine storico,studioso del cattolicesimo popolare e di tutto quel movimento innovatore che scaturì dalla “Rerum Novarum”, di Leone XIII,che determinò,anche in Sicilia,una miriade di iniziative di carattere spirituale,culturale e caritativo-assistenziale. Anticipatore del Progetto culturale della Chiesa in Italia, grazie proprio alla fondazione del centro-studi “Cammarata” nel 1983.Inoltre,il Card.Ruini ha sottolineato la grande amicizia che nacque con Mons.Naro:un siciliano vero conoscitore della sua terra che gli ha dato la possibilità di conoscere tante cose della Sicilia e di superare tanti luoghi comuni e stereotipi che non rispecchiano la vera identità dei siciliani.Infine,l’alto prelato,ha tracciato un profilo spirituale di Mons.Naro,sacerdote e Vescovo secondo il cuore di Dio e ubbidiente alla Chiesa che ha amato e servito profondamente, nella diocesi nissena,nel grande lavoro svolto alla facoltà teologica di Sicilia,nel grande, autentico e innovativo contributo dato alla Chiesa italiana attraverso il progetto culturale ed altro e, soprattutto, nella realtà sponsale della diocesi monrealese affidata alla sua guida pastorale, dal 18 ottobre del 2002 sino al giorno della sua morte avvenuta il 29 Settembre del 2006.Ruini ha invitato ad accettare la morte-prematura ed inaspettata- del presule, come segno del progetto di Dio e lavorare per raccogliere i frutti copiosi del grande lavoro svolto da Mons.Naro.

L’edizione Lussografica,nei suoi 75 anni di vita,ha dato un grande contributo allo sviluppo del territorio nisseno,ponendo in essere una grande mediazione tra le varie realtà presenti nel territorio e la loro anima,ossia la cultura.Per la circostanza,il pittore partinicese Prof.Gaetano Porcasi,persona estremamente sensibile a creare, con il suo estro pittorico, percorsi artistico culturali finalizzati al RICORDO delle vittime della mafia e non solo,ha dato vita a due opere pittoriche raffiguranti, rispettivamente, la processione della “Real Maestranza” di Caltanissetta e un ritratto, davvero commovente, di Mons.Naro che sono stati omaggiati al Prof.Paolucci e al Cardinale Ruini.Inoltre, il pittore Porcasi,sempre nella medesima circostanza,ha regalato due litografie, trattate ad olio,raffiguranti Giovanni Paolo II, al vescovo di Caltanissetta Mons.Mario Russotto e a Don Costa.Per ricordare la circostanza verrà realizzato anche un DVD per chi fosse interessato a vedere tutta la manifestazione.

CASA ROSETTA-DIPARTIMENTO DI STATO USA:II CORSO CONTRO LA TOSSICODIPENDENZA.

Casa Famiglia Rosetta,fondata e diretta da don Vincenzo Sorce,unitamente al Dipartimento di Stato USA,hanno dato il via,presso la struttura di san PioX a Partinico, la Seconda Sessione del Training sul trattamento della tossicodipendenza.Un’attenzione concreta e per nulla speculativa sui problemi dell’Africa da tempo attenzionata dall’operato pastorale di Don Vincenzo Sorce “un prete per gli ultimi”.Difatti da circa 30 anni la parrocchia di don Vincenzo è “la strada” per dare soccorso e rifugio a chi non ha voce.Tossicodipendenti,alcolisti,ragazze madri,soggetti con problemi da HIV,soggetti vittime del gioco d’azzardo.Un prete “strano” e fuori dal comune don Vincenzo Sorce che ha scelto più che le vie della comodità,del quieto vivere,quelle delle difficoltà,della solitudine,della non-comprensione.Si,perchè don Vincenzo con la sua opera, silenziosa ma efficace,”fa ombra” ai benpensanti,a coloro che non osano mai sporcarsi le mani,agli opportunisti che s’inventano la carità per il proprio tornacondo.Una vita scomoda e sempre sulla breccia quella di Don Vincenzo Sorce…..

Solo poco più di due settimane di pausa e riprende l’avvio il Training
sul trattamento della tossicodipendenza in favore di professionisti
provenienti da Costa d’Avorio, Nigeria, Kenya, Tanzania e Mozambico,
organizzato e condotto da Casa Famiglia Rosetta e dal Dipartimento di
Stato Americano.
I ventidue corsisti – medici, psicologi, psichiatri e manager di
organizzazioni della sanità pubblica e privata – sono attesi di nuovo a
Partitico dove, nelle due settimane che andranno dall’11 al 25 maggio
prossimi, si svolgerà la Seconda Sessione delle attività formative.
Dopo la conclusione della prima sessione, tutti i partecipanti sono
rientrati nei Paesi di provenienza con un progetto, un “action plan”,
da avviare e verificare in ciascuna Nazione e sul quale relazioneranno
ai Formatori italiani e statunitensi che sono stati chiamati a condurre
le attività di questa seconda tranche.
Un periodo che, contemporaneamente ha impegnato la segreteria
scientifica e i trainers nella verifica dei primi risultati e nella
rimodulazione definitiva del programma di lavoro della seconda
sessione.
Assai positivi gli esiti della prima sessione: estremamente
soddisfatti del lavoro svolto e degli obiettivi conseguiti, i
partecipanti hanno sollecitato Casa Famiglia Rosetta e il Dipartimento
di Stato USA a dare seguito all’iniziativa con la creazione, in un
prossimo futuro, di servizi e attività di formazione in tutti i Paesi
coinvolti.
La seconda sessione prenderà ufficialmente l’avvio con la cerimonia di
apertura del 12 maggio, alle 9 del mattino, presso il Centro di
Formazione di Casa Famiglia Rosetta “Istituto S. Pio X” a Partinico.
Saranno presenti, tra gli altri, il Dr. Gilberto Gerra dell’ONU e il
Dr. Thomas Browne, dirigente del Dipartimento di Stato degli Stati
Uniti d’America.
Durante la seconda sessione si punterà l’attenzione sui diversi
modelli terapeutici per il trattamento della tossicodipendenza. In tale
ambito, sono previsti gli interventi degli operatori del settore di
Casa Famiglia Rosetta e del Dr. Derrick Crim, esperto della Social
Solutions, Ente che collabora nella conduzione delle attività.
Nel corso dell’ultima settimana di formazione, don Vincenzo Sorce
terrà una relazione sulla spiritualità in terapia ed una sulle
metodologie di progettazione e programmazione, mentre il Dr. Salvino
Leone, medico ostetrico-ginecologo e fondatore dell’Istituto Siciliano
di Bioetica, relazionerà sugli aspetti etici del trattamento della
tossicodipendenza. Il Dr. Giuseppe Lombardo, psicologo, responsabile
dell’Unità Operativa di educazione alla salute dell’ASL di
Caltanissetta terrà una lezione su educazione e promozione della salute
e metodi di prevenzione. Jenny Karp e Susanna Nemes, della Social
Solutions si occuperanno di presentare i criteri di utilizzo della
ricerca e della valutazione per il miglioramento dei risultati del
programma, etiche della ricerca e uso dei test, trattamento per
adolescenti e minoranze etniche, donne e adulti anziani.
In considerazione del successo fatto registrare dalla visita di studio
effettuata durante la prima sessione presso la Comunità terapeutica
“Villa Ascione”, sono state programmate analoghe visite dei
partecipanti presso la Comunità Terapeutica per il trattamento dell’
alcolismo “L’OASI” di Caltagirone, e la Comunità Terapeutica “La
Ginestra” di Caltanissetta, che accoglie donne con problemi di
dipendenza da sostanze e con figli.
A conclusione delle attività, ad ogni partecipante sarà consegnata
copia di tutto il materiale oggetto di studio, i testi delle lezioni e
i diversi supporti, nonché un report globale sulla situazione della
dipendenza da sostanze in ciascuno dei cinque Paesi Africani
interessati. È anche prevista la futura pubblicazione di un volume che
raccoglierà gli atti dell’intero Training.

IL VIAGGIO:INDAGINE SUL SANTUARIO DI “BILICI”.

U Signuri di Bilici(foto di Melo Minnella)


I luoghi santi

Questi sono i segni. Ma più che i segni, importanti sono i luoghi. E vi sono sempre dei luoghi santi, per le religioni cosmiche. Luoghi santi, o scelti da Dio stesso che fugacemente discende sopra la terra dopo che è salito nel cielo, o scelti dall’uomo e riconsacrati da Dio perché in questo luogo l’uomo possa veramente rientrare in contatto con Lui. Ce ne sono nel buddismo, ce ne sono nell’induismo; tutte le religioni conoscono questo spazio sacro. Perché? Perché dopo il peccato di Adamo la terra è stata maledetta, ed è stata abbandonata da Dio. E l’uomo può vagare sopra la terra, ma non s’incontra più con Dio; bisogna che un certo luogo Dio lo scelga di nuovo per incontrarsi con l’uomo e bisogna che l’uomo lo riconsacri perché in qualche modo in quel luogo gli uomini possano entrare in comunione con la divinità.
In tutte le religioni ci sono questi luoghi santi: nell’induismo, chiunque si lava nelle acque del Gange è salvo, ma chiunque vada al monte Arucciola entra in comunicazione con Dio. Nonostante l’induismo sia una religione che, in fondo, non conosce un Dio personale, almeno nei suoi massimi rappresentanti, tuttavia la religione popolare, che è sempre una religione più vera della religione filosofica, ha bisogno di presentare all’uomo come una certa sacramentalità per la quale gli uomini vivono in comunione con un dio personale, con un dio vivo che anche ama. Ecco perché anche Ramana, il più grande mistico dell’induismo moderno (che pure poi seguirà la concezione religiosa di Sciankara, nella quale in fondo Dio s’identifica al puro spirito, e la salvezza non consiste che nel semplice riconoscimento di essere una sola cosa con lo spirito stesso), anche Ramana non vive il suo incontro con Dio, all’inizio, che come volontà di accedere a un luogo sacro. A 16 anni prende sei rupie in casa del padre, prende il treno e va alla stazione più vicina al Monte Arucciola, e poi là vivrà fino alla morte, nelle caverne del monte: lì vive la sua unità col Tutto, la sua unità con Dio, sul monte santo dell’India meridionale.
Quello che è proprio dell’induismo è proprio anche del buddismo: nel buddismo non vi è una concezione di Dio, però vi è una concezione di una liberazione, vi è un bisogno di liberazione, di salvezza per l’uomo, e la salvezza e la liberazione per l’uomo implicano di per sé la scelta di un luogo: il Mandala. C’è anche un senso più o meno cosciente che tutta la creazione è maledetta, che l’uomo vive in un’alienazione, come cacciato dal paradiso terrestre. Per vivere una comunione con Dio bisogna che l’uomo rientri in questo paradiso. Bisogna dunque che il paradiso l’uomo se lo crei, e lo crea attraverso quello che dicono appunto i Mandali: uno spazio sacro in cui l’uomo entra per vivere un contatto più intimo con la divinità.
Quello che è vero per il buddismo è vero anche per l’Islam: la Mecca. In questo luogo Dio ha parlato a Maometto: questo luogo è dunque il luogo dell’incontro. D’altra parte questo luogo, la Mecca, ha la pietra sacra, una meteorite nera che ci dice precisamente come sia perpendicolarmente a questo luogo che il cielo è aperto, che Dio entra in comunione con l’uomo. Ed ecco che tutti i musulmani andando in pellegrinaggio alla Mecca sono coscienti della loro salvezza: nel giorno del giudizio saranno liberati da Dio.
Quello che è vero per l’Islam è vero anche per l’ebraismo: anche nell’ebraismo vi sono luoghi santi. Prima di tutto è santa la terra; la terra promessa da Dio. Anche oggi la mistica ebraica insegna che respirare nella Palestina è qual che cosa di santo, rischiara il pensiero, purifica il cuore: la terra sacra è un sacramento. Vivere nella Palestina è già fare comunione, magari più misteriosa ma reale, con la divinità. Ecco perché, dal momento che gli Ebrei sono stati cacciati in tutta la terra, tutto non vive che l’ansia, che la nostalgia della Palestina; e, anche se oggi gli Ebrei sono tornati in Palestina, vi sono tornati proprio perché, anche se non hanno più fede, agisce in loro quasi una forza ancestrale, quasi una nostalgia del paradiso, questa nostalgia di un luogo santo, in cui la nazione deve risorgere, la nazione riavrà la vita, perché la nazione è la nazione di Dio, perché questo popolo è il popolo scelto da Dio; ma il popolo può vivere la sua elezione, la sua comunione con Dio, l’alleanza, precisamente soltanto in questo luogo già determinato dal Signore. Voi sapete che tutta la storia dell’ebraismo, dal secolo IV fino ad oggi, non è stata che un sempre nuovo tentativo di tornare laggiù.
Ma vi sono altri luoghi più santi ancora della terra sacra. Il primo è al di fuori della terra sacra: il Sinai. Dio si è allontanato dalla terra, è risalito nel cielo, come dice il salmista: “Il cielo è di Dio, la terra Dio l’ha data agli uomini”, e anche come dice il Libro dell’Ecclesiaste: “Dio sta nel cielo e l’uomo sulla terra”. Ma se col peccato di Adamo Dio si è allontanato definitivamente dal mondo, ora invece discende, discende per seguire il suo popolo, nella nube, nella colonna di fuoco. Discende per lo più sul Sinai, e il primo incontro vero con l’uomo avviene lassù, sulla cima: non Dio stesso discende, ma Dio discende col suo cielo: la nube. E ricopre la cima del monte, e Mosè entra nella nube e parla con Dio. L’entrare nella nube, per la cosmologia antica, voleva dire entrare nel cielo; è Mosè che entra nel cielo, più che Dio che viene sulla terra; tuttavia però, se il cielo di nuovo si attacca alla terra sulla cima del monte Sinai, il monte Sinai che cosa diviene? Diviene l’onfalos, nome greco che vuol dire ombelico.
Quando noi siamo nati eravamo legati alla madre attraverso il cordone ombelicale, che poi è stato tagliato perché sennò non c’era indipendenza di vita fra il bambino che nasceva e la madre. Qualche cosa di simile è avvenuto con la creazione: la terra si è separata dal cielo, però c’è l’ombelico, c’è un punto in cui la terra è ancora legata al cielo. Questo punto può ritornare di nuovo ad essere il luogo dell’ incontro. Quale sarà l’ombelico della terra? Il monte più alto, il Sinai. Ecco il primo onfalos. Allora Mosè salendo sull’onfalos si mette nella condizione di poter entrare di nuovo in comunione con Dio. Difatti Dio discende su questa cima della montagna, e Mosè e Dio s’incontrano, e parlano.
Più che essere Dio che discende, è la terra che di nuovo si congiunge col cielo; e Mosè parlando con Dio lascia la terra. Difatti per quaranta giorni e quaranta notti che cosa avviene? Dice l’Esodo che Israele non vede più Mosè. Si vede Dio con gli occhi mortali? No, Dio è invisibile. Mosè diviene invisibile; siccome entra nel cielo, cioè nella nube, anche Mosè diviene invisibile: è entrato nel mondo divino. Ma il luogo dell’incontro è il monte Sinai. Di là Dio parla: là Egli stabilisce l’alleanza con l’uomo. Il Sinai dunque sarà sempre un luogo santo per Israele. “Dio viene dal monte Paran”, dirà Abacuc, dopo tanti anni e secoli dal dono della Legge dato a Mosè. E quando si vorrà rinnovare l’alleanza, come al tempo del profeta Elia, dopo che tutto Israele è stato infedele a Dio, che cosa farà il profeta? Il profeta Elia camminerà dal regno d’Israele per quaranta giorni e quaranta notti fino a raggiungere il monte Oreb, che è il monte Sinai, per ristabilire l’alleanza con Dio. L’uomo parla a Dio di nuovo, l’uomo s’incontra con Dio e Dio con l’uomo: di nuovo l’uomo vede Dio.

Sacramentalità di spazio e tempo

Ma perché legare la nostra vita religiosa a dei luoghi precisi? Non è forse vero che Gesù ha detto: “Non adorerete il Padre né a Gerusalemme né sul monte Garizim, ma adorerete il Padre in spirito e in verità”? Il luogo vero in cui noi siamo raccolti non è il seno del Padre? Non è il corpo glorioso del Cristo? Sì. Infatti al Tempio di Gerusalemme si sostituisce questo tempio che è il Corpo di Gesù (cap. II del IV Vangelo) E tuttavia dobbiamo stare attenti, perché si rischia altrimenti di volere anticipare l’economia definitiva, che è l’economia della gloria. Perché, volere o non volere, è vero che noi viviamo nel Cristo Signore, ma è vero anche che noi abbiamo bisogno, per vivere nel Cristo, di una sacramentalità, abbiamo bisogno dei sette Sacramenti che sono ancora dei segni sensibili. Ma oltre i sette Sacramenti c’è una sacramentalità che è propria ancora di tutte le cose, che deve essere ancora propria dello spazio, che è ancora propria del tempo; anche dopo il Cristo vi sono dei momenti particolari, particolarmente consacrati da Dio. Dice Serafino di Sarov: “Tutti i giorni è Pasqua”. Sì, però non c’è nulla da fare: Pasqua è Pasqua e il Mercoledì delle Ceneri è il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo è il Venerdì Santo. Dice il Papa S. Gregorio Magno: “Tutti i giorni è venerdì santo”. Ma il giorno di Pasqua non si fa di venerdì santo. C’è una differenza. E dice la Chiesa: “Ecco dunque il tempo accettabile”. Vi è l’Avvento, vi è il Tempo Pasquale e vi è la Quaresima: i tempi sono diversi, perché dipendono dalla libertà di Dio. Sul piano naturale, sul piano della creazione, il tempo è un procedere uguale, uniforme, ma il tempo di Dio non è uniforme, perché la libertà dell’amore divino distingue, contrassegna i tempi secondo la sua volontà e secondo il suo modo.
Questo è vero anche nel cristianesimo, non solo nella storia sacra d’Israele, negli avvenimenti sacri della storia, ma anche nella nostra vita. Pensate voi che sia uguale per me il momento in cui sono stato consacrato sacerdote al momento in cui ho dormito stanotte a letto? È un po’ diverso. Di lì è dipeso il destino di tutta la mia vita, non è vero? Non sono eguali i nostri momenti, e non sono eguali nemmeno sul piano religioso, sul piano di una nostra comunione con Dio. Ci sono dei tempi forti. Si ha un bel dire che si deve vivere sempre l’unione con Dio, però in certi momenti questa unione la realizziamo in modo più profondo, più vivo, più intenso, mentre in alcuni altri momenti, nonostante la nostra buona volontà, non si riesce. Nella nostra vita religiosa ci sono dei momenti veramente particolari, momenti sacri o momenti meno sacri, e questo è vero anche per i luoghi, anche per noi cristiani.
Che cos’è il cristianesimo? È il mistero del Cristo che si prolunga nel tempo, si dilata nello spazio. Ma non s’è detto che si prolunga in modo uniforme come legge di necessità fisica, come legge di necessità naturale; si prolunga e si dilata per l’azione concorde, ma libera, di Dio e dell’uomo; perché dipende sempre e dall’amore dell’uomo, e dall’amore di Dio; la libertà dell’amore divino, e la libertà dell’uomo che risponde. Proprio per questo i momenti della nostra vita non sono tutti uguali, perché noi amiamo più o meno, e dipende anche da noi, dalla nostra volontà, e dipende dalla grazia di Dio. Quello che Dio ti dona un giorno, non te lo dona un altro, e quell’impegno che oggi tu vivi, forse non l’hai vissuto ieri. Dipende da una duplice volontà.
E dipende anche da una duplice libertà anche riguardo ai luoghi, da una scelta di Dio anche per i luoghi, durante la storia cristiana. Se il mistero cristiano si dilata, si dilata già secondo un disegno divino, che Dio solo conosce; si dilata anche per un impegno umano, che dipende dall’uomo. È Dio che sceglie. Vi sono luoghi che veramente Egli ha scelto anche nella storia dell’uomo; in cui in qualche modo si fa di nuovo presente il mistero cristiano, legato non solo a dei riti cultuali, ma ai luoghi precisi, scelti dalla Provvidenza divina.

I santuari

I santuari dicono che la nostra vita religiosa non è mai un’evasione dal tempo, non è mai un’evasione dalla creazione. Troppo spesso la vita religiosa dei cristiani – non perché cristiana, ma perché subisce l’influenza di uno spiritualismo che non è cristiano – implica una evasione dal tempo e dallo spazio. Più di quella dei teologi, è proprio la religione del popolo che è la religione di Dio, che ci riporta a vivere la nostra comunione con Dio, nella comunione con la terra. Come non possiamo vivere una comunione con Dio separandoci dagli uomini, così non possiamo vivere una comunione con Dio separandoci dalla terra. Quando nel secolo XVI anche i santi si sono separati dalla terra, la loro spiritualità è divenuta qualcosa di troppo ascetico, di troppo sforzato, come la spiritualità anche dalla Compagnia di Gesù. Pensate la spiritualità monastica come è più naturale! Vivere al ritmo delle stagioni! L’orario, per esempio, della preghiera, secondo S. Benedetto, cambia col cambiare delle stagioni: d’estate viene giorno più presto, bisogna alzarsi più presto; d’inverno invece si può dormire di più. C’è un rapporto costante con la creazione. Ecco perché i luoghi dove l’uomo viveva il suo rapporto con Dio fino al 1500 erano in campagna, non in città.
E noi viviamo anche oggi un bisogno di vita religiosa rientrando in comunione con la terra; infatti i luoghi dove si fanno gli esercizi spirituali sono luoghi dove si può vedere un po’ di verde, vivere un pochino in contatto con l’acqua, con i monti. E il luogo santo della Comunità non è mica Via di Mezzo – anche se Via di Mezzo non mi dispiace per la sua povertà, per la sua semplicità – ma certo il luogo santo è San Sergio, è la Trasfigurazione. Gliel’ho sempre detto a quelli di San Sergio: rendetevi conto che deve essere un luogo santo! Dio l’ha scelto per voi e voi l’avete scelto per Dio. Che questo luogo divenga veramente un luogo di convegno per tutta la Comunità. Che andando lassù si vada sempre più vicini a Dio. Non è soltanto un andare a respirare aria pura: mentre si respira aria pura, ci si incontra anche più facilmente con Dio,
La nostra vita cristiana implica questo. Perché? Perché il cristianesimo è sì una economia di realizzazione ultima, di compimento, e il compimento ci porta nel seno del Padre e ci inserisce nel corpo glorioso del Cristo, però viviamo ancora nell’economia sacramentale. Il pretendere di poter sfuggire a questa economia è invece cadere nel nulla, in uno spiritualismo falso. Non si può vivere soltanto nel seno del Padre, pretendendo di poterci vivere senza questo contatto con la realtà, con la terra. Rimane più facile la vita religiosa se essa si svolge in un contatto sereno, vero, con la terra madre, che è il contatto con la Vergine, che è il contatto col Cristo. Anche Gesù benedetto, pur essendo figlio di Dio, ha voluto vivere questo contatto: è entrato nella città, ma ha vissuto attraverso tutta la Galilea e la Giudea, nel deserto e lungo la via del Giordano, nei villaggi della Galilea, lungo il mare di Tiberiade, e in un contatto coi monti. E oggi, cosa è sacro di quello che Gesù ha veduto e toccato? Non più Gerusalemme, perché la Gerusalemme di oggi non è più quella che Egli ha conosciuto, ma i monti son questi, ma il cielo è quello, ma l’acqua è quella. Oh, poter navigare su quell’acqua, vedere quel cielo, toccare quella terra! Quando siamo andati in Terra Santa abbiamo portato via dei sassi: sono sassi, ma sono per me veramente qualcosa di sacro. E quale è stata la nostra commozione quando vedemmo la scala che è stata scoperta nel 1911, che dal Monte Sion discende al fìumicello! È la scala per cui Gesù benedetto è disceso quando è sceso all’Orto degli Ulivi. Gli ulivi certamente non sono più quelli di quando Gesù agonizzò nell’orto, ma la grotta sì, perché è la grotta naturale in cui dormivano gli apostoli, quella da cui Egli si distaccò per pregare . Abbiamo visto la grotta, abbiamo disceso gli stessi scalini: sono quelli i luoghi più santi.

Il pellegrinaggio

In questo cammino che ti porta a Dio, ci sono per te dei tempi e dei luoghi privilegiati d’incontro. È vero per la Chiesa, è vero per l’uomo. Indubbiamente la storia della Chiesa ha consacrato per sempre, anche per la comunità intera dei credenti, dei luoghi privilegiati in cui gli uomini possono incontrarsi più facilmente con Dio. Non si può dire che nemmeno per noi cristiani tutti i luoghi sono uguali: se fossero tutti uguali, si ricadrebbe in una vita religiosa, o piuttosto in una spiritualità, di carattere filosofico, non in una spiritualità e in una vita religiosa che ha il suo fondamento in una rivelazione divina che di per sé non ha altro fondamento che la libertà del volere di Dio e la libertà dell’amore dell’uomo che a Dio risponde. Anche la nostra vita religiosa ci impegna a degli incontri particolari. Non è senza motivo che anche in questi ultimi decenni si sia rinnovato nella Chiesa questo esercizio del pellegrinaggio. È vero che i pellegrinaggi oggi non costano più come costavano qualche secolo fa, ma è vero che anche il pellegrinaggio può essere, sia per le comunità parrocchiali, sia per le diocesi, sia per i singoli cristiani, un nuovo stimolo di accesso a Dio.
Voi mi dite che l’accesso a Dio si compie, come diceva S. Agostino, non attraverso il cammino dei passi, ma il cammino degli affetti. È vero; però noi non dobbiamo mai dividere l’uomo. Quello che egli vive nell’intimo deve sempre anche viverlo attraverso una traduzione sensibile, attraverso l’espressione di una vita sensibile. Non è mai possibile per l’uomo vivere una vita puramente spirituale, se l’uomo vive anche nel corpo. Perché sia più facile a lui il vivere un distacco da sé, si impone anche un distacco dalla propria famiglia, dalla propria vita, dai propri luoghi. Voi vedete che la vita religiosa in generale implica uno staccarsi dalla casa, dalla famiglia, un entrare in un nuovo mondo, un accedere a un luogo nuovo. Sempre una risposta a Dio ha voluto dire qualcosa di questo. E quando questo non avviene, c’è sempre un certo pericolo che in fondo la nostra vita rimanga puramente formale, vissuta soltanto con le parole. È vero che l’abito non fa il monaco, è vero che entrare in un convento non vuol dire vivere una vita religiosa, ma è anche vero che è più difficile vivere una vita religiosa senza l’abito, senza un effettivo distacco, senza lasciare la propria famiglia, la propria casa, senza andare in un altro luogo. Credo effettivamente che abbia voluto dire qualche cosa per me quando ho lasciato Palaia e sono andato a San Miniato, quando ho lasciato San Miniato e sono venuto a Firenze. Potevo vivere certamente la mia risposta a Dio anche rimanendo là dove ero, ma il distacco affettivo è reso più facile e reale anche da un distacco effettivo. C’è un’esigenza che si traduce sempre anche sul piano sensibile un movimento dello spirito.
Mi dicevano alcuni di voi che quando siano andati in pellegrinaggio in Terra Santa, quantunque abbiamo fatto meno meditazioni, questo pellegrinaggio è stato più fecondo che un corso di esercizi. Perché? Perché abbiamo incontrato dei luoghi santi. Come è importante dunque incontrare i luoghi santi resi sacri dalla pietà di coloro che ci hanno preceduto, resi sacri da una scelta positiva di Dio! Noi sentiamo che l’andare là può essere per noi una nuova grazia, un nuovo incontro col Signore. Certo sono mete parziali, non possiamo condizionare la nostra vita con l’andare, per esempio, a Lourdes, perché a Lourdes ci si incontra Dio come lo si incontra qui, cioè in modo parziale. È soltanto per noi un accedere a una intimità maggiore con Dio; ma anche da Lourdes dobbiamo distaccarci per andare di nuovo oltre.
Il pellegrinaggio comunque rimane una forma privilegiata della vita religiosa; e credo proprio per questo che la Comunità, se vuol vivere vita contemplativa, non deve mai legarsi col voto di stabilità. Io credo che anche nella Comunità si dovrebbe sentire di più il bisogno di visitarci i gruppi coi gruppi, le città con le città; di andare ogni anno anche a fare dei particolari pellegrinaggi. Ma è importante anche per la nostra vita religiosa il venire a S. Sergio anche semplicemente per il ritiro mensile. Dovete capire l’importanza che ha il lasciare la vostra casa, il venire su; fate in modo che questo cammino acquisti un carattere davvero di pellegrinaggio!
Voi mi direte: tutto si può vivere indipendentemente dai luoghi e dal tempo. Non è vero nulla! Dio ci fa vivere in un’economia sacramentale, e la prima sacramentalità è quella proprio del tempo e dello spazio che ci mette in comunione con Dio. Si tratta di una sacramentalità che non è propria dello cose come tali, ma è propria delle cose in quanto Dio le assume, perché ci parlino di Lui, ci comunichino la sua grazia. Io so, per esempio, che importanza riveste per voi la casetta eremitica di Monte Senario. Perché? Perché lì è nata la Comunità, in fondo, come forma di vita religiosa, e noi sentiamo che arrivare lì è come ritornare alle origini, come rinnovarsi nello spirito. Ma quello che è vero per il Monte Senario è vero anche per S. Sergio, deve essere vero anche per la Trasfigurazione, luogo santo di Dio. Il pericolo è per quelli che ci stanno; che a un certo momento ci si abituano, e la Trasfigurazione diventa come una qualunque altra casa; magari borghese come tutte le altre case. E invece è un luogo santo, e per questo bisogna che ci sia anche un certo distacco che già viviamo; che rimaniamo staccati col cuore. Perché? Perché non è mai meta. Se lì, per esempio ci troviamo per stabilirci, per starci per benino, diventa una meta, e come meta già porta con sé il pericolo di adagiarsi e di non camminare più.
Bisogna fare in modo che l’anima sempre sia veramente in cammino, non si leghi a nulla, perché il legarsi a qualcosa è già impedire per l’anima questa libertà che è in lei.(Riflessioni di Don Divo Barsotti)

PREMESSA

Questa indagine, condotta alla metà degli anni novanta, riguarda un caso singolare di religiosità popolare tuttora rileva­bile nella Sicilia centrale, presso il santuario di Castel Belici, 489 metri s.l.m., non lontano dai comuni di Marianopoli e Villalba, in provincia di Caltanissetta. Ogni anno il 3 maggio, nella giornata che il calendario liturgico cattolico dedicava all’Invenzione della Santa Croce, diverse migliaia di pellegrini spesso a piedi, talora scalzi, si recano a rendere omaggio ad un Crocifìsso ligneo scolpito nel XVII secolo.

Il tempio, lasciato senza cura per un lungo periodo, è stato recuperato al culto popolare per volontà dei devoti e delle devote del Signuri di Bilìci, ritenuto portentoso e taumaturgo per molte malattie. La chiesa di Castel Belici è ricca di ex voto, a testimonianza delle grazie che i fedeli ritengono di aver otte­nute dal miracoloso Crocifisso.

Grazie alla spinta dal basso, all’interesse ed alla pressione del popolo, la devozione è rifiorita di recente, anche per l’occasione del 350.mo anniversario dall’inizio del culto al Crocifisso nella cappella del castello feudale. Una commissione di laici, accom­pagnata da una vigile consulenza ecclesiastica, ha da tempo l’in­carico di organizzare la celebrazione solenne del 3 maggio e di curare l’accoglienza presso il santuario.

L’inchiesta è stata realizzata sia con una metodologia quanti­tativa (mediante la somministrazione di 350 questionari ai pel­legrini) sia con una metodologia qualitativa (attraverso l’osser­vazione partecipante e numerose interviste libere con vari pro­tagonisti dell’evento).

I partecipanti al pellegrinaggio, provenienti da diverse parti della Sicilia, chiamano «il viaggio» (u viaggiti) la loro esperien­za di cammino verso il santuario. Il viaggio può essere intra­preso sia per chiedere un aiuto particolare sia per ringraziare di qualche vantaggio ottenuto.

La ricerca è stata coordinata da Roberto Cipriani che è autore della Premessa, dell1‘Introduzione, della Conclusione e dei capitoli I, II e V; Angelo Turchini è autore del capitolo III e Carmelina Chiara Canta è autrice dei capitoli VI, VII, Vili e IX. E stato anche inserito uno scritto di Giuseppe Butera, gio­vane studioso di Marianopoli, su frate Innocenzo da Petralia, cui è attribuito il Crocifisso del santuario di Belice: è il capito­lo IV.

INTRODUZIONE

Se in un comune della Sicilia centrale, ad esempio in pro­vincia di Caltanissetta, Agrigento, Palermo, capita che qualcu­no abbia dei problemi di salute, che non riesce a risolvere per le vie mediche abituali, può sentirsi consigliare da un congiun­to, un amico, magari un estraneo, di rivolgersi a lu Signuri di Bilìci, il quale «prowederà».

Questo genere di provvidenza non può che essere di natura trascendente, divina. In effetti, lu Signuri di Bilìci altri non è che Cristo stesso raffigurato come Crocifìsso, in una scultura in legno realizzata da un frate-artista del XVII secolo, Inno­cenzo da Petralia, autore di molte altre opere simili realizzate in diverse parti d’Italia (dalla Sicilia, soprattutto, a Roma, Loreto, Assisi).

Indubbiamente l’opera del religioso-scultore è di fattura pregevole. Soprattutto il capo del Crocifisso suscita un notevo­le fascino. Lo si direbbe una creazione non umana. Non a caso su di esso è nata una leggenda, variamente ricordata e costella­ta di dettagli da parte dei nostri intervistati, che raccontano dell’intervento di un angelo per completare l’opera rimasta incompiuta proprio all’altezza della testa.

Se è vero che la suddetta opera d’arte esercita una sua attrattiva tutta speciale nondimeno vi è da dire che la sua presenza al castello di Belici non è casuale. Essa è in fondo il frut­to di un preciso disegno che nasce dall’azione controriformista della Chiesa cattolica, a lunga gittata, nel secolo XVII, con il desiderio di contrastare il movimento protestante.

In effetti il caso del Crocifìsso di Belici non è isolato. Esso è un punto di riferimento essenziale, uno snodo si direbbe, per una fìtta rete di culto che si ramifica in particolare nella Sicilia centrale e vede il proliferare di espressioni locali e persino domestiche che ruotano senza soluzione di continuità attorno alla figura del Cristo crocifìsso.

La scelta di questa immagine, di così forte impatto per la cultura popolare, non è senza significato. Essa risponde ad un desiderio preciso: mantenere legate o recuperare le masse popo­lari alla Chiesa-istituzione, ritrovare un punto di dialogo, di connessione. Quale migliore soluzione, dunque, se non quella della figura umanissima del Gesù dolente, vittima sacrificale, incarnazione massima del dolore umano, modello di sofferenza e parametro essenziale per gruppi di persone avvilite da dram­mi personali quotidiani e tragedie immani che scaturiscono da guerre, pestilenze e carestie?

Sociologicamente si deve osservare che il cattolicesimo in quest’area (ma non mancano esempi anche altrove) ha colto nel segno facendo della figura del Cristo in croce un medium formidabile di comunicazione, in grado di resistere alle traver­sie dei secoli e suscettibile di essere recuperato anche in un’e­poca che si direbbe tutta dominata da spinte secolarizzanti e da nuovi idoli globali.

In verità il culto del Crocifìsso riesce ad allignare agevol­mente su un terreno che non è affatto alieno da sensibilità di tipo religioso, come è emerso anche in una precedente indagi­ne condotta nella medesima area [Cipriani 1992] e che tutta­via non aveva dedicato spazio alla religiosità popolare, esami­nata invece più specificamente attraverso questa ricerca sul pellegrinaggio al Castello di Belici.

Altre forme di pellegrinaggio non mancano di costellare il

calendario annuale dei devoti siciliani, impegnati a visitare i numerosi santuari dell’isola o ad affrontare viaggi più-lunghi per recarsi a San Giovanni Rotondo presso la tomba di Padre Pio, a Pompei, a Loreto, o, ancora più lontano, a Fatima o, soprattutto, a Lourdes. Del pellegrinaggio a quest’ultima loca­lità francese si pensava di tenere anche conto, nel progetto ori­ginario di questa ricerca. Ma poi, per ragioni contingenti (la sopravvenuta indisponibilità di ricercatori già specialisti in questo genere di ricerche in itinere) ed anche per considerazio­ni più rigorosamente metodologiche (il campione dei treni per ammalati e loro accompagnatori a Lourdes è troppo ristretto, per cui risulterebbe poco rappresentativo di una realtà più vasta), si è preferito concentrare tutta la nostra attenzione sul­l’evento (limitato nel tempo ma assai più ampiamente rilevan­te) di lu viaggiu a lu Signuri di Bilìci, cioè al castello, dopo l’at­traversamento dell’omonimo torrente.

La presente inchiesta chiude il ciclo di un’intensa frequen­tazione sociologica dell’area nissena, nel corso del decennio 1988-98. Tale immersione scientifica in un territorio poco indagato in precedenza è stata resa possibile grazie alla generosa iniziativa e collaborazione del Centro Studi «A. Cammarata» di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, e soprattutto grazie alla felice intuizione di don Cataldo Naro, direttore del Cen­tro, proponente di questa ed altre inchieste socio-religiose. Per la ricerca su lu Signuri di Bilìci, si esprime gratitudine a padre Leonardo Mancuso, parroco di Marianopoli, e a padre Pietro Achille Lomanto, parroco di Villalba, al gruppo scout di Ma­rianopoli ed alla commissione di laici del santuario del Castello di Belici.


Il SS.Crocifisso di Bisacquino-Monreale e “Bilici”.


A Bisacquino(Pa),ogni anno,il 3 di Maggio,viene portata in processione la spettacolare vara lignea del SS.Crocifisso,del peso di 32 quintali, è preceduta da 31 statue di santi,i quali escono dalle loro rispettive chiese e raggiungono la chiesa madre inchinandosi dinnanzi al ss.crocifisso.Tutte le vare vengono portate a spalla da giovani ragazze e ragazzi di Bisacquino.Un momento di grande fede e profonda devozione verso il Cristo crocifisso cui i bisacquinesi sono profondamente devoti.

Apre la processione la statua di san Michele con alla fine la vara del crocifisso al cui fianco stanno la madre e san Giuseppe.

Dal 1996,così come riportato in un bimestrale di cultura bisacquinese, non si è mai raggiunto il numero di 31 statue di santi.

Quella del ss.crocifisso è stata la festa principale di Bisacquino fino al 1904 anno in cui incominciò a prendere il sopravvento la festa della Madonna del Balzo.

La festa del SS.Crocifisso a Monreale risale alla fine del 1500. Infatti la prima data sicura dell’esistenza del Crocifisso presso la chiesa di San Salvatore è del 1575.L’effige è di scuola gaginiana

Fù l’arcivescovo Girolamo Venero(1620-1628) a dare grande impulso alla devozione al crocifisso.

Secondo una tradizione lo stesso arcivescovo,nel 1625,sarebbe stato guarito dalla peste, proprio il 3 di maggio ai piedi del crocifisso. La festa si caratterizza,a livello di pietà,per la famosa “scinnuta”(la discesa) del simulacro dalle scalinate della collegiata per essere deposto sulla vara.

Di questo momento di fede e di devozione ne fa una descrizione dettagliata il Pitrè nel suo libro “Feste Patronali nella Sicilia Occidentale”.

Momento culminante è la processione del simulacro per le vie della cittadina normanna,durante la quale avvengono le manifestazioni del bacio dei bambini,effettuato durante le fermate, e lo sfiorare con fazzoletti e con fiori il simulacro.

Fedeli provenienti dal territorio della diocesi, ma anche da Palermo e dai paesi limitrofi,fanno il “viaggio”,molti dei quali a piedi nudi,portando in mano dei grossi ceri accesi.

I confrati portano, come abitino votivo, un pantalone ed una camicia bianchi,cinti con una fascia rossa da dove pende una tovaglia arricchita da un ricamo con l’immagine di cristo e con la scritta “viva il ss.crocifisso”.

Da antica data i confrati,durante la processione,per invocare le grazie al “Patruzzu Amurusu”,così viene invocato il Cristo di Monreale, danno la cosiddetta “A Vuci” ossia un grido lanciato da uno dei confrati che ripete ,di volta in volta,le 12 invocazioni al ss.crocifisso e il gruppo risponde in coro:”Grazia Patruzzu Amurusu Grazia”.

Delle 12 invocazioni la 3 dice:”E che beddu stu crucifissu fa li grazie sempre e spissu”per continuare con la 6:”Grazia all’arma e u pirdunu ri piccati”,quindi la 9 diventa una richiesta di aiuto per i bisogni materiali:”Nostru Patri binirici a campagna” e la 12 è una invocazione in favore di chi soffre:”Binirici i malati”.

Tutte e 12 le invocazioni si concludono sempre con lo stesso ritornello:Grazia Patruzzu Amurusu! Grazia”.

Il crocifisso,il 3 di maggio,diventa,come scrive padre Basilio Randazzo <<il tutto di tutti>>cui chiedere innanzitutto la grazia :ossia la presenza amorosa e salvifica di Dio la cui massima potenza salvifica è il figlio morto in croce.

La festa del SS.Crocifisso,a Monreale,è preceduta, ancora oggi,dal rito della “Calata dei Veli”. E’ un rito penitenziale che si svolge durante i 5 venerdì di quaresima nella chiesa della collegiata. Sei grandi veli con su rappresentate alcune scene della passione vengono fatti cadere,uno dopo l’altro.

Questi sei grandi veli vengono collocati davanti al simulacro del crocifisso. Alla calata del sesto velo di colore nero, su cui sta scritto “EXPIRAVIT”,compare il crocifisso dinnanzi al quale tutti si prostrano implorando misericordia e perdono.

Il padre Basilo Randazzo ha scritto di una probabile “Eresia dell’etimasia”ossia:”il Cristo pantocratore,centralità originaria del culto monrealese, ha mediato nell’etimasia l’alternato culto al crocifisso,come ritrovo di contenuti e modalità assai vicini alla popolarità,essa stessa più idonea ai riflessi di comportamento esistenziale nel convergere il proprio culto al crocifisso”.

Ma la festa del crocifisso di Monreale non dice,secondo me,nessuna contrapposizione tra la cultura colta i cui componenti esprimerebbero una appartenenza elitaria al cristo pantocratore e una cultura popolare che esprimerebbe la sua devozione al crocifisso.

IL CROCIFISSO DI BILICI

“Bilici”è una contrada in aperta campagna,nell’entroterra siciliano,dove si trova un santuario dedicato al SS.Crocifisso.

Un giorno di molto tempo fa, un 3 maggio la duchessa Ferrandina Alvarez espose dentro la chiesetta del suo feudo di Castel Belice il Crocifisso ligneo regalatole dal padre guardiano Michelangelo La Placa, che lo aveva fatto scolpire nel 1638 da fra Innocenzo da Petralia dei Frati Minori. Questo si evince da quanto ha scritto il Sac. Luigi Irnmordino di Villalba (1).

Nel 1982 un poeta di Marianopoli, in maniera molto significativa, scriveva:

“…A nuantri ni lassau sti insegnamenti

nsemi a lu crucifissu di Bilici

Avi du o tricentanni ca li genti

vannu mpellegrinaggiu e su felici

lu tri di maiu d’ogni annu iamu

a lu so santuariu e lu ludamu …” (2).

Per alcuni sono passati 350, per altri 200 o 300 anni dall’inizio del pellegrinaggio, ma indipendentemente dalle discordanze storiche o da quanto dicono le leggende e la fantasia popolare, è un dato di fatto che ogni anno migliaia di fedeli (il 3 maggio 1995 sono stati oltre 7 mila) in un giorno feriale vengano qui, a piedi, da molti paesi della Sicilia, in particolare dalla provincia di Caltanissetta e di Palermo. Marianopoli, Villalba, Vallelunga, S. Caterina Vill.sa, S. Cataldo, Serradifalco, Resuttano, Alia, Gangi, Caltavuturo, Geraci, Petralia Sottana e Soprana, Mussomeli, Sutera, Valledolmo, Castellana Sicula, Caltanissetta e Bompietro sono i paesi da cui provengono la maggior parte dei pellegrini, anche se non manca qualcuno che viene da piu lontano, perfino da Catania.

“Da centinaia di anni tutto questo continua ancora oggi ‑ diceva un pellegrino proveniente da Petralia ‑ questo ha qualche cosa di straordinario. Dio esiste. Probabilmente per molti intellettuali ciò e sconcertante” (3).

Che cosa spinge, ogni primavera, da 350 anni orrmai, gruppi di donne, uomini, giovani e bambini provenienti da lontano, in macchina o in pullman a salire infine a piedi (molti a piedi scalzi) sulla collina alla cui sommità è collocata la chiesetta dell’ex feudo di Castel Bilici?

Non sono pochi i pellegrini che partono all’alba da Resuttano o da Petralia per fare l’intero “viaggio” a piedi, senza l’uso di alcun mezzo.

E’ proprio questo fenomeno di religiosità popolare che sta analizzando il gruppo di studiosi guidato dal Prof. Roberto Cipriani, nell’indagine socioantropologica in corso, commissionata dal Centro Studi “A. Cammarata” di San Cataldo.

Lo studio, iniziato con una “ricerca di sfondo” e una “ricognizione sul territorio” nel maggio 1994, utilizza dal punto di vista metodologico oltre agli strumenti “abituali” dell’indagine sociologica, quali l’intervista e l’osservazione partecipante, anche la ripresa dei fenomeni analizzati tramite la fotografia e la videoregistrazione, strumenti certamente efficaci della “comunicazione sociale”.

Molti sono gli interrogativi che costituiscono alcune delle ipotesi della ricerca su “U Crucifissu di Bilici?:

‑ E possibile un “identikit” del pellegrino di Bilici?

‑ Qual è la fenomenologia della religiosita popolare e quali forme di devozione praticano i devoti di questo territorio?

‑ E’ mutato nel tempo il rapporto dei fedeli col Crocifisso?

‑ Il rapporto del fedele col Crocifisso è di tipo “personale” o è “mediato” dalla Chiesa?

‑ La tipologia dei fedeli‑pellegrini che si recano dal Crocifisso di Belici e diversa da quella che esiste in altri luoghi?

‑ In particolare, quanto il contesto culturale, agricolo e pastorale di questa vallata rende “unico” il pellegrino del “Bilici,>?

Senza avere alcuna pretesa di esaustivita, ci pare opportuno fare alcune considerazioni che scaturiscono da una prima osservazione realizzata il 3 maggio 1994 e dalle interviste condotte nel maggio 1995.

 

I PANI

Il “devoto” va dal Crocifisso per sciogliere un voto, chiedere una grazia. E’ un pellegrino che parla un linguaggio semplice e coerente e porta un ringraziamento altrettanto coerente e “concreto” per la grazia che ha ricevuto: una gamba, una testa, una figura umana, tutte fatte di “pane”, che viene deposto sul “banco del pane”, collocato all’interno della chiesa e che verrà distribuito a tutti i pellegrini. Questo è un uso molto diffuso in tutta la Sicilia e in particolare nelle zone interne, anche per molti altri santi: S. Antonio, S. Elisabetta, S. Lucia, S. Giuseppe. Probabilmente in altri tempi, in cui in queste zone la fame era una piaga endemica, il voto consisteva nel portare il pane per i poveri. Anche oggi, oltre a quello che viene portato dai pellegrini, vengono distribuite centinaia di chili di pane che ha preparato il comitato che gestisce la festa.

Molti portano la loro offerta in denaro, in forma molto personale e libera e questo avveniva anche in passato se ancora oggi parlano, probabilmente esagerando alquanto, delle “ceste” colme di denaro e dei litigi “a colpi di bastone” (3) tra i “partitari” che organizzavano la festa e poi dividevano i proventi.

Altri portano ex voto, nella piccola chiesa infatti sono visibili molti di questi (di cera, d’oro e d’argento), che i pellegrini hanno portato in tempi lontani, a giudicare dalle date ivi apposte.

 

LA TRAZZERA Dl MARIANOPOLI

Gli abitanti di Marianopoli sono certamente i maggiori frequentatori del santuario. Alla fine del sentiero che da Marianopoli porta al santuario e che diventa faticoso e ripido nell’ultimo tratto, arrivano numerosi, nella tarda mattinata, molti pellegrini, soprattutto giovani e a gruppi numerosi e disordinati. La visita al “Signuri di Bilici” spezza il ritmo quotidiano del tempo; anche chi abitualmente lavora interrompe per quel giorno la sua attivita, ma altri raggiungono amici e parenti piu tardi, “quando la mandria ritorna dal pascolo” come riferisce del proprio marito una giovane donna che arriva a piedi con un bimbo di appena quattro mesi in braccio.

Anche il pellegrinaggio organizzato nel maggio ’95, nel pomeriggio delLa vigilia dal parroco della chiesa madre di Marianopoli, ha percorso questo “antico sentiero”, che non è certamente agevole.

Per tutta la durata del percorso si recita, nel dialetto locale l’antico rosario alla Santa Croce “milli voti Gesù, Gesù, Gesù….” intercalato da canti.

Ancora lungo la stessa “trazzera”, così come vuole la tradizione, si usa raccogliere delle “pietruzze”, che poi saranno usate durante l’inverno per scongiurare pericoli e calamita naturali. Qualche giovane ricorda dei propri nonni che avevano di questi sassolini e li buttavano sul tetto della propria casa per proteggerla dai temporali.

Di quest’uso esistono due versioni: altri infatti riferiscono che i pellegrini partivano con tanti sassolini, tanti per indicare le decine del rosario della Santa Croce, che recitavano lungo il percorso e le andavano disseminando sulla strada mentre altri li raccoglievano e li portavano a casa, per utilizzarli nei momenti di maggior pericolo alle persone e alle cose.

Nel 1995 un’analoga processione di pellegrini provenienti da Villalba, insieme al loro parroco, si è snodata dal punto in cui ha fine la strada asfaltata e inizia il sentiero che arriva fino al santuario, dove si è congiunto con il gruppo di Marianopoli.

 

UNA FESTA DI PRIMAVERA

L’atmosfera è quella della festa campestre, della scampagnata primaverile. Moltissimi sono gli adulti, gli anziani, ma non mancano i giovani. Gruppi di studenti della vicina Marianopoli disertano le lezioni per salire su al santuario, dopo aver camminato per due ore. Passano tutta la mattinata in allegria. In particolare abbiamo incontrato e seguito un gruppo, piu volte nella mattinata, ora nello spiazzo antistante la chiesa, ora nel cortile interno, poi al “calvario”, all’altra estremita del colle.

Anche nel salone interno al cortile, in quel grande locale che è stato ora stalla e ora granaio, ci sono gruppi di persone che scherzano allegramente mentre consumano il loro “pranzo a sacco”. Sono soprattutto gruppi familiari molto numerosi, di “famiglie patriarcali” (suoceri, cognati, fratelli, figli, nipoti… 25 persone!), che si organizzano con macchine proprie.

La dimensione della festa campestre è certamente antica e infatti i più anziani ricordano e raccontano, con una certa reticenza, che molti anni fa, quando partivano in gruppi dai paesi, sui cavalli, ognuno con la propria famiglia, arrivavano uno o due giorni prima e la sera della vigilia, nel grande salone che ancora oggi si affaccia sul cortile, si creava un clima di allegria e di gioia. Si cantavano motivi popolari al suono di una fisarmonica e molti, soprattutto giovani, ballavano fino a tardi, aspettando il nascere del giorno della “Santa Croce”. Per alcune coppie giovani, sposate da qualche mese il “viaggio a Bilici” era atteso con trepidazione e costituiva, insieme al “viaggio” a Caltanissetta per le “vare” della settimana Santa, il “viaggio di nozze”. Per molti questa rimaneva la prima se non proprio l’unica esperienza di viaggio fuori dal proprio paese. Oggi l’uso dell’automobile, che permette di raggiungere il santuario in minor tempo, ha cambiato molto queste usanze; nessuno arriva più la vigilia né prima delle 7,30 del mattino del 3 maggio.

 

LA DEVOZIONE POPOLARE DEL CR0CIFISSO

Fino ad alcuni anni fa (forse l’89), probabilmente prima dell’ultimo restauro, come riferisce sompre qualche pellegrino, c’era l’abitudine di prendere una piccola parte del legno del Crocifisso e di mangiarla pensando che cio avesse un potere taumaturgico.

Oggi questo potere è stato trasferito alle ferite sanguinanti del Crocifisso, soprattutto quelle del costato, il cui sangue scorre per tutte le costole. Sono queste che i pellegrini vanno a baciare quando il Crocifisso e ancora in chiesa, sulla scala posta davanti all’immagine, proprio dietro l’altare. Alla fine della processione, in un clima di commozione generale, i fedeli baciano il Cristo da lontano e porgono i fazzoletti perche “asciughino” le ferite e poi li conservano come relique.

Un particolare significato “miracoloso” e “protettivo” viene attribuito anche al “nastro rosso” distribuito insieme all’immaginetta del Crocifisso. Molti lo legano alla croce di ferro che in epoca piu recente è stata posta sul Calvario, poco distante dalla chiesa in cui e posta la venerata immagine. Alcuni, soprattutto i giovani lo portano come un bracciale e lo conservano come un bene prezioso.

Marianopoli e Villalba sono certamente i paesi maggiormente coinvolti nel culto del Crocifisso di Bilici e si è instaurata una certa solidarietà, rafforzata anche dall’isolamento di questi due paesi rispetto agli altri, certamente meglio collegati da strade piu agevoli.

Anche le leggende sul Crocifisso hanno tre varianti che fanno riferimento a Petralia, Villalba e Marianopoli.

 

Nella religiosità popolare la devozione al Crocifisso, in particolare in questa zona interna della Sicilia è molto diffusa e sicuramente e legata alla predicazione dei gesuiti. Anche a Valledolmo, Resuttano, Bisacquino è molto radicata la devozione al Crocifisso e processioni e feste si svolgono in quei giorni, il 2 o il 4 di maggio in ogni caso in modo da non interferire col pellegrinaggio di Belice, che rimane il punto di riferimento e la festa piu sentita.

Queste stesse considerazioni valgono per i sancataldesi, i quali non solo sono molto numerosi il 3 maggio a Belice, ma hanno una forte devozione per il crocifisso espressa in varie forme e legate ad una lunge tradizione; un prezioso crocifisso in avorio dell’inizio del ‘700 è conservato nella chiesa madre di San Cataldo. “Veneratissimo” e anche il crocifisso di p. Rosario Pirrelli, la cui predicazione era incentrata sul Crocifisso “che portava sempre con sé”. Oggi le sue ossa sono deposte nella chiesa di S. Stefano in San Cataldo (4).

Anche nella vicina S. Caterina si svolge una festa al Crocifisso e sempre allo stesso sono dedicate le edicole nel paese, oggetto di devozione popolare per tutto il mese di maggio.

La fede nel Crocifisso percorre sentieri certamente diversi da quelladella scienza, ma la gente ha bisogno di credere che il soprannaturale sia presente nella vita quotidiana e che questa “presenza” sia benefica e porti salvezza: e infatti “Grazia, Signiruzzu!” è il grido fiducioso e accorato con cui i pellegrini continuano a rivolgersi al Cristo “miracoloso”.


 


Note

(1) Sac. Luigi Immordino, Il SS. Crocifisso venerato nell’ex feudo di Castel-Belice, Villalba, 1959, p. 15

(2) II brano è tratto dalla poesia di Mansueto Montagna pubblicata in: C. Montagna (a cura di), Il crocifisso e il Santuario di castel Belicii, Marianopoli, 1984.

(3) Queste notizie sono state ricavate dalle inerviste fatte ai pellegrini arrivati il 3 maggio del 1994 e 1995 ed altre raccolte nei giorni 1‑4 maggio nei paesi di maggiore provenienza dei pellegrini, soprattutto a Marianopoli, Villalba e S. Caterina Villarmosa.

(4) C. Naro, Momenti e figure della Chiesa nissena dell’otto e novecento, edizioni del Seminario, 1989, pp. 15-22.