Introduzione
La Sicilia è una terra singolare, ricca di storia e di mito, di sereno e di sconvolgente, come i suoi vulcani. Una terra in cui il fascino della millenaria cultura scaturisce dalla perfetta sintesi dei suoi contrasti. Una terra in cui anche i quattro principali sapori legati alla sensorialità dell’uomo — il dolce, l’amaro, il salato e l’acido — giocano in un’altalena di contrapposizioni e apposizioni nel descrivere il mutevole sfaccettarsi del tetraedro del gusto dei Siciliani, fortemente legato al loro temperamento e alla loro antica diversità.
Diceva Thomas Stearns Eliot: “La cultura è ciò che rende degna la vita di essere vissuta e la cucina è una delle sue forme”. Ed è con questo spirito che si vuole vivere, in queste pagine, un’esperienza diversa, quella di ripercorrere, anche se velocemente, quattro millenni di storia osservando le trasformazioni del gusto e del cibo dei siciliani attraverso i cambiamenti della società, dell’economia e a volte della natura, nel segno di un continuum culturale proprio dei discendenti dei Sicani.
Parlare della cucina siciliana è come attraversare la storia dei popoli che si sono incontrati e scontrati nelle acque del Mediterraneo, vero liquido amniotico delle prime civiltà e delle grandi religioni monoteistiche che hanno caratterizzato lo spirito dell’uomo. In questo senso, l’arte culinaria si colloca accanto agli studi delle antichità per ricostruire il percorso dell’uomo fin dal tempo in cui questi iniziò a ridurre la natura alla soddisfazione dei suoi bisogni prima, dei suoi piaceri dopo. Rispetto al patrimonio di reperti e di documenti che si correlano a civiltà ormai storicamente concluse, la cucina continua a essere testimonianza vivente di una realtà che ci accompagna ogni giorno attraverso i sapori, gli odori e i colori.
L’arte culinaria è quanto i Greci definivano col termine gastronomia, vocabolo che secondo un dizionario italiano riporta al “complesso delle regole e delle usanze che sono relative alla preparazione dei cibi”. Tale definizione, tuttavia, appare incompleta se si considera il significato della parola come una funzione del tempo, delle condizioni di vita e della mutevole realtà socioeconomica. Per gastronomia, oggi, può intendersi, in accordo con Slow Food, non solo l’arte di cucinare i cibi, ma anche “l’arte di degustarli, di descriverli e di giudicarli”.
La gastronomia, come arte che prevede delle proprie regole, viene dopo l’alimentazione,che risponde a un’esigenza fisiologica; se questa è, infatti, legata al bisogno di procurarsi un alimento per combattere la fame, quella presuppone il piacere di consumare e gustare il cibo. Non è superfluo, comunque, sottolineare che il piacere non è legato alla condizione socio-economica dell’uomo. Il panino con le panelle1 è quanto di più democratico la cucina della nostra terra abbia inventato, utilizzando elementi semplici che, adeguatamente lavorati, fanno provare lo stesso piacere al palato del ricco e del povero. Il panino con le panelle ha assunto il rango di prodotto gastronomico in quanto, pur nella semplicità della sua preparazione, interessa fortemente la degustazione e il piacere di assaporarlo. La panella era un cibo per poveri, ora è un prodotto gastronomico servito nei ristoranti e nelle rosticcerie più apprezzate.
Bisogna ancora convenire con Slow Food che il fenomeno della globalizzazione ha omologato e impoverito i gusti, condizionati come siamo dall ‘immagine del cibo più che dall’ alimento che la pubblicità ci propone, a danno dell’educazione alimentare e della stessa conoscenza di ciò che mangiamo. Fortunatamente, in controtendenza, sta crescendo l’interesse per il recupero delle tradizioni culinarie, espressione di un tentativo comune di riappropriarci del patrimonio di valori, di intelligenza, di abilità, che distingueva le civiltà passate e ne segnava il grado di evoluzione. La scelta alimentare non è un fenomeno legato alla classe sociale, ma alla cultura: vi sono ricchi che mangiano malissimo, meno ricchi o poveri che riescono a gustare piatti sani e saporiti, tramandati da uno stile secolare di scelta, di abbinamento e di preparazione.
La ragione di circoscrivere l’interesse culinario a un’area così ristretta della Sicilia, che fu dei Sicani e degli Elimi, sta nel desiderio di ritrovare e conservare le essenzialità locali di quest’arte che, di fatto, non è mai stata unitaria su tutto il territorio siciliano, avendo assunto espressioni e stili profondamente legati alle diversità delle genti che l’hanno popolata. Ne è un esempio la pasta con le sarde, oggi servita con immagine e gusto differenti a seconda che ci si trovi a Trapani, a Palermo o a Messina.
Il motivo, poi, di considerare solo il pesce, come elemento conduttore centrale, è dovuto alla peculiarità geografica della zona considerata, alla netta predominanza dell’attività pescatoria su quelle praticate dalla popolazione locale, a partire già dall’età arcaica, e alla profonda sensibilità verso i prodotti del mare, mostrata dai cuochi e dai gastronomi siciliani dell’antichità greca e latina prima, del Medioevo e Rinascimento dopo. Il contenuto si articola in tre sezioni, separatamente sviluppate in tre volumi: la prima dà una “sintesi storico-culturale” dell’evoluzione culinaria siciliana con diretti collegamenti a tematiche fondamentali, come la pasta e il vino; la seconda è la vera e propria sezioneculinaria, costituita da una raccolta di ricette di primi piatti, secondi e contorni ripescati nell’uso e nella pratica comune, nei ricordi degli anziani e nei documenti rinvenuti un po’ ovunque, arricchite da note e riferimenti alle possibili lontane origini; la terza presenta un ricco insieme di profili di pesci commestibili, tipici del mare egadiano, con una breve descrizione delle caratteristiche morfologiche, biologiche e gastronomiche.
Si sono voluti, inoltre, esprimere in “siciliano”2 le espressioni e gli idiomi locali, nel rispetto della conservazione della cultura d’origine, in cui la lingua è l’amalgama, l’anima della cultura stessa e della gente che l’ha creata perché, come ha scritto Ignazio Buttitta,
Un populu diventa poviru e servu
quannu ci arrobbanu la lingua
addutata di patri:
é persu pi sempri.
(Un popolo diventa povero e servo
quando gli rubano la lingua che gli fu data dai padri:
è perso per sempre.)
1 Le panelle sono una sorta di frittelle, sottili e di forma triangolare, fatte con un impasto di farina di ceci e acqua. Spolverate con pepe nero e sale vengono tradizionalmente consumate all’interno di un morbido panino. Come antipasto vanno gustate da sole.
2 Il siciliano oggi si deve ritenere una Lingua Regionale o minoritaria ai sensi della Carta Europea delle Lingue Regionali o minoritarie, che all’Art.l afferma che per lingue regionali si intendono “le lingue che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Stato”. La Carta è stata approvata il 25 giugno 1992 ed è entrata in vigore il 10 marzo 1998. L’Italia l’ha firmata il 27giugno 2000. Inoltre, l’industrial Standard Organization (ISO), l’ente internazionale che si occupa di problemi di normalizzazione, nel 2005 ha nconosciuto il siciliano come “lingua’ codificandola come ISO 639-3: scn. Pur essendo parlato da circa dieci milioni di persone in tutto il mondo, il siciliano, oggi, non viene insegnato nelle scuole e non viene nemmeno praticato nella vita pubblica, dove viene soppiantato da una specie di versione dialettale dell’italiano, con vistose mutuazioni grammaticali e fonetiche dal siciliano. “Perché non parli siciliano a tuo figlio? — fu chiesto a una madre marettimara che si esibiva tronfia in questo nuovo linguaggio.— Perché non voglio che si trovi male a scuola come mi sono trovata io” — fu la risposta. E sulla base di queste “profonde convinzioni” un altro dialetto del siciliano, quello marettimaro, sicuramente si avvierà nel desolante e malinconico percorso dell’estinzione, verso lo sradicamento dalla propria identità culturale. Un popolo in fondo, come ha già detto qualcun altro, è soprattutto ciò che entra ed esce dalla sua bocca. Cibo e parole.
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*Emilio Milana,egadiano,ingegnere optoelettronico.Velista,vive a Bologna.
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