ELEONORA e le altre.Immagini di donna nei musei siciliani.

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“Donna non si nasce, si diventa

(Simone de Beauvoir)

di Joselita Ciaravino

La Sicilia è una di quelle regioni che alimentano luoghi comuni a profusione. Forse per la forza del paesaggio, per il carattere di chi la abita, o più semplicemente perché isola, si racconta di tutto e spesso le leggende sono più vere che false. Si tramandano notizie sull’eccentricità dei siciliani, sulla loro ironia nervosa o, ancora, sulla propensione tenace a difendere la condizione di solitudine. Tra le tante riflessioni che si ascoltano accade che si paragoni la regione ad una bella donna. La Sicilia è una terra difficile da com­prendere, esattamente com’ è complesso capire qualcosa di una donna. Ma le donne siciliane, che volto hanno? E sono così diffici­li da capire?

Questo libro nasce come omaggio nei confronti del femminile e nello stesso tempo come proposta per un insolito percorso attraver­so il patrimonio artistico della regione, fuori dai luoghi comuni e più vicino alle opere. Ne emerge un repertorio di volti ed insieme di immagini magnifiche, una lunga passeggiata al femminile da svolgere presso musei ed istituzioni di tutta la regione. Ci sono alcune immagini ormai diventate icone, opere che ritornano su manifesti e copertine di libri, oggetto di studio e di un interesse dif­fuso. Fra le altre, al di là degli inevitabili templi presi di mira soprattutto dalla creatività dei pubblicitari, si tratta di due imma­gini custodite a Palermo: l’Annunziata di Antonello da Messina ed il busto di Eleonora d’Aragona di Francesco Laurana. A parte que­ste due bellissime, tanti volti di donna ci sorridono dalle stanze dei musei regionali. E impossibile individuarle tutte, né tanto meno si tratterà sempre di donne siciliane o di fisionomie che rispondono all’inevitabile diktat mediterraneo: brune, intense e belle. Quella che si propone è solo una selezione e come tale deve essere letta, nonché un’occasione di visita di luoghi noti e meno noti, un modo per scoprire una serie di figure che pur campeggiando dentro alle chiese ed ai musei siciliani, tendono inevitabilmente ad essere dimenticate.

Un arte al maschile per la rappresentazione del femminile

Ma esiste davvero una rappresentazione del “femminile”? L’arte abbraccia un orizzonte di significati così vasto da rendere difficile una risposta. Esistono l’arte e la creatività ed all’interno di tali eventi maschile e femminile si intrecciano come tutti gli elementi complementari. Eppure, al femminile appartiene un ruolo di note­vole importanza. Nell’arte la donna è il soggetto per eccellenza, ritorna con insistenza nelle immagini di tutti i tempi, qualunque sia il supporto o la tecnica scelta, dalla preistoria fino alle avan­guardie, ed è fatto rivelatore delle dinamiche culturali ed antropo­logiche che accompagnano la rappresentazione. Dea, eroina, cortigiana, madonna, santa o strega, simbolo della madre terra, della fecondità, della purezza, ma anche dell’irrazionalità e del peccato, i volti della donna sono mutevoli: il femminile è indicatore dell’umore profondo della cultura che lo rappresenta, allude alle aperture ed alle contrazioni che pulsano all’interno delle società. Sarà utile a questo proposito porsi la domanda speculare: esiste una pittura “del” maschile? Il maschile, contrariamente al femmi­nile, non riesce nella pittura a far sistema. E facile rintracciare le origini di questo stato di cose, perché la cultura occidentale conce­pisce il rapporto tra uomo e dorma sì come complementare, ma soprattutto come rapporto di forza. Nella Genesi viene detto con chiarezza: «Queste ossa delle mie ossa, questa carne della mia carne, prenderà il nome dall’uomo, dato che è stata tratta dall’uo­mo». Dio crea dapprima l’uomo e dalla costola di quest’ultimo nasce la donna. Si chiamerà isshah (donna), perché da ish (uomo) è stata creata: la donna appare in funzione di colui al quale va a fare compagnia e la sua storia sarà determinata da un’inevitabile condizione di insubordinazione: in base ai bisogni del suo compa­gno sarà nel corso della storia ora debole ora forte, ora privata di sessualità ora depositaria del desiderio, ora angelo ora diavolo. Ma sempre, avrà nome e definizione per conto di qualcun altro. Non sarà donna per se stessa se non nella contemporaneità a noi più vicina. L’arte proietta tali rapporti ed è “al maschile che si parla di pittura, perché la storia ha attribuito all’uomo la parte del regi­sta, perché è l’uomo che ha incarnato il ruolo del pittore per seco­li e secoli. Dall’antichità fino al XX secolo la storia dell’arte è agita al maschile e ciò fa in modo che il passaggio dal ruolo d’artefice a quello di soggetto si compia per lui in maniera naturale. La pre­senza dell’uomo all’ interno dello spazio dipinto aderisce con altrettanta facilità all’ aspirazione della pittura: imitare la natura. Attraverso i secoli il principio della mimesis ha infatti orientato il fare degli artisti, portandoli a guardarsi intorno ed a ritrarre; i loro simili, con attitudine più o meno realistica, fino a giungere all’astrazione. In questo orizzonte declinato al maschile il femmi­nile si staglia come fulcro centrale, elemento da dominare perché corrispondente alla natura più indomita e misteriosa, a cui trovare una giusta collocazione. E’ al pittore che si riconosce il potere della creazione, perché si tratta del potere maschile per eccellenza, facil­mente trasferito alla creatività del pennello, alter ego di una sessua­lità che invade la superficie della rappresentazione;. Lei, in quanto oggetto del desiderio è sottomessa e creata. Anche se, assoggettata e condotta all’interno del mondo degli uomini, la donna diventa ricet­tacolo di tutti i simbolismi e di tutti gli esorcismi. Tra la madre e l’amante, tra la santa e la vendicatrice, innumere­voli sono le sfumature di ruolo e di iconografia, ma comunque iscritte nella dinamica che congiunge il maschile al femminile, il potere alla sottomissione, capovolgendo talvolta gli ordinamenti. Innumerevoli sono le figure che ritornano con ossessione nell’ im­maginario maschile, riportabili ai tre registri fondamentali della madre, della donna sottomessa, dell’ amante. Nessuno si è mai sognato di definire l’uomo come maschio della femmina, mentre la storia — fino a poco tempo fa. verrebbe voglia di dire — ci ha tra­smesso l’ idea di una donna che esiste e trova la propria ragion d’es­sere esclusivamente in relazione al suo sposo ed al suo padrone. Per tanto tempo l’arte l’hanno fatta gli uomini, ma dalle loro immagini sono occhi di donna che ci guardano. Sono donne confi­nate lì dove è più facile esercitare controllo e potere, lo spazio della rappresentazione, perché in questo spazio i ruoli sono circoscritti. Eppure, esercitano a loro volta quel potere che da sempre le con­traddistingue, il potere per antonomasia femminile e per questa ragione sospetto: quello della seduzione.

In Sicilia, esiste un patrimonio artistico notevole ed è con occhi nuovi che lo si può guardare: è sufficiente individuare nuovi percorsi di visita. Quanto emerge dall’ accostamento di queste immagini è resistenza di alcune macro categorie, categorie dello spirito e del sociale dentro cui confluiscono nomi, personaggi e consuetudini iconografiche, consuetudini di cui non ci rendiamo forse nemmeno più conto, immutate chissà da quanto tempo. Ci viene avanti così un ricco stuolo di volti e di corpi, fatto di sante, madonne, signore, bambole e maliarde, principesse e divi­nità, donne indifferenti e donne maliziose, donne eteree e donne in carne ed ossa, circondate da personaggi oppure isolate, minaccio­se o rassicuranti, aggressive o remissive. Sono tante queste donne, sono da conoscere e, in qualche modo, ancora vive.

Cherchez la femme. Un itinerario attraverso i musei

In principio fu Eva. La progenitrice, la capostipite, la donna che nasce dalla costola di Adamo e che oltre ad essere madre di tutti gli esseri viventi è anche colei che induce il suo compagno a cogliere quella mela che non andava assolutamente toccata. Eva è rappre­sentata nuda senza pentimenti e gli artisti si sono preoccupati che le nudità più indecenti fossero nascoste. Eva non è solo rappresen­tativa della donna per antonomasia, la donna che non ha bisogno di attributi per essere contestualizzata — se non Adamo, i capelli lunghi a protezione delle nudità, l’albero della conoscenza o il ser­pente, a seconda dei momenti della Genesi — è anche simbolo del­l’irrazionale, del femminile come caos, quell’elemento che è anche nell’uomo e che porta ad identificarla come peccatrice, fino a darle volto di strega, di diavolo, di mostro. In Eva sono in un certo senso già congiunte la tranquillità e la minaccia, il positivo della fecon­dità e della continuità nel tempo e il negativo del peccato e dell’ ir­razionale, valori che confluiscono nell’immagine della donna attra­verso i secoli, poiché oltre alla donna Eva ci saranno le numerose donne senza nome ritratte in contesti ora naturali, ora lavorativi, ora mondani. Così, nel nostro itinerario, si passerà da Peccato, di von Stuk (Galleria Civica d’Arte Moderna E. Restivo, Palermo), che ha il volto oscuro e misterioso di una donna, alla rassicurante e sognante ed ancora eterea Floralia di Bergler (Villa Igiea, Palermo). Le immagini si caricano delle tensioni di un’epoca e la stessa dimensione, il femminile, può essere cassa di risonanza di orientamenti opposti: la ricerca del mistero e di una dimensione “altra”‘ nel caso del Simbolismo, o la ricerca della morbidezza, della piacevolezza, dell’armonia nel caso del Liberty. Chissà se Eva appartiene alla banda delle maliarde o delle donne acqua e sapone, l’interpretazione è mutevole. Ci sono stati autori che hanno visto in lei il peccato nella sua massima espressione, ed è lettura piuttosto diffusa in tutto l’Occidente. Ma si può vedere in questa figura anche una sorta di forza primigenia, un’irruenza ingenua, perché la sua condizione è relativa ad un prima di tutto, il prima del mondo che non conosce il senso di colpa. L’immagine della donna tout court è quella che più di tutte si apre al mondo che la circonda, dal sociale al politico. Un re ha bisogno dello scettro per essere tale così come una regina ha bisogno di una corona. Una santa ha bisogno del proprio specifico attributo per esercitare il suo potere salvifico ed una Madonna del velo. Allo stes­so modo, la “donna” necessita più di ogni altra di uno spettatore, di un compagno: ora Adamo, ora una classe sociale in cui svolgere le proprie funzioni o all’ interno delle quali esercitare — sotto con­trollo — il proprio istinto rivoluzionario, o ancora un marito da dilettare o un uomo da incantare. È significativo, allora, che il nudo, genere pittorico tra i più rappresentativi della modernità e del ‘900, sia quasi esclusivamente femminile, e che possa dare luogo ad un corpo, nudo, che non sempre dialoga con il volto, inti­mità inafferrabile di tutti noi.

Eppure, proprio tra queste immagini campeggiano degli episodi di assoluta libertà, come le sportive in bikini dei mosaici di Villa Imperiale del Casale di Piazza Arme rina, capolavoro non solo per fattura ma anche per il soggetto che propongono. Le due donne portano un bikini ante litteram, si curano del proprio corpo con quella sfacciata serenità che noi contemporanei abbiamo dimenticato. Con il loro fare disinvolto sono portataci di una modernità straordinaria. 0 ancora, degli inizi del ‘900 è il bel volto di Lia Pasqualino Noto, L’infermiera (Galleria Civica d’Arte Moderna E. Restivo, Palermo). Lì, è l’arte del Novecento che si fa sentire e l’in­tensità del volto e del bianco profondo del camice mettono in primo piano la condizione di un essere umano ripreso in un momento di alta concentrazione, capace di introspezione e di inquietudine. O di indifferenza.

E poi ci sono le dee, figure di un mondo olimpico riportato in auge dal Rinascimento italiano. È il trionfo del nudo come passato, come antichità remota che ritorna, come perfezione — l’uomo— e come oggettivazione del desiderio — la donna. A partire dal Rinascimento ci si abitua alla nudità di Venere, Diana, Atena & C, così come delle varie ninfette e figure minori. A partire da questo momento, e con alterne fortune, si assisterà al ritorno del nudo femminile in tutta Europa, fino ad imporsi nella cultura visiva come massima espressione del rapporto di potere che si intesse tra uomo e donna.

La dea riveste numerosi significati, complessi e sovrapposti, dalla donna cacciatrice, pericolosa e seducente, alla donna che vive solo della propria bellezza, quasi fosse una preparazione della bambolina innocua della modernità. Venere è simbolo dell’amore e del desiderio, non può che concupire e una volta posta sulla tela, con le sue moine e le sue vezzosità, appare meno pericolosa e perfino addomesticata.

I nostri musei sono popolati da un vero e proprio esercito di figure femminili, dee e personaggi senza nome appartenenti ad un’anti­chità molto florida. Le antiche popolazioni ci hanno lasciato statue votive ed oggetti d’uso quotidiano, rappresentazioni che apparten­gono al sacro ed utensili che riportano al vissuto di ogni giorno, come i balsamari dalle fogge misteriose o i vasi provenienti dai numerosi siti archeologici. Danzatrici, ninfe che banchettano e che suonano il flauto, donne che sacrificano e che si intrattengono, muse e divinità varie: è una femminilità corposa e accompagnata da altrettanto numerosi partner maschili che segue le curve dei crateri e delle pissidi. E tra le divinità antiche non dobbiamo dimenticare Demetra, tra i culti più arcaici e radicati nell’isola, dea della fecondità e della generazione della terra, secondo alcuni stu­diosi figura mitica a cui si sovrappone in epoca medievale (in alcu­ne zone della Sicilia particolarmente devote, come Enna e Morgantina) quella di Maria. Entrambe conoscono il dolore della perdita della progenie, l’ una con il rapimento di Kòre-Persefone, l’altra con la passione di Gesù.

Sante e Madonne

Ogni località ha il suo santo patrono ed in Sicilia non si contano le città ed i paesi protetti da una santa. Da queste parti la devozione si declina al femminile ed è donna persino la patrona dell’intera regione. Qualche studioso ha notato questa propensione anche nell’ ambito della toponomastica e nelle leggende che starebbero all’Origine del nome della regione (pare si tratti del nome proprio di una giovane principessa). Ci sono sante per tutti, ma certo ce ne sono alcune particolarmente riverite, come santa Rosalia a Palermo, festeggiata a luglio con un Festino che si ripropone dal “600. o santa Lucia a Siracusa. per non parlare di sant’ Agata a Catania. Queste figure sono accompagnate da un fitto apparato iconografico: non c’è Rosalia senza uno scorcio su Monte Pellegrino (Palermo) e senza la corona di rose e di gigli, o santa Lucia senza il riferimento ai suoi occhi, o ancora sant’Agata senza una rappre­sentazione dei seni che ispirano persino la pasticceria locale. Le sante si ripropongono come sfogo di un immaginario collettivo piuttosto intenso, diffuso, che fa di queste fanciulle delle eroine, delle divinità cattoliche il cui compito è quello di proteggere

Comunque molto vicine perché l’identificazione con le città ed i credenti è totale e perché in fondo non ci si dimentica mai del loro status d’origine, giovani vergini (per lo più), nobili o povere, dalle scelte coraggiose e pure. Anzi, sono figure così vicine, così sentite, perché in loro e nella loro rappresentazione confluisce l’autentica personalità e identità dei luoghi e di chi li abita. Ma il culto per eccellenza è quello mariano: innumerevoli le raffi­gurazioni che hanno come tema la Vergine Maria, ripresa in tutti i momenti della sua storia, dalle Annunciazioni di Antonello da Messina (tra Palermo e Siracusa), alle Vergini in Gloria del ‘600. Madonna è la patrona della regione, la Madonna dell’Odigitria abbreviata in Madonna dell’Itria, e sotto le vesti di Madonne, non a caso, si presentano la maggior parte delle figure femminili di questo nostro percorso. La Vergine madre di Gesù corrisponde all’apoteosi di un certo tipo di donna, per una volta potente e ras­sicurante, la madre per eccellenza, priva di sfumature minacciose e conturbanti, spogliata della sua terrosità, tranne alcune eccezio­ni quali la celebre Anrmnziata di Antonello. La storia dell’arte occidentale è senz’altro una storia di Madonne, soprattutto per quanto riguarda Medioevo e Rinascimento. Contrariamente a quanto accade per le sante, nella cui rappresentazione si intravede talvolta una certa sensualità, la Madonna, al di sopra di ogni sospetto, è; priva di qualsiasi ambiguità. Ma anche questo, vale con qualche eccezione.

Guanti,perle,cappellini….

E poi ci sono le signore, le padrone del mondo, simboli ora nobili ora borghesi, sempre accompagnate da un entourage, anche quan­do sono prive di compagnia. Le signore esistono in funzione del mondo che le ha prodotte e che le riconosce, non importa in fondo il loro status, la loro carica di principessa o di moglie di imprenditore. C’è stato un momento, a cavallo tra Ottocento e Novecento, in cui in linea con quanto accadeva nel resto del paese la regione ha prodotto una ritrattistica piuttosto ricca. Era il momento della vivacità imprenditoriale, dell’ascesa della borghesia che scopriva un certo agio e che si apriva alle città. Ed era dunque una classe più che mai bisognosa di essere ritratta per affermare la propria esistenza.

Sono signore le figure femminili rappresentate nell’affresco il Trionfo della morte (Galleria Regionale di Palazzo Abatellis, Palermo), perché eleganti e ingioiellate, perché collocate all’inter­no di un rituale di socialità. Le opere pittoriche diventano testimo­nianza di un costume ben radicato nella regione, che vede nella “robba” — la proprietà di beni tra cui in particolare abiti e bian­cheria — un asse portante della società. Scrive lo storico Tramontana a proposito della Sicilia medievale: «Tutti i compo­nenti della famiglia e le donne in ispecie, dovevano vestirsi in modo adeguato al rango, perché i loro corpi erano strumento del linguag­gio e fatti anche per esibire con l’abbigliamento i legami di sangue e la continuità del casato»1.

Sono signore le gentildonne talvolta prive di identità che non fac­ciamo fatica a immaginare; in ambienti confortevoli, tra velluti e ricami, all’interno di salotti protetti o a passeggio con l’ ombrellino, ma mai riprese per caso. Anche le signore — forse le sante della modernità — hanno i loro attributi e allora ecco le perle al collo delle principesse e delle duchesse, i guanti indosso alle signore del bel mondo, il cappello in testa alle sobrie padrone dei saloni o alle attonite mogli di qualcuno. Una celebre signora di Palermo, ai primi del “900, è stata Franca Florio. una figura di cui si decanta­vano grazia e bellezza, moglie dell’imprenditore Ignazio Florio. Il suo ritratto, realizzato da Ettore De Maria Bergler emana regalità ed eleganza, facendo di questa figura più un simbolo che una donna. Si è signore grazie a qualcosa, grazie ad un dettaglio. L’importanza del particolare è fenomeno assolutamente contemporaneo se pen­siamo a quanto può rappresentare un orologio o un altro, stretto attorno ad un polso di oggi, in tal modo reso riconoscibile e quali­ficabile. Viviamo ancora in un mondo di dettagli, in cui tutto è accessorio perché superfluo, ma comunque portatore di valore e dunque insostituibile. L’arte ci aiuta a capire forse come certe abi­tudini non spariscano mai.

Corto circuito

La Sicilia è un gineceo. Così pare se si tiene conto del ruolo che sto­ricamente la cultura ha attribuito da queste parti alle donne. Temute, venerate, ammirate, controllate, delle donne in Sicilia si parla da sempre, ma è in fondo una maniera per concentrarsi ancora una volta sul maschile. «La vita del siciliano si svolge attor­no a due poli fissi: il denaro e la donna, la roba di Mastro Don Gesualdo e l’onore di compare Alfio»2. Certo, era il 1945 quando Aglianò scriveva, ma è da tenere in considerazione. Quello che emerge da questa successione di immagini è in primo luogo un’ossessione, quella che gli uomini hanno elaborato del femminile. Nello spazio dell’opera d’arte le donne sono regine indi­scusse, dominano paradossalmente anche quando sono sottomesse, sono la figura ultima di tutti i desideri e di tutte le paure. Ma non è solo una sequenza di fisionomie quella che ci si presenta dinnanzi, bensì anche un percorso fatto di gesti, espressioni, corpi, detta­gli, abiti e accessori, fino a coinvolgere l’orizzonte vasto e compo­sito delle cose, dove tutto parla di donne se è vero che da sempre il loro mondo è quello dell’interiorità, degli arredi e dei tessuti, dei ricami e delle confidenze, il mondo dunque della casa, delle cuci­ne, delle camere da letto, delle toilettes e degli specchi, dell’intimi­tà in cui la memoria si addensa per stratificazioni e sovrapposizioni e in cui l’oggetto è portatore di valori potenti. Così, i colori scel­ti, gli abiti con cui ci si veste e gli oggetti di cui ci si circonda quan­do ci si è svestiti, la grazia di un gesto e la finezza di un velluto, non sono solo segnali della condizione sociale, espressione della classe di appartenenza, quasi emanazione del mondo domestico — soprattutto durante l’Ottocento, quando l’immaginario collettivo si nutre di questi significati e si esaspera la divaricazione tra il mondo serio degli uomini intenti al lavoro ed il mondo leggiadro delle donne intende all’intrattenimento — ma esprimono anche una con­dizione propria, una personale maniera di stare al mondo. Forse assecondando quel che gli uomini hanno sempre visto delle donne. C’è in tutto questo, infatti, come una piccola linea di perversione, un corto circuito, dovuto al piacere innegabile che le donne prova­no nel mostrarsi, una linea che sa di vanità, quintessenza del fem­minile, che rende la donna ritratta donna felice di mostrarsi. Si conferma l’altalena che da sempre accompagna la visione maschi­le del femminile, tra vanità ed alterigia, desiderabilità e distanza, sottomissione e potere, altalena che raggiunge l’immaginario con­temporaneo e che porta la nostra cultura a produrre gli immanca­bili stereotipi. Seppure profondamente modificata la visione con­temporanea della donna non sembra essere andata troppo lontano rispetto a quel che accade dentro i musei, anche se nuovi ruoli si sono aggiunti allo stuolo, e sono comparse le manager e le veline, le attrici hard e le femministe, chi fa politica e chi si divide tra casa e lavoro, le ragazze madri e le madri senza figli, e chi più ne ha più ne metta. Sono finalmente comparse le artiste, o meglio è esplosa la rivendicazione da parte delle donne del loro essere non solo muse ma anche artiste, non solo soggetto della rappresentazione ma autrici alla stessa stregua dei colleghi maschi. Ed ancora oggi, esposizioni e rassegne propongono un’attenzione particolare verso l’altra metà dell’arte, le donne, definite non come immagine ma come autrici di un’azione. Anche se, talvolta — ci sembra —, quasi a definire una sorta di minoranza più che a vei­colare una differenza.

Si conferma, però, nel mondo intorno a noi, il vecchio luogo comu­ne che fa dell’uomo espressione di forza e della donna espressione di bellezza. Dalla pittura alla televisione, dall’arte medievale fino alla nostra combattiva contemporaneità, siamo sicuri che sia dav­vero cambiato qualcosa?

Tra le opere proposte (visibili presso le istituzioni di cui trovate i rife­rimenti a pag. 217), sono state incluse anche alcune opere che non sarà possibile ammirare. La Madonna con bambino custodita pres­so la Chiesa Madre di Polizzi Cenerosa, pag. 51, è visibile solo nelle rare occasioni di apertura dell’edificio religioso; l’Annunciazione della Chiesa dell’ Annunziata di Sortino, pag. 67, non è visibile a causa della chiusura della chiesa: il ritratto di Franca Florio, pag. 101, di Ettore De Maria Bergler, appartiene a collezione pri­vata. Ci siamo concessi questo strappo per amore delle opere in questione, comunque importanti in un percorso di visita ma anche di approfondimento.

STORIA DELLA SHOAH:PER NON DIMENTICARE

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Massimiliano Kolbe-Edith Stein-Dietrich Bonhoeffer.

Piano dell’opera

volume I

La crisi dell’Europa: le origini e il contesto

volume II

La distruzione degli ebrei

volume III

Riflessioni, luoghi della memoria, risoluzioni

volume IV

Eredità, rappresentazioni, identità

volume V Documenti

Presentazione

Negli ultimi due decenni la storiografìa internazionale ha collocato la Shoah, la distruzione degli ebrei d’Europa, al centro della storia del Ventesimo seco­lo, studiandola nei suoi particolari e dettagli, nell’ambito della storia della Ger­mania nazista e soprattutto della Seconda guerra mondiale, e rinnovandone e ampliandone considerevolmente le conoscenze e interpretazioni ben al di là della storia tedesca. La Shoah può essere in effetti considerata oggi come il ri­sultato di una più generale crisi dell’Europa iniziata nel lungo Ottocento, tra­sformata e accelerata nella Prima guerra mondiale, e divenuta un baratro del­la politica, della cultura e della società negli anni Venti e Trenta del Novecento, con l’avvento dei fascismi. Nel tempo l’Olocausto è stato infatti gradualmente percepito come uno degli eventi più emblematici del secolo trascorso, oltre che uno dei più efferati e violenti nella storia dell’umanità. Esso può essere inol­tre pensato come un prisma in cui leggere alcuni dei principali fenomeni di ra­dicale trasformazione, e vera e propria degenerazione, della politica e della so­cietà nel Ventesimo secolo, dentro e fuori l’Europa, anche oltre quell’evento specifico (alcuni aspetti del quale si sono poi ripetuti e propagati – o vicever­sa sono stati anticipati – in forme diverse, in genocidi, pulizie etniche, razzi­smi). È necessaria una precisazione terminologica: in quest’opera i termini ge­nocidio degli ebrei, Olocausto, Shoah, «Soluzione finale» e a volte anche Auschwitz (per antonomasia) sono usati come sinonimi. Ciascuno di essi ha diverse connotazioni e continua a essere oggetto di controversie pubbliche e discus­sioni scientifiche di cui non sottovalutiamo l’importanza. Il termine Shoah — «catastrofe» in ebraico – con il quale le vittime ebree hanno iniziato a qualifi­care la politica dei loro persecutori fin dagli anni della guerra, ci è sembrato il più pertinente, anche per sottolineare la specificità del genocidio ebraico. Per questo, oltre che per la sua più recente e vasta diffusione, è stato inserito nel titolo dell’opera. «Soluzione finale» è invece formula coniata dai nazisti: ma la necessità di prendere in considerazione il linguaggio dei persecutori ne spie­ga il ricorso in molti contributi. Quanto a Olocausto, benché il termine pos­sieda una discutibile connotazione sacrificale, la sua diffusione internazionale specie in ambito storiografico (oltre che nel sistema di catalogazione delle grandi biblioteche occidentali) ne giustifica e ne spiega l’uso frequente.

Attraverso un insieme di interpretazioni e rappresentazioni appartenenti a diversi ambiti della cultura, della conoscenza e dell’immaginazione, la Shoah è divenuta dunque, infine, un evento centrale nella coscienza e nella memo­ria storica dell’Occidente. Quest’opera è perciò dedicata alla documentazione e all’approfondimento di prospettive di analisi ed interpretazione, e ambisce a fornire un quadro il più possibile articolato, attraverso il contributo di alcuni dei massimi specialisti, dello stato delle conoscenze e del dibattito critico e sto­riografico sull’Olocausto. Nonostante la massa crescente di studi dedicati al­l’argomento nei suoi molteplici aspetti ci è parso mancasse ancora, e ci augu­riamo sia complessivamente riuscito, il tentativo di ricapitolazione comples­siva del dibattito, delle ricerche e dei risultati storiografici raggiunti negli ultimi decenni. Riteniamo che alcune linee interpretative di fondo proposte dall’in­sieme dei volumi possano inoltre contribuire a porre in una luce nuova, in una prospettiva più ampia e in nuove dimensioni critiche l’insieme di questioni, temi e problemi che emergono dallo studio della Shoah. Ciò ci pare possibi­le grazie all’adozione di una dimensione diacronica (precedente e successiva a quell’evento), di una prospettiva europea (e talora extra-europea, ma certo non solo tedesca), e di un’indagine condotta su diversi livelli epistemologici, qua­li quelli – collegati ma distinti – della storia, della memoria e delle rappresen­tazioni dell’Olocausto, oggi particolarmente presenti nella sensibilità degli stu­diosi anche di fronte a una loro presenza pervasiva nel discorso pubblico (che necessita però, evidentemente, di essere analizzata e discussa).

La Shoah fu. certamente un fenomeno di portata europea, non solo per le di­mensioni geografiche del suo svolgimento, ma per l’insieme di eventi e feno­meni che ne costituirono le premesse, in alcuni casi gli antefatti e – ad un li­vello più profondo e complesso — alcune delle radici storiche. A una tale in­terpretazione e ricostruzione è dedicato il primo volume di quest’opera. Sulla scia di analisi classiche come quelle di Hannah Arendt sulle origini del totali­tarismo e di Zygmunt Bauman sui rapporti tra modernità e Olocausto, è pos­sibile sostenere che il genocidio degli ebrei nel corso della Seconda guerra mon­diale fu il risultato di una più antica e più lunga crisi dell’Europa e di trasfor­mazioni complessive inerenti anche i processi di modernizzazione della società. Questa crisi e queste trasformazioni furono preparate e segnate da fenomeni come l’emergere del razzismo, dalla metà almeno dell’Ottocento; le trasfor­mazioni e la diffusione dell’antisemitismo, particolarmente a partire dagli an­ni Ottanta del XIX secolo; i massacri coloniali di inizio Novecento; le trasformazioni qualitative e quantitative della violenza nella Prima guerra mondiale; la crisi dei liberalismi e la radicalizzazione dei nazionalismi; l’emergere, infine, dei fascismi nelle forme di regimi totalitari e violenti. Ma contarono anche fe­nomeni di burocratizzazione degli apparati statali e di serializzazione e indu­strializzazione della morte; innovazioni scientifiche e tecniche; trasformazioni della condizione umana nelle moderne società tecnologiche e di massa.

Allo stesso tempo l’Olocausto non stava necessariamente inscritto in que­sti fenomeni e nemmeno nella loro teorica somma, ma fu il frutto di eventi e contingenze specifiche dovuti all’avvento del nazismo nella Germania degli anni Trenta e poi soprattutto allo scoppio e all’evoluzione della Seconda guer­ra mondiale. Ciò particolarmente nell’ambito del disegno hitleriano e nazista di conquista del continente europeo e di instaurazione di un nuovo ordine, fondato su una gerarchia razziale e sulla supremazia del popolo tedesco, sup­posta incarnazione della «razza ariana» e portatore della sua apocalittica mis­sione di «redenzione» e soggiogamento dell’umanità. Certamente il progetto della «Soluzione finale» potè e dovette fondarsi su un notevole retroterra sto­rico: politico, culturale e ideologico che ebbe i suoi cardini nella nascita dell’antisemitismo politico, nell’affermazione del nazionalismo volkisch, nell’esplosione e massificazione della violenza nel primo conflitto mondiale, nell’e-mergere, infine, di una dittatura totalitaria fondata anche sullo scontro radicale con il nemico interno e su una visione dell’uomo e del mondo allucinata e per­versa. Gli eventi bellici, le corresponsabilità dei collaboratori e collaborazio­nisti, l’inazione di molti protagonisti e testimoni, furono d’altra parte decisi­vi per il concreto attuarsi in quelle forme e dimensioni del genocidio ebraico.

La storiografìa internazionale ha conosciuto, almeno nell’ultimo quindicennio, progressi considerevoli e definitivi nella ricostruzione e nell’interpretazione de­gli eventi della Shoah, tanto che si potrebbe dire che essi siano ormai conosciuti nella grande maggioranza dei loro più particolari aspetti e dettagli. Il quadro che ne è emerso, delineato nel secondo volume della Storia della Shoah con il contributo dei suoi massimi specialisti, conferma l’ampiezza della persecuzio­ne e del massacro di ebrei, zingari, slavi, oppositori politici, disabili, omoses­suali da parte del nazismo, ma consente anche di esaminare quell’insieme di fenomeni ed eventi alla luce della ragione, delle conoscenze scientifiche e di spiegazioni storiche multicausali e complesse. Sono stati da tempo chiamati in causa, in questo senso, oltre a una mole imponente di documenti e testimo­nianze e alle ricostruzioni storiche tradizionali, il contributo dell’insieme delle scienze sociali dall’antropologia alla psicologia, ma anche la riflessione fìlosofica su problemi etici (comportamenti, responsabilità, colpe) ed epistemologici (razionalità, contro-razionalità, conoscenza); quella letteraria, estetica e, di nuo­vo, epistemologica sul problema delle rappresentazioni (storiche, letterarie, ar­tistiche) e dei loro contributi alla conoscenza; ma anche le definizioni giuridi-che e, per esempio, le valutazioni economiche di quegli eventi.

Oggi sappiamo, in estrema sintesi, al di là della preparazione culturale e ideo­logica, e oltre le necessarie premesse nelle legislazioni e persecuzioni antiebrai-che di mezza Europa dalla metà degli anni Trenta, che l’Olocausto fu ideato e realizzato nel corso della Seconda guerra mondale per iniziativa di Hitler e di altre diverse personalità e istanze delle gerarchie e delle burocrazie politiche e militari naziste; che fu condotto in forma di massacri in Europa dell’Est, specie nel corso dell’invasione dell’Unione Sovietica; che fu realizzato con trasferimen­ti, concentrazioni e imprigionamento di popolazioni, il loro sfruttamento e in­fine la loro eliminazione con camere a gas e forni crematori in campi di stermi­nio. Sappiamo che le vittime dell’Olocausto – cioè di un piano predeterminato di sterminio ai danni in primo luogo del popolo ebraico – furono tra i cinque e i sei milioni, nel contesto degli oltre cinquanta milioni di morti della Seconda guerra mondiale. Sappiamo che i carnefici furono non solo tedeschi e non solo assassini ideologicamente motivati, ma uomini comuni (per esempio militari e poliziotti, ma anche semplici impiegati della macchina burocratica dello ster­minio), con l’ausilio di centinaia di migliaia di complici, collaboratori e colla­borazionisti in tutta Europa, inclusa l’Italia. Sappiamo che milioni di europei assistettero inerti, così come non intervennero a fermare il massacro le potenze schierate contro la Germania nazista, le istituzioni internazionali, la Chiesa, e perfino, per quanto avrebbero potuto, ma in sostanza paralizzate, incredule ed impotenti, le comunità ebraiche in America e in Palestina.

Per le sue premesse, per le sue molteplici cause e per il concreto svolgersi degli eventi, sappiamo e constatiamo, dunque, che l’Olocausto fu una disfat­ta della intera civiltà occidentale e uno dei peggiori baratri della coscienza del­l’umanità in tutta la sua storia.

La percezione e la stessa conoscenza dell’insieme di eventi che va sotto il nome di Shoah sono – come tutti gli eventi storici, ma qui con una portata e con con­seguenze eccezionali — il frutto di un insieme articolato e molteplice di rappre­sentazioni che hanno conosciuto una complessa evoluzione, legata alle trasfor­mazioni della memoria, dei quadri culturali e politici di riferimento, delle espres­sioni artistiche, dei mezzi di comunicazione. Questi temi e fenomeni stanno al centro degli ultimi due volumi dell’opera che qui presentiamo. Per lungo tem­po, negli anni Quaranta e Cinquanta, l’Olocausto scomparve dalla scena e dal dibattito pubblico internazionali e per molti versi anche dall’attenzione degli storici, e fu percepito come un episodio della Seconda guerra mondiale, o comun­que come una aberrazione della storia: il tragico ma circoscritto risultato di un’e-clissi della ragione. Fu a partire dagli anni Sessanta che la riflessione storiografi­ca e fìlosofìca iniziò ad interrogarsi e a ripensare le reali dimensioni, le origini, i significati e le conseguenze di quegli eventi, grazie al contributo di storici come Raul Hilberg e George Mosse (già preceduti dalle ricerche pioneristiche di Leon Poliakov e Gerhard Reitlinger) e di filosofi come Hannah Arendt e Theodor W. Adorno. Contarono anche eventi poi rivelatisi epocali come il processo e l’ese­cuzione, consumati a Gerusalemme all’inizio degli anni Sessanta, di Adolf Eichmann, uno degli architetti dello sterminio. Se i carnefici furono uditi e ascolta­ti fin dai tempi di Norimberga, le voci delle vittime furono a lungo marginalizzate o rimasero per lo più inascoltate secondo le loro stesse peggiori previsioni e i loro incubi ricorrenti. La testimonianza di una figura come Primo Levi dovet­te attendere gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso – e per molti versi la tragica scomparsa dello scrittore – per essere riconosciuta come irrinunciabile ed essere considerata come una dei più alti e incisivi documenti della peggiore barbarie del Novecento. Le immagini di Auschwitz ebbero a lungo una limita­ta diffusione e solo con la loro divulgazione e diffusione massiccia, a partire per esempio da interpretazioni filmiche di serie televisive degli anni Settanta, inizia­rono ad essere conosciute da un più largo pubblico e da uomini e donne delle giovani generazioni. Con rare eccezioni, soltanto più tardi furono realizzati do-cumentari ma anche, e soprattutto, ^zctaw cinematografiche che segnarono una diffusione di massa della conoscenza e coscienza dell’Olocausto, risultando spes­so ben più incisive dell’opera degli storici o dei filosofi. Solo a partire dagli an­ni Novanta del secolo scorso, infine, si registrò una vera e propria esplosione della memoria della Shoah, attraverso musei, raccolte di testimonianze, giorna­te della memoria: fenomeni che sono parsi aumentare man mano che ci si al­lontana da quegli eventi e i testimoni diretti vanno scomparendo.

Anche in ambito letterario e artistico la coscienza di Auschwitz faticò ad af­fermarsi, fu affidata dapprima a vittime e testimoni e fu spesso anche autore­volmente contestata e discussa rispetto alla sua legittimità o addirittura alla stessa possibilità di una sua interpretazione artistica e poetica. Oggi quelle rap­presentazioni e interpretazioni che provengono dalla letteratura e dall’arte ap­partengono a pieno titolo e formano un unico insieme con la conoscenza e co­scienza individuale e collettiva della Shoah. Questa coscienza sollevò del re­sto fin dal principio – e in alcuni casi eccezionali nel corso dello svolgersi stesso degli eventi – brucianti e radicali interrogativi nella riflessione fìlosofìca at­torno alla ragione, all’uomo, all’esistenza; o in quella teologica sulla divinità, la colpa e i comportamenti umani. Le diverse storie e memorie nazionali dell’Olocausto hanno conosciuto an­ch’esse evoluzioni specifiche legate al ruolo e al grado di coinvolgimento di cia­scuna nazione in quegli eventi: che si trattasse o si tratti della Germania, di Israele, di paesi con o senza una presenza ebraica (o in cui quella presenza è stata per sempre cancellata); di nazioni che contribuirono alla realizzazione del­la «Soluzione finale» o i cui cittadini furono vittime dell’Olocausto in forma minore o maggiore; che si tratti, infine, della memoria dell’intera Europa uni­ficata su principi di pace e tolleranza e di ripudio e perpetua condanna del­l’esperienza di Auschwitz.

Nell’insieme crediamo che questa molteplicità di contributi, prospettive e ap­procci, grazie all’apporto di decine di studiosi di paesi, formazioni, sensibilità e appartenenze diverse, fornisca un quadro articolato e complesso della sto­ria, della memoria e delle rappresentazioni della Shoah come evento centrale della storia europea e mondiale del XX secolo e uno degli eventi più cruenti della storia dell’umanità. Le conoscenze e interpretazioni accumulatesi nel tempo consentono oggi di sottoporre quegli eventi che vanno sotto il nome di Olocausto e la loro portata e violenza a un controllo e a una verifica della ragione storica, di chiamare in causa spiegazioni, di sollevare nuovi interroga­tivi, ma di fornire anche ricostruzioni certe e adeguate risposte. Ci auguria­mo, quindi, che quest’opera possa approfondire e rafforzare la conoscenza sto­rica della Shoah nei suoi molteplici aspetti, possa contribuire a consegnarla sta­bilmente alla storia del Novecento, possa infine rappresentare anche un monito per le coscienze di tutti, per il presente e per il futuro.

Marina Cattaruzza

Marcello Flores Simon

Levis Sullam

Enzo Traverso

Berna, Siena, Venezia, Parigi giugno 2005

DA SCIENZIATO DICO:ASCOLTIAMO BENEDETTO XVI

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Di ANTONINO ZICHICHI-

Il Santo Padre ha posto la Ragione al centro dell’attenzione nella cultura del nostro tempo. Siamo infatti l’unica forma di materia vivente cui è stato dato il privilegio di essere dotata di Ragione. È grazie al dono della Ragione che la forma di materia vivente cui noi apparteniamo ha potuto scoprire il Linguaggio, la Logica e la Scienza. Esistono centinaia di migliaia di forme di materia vivente, vegetale ed animale. Nessuna di esse ha però saputo scoprire la Memoria Collettiva Permanente – meglio nota come linguaggio scritto – né le forme rigorose di Logica com’è ad esempio la Matematica, né la Scienza che, tra tutte le logiche possibili, è quella che ha scelto il Creatore per fare l’Universo, inclusi noi stessi. Senza Ragione non avremmo potuto scoprire la Scienza. Questa straordinaria avventura intellettuale inizia, appena 400 anni fa, con Galileo Galilei che chiamava «Impronte del Creatore» le prime Leggi Fondamentali della Natura da lui scoperte. Queste Impronte potevano anche non esistere. E invece Galilei era convinto che dovevano essere presenti addirittura nella materia «volgare». Per atto di Fede nel Creatore, Galilei iniziò a cercare quelle Impronte studiando le pietre, da tutti considerate esempi di materia che non avrebbe potuto essere depositaria di verità fondamentali. Ecco il significato del «volgare». Basti un esempio: per l’antica cultura cinese le verità fondamentali erano depositate nelle stelle. E così per tante altre culture. Galilei pensava invece che, essendo ogni cosa opera dello stesso Creatore, le impronte dovevano essere dappertutto: nelle stelle e nelle pietre.
Benedetto XVI il 6 aprile 2006, rispondendo a una domanda di un giovane che partecipava in piazza San Pietro a un incontro in preparazione della Giornata Mondiale della Gioventù, rispose dicendo che il grande Galileo Galilei considerava la Natura e la Bibbia due libri scritti dallo stesso autore. Il libro della Natura in lingua matematica in quanto per costruire l’Universo è necessario il rigore della matematica; la Bibbia, essendo la parola di Dio, doveva essere scritta in linguaggio semplice, accessibile a tutti, come debbono essere i valori della nostra esistenza che è simbiosi di sfera immanentistica e di sfera trascendentale. La Scienza, ha ricordato Benedetto XVI, nasce da quell’atto galileiano di umiltà intellettuale: Colui che ha fatto il mondo è più intelligente di tutti noi, filosofi, poeti, artisti, matematici, nessuno escluso. Se vogliamo conoscere quale logica abbia scelto il Creatore per fare il mondo c’è una sola strada: porgli domande in modo rigoroso. È questo il significato di «esperimento di stampo galileiano». Nasce così la Scienza Galileiana che esige rigore e riproducibilità.
Se nel 1965 avessi potuto con carta e penna, usando solo il rigore della matematica, dimostrare l’esistenza dell’antimateria nucleare, non avrei avuto bisogno di fare un esperimento estremamente difficile e che esigeva l’invenzione di uno speciale circuito elettronico per misurare i tempi di volo delle particelle subnucleari con precisioni mai prima realizzate: frazioni di miliardesimi di secondo. Per fare una scoperta scientifica è necessario arrendersi alla superiorità intellettuale del Creatore di tutte le cose visibili e invisibili, realizzando un esperimento. Ho citato l’esempio dell’antimateria nucleare. Potrei citare altri esempi. Ciascuna scoperta è sempre venuta dopo un esperimento che ha richiesto almeno un’invenzione tecnologica, come ad esempio quella del più potente rivelatore di neutroni per scoprire una formidabile proprietà dell’Universo subnucleare: l’enorme divario esistente tra le miscele mesoniche vettoriali e quelle pseudoscalari.
Se bastasse il rigore logico-matematico per capire com’è fatto l’Universo Subnucleare, non avremmo bisogno di costruire strutture complesse e gigantesche com’è la nuova macchina che entrerà in funzione entro la fine di quest’anno al Cern di Ginevra: una pista magnetica lunga 27 km con enormi quantità di rivelatori mai prima da nessuno realizzati per riuscire ad avere una risposta alla domanda: com’era l’Universo un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang? Se non fosse per l’atto di umiltà intellettuale del padre della Scienza moderna, saremmo rimasti fermi, chissà per quanti secoli ancora, a ciò che pensavano i nostri antenati: basta essere intelligenti per capire com’è fatto il mondo. Nel corso di diecimila anni, dall’alba della civiltà al Sedicesimo secolo, tutte le culture si erano illuse di sapere decifrare il Libro della Natura senza mai porre una sola domanda al suo Autore. Ecco perché a nessuna cultura era toccato il privilegio di scoprire una Legge Fondamentale della Natura.
Se oggi la Scienza è arrivata alla soglia del Supermondo, lo dobbiamo a quell’atto di Fede e di umiltà intellettuale, maturato nel cuore della cultura Cattolica con Galileo Galilei, che Giovanni Paolo II, il 30 marzo 1979, in Vaticano, presenti i rappresentanti dei fisici di tutta Europa, definì figlio legittimo e prediletto della Chiesa Cattolica. Giovanni Paolo II riportò a casa i tesori della Scienza Galileiana e Benedetto XVI di questo tesori è oggi il massimo custode nella continuità culturale del suo Apostolato con quello di Giovanni Paolo II che, spalancando le porte della Chiesa Cattolica alla Scienza Galileiana, dette vita alla grande alleanza tra Fede e Scienza.
Di questa Alleanza è prova la frase «Scienza e Fede sono entrambe doni di Dio», incisa su ferro ed esposta agli scienziati di tutto il mondo al Centro di Cultura Scientifica Ettore Majorana a Erice. La cultura del nostro tempo è detta moderna, ma in effetti è pre-aristotelica. Infatti né la Logica Rigorosa né la Scienza sono ancora entrate nel cuore di questa cultura che – come ha scritto Benedetto XVI nel suo discorso alla Sapienza – «costringe la Ragione ad essere sorda al grande messaggio che viene dalla Fede Cristiana e dalla sua sapienza. Così facendo questa cultura agisce in modo da non permettere più alle radici della Ragione di raggiungere le sorgenti che ne alimentano la linfa vitale».
Nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma c’è un’altra famosa frase di Giovanni Paolo II: «La Scienza ha radici nell’Immanente ma porta l’uomo verso il Trascendente». È la sintesi più bella di ciò che dice Benedetto XVI.
Negare a Benedetto XVI il diritto di portare ai giovani il messaggio della grande alleanza tra Fede e Scienza è atto di oscurantismo, non di laicità.

UNA VALLELUNGHESE DI LUNGHISSIMA VITA….

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26-01-2007:la Signora Serafina con i suoi tre figli

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Carnevale del 1931

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27-4-1942 Partenza per il viaggio di nozze

Tra qualche giorno,il 26 Gennaio, la Signora Serafina Criscuoli spegnerà 101 candeline. Ha compiuto,l’anno scorso,100 anni di vita circondata dal grande affetto dei suoi tre figli e nove nipoti. Scusate se sono pochi i 101 anni e se il traguardo raggiunto è modesto !La signora Serafina risulterebbe la VALLELUNGHESE vivente più longeva .Ad andare ad omaggiare la Sig.ra Serafina,tra i tanti,vi fu l’arciprete Don Giuseppe Zuzzè.Vi propongo una breve,ma efficace,biografia di questa straordinaria donna offertami,gentilmente,dalla figlia Professoressa Cenzina Oliveri in Torres,unitamente ad alcune foto dei festeggiamenti del centenario dello scorso anno.Ringrazio, sentitamente, l’amica Cenzina per la sua disponibilità. Auguro alla signora Serafina di trascorrere serenamente il 101 compleanno e speriamo che QUALCUNO,in paese,si decida ad organizzare una bella festa alla NONNA di tutti i Vallelunghesi. Augurissimi Signora Serafina e AD MULTOS ANNOS!

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BIOGRAFIA DI SERAFINA CRISCUOLI

 

Serafina Criscuoli è nata a Vallelunga Pratameno ( Cl) il 26 Gennaio 1907 da Giovanni Criscuoli e Rosina Cipolla,seconda di tre figli,dopo Vincenzo e prima di Orsola .

Frequenta la scuola elementare a Vallelunga e poi la Scuola Normale ( Istituto Magistrale) a Noto (Sr.) nel Collegio delle Suore Domenicane fino al penultimo anno. Poi il padre decide di ritirarla perché non vuole che prenda il diploma magistrale che poi potrebbe portarla ad insegnare fuori dalla Sicilia (Altri tempi!). Suo malgrado, lei accetta la decisione paterna e rimpiangerà sempre questo mancato diploma, specialmente quando, rimasta vedova dopo sei anni di matrimonio con Rosario (Sasà) Oliveri e con tre figli (Cenzina, Tuccio e Giovanni), le sarebbe piaciuto avere un’attività professionale.

E’ una donna eclettica, ama e conosce la musica, canta, suona il pianoforte,dipinge (alcuni suoi dipinti, dedicati a Sant’Antonio, sono custoditi nell’altare dedicato al Santo nella Chiesa Madre di Vallelunga), ricama benissimo, lavora la maglia, l’uncinetto ed esegue quei lavori di cucito che evidenziano creatività e fantasia eccellenti, è un’ottima cuoca (Famose sono le sue torte) .

E’ una mamma eccezionale, coraggiosa, arguta, di grande temperamento, dalla forte personalità, di buona cultura, che ha saputo benissimo svolgere il doppio ruolo di genitore alla morte del marito guidando i figli durante la loro crescita, aiutata in ciò dalla cognata Fifì Oliveri.

Ha nove nipoti e una pronipote(Sofia) che ama moltissimo e con i quali ha avuto sempre un bel rapporto . Di forte costituzione e di carattere allegro e socievole : sono questi i requisiti che l’hanno portata al traguardo dei cento anni. Ancora oggi è autosufficiente, lucida, segue gli eventi familiari e della cronaca nazionale,esce accompagnata, non può fare a meno del mezzo bicchiere di vino a pranzo e a cena e dichiara di non sentirsi questa veneranda età ma molti anni di meno.

La sua lunga vita è trascorsa a Vallelunga fino al 1956 e poi a Palermo dove abita. Ma non ha mai trascurato la sua Vallelunga, dove ogni estate si reca, prima per periodi lunghi, adesso per poche settimane, a trascorrere la villeggiatura nella casa di campagna di famiglia.

Il suo centesimo compleanno è stato festeggiato il 26 Gennaio 2006 a Partinico da tutti i figli , i nipoti e i parenti con la pergamena di benedizione del S. Padre Benedetto XVI richiesta per lei da Mon. S. Salvia, Parroco della Chiesa del Carmine di Partinico, città dove abita la figlia Cenzina.

Ma anche la RAI, vedendo la sua fotografia sul Giornale di Sicilia, ha cercato il contatto ed è venuta con giornalista e troupe a seguire,fin dall’arrivo all’aeroporto del figlio Tuccio e dei nipoti che abitano a Torino, tutta la fantastica giornata del 26 Gennaio conclusasi con la Messa, con un rinfresco e un brindisi al prossimo …..centenario. Il servizio è stato trasmesso da RAI 1 durante la trasmissione “Festa Italiana”. Adesso è già pronta per festeggiare il suo 101° compleanno.

BUONANOTTE ILLUMINISMO….

LA SCANDALOSA CENSURA CONTRO IL PAPA 17.01.2008
Un passo del discorso che Benedetto XVI avrebbe fatto all’Università, e che non ha potuto pronunciare, recita:“Non avevano bisogno, quindi, (i cristiani) di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università. È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”:
il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa” .* * *A processare Galileo fu un intellettuale laico…

Un gruppo di professori dell’Università di Roma, in nome della “tolleranza”, vuole che il Papa non parli nell’ateneo romano (l’intervento era stato richiesto dalle autorità accademiche). Strana idea di tolleranza. Il Pontefice sarebbe una figura che non ha niente a che fare con l’università? A parte il fatto che a fondare l’università romana è stato proprio il papa. Praticamente è casa sua. Si legge infatti nello stesso sito internet dell’ateneo: “L’atto di nascita della Università di Roma reca la data del 20 aprile 1303; in questo giorno venne infatti promulgata da Papa Bonifacio VIII Caetani la Bolla In Supremae praeminentia Dignitatis, con la quale veniva proclamata la fondazione in Roma dello ‘Studium Urbis’ ”. Cosa ovvia essendo la Chiesa all’origine di gran parte delle nostre istituzioni culturali.

A parte poi il fatto che Joseph Ratzinger è appunto un docente universitario, anzi un luminare, uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo ed è casomai lui che fa onore all’Università di Roma, intervenendo, non l’Università che fa un favore al Papa. A parte il fatto, infine, che i laici ogni tre secondi citano Voltaire (“non condivido ciò che dici, ma mi batterò fino alla fine perché tu possa dirlo”) e poi lo contraddicono nella pratica.

Ma l’aspetto più paradossale è un altro. Perché quello che viene imputato al Papa è di aver citato – in un discorso tenuto quando era cardinale – un intellettuale laico-agnostico, un antidogmatico, un libertario, uno che insegnava a Berkeley dove cominciò la contestazione e che – da anarchico – applaudì alla rivolta, insomma uno dei loro, il celebre epistemologo Paul Feyerabend. Ecco la sua frase citata dall’allora cardinale Ratzinger: “All’epoca di Galileo, la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina di Galilei. Il suo processo contro Galilei era razionale e giusto, mentre la sua attuale revisione si può giustificare solo con motivi di opportunità politica”.

In effetti la vicenda Galilei fu molto più complessa di quanto racconti la storia a fumetti che vede un S. Uffizio tenebroso che opprime l’illuminato scienziato. E il cardinale Bellarmino, peraltro grande uomo di cultura, aveva le sue ragioni. Questo intendeva dire il filosofo Feyerabend. La sua provocazione sul processo non era condivisa da Ratzinger che, oltretutto, fu colui che volle la revisione del “caso Galileo” con Giovanni Paolo II. Quindi è l’ultimo a poter essere oggi accusato per questo.

Ma – da studioso – ricostruendo il complesso dibattito moderno su quel caso, per far capire la complessità dei problemi e la pluralità delle posizioni in materia, Ratzinger citò anche la celebre pagina di Feyerabend. Quindi Ratzinger viene oggi “scomunicato” in base non al proprio pensiero, ma al pensiero di un altro. Che oltretutto è uno “scettico”, uno della loro stessa area culturale laica (ma lui è coerente e rifiuta tutti i dogmi, anche i loro). “Sono parole” scrivono i professori romani “che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all’avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano”.

Ma – chiediamo, cari illustri professori – vi rendete conto che queste “parole” da voi citate e “scomunicate” appartengono non al papa, ma ad un vostro illustre collega epistemologo che ha insegnato per anni nei maggiori atenei? E come potete attribuire all’uno le parole dell’altro? No, i professori non sentono ragioni. E sentenziano: “In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l’incongruo evento possa ancora essere annullato”. Quindi, “in nome del rispetto di ogni credo” chiedono che non sia fatto parlare Benedetto XVI. Tutti, ma non lui.

Se non fossero fatti preoccupanti, ci sarebbe da ridere. Perché in quel discorso tenuto a Parma il 15 marzo 1990, evocato e “scomunicato” dai professori, il cardinale Ratzinger insieme a Feyerabend citava – su una linea analoga – anche un altro filosofo, il “marxista romantico” Ernst Bloch su cui sarebbe interessante sentire il parere dei professori della Sapienza.

Secondo Bloch sia il geocentrismo che l’eliocentrismo si fondano su presupposti indimostrabili perché la relatività di Einstein ha spazzato via l’idea di uno spazio vuoto e tranquillo: “pertanto” ha scritto Bloch “con l’abolizione di uno spazio vuoto e tranquillo, non accade nessun movimento verso di esso, ma solo un movimento relativo dei corpi l’uno in relazione agli altri e la loro stabilità dipende dalla scelta dei corpi presi come punti fissi di riferimento: dunque, al di là della complessità dei calcoli che ne deriverebbero, non appare affatto improponibile accettare, come si faceva nel passato, che la terra sia stabile e che sia il sole a muoversi”.

Il filosofo marxista non tornava certo all’universo tolemaico, né alle conoscenze scientifiche del tempo di Bellarmino e di Copernico, per i quali si potevano fare solo delle ipotesi. Bloch parlava in nome delle più avanzate scoperte scientifiche del XX secolo, esprimeva così – spiegava Ratzinger – “una concezione moderna delle scienze naturali”. Infatti un’altra mente eccelsa del Novecento, grande nome del pensiero ebraico, una combattente contro il totalitarismo, Hannah Arendt, nel libro “Vita activa”, scrive la stessa cosa: “Se gli scienziati precisano oggi che possiamo sostenere con egual validità sia che la terra gira attorno al sole, sia che il sole gira attorno alla terra, che entrambe le affermazioni corrispondono a fenomeni osservati, e che la differenza sta solo nella scelta del punto di riferimento, ciò non significa tornare alla posizione del cardinale Bellarmino e di Copernico, quando gli astronomi si muovevano tra semplici ipotesi. Significa piuttosto che abbiamo spostato il punto di Archimede in un punto più lontano dell’universo dove né la terra né il sole sono centri di un sistema universale. Significa che non ci sentiamo più legati nemmeno al sole, scegliendo il nostro punto di riferimento ovunque convenga per uno scopo specifico”.

Secondo la Arendt “per le effettive conquiste della scienza moderna il passaggio dal sistema eliocentrico a un sistema senza un centro fisso è tanto importante quanto fu, in passato, quello da una visione geocentrica del mondo a una eliocentrica”. Ratzinger – uno dei grandi intellettuali del mondo moderno – lo ha capito molto bene e segnala, come la Arendt, la necessità di riflettere sulle conseguenze sociali di questo nuovo scenario e sull’uso che, in questa situazione, si fa della scienza. Invece il mondo accademico italiano, più provinciale e ideologizzato, sembra ancora fermo al Seicento.

Io penso che il professor Ratzinger si riconoscerebbe di sicuro in quest’altro pensiero della Arendt: “i primi 50 anni del nostro secolo hanno assistito a scoperte più importanti di tutte quelle della storia conosciuta. Tuttavia lo stesso fenomeno è criticato con egual diritto per l’aggravarsi non meno evidente della disperazione umana o per il nichilismo tipicamente moderno che si è diffuso in strati sempre più vasti della popolazione; l’aspetto forse più significativo di queste condizioni spirituali è di non risparmiare nemmeno più gli scienziati”.

Ma vi pare che l’università italiana possa volare a queste altezze? Dove domina l’intolleranza non c’è spazio per l’avventura della conoscenza e per l’inquietudine delle domande. C’è spazio solo per le piccole lotte di potere attorno al rettorato di cui ha parlato Asor Rosa al Corriere. Buonanotte Illuminismo.

Antonio Socci

Da “Libero” 16 gennaio 2008

IL PROBLEMA DELLA LAICITA’ OGGI

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Il problema della laicità oggi

Relazione del Prof. Giuseppe Savagnone, tenuta durante il Convegno promosso dalla Consulta diocesana per le Aggregazioni laicali dell’ARCIDIOCESI di Monreale, 2 dicembre 2007

 

L’equivocità di un termine

Ormai tramontata la stagione dei grandi conflitti ideologici, nel nostro paese il dibattito culturale e politico sembrerebbe essersi polarizzato sulla contrapposizione tra laici e cattolici [1].

Ma è poi così sicuro che un cattolico non può essere laico? A smentire questa ipotesi basterebbe il dato inoppugnabile che originariamente il termine in questione designava quei credenti che non ricoprivano cariche ecclesiastiche. Senza dire che, in teologia, vi è chi parla di “laicità della Chiesa”, estendendo addirittura a tutta la comunità cristiana – presbiteri, vescovi e religiosi compresi – questo carattere. E allora?

A complicare ulteriormente la questione sta l’ambiguità che il termine “laico” assume anche al di fuori dell’ambito ecclesiale. C’è chi si dice tale perché non si ritiene vincolato all’obbedienza nei confronti della Chiesa istituzionale, ma personalmente “crede di credere”, per usare la nota espressione di Gianni Vattimo; c’è chi, esattamente all’opposto dei primi, fa consistere la sua laicità in un rifiuto della fede come tale, ma accetta le sue implicazioni culturali e politiche (come è il caso dei cosiddetti “atei devoti”); c’è chi non accetta né il cristianesimo né la Chiesa, ma rispetta entrambi come legittimi interlocutori nel dibattito pubblico (pensiamo qui alla laicità di un Norberto Bobbio); c’è infine chi, partendo da una radicale critica della religione e del cristianesimo, ritiene che si debba nei limiti del possibile combatterli (è il caso, per esempio, di Carlo Augusto Viano).

Il facile slogan del contrasto laici-cattolici a questo punto si rivela per quello che è: una fonte di continui equivoci e di reciproche incomprensioni. O si rinunzia a parlare di “laicità”, come pure qualcuno in passato ha proposto[2], oppure bisogna sforzarsi di sottoporre il nostro linguaggio a una purificazione che lo liberi dalle ambiguità. Si tratta, cioè, di verificare se esista un significato del termine che, da un lato, riesca a dar ragione delle varianti sopra segnalate, dall’altro consenta di usarlo in modo se non univoco, almeno analogico e comunque non equivoco. Prima di risolverci a percorrere la prima via, ci sembra il caso di tentare la seconda.

 

Chi è laico e chi no

Forse il modo migliore di dare un senso alla parola “laico” è quello di partire dalla storia: «Di fatto, fin dalla stessa generazione subapostolica (…) laikós (laico) sembra essere un termine categorizzante in senso negativo (…) Nel migliore dei casi laico è il membro del popolo di Dio che non è chierico»[3]. E così, del resto, esso continua ad essere definito dal concilio Vaticano II: «Col nome di laici si intendono qui tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa» (LG n.31).

Risulta dunque del tutto appropriata la considerazione di Francesco Remotti, quando, da antropologo, osserva che in definitiva «essere laico forse vuol dire ‘mancare’ di qualcosa: non esser qualcuno o non avere cose che altri sono e possiedono»[4]. Di questo significato si trovano tracce evidenti, del resto, nel linguaggio comune, per esempio quando, tra i membri del Consiglio superiore della magistratura, si distinguono i membri “togati”, che hanno la qualifica di magistrati, da quelli “laici”, che sono privi di tale qualifica.

L’A. si rende ben conto che oggi il termine è usato spesso in senso molto diverso da quello ecclesiastico. «E tuttavia qualcosa è rimasto della definizione originaria. Al di qua delle rivendicazioni polemiche, e per una sorta di estensione analogica, laico è diventato chi ‘non’ è investito o non si sente investito della fede cristiana (o di una qualche altra fede religiosa): chi ne è privo, o chi ne vuole essere privo, o intende non far valere – per lo meno in certi ambiti – i principi della sua fede»[5].

Dove emerge che la laicità non indica tanto uno stato quanto un atteggiamento. Come tale, essa, prima che “non essere” e “non avere”, è percezione di questo “non essere” e “non avere”, consapevolezza dei propri limiti e dei propri vuoti, rinunzia ad assolutizzare la propria posizione, disponibilità a rimettersi in discussione. Perciò proprio da questa apparente negatività scaturiscono la capacità di andar oltre, il bisogno della ricerca, l’attitudine all’ascolto. Laico è chi, rendendosi conto di non essere e di non avere tutto, è in grado di percepire l’“altro” non come una minaccia alla propria integrità e pienezza, bensì come un’opportunità, un’occasione di arricchirsi, e vive il confine che lo separa dal mondo “esterno” non come un muro di difesa dalla barbarie, bensì, piuttosto, come un punto d’incontro attraverso cui comunicare con chi è diverso, in uno sforzo incessante di scoperta e di confronto.

In questa prospettiva, la laicità si contrappone non alla religiosità o, più specificamente, ad un’appartenenza ecclesiale, ma al cieco dogmatismo e ad ogni forma di autoreferenzialità e di chiusura. Da qui l’abissale distanza che separa la laicità non solo dal fondamentalismo religioso – sia esso islamico, indù, ebraico o cristiano – , ma anche da quel fondamentalismo rovesciato e non meno fanatico che assume le forme del laicismo.

In questo senso, è laico lo Stato quando riconosce di non essere una Chiesa (neppure laicista!); è laica la ragione quando lascia spazio al mistero e alla fede; è laica la fede quando non esclude la ragione e non diventa fideismo; è laica la Chiesa quando non pretende di essere uno Stato; sono laici i fedeli della Chiesa quando non si travestono da papi e da vescovi e sono capaci di vivere la loro fede abitando la relatività delle vicende terrene. È qui, a nostro avviso, il significato unitario, anche se analogicamente diversificato, del termine “laico”.

A ognuno di questi livelli, la laicità comporta la capacità di percepire la realtà dell’“altro” e di dialogare. Uno Stato laico sarà capace di dare spazio alle voci e ai volti delle tradizioni religiose; una ragione laica saprà dialogare con la fede; una fede laica non si chiuderà in uno sterile integralismo, ma saprà accogliere la verità da qualunque parte essa venga; una Chiesa laica saprà riconoscere la relativa autonomia della realtà terrene; i fedeli laici non faranno delle loro certezze né un’armatura né una tribuna, ma saranno disponibili a condividere le incertezze e i problemi dei loro fratelli e delle loro sorelle, facendosi loro compagni di strada.

 

 

Il convegno di Verona e il superamento del dualismo tra sacro e profano

Se un filo conduttore e unificante è dato ritrovare nel convegno di Verona, esso è stato l’esigenza di una maggiore immedesimazione nelle vie degli uomini e delle donne del nostro tempo. Significativa, a questo proposito, la scelta degli ambiti, che ha costituito una importante novità, sulla linea di questo sforzo di aderenza all’umana esperienza. Essi, infatti, non sono stati individuati, come in passato, sulla base delle tradizionali aree sacerdotale, profetica e regale, ma calandosi in alcune dimensioni della vita reale, quali sono l’affettività, il lavoro e la festa, la fragilità, la tradizione, la cittadinanza. Si è trattato dunque, come ha sottolineato il cardinale Ruini nella sua relazione conclusiva, «di un notevole passo in avanti rispetto all’impostazione prevalente ancora al Convegno di Palermo, che (…) si concentrava solo sul legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l’annunzio e l’insegnamento della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità». Già questa opzione di assumere come punto di riferimento la complessità della vita, invece di ingabbiarla in schemi teologici precostituiti, ci sembra un messaggio, un modello da cui partire, per una pastorale che voglia rinnovarsi.

Potremmo riassumere tutto questo dicendo che il convegno di Verona propone una prospettiva pastorale profondamente laica. Dove per laicità intendiamo il superamento, da parte del cristianesimo, di quel dualismo tra sacro e profano che caratterizza tutte le grandi religioni, compresa, in una certa misura, quella ebraica. Questo dualismo implica che Dio si possa trovare solo in certi luoghi o in certi tempi o in certe attività rituali, rigorosamente separati da quelli della vita quotidiana, c invece sono abbandonati all’impurità o almeno all’insignificanza da un punto di vista religioso. Ci si salva solo se si riesce ad avere, ameno in qualche occasione – per esempio con un pellegrinaggio – un rapporto con questa sfera sacra.

Tutto ciò, ancora largamente presente nell’ebraismo, è estraneo alla prospettiva cristiana. Basta confrontare, per rendersene conto, l’annuncio della nascita di Giovanni il Battista, l’ultimo dei profeti dell’Antico Patto, con quella della nascita di Gesù. Nel primo caso, l’angelo appare a Zaccaria, che è un sacerdote, nella città santa, più precisamente nel luogo più santo di questa città, il tempio, mentre sta svolgendo le sue funzioni religiose. Nel secondo caso, si presenta a una semplice ragazza, per definizione esclusa da ogni ruolo liturgico, in quella «Galilea delle genti» resa impura da una incresciosa promiscuità tra giudei e pagani, e più precisamente in quella cittadina di Nazareth di cui ancora quando Gesù sarà adulto la gente si chiederà se da Nazareth possa venire qualcosa di buono, e mentre ella, probabilmente, non leggeva ponderosi volumi, come vorrebbe la nostra iconografia, ma, semplicemente, spazzava per terra o andava ad attingere acqua.

In questa “terrestrità” è maturata la speranza della nascita del Messia! Da ora in poi non c’è più nulla di profano, perché anche la vita quotidiana può essere una liturgia, se lo Spirito scende a darle un’anima.

Questo non comporta certo l’eliminazione delle chiese e dei luoghi deputati specificamente al culto, ma solo il riconoscimento che essi non hanno più l’esclusiva della sacralità, bensì solo una specifica funzione all’interno di essa. La cura appassionata di Francesco d’Assisi, il santo che ha più di ogni altro, forse, evidenziato la dignità religiosa di ogni creatura , per le chiese, a cominciare da quella di san Damiano, di cui si fece restauratore, è la migliore conferma di questa compatibilità tra laicità e rispetto dei luoghi di culto.

Questo superamento del dualismo tra sacro e profano, tra puro e impuro, apre nuovi orizzonti di condivisione con tutti gli uomini, nella consapevolezza che non c’è nulla di vero e di valido umanamente che non provenga dallo Spirito e di cui la Chiesa non possa sentirsi in qualche modo responsabile.

Del resto, è per la sua capacità di rappresentare e difendere tutto ciò che vi è di autenticamente umano che la Chiesa stessa, ben lungi dal ridursi ad una setta, a una fazione contrapposta ad altre, è, come dice la Lumen Gentium, «sacramento dell’unità di tutto il genere umano» (n.1) e si può fregiare del titolo di “cattolica” che, dall’etimologia greca (kata olon) indica non tanto una universalità quantitativa, quanto piuttosto una qualitativa, vale a dire una pienezza di umanità.

Di questa apertura decisiva, che si verifica fin dalle sue origini, abbiamo un resoconto preciso negli Atti degli apostoli dove si narra che, mentre Pietro si trovava nella città di Giaffa, «salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva prender cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c’erano ogni sorta di quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: “Alzati, Pietro, uccidi e mangia!”. Ma Pietro rispose: “No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo”. E la voce di nuovo a lui: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano”» (At 10, 9-15).

Non si tratta solo della purità o impurità del cibo, che pure è così importante, anche oggi, per gli ebrei ortodossi. È significativo il fatto che subito dopo Pietro accetti, sempre per ispirazione divina, di recarsi a casa del centurione Cornelio, un pagano, casa di cui, secondo la Legge, non si poteva varcare la soglia senza restare contaminati. Pietro, che lo sa bene, spiega egli stesso ai suoi ospiti perché abbia deciso di incontrarli egualmente, violando apertamente il divieto rituale: «Voi sapete che non è lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza; ma Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo. Per questo sono venuto senza esitare quando mi avete mandato a chiamare» (At 10, 28-29).

 

 

L’importanza delle domande

Solo entrando in questa logica, di cui la scelta degli ambiti, a Verona, è stata emblematica, sarà possibile una pastorale capace «di intercettare, valorizzare e farsi carico delle domande, dei problemi e delle attese degli uomini d’oggi», aperta a riconoscere «la positività che è presente nel nostro tempo» (C. Esposito, Sintesi dell’ambito della tradizione), e volta ad «abitare con simpatia il cambiamento» (L. Diotallevi, Sintesi dell’ambito della cittadinanza). Dove è fondamentale il riferimento alle domande.

Un dato che sta sotto i nostri occhi, di cui è essenziale tener conto, oggi, è l’inflazione di messaggi di ogni genere che da tutte le parti chiedono udienza (anche nel senso tecnico di audience) agli uomini e alle donne del nostro tempo. Messaggi che vengono insistentemente, indiscretamente proposti a gente che stenta a trovare il tempo e la concentrazione per dedicare loro anche un piccolo spazio di attenzione. Perché di questi messaggi essa non ha – o almeno non percepisce di avere – la minima esigenza.

Si suole dire che alla nostra società mancano le risposte. Si potrebbe azzardare l’ipotesi, un po’ paradossale, che, al contrario, le manchino le domande. E che le soluzioni a cui imbonitori di ogni specie cercano disperatamente di interessarla le appaiano insignificanti precisamente perché non rispondono a quesiti che essa si sia mai realmente posti.

Si potrà obiettare che la crisi delle certezze è innegabile. Effettivamente lo è. Ma la mancanza di certezza non è ancora una domanda. Può consistere – e di fatto frequentemente consiste – semplicemente in uno stato di confusione e di insicurezza che non solo non produce domande, ma ne impedisce la formulazione. Diceva il cardinale Newman che mille dubbi non fanno una vera mancanza di fede. E’ vero anche il reciproco: mille mancanze di fede non fanno un vero dubbio, intendendo per dubbio un quesito capace di dar luogo alla ricerca ed, eventualmente , alla soluzione. Perché solo chi cerca trova. E la malattia di tanti nostri contemporanei consiste non nell’incapacità di trovare, ma in quella, ben più radicale, di cercare.

Questo vale anche per la fede in Cristo. Qualche anno fa, su un muro, un cartellone raffigurante Gesù in croce annunciava, a caratteri cubitali: «Cristo è la risposta». Qualcuno sotto aveva scritto, col pennarello rosso: «Ma la domanda qual era?». Non è solo uno scherzo irriverente. Il problema è reale. Una evangelizzazione che non riesca a partire dal senso delle domande è condannata all’insignificanza. I suoi enunciati rischiano di entrare nel giro vorticoso del consumismo di massa, che divora con la stessa disinvoltura oggetti, immagini e parole, banalizzandoli e svuotandoli di significato. A questo non si rimedia puntando esclusivamente sul potenziamento dei mezzi, per esempio con una accentuata presenza nel campo di mass media, che, assunta come un toccasana, potrebbe solo accentuare il pericolo. E’ necessario trovare uno stile che, pur attingendo a tutte le risorse offerte dalle nuove tecniche della comunicazione di massa, non finisca per omologarsi a quello della propaganda elettorale e della pubblicità commerciale.

E’ lo stesso Gesù che ce ne offre il modello. Egli non amava parlare direttamente di sé e della propria identità, ma preferiva interpellare i suoi discepoli proponendo loro delle domande – «Chi dice la gente che io sia?» (Mc 8,27) – oppure suscitandole con dei comportamenti: «I presenti furono presi da stupore e dicevano: “Chi è mai costui a cui il vento e il mare obbediscono?”» (Mt 8,27). Se guardiamo all’evangelizzazione fatta da Gesù, vediamo che essa parte dalla meraviglia.

Non si tratta solo di una tecnica per attirare l’attenzione. Chi si stupisce e si pone delle domande è spinto a cercare personalmente una risposta: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). E’ Pietro che manifesta l’identità di Gesù. La professione di fede non viene da chi annuncia il Vangelo, ma, paradossalmente, da chi ne è il destinatario. Non gli viene dall’esterno, ma matura dentro di lui, scaturisce dalla profondità della sua persona, dalle sue esperienze, dalle sue convinzioni. E, quando sboccia sulle labbra, ha lo spessore umano che le viene da questo retroterra umano, di cui si è nutrita.

Non per questo la si può ridurre a una certezza di ordine puramente naturale: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,17). In una prospettiva cattolica non si tratta di scegliere tra l’azione dell’uomo e quella di Dio. Entrambe sono presenti nel dinamismo dell’atto di fede (aspetto soggettivo) e nella formulazione della verità rivelata (aspetto oggettivo). E’ sempre l’uomo a dire il suo “sì”, ed è sempre Dio ad ispirarglielo; sono sempre delle parole umane (e quali, altrimenti? Dio non ha una “lingua” fatta di parole, ma una sola Parola, Gesù Cristo) a contenere, come un vaso di terra, il tesoro della manifestazione che il Dio ineffabile fa del proprio mistero.

Di fatto, la professione di Pietro viene dal Padre, ma è anche il frutto dell’universo culturale di un Ebreo del primo secolo dell’èra volgare, ne porta i segni inconfondibili, risponde alle esigenze intime che sono in lui e in tutto il suo popolo. E se noi vogliamo che gli uomini del nostro tempo facciano la loro professione di fede, dobbiamo come Gesù interrogarli, ridestare in loro la meraviglia, per fare emergere le aspettative di cui è carica la loro cultura. Perché solo nella loro lingua essi potranno dire il nome del Figlio di Dio.

 

La minaccia del laicismo

Il peggiore nemico della laicità è il fondamentalismo. Ma, come osservavamo prima, esso non si manifesta solo nell’invadenza delle religioni e delle Chiese: altrettanto pericoloso oggi, in Occidente, è la sua versione laicista. Nel nostro paese, in particolare, gli esempi di questa posizione non mancano. Valga per tutti il caso del recente libretto di uno studioso universalmente stimato e rispettato come Carlo Augusto Viano, dove si trovano affermazioni come questa: «Oggi (. . . ) le religioni sono le principali minacce per la vita degli uomini: giustificano le divisioni, stimolano le guerre e reclutano combattenti»[6]. Non si tratta solo della denunzia di alcuni perversi effetti pratici, ma di una critica più radicale, che colpisce al cuore il fenomeno religioso in quanto tale: «Le religioni, come ha rilevato un’ampia letteratura, oggi purtroppo poco frequentata, generano superstizioni, paure, soggezioni intellettuali, tendono a coprire condotte negative e si reggono su imposture e promesse inattendibili» [7].

Se la disponibilità a valorizzare e capire l’“altro” è un inconfondibile segno della laicità, queste affermazioni basterebbero da sole a dimostrare che chi le fa non è, evidentemente, un laico. E in effetti Viano ci tiene a dichiararsi non laico, ma laicista[8]. Notiamo di passaggio che ben diversa era la posizione di Norberto Bobbio, il quale, in una lettera volta a giustificare il suo rifiuto di firmare il Manifesto laico, steso e pubblicato nel 1998 da un gruppo di intellettuali, scriveva: «Quando la cultura laica si trasforma in laicismo, viene meno la sua ispirazione fondamentale, che è quella della non chiusura in un sistema di idee e di principi definiti una volta per sempre»[9].

L’immediato riflesso politico del laicismo è il suo rifiuto di prendere in considerazione le tradizioni religiose come soggetti operanti nella sfera pubblica e non solo nell’intimità della coscienza privata. La forma più evoluta di questa posizione è quella della laicità detta “alla francese”, in cui alla tradizionale terna di valori promossi dai rivoluzionari dell’Ottantanove – liberté, égalité, fraternité – si preferisce sostituire quella, solo apparentemente simile, libertè, égalité, neutralité [10].

Non c’è bisogno di essere esponenti di una confessione religiosa per accorgersi del sottile dogmatismo statalista che una simile neutralità implica. In Italia lo ha denunziato, in riferimento specifico agli effetti sulle donne, una nota esponente femminista, editorialista de «Il Manifesto», la quale notava come la laicità qui diventi «un filtro in grado di tollerare le differenze neutralizzandole e dissolvendole nella cittadinanza repubblicana». Ma questa visione, osserva l’autrice, ben lungi dall’essere veramente “neutrale”, «ne presuppone altre, che riguardano la potenza dello Stato nazionale, la separazione concettuale del politico e del religioso, la concezione dell’individuo come atomo indipendente, della libertà come emancipazione dai vincoli relazionali e comunitari, dell’uguaglianza come equivalenza, neutralizzazione, in-differenza»[11]. I volti – che la fraternità per definizione ama e valorizza – vengono cancellati ed esorcizzati, nella sfera pubblica, dove solo lo Stato ha diritto di essere presente.

Oltre il clericalismo

Non meno pericoloso, per la laicità dello Stato, ma anche per l’identità dei cristiani, è il clericalismo. Il Concilio Vaticano II insegna: «E’ di grande importanza, soprattutto in una società pluralistica, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in nome proprio, come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori» (GS n.76).

La «chiara distinzione» di cui qui si parla non implica che i credenti debbano spogliarsi, in quanto cittadini, delle loro convinzioni religiose e prescindere dagli insegnamenti del magistero, ma che si impegnino a dimostrare con argomenti razionali la rilevanza di queste convinzioni e insegnamenti per un’etica pubblica in linea di principio condivisibile anche da chi credente non sia. Che poi alle spalle di questa elaborazione politico-culturale vi sia una personale esperienza di fede, come per altri cittadini ve ne sono altre della più varia natura, non può essere un motivo di discriminazione, se non da parte di fondamentalisti mascherati da “laici”.

Troppe volte assistiamo alla sommaria liquidazione, da parte di questi ultimi, della posizione dei cittadini che si riconoscono, dal punto di vista religioso, col pretesto che la loro fede impegna solo loro, misconoscendo il fatto che le loro sono ragioni e riguardano la determinazione del bene comune politico, non gli interessi o le aspettative della comunità cristiana.

Tanto meno avrebbe senso negare al magistero della Chiesa il diritto-dovere di pronunziarsi sulle questioni di principio che stanno a monte delle concrete scelte politiche e su queste stesse scelte, in quanto hanno a che fare con i principi. Ma c’è una differenza invalicabile tra l’enunciazione della dottrina, anche ribadita con fermezza, e un moltiplicarsi degli interventi su alcune questioni, che finisce per assumere il chiaro significato di una pressione politica da parte della gerarchia ecclesiastica. Si aggiunga a questo che la formulazione dei principi da parte dei pastori non può sostituire il discernimento dei credenti che, in quanto cittadini, sono chiamati a tradurre questi principi in formule giuridico-politiche, tenendo conto di una serie di fattori contingenti e nel rispetto della dialettica democratica con soggetti di diversa ispirazione.

Il punto di equilibrio è magistralmente espresso da Benedetto XVI nella Deus caritas est, là dove dice che «la formazione di strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della politica, cioè all’ambito della ragione autoresponsabile (…) Il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica (…) rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità» (n.29).

In riferimento a queste ultime parole del Papa, bisogna però riconoscere che nelle nostre parrocchie e nei nostri gruppi spesso manca quasi del tutto quella formazione permanente in chiave anche razionale che educhi i fedeli a tradurre la loro fede in consapevoli prese di posizione a livello politico e sociale. Su questo terreno molto resta ancora da fare e questo compito è forse più urgente di mobilitazioni di massa che hanno un immediato effetto mediatico ma non possono sostituire una più matura coscienza politica dei fedeli.

Un’ultima riflessione sul rischio del clericalismo riguarda la difficoltà di esercitare, all’interno della Chiesa, una franca comunicazione che metta in luce le eventuali diversità dei punti di vista. Su questo punto i nostri organismi di partecipazione ecclesiale si stanno rivelando nella maggior parte dei casi incapaci di funzionare adeguatamente. La conseguenza è quella che già denunziava Franco Garelli, nella sua relazione al terzo Convegno delle Chiese d’Italia, e cioè che «su molte questioni decisive a livello di fede, di costumi, di scelte sociali e politiche si è sovente prodotto nelle comunità cristiane una pratica del silenzio»[12].

Si parla molto di comunione. Ma una comunione senza la comunicazione – quella vera – rischia di ridursi a uno slogan teologico. «Sarebbe di grande aiuto una vera opinione pubblica nella chiesa, un dibattito e un confronto serio tra i cristiani nella libertà e nell’accoglienza reciproca. Oggi invece il dibattito è quasi spento, le voci sembrano tutte uniformi (. . . ) dov’è la parresia, il parlare franco, questa virtù eminente tra quelle cristiane, che rende profetica la voce della chiesa?”[13]. Il problema, in realtà, riguarda tutti, vescovi, presbiteri, laici. Ma non c’è dubbio che l’assenza di quella «opinione pubblica nella chiesa», di cui parla Enzo Bianchi, è particolarmente grave per quella stragrande maggioranza del popolo di Dio che per farsi ascoltare non ha la possibilità di fare omelie o lettere pastorali, o di appellarsi comunque a un ruolo per esprimere il proprio pensiero. Superare il clericalismo significa anche, come ha sottolineato Paola Bignardi nel convegno di Verona, dare ai laici la possibilità «di prendere la parola nella comunità (non in luoghi appartati, riservati ai laici, ma in luoghi ecclesiali, di tutti»[14].

Conclusione: la stella dei magi

Una ragione veramente laica non pretende di esaurire il mistero della realtà e della vita. Ne troviamo il modello nel racconto evangelico relativo ai magi. Essi si muovono dietro una stella che non è, ovviamente la fede (erano pagani), ma un segno percepibile con la ragione (in Mesopotamia si studiavano gli astri quasi scientificamente) e che non brilla, come il sole, in odo tale da dissipare le tenebre della notte.

È per questo loro procedere a tentoni, nella penombra, che i magi avvertono l’esigenza di ricorrere alla Rivelazione. Chi crede di poter vedere tutto mediante idee chiare e distinte, non si cura di domandare, tanto meno si ferma ad ascoltare. La ragione vede, la fede ascolta. I magi, quando non scorgono più la stella, sono costretti a chiedere ad Erode – e, attraverso di lui, alla Rivelazione biblica – come proseguire il loro cammino. Ed è perché gli credono, che sono in condizione di continuare.

Ma, attenzione: la fede a cui essi si aprono non è un puro e semplice salto nel buio, un rinnegamento delle esigenze del pensiero. È stata la stella, è stata la loro ricerca razionale, non un cieco slancio emotivo, a portarli a Gerusalemme. E il fatto che essi accettino l’aiuto della fede non significa che rinneghino la ragione. Anzi, è proprio perché credono alle parole della Rivelazione che, rimessisi in viaggio, individuano nuovamente il segno cosmico che li aveva guidati prima. La fede non ha tolto loro il gusto della ricerca, l’ascolto non ha spento, ma accresciuto il desiderio e l’entusiasmo di osservare con i loro occhi: «Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia» (Mt 2, 10).

Una ragione laica lascia spazio alla fede. Reciprocamente, una fede laica può alimentare una ragione laica: il dialogo tra ragione e fede nel cammino dei magi deve riprodursi incessantemente nel credente ( tra lui e il non credente che c’è dentro di lui) e nel non credente (tra lui e il credente che c’è dentro di lui)

Questa circolarità tra una ragione umile e una fede ragionevole, di cui la storia dei magi è tutta intessuta, può essere dunque fonte di gioia, piuttosto che di tensioni e di scelte laceranti. La fine del viaggio è di nuovo all’insegna della fede. I magi credono che il bambino nella mangiatoia sia il re dei giudei e «prostratisi, lo adorarono» (Mt 2, 11).


[1] Cfr. G. E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Einaudi, Torino 2000, p.3.

[2] Cfr. G. Dalla Torre, Laicità: un concetto giuridicamente inutile, in «Persona y Derecho» (2005) n. 53.

[3] L.F. Pizzolato, Laicità e laici nel cristianesimo primitivo, in AA. VV., Laicità. Problemi e prospettive, Vita e Pensiero, Milano 1977, p.58.

[4] F. Remotti, Il pregio di ciò che manca e la laicità degli altri, in G. Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, Laterza, Roma-Bari 2005, p.43.

[5] Ibidem, p. 44.

[6] C. A. Viano, Laici in ginocchio, Laterza, Roma-Bari 2006, p. VII.

[7] Ibidem, p. 105.

[8] Cfr. ibidem, pp. 25-26.

[9] N. Bobbio, Perché non ho firmato il “Manifesto laico”, in E. Marzo e C. Ocone (a cura di), Manifesto laico, Laterza, Roma-Bari 1999, p.127.

[10] «La laicità, pietra angolare del patto repubblicano, si fonda su tre valori indissociabili: libertà di coscienza, uguaglianza davanti alla legge delle opzioni spirituali e religiose, neutralità del potere politico» (Commission de réflection sur l’application du principe de laïcité dans la République, Rapport au Président de la République, remis le 11 décembre 2003, «La Documentation française», Paris, 2004, p. 9).

[11] I. Dominijanni, Corpo e laicità: il caso della legge sul velo, in G. Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, cit., p. 171.

[12] F. Garelli, Credenti e Chiesa nell’epoca del pluralismo. Bilancio e potenzialità, in III Convegno ecclesiale, Palermo 20-24 novembre 1995, Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1996, p.168.

[13] E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006, pp. 57-58.

[14] P. Bignardi, Approfondimento della prospettiva spirituale.

La CRISTIANOFOBIA è sempre di moda

Assistiamo,tanto per cambiare, alla solita, tanto inutile quanto pretestuosa, polemica di stampo garidaldino-anticlericale,posta in essere dal Prof. Marcello Cini che con una sua lettera indirizzata al magnifico Rettore dell’università statale LA SAPIENZA di Roma protesta contro la visita di Papa Benendetto XVI al predetto Ateneo per l’inaugurazione dell’anno accademico prevista per giovedi 17 gennaio.Le argomentazione del Prof.Cini affondano nel più bieco anticlericalismo di marca ottocentesca che lo porta ad accusare il Papa di oscurantismo di essere un reazionario e vede la presenza dello stesso, nell’ateneo di stato, come una minaccia alla sovranità della scienza e un ritorno di un subordine della stessa alle verità rivelate.Il solito cliché di argomentazioni che vedono nel Papato(ma più in generale nel cattolicesimo) una seria minaccia alla LAICITA’ DELLO STATO(alias un cammino che per essere tale deve fare a meno di ogni dimensione religiosa e di quella cattolica in particolare,ma è questa la LAICITA’ DELLO STATO?) e dunque,sarebbe opportuno che il Papa se ne stesse a casa sua. Perchè il Papa deve varcare la soglia di un ateneo statale se ormai negli stessi non si insegna più la teologia?E perchè accogliere il Papa che rappresenta,scrive Cini,dopo il caso Galilei,una seria minaccia per l’automia del progresso scientifico?Insomma un Papa Oscurantista e Reazionario può essere accolto nel tempio di Minerva?Inoltre,il Prof.Cini fa riferimento al famoso discorso di Ratisbona che a causa del presunto monopolio della rivelazione cristiana avrebbe creato seri problemi con il mondo islamico e con quello scientifico.Scrive Cini:”Non insisto sulla pericolosità di questo programma dal punto di vista politico e culturale: basta pensare alla reazione sollevata nel mondo islamico dall’accenno alla differenza che ci sarebbe tra il Dio cristiano e Allah – attribuita alla supposta razionalità del primo in confronto all’imprevedibile irrazionalità del secondo – che sarebbe a sua volta all’origine della mitezza dei cristiani e della violenza degli islamici. Ci vuole un bel coraggio sostenere questa tesi e nascondere sotto lo zerbino le Crociate, i pogrom contro gli ebrei, lo sterminio degli indigeni delle Americhe, la tratta degli schiavi, i roghi dell’Inquisizione che i cristiani hanno regalato al mondo…”.Dunque una assoluta indipendenza del cammino scientifico da quello etico. “.. Qui mi interessa, però,-continua Cini- il fatto che da questo incontro tra fede e ragione segue una concezione delle scienze come ambiti parziali di una conoscenza razionale più vasta e generale alla quale esse dovrebbero essere subordinate. «La moderna ragione propria delle scienze naturali – conclude infatti il papa – con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda {sui perché di questo dato di fatto) esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali a altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi a essa significherebbe una riduzione inaccetabile del nostro ascoltare e rispondere».Al Prof.Cini vogliamo sottoporre un’indagine condotta dal giornalista cattolico Prof.Antonio Socci,circa il martirio dei cristiani nella storia e in modo particolare nel XXI secolo,grazie anche alle idee esilaranti di sacerdoti come Marx-Comte,solo per citarne due,le cui idee,insieme a quelle di tanti altri SACERDOTI degni figli della DEA-RAGIONE, sono state a fondamento del genocidio di intere popolazioni o in nome della “lotta di classe” o di quello della “Razza Pura”,di cui qualche gran sacerdote della scienza farebbe bene a vergognarsi e a chiedere perdono al GENERE UMANO.

I martiri ignoti del XXI secolo

Sono senza numero le vittime delle persecuzioni anticristiane. Ma l´Occidente le ignora. E anche la Chiesa è timida. Un libro spiega perché

di Sandro Magister


 

Ecco tre notizie fra tante. E un libro che ne dà la chiave di lettura.

La prima notizia è dall´Arabia Saudita:

«Ottanta scudisciate a testa con un cavo metallico flessibile. Questa la punizione inflitta il 28 gennaio scorso a tre immigrati etiopici davanti agli altri detenuti. Tinsaie Gizachew, Bahru Mengistu e Gebeyehu Tefera erano stati arrestati cinque mesi prima con l´accusa di aver costituito un gruppo di preghiera cristiano nella città costiera saudita di Jeddah. Le retate si erano susseguite fino ai primi di settembre dell´anno scorso, portando in carcere altri undici immigrati dell´Eritrea, Etiopia, Filippine e Nigeria, gli ultimi dei quali sono stati espulsi alla fine dello scorso marzo. Ma il giro di vite non si è arrestato. Il 25 aprile, e poi nuovamente il 10 e 11 maggio, almeno trenta cristiani, tra cui donne e bambini, sono stati incarcerati con la stessa accusa: partecipazione al culto cristiano. Di loro non si sa ancora nulla…». (Il seguito sull´ultimo numero di > “Mondo e Missione”, il mensile del Pontificio istituto missioni estere di Milano).
La seconda notizia dal Pakistan:
«Cinque cristiani del Pakistan sono in prigione per aver “bestemmiato” contro Maometto. Due sono stati condannati a morte e sono in attesa di esecuzione. Gli altri tre sono stati condannati a trentacinque anni di carcere… Nei primi tre mesi dell´anno più della metà dei quindici denunciati per bestemmia, nel Pakistan, sono cristiani… Gruppi organizzati minacciano di morte coloro che prestano assistenza agli imputati, in un Paese dove nel 1997 un giudice fu assassinato per aver assolto un cristiano accusato di questo delitto». (Altri particolari in un reportage del quotidiano spagnolo > “La Razón” del 17 aprile 2002).

La terza notizia da Sofia:
«Durante il suo viaggio in Bulgaria Giovanni Paolo II ha incontrato una monaca carmelitana di 80 anni che nell´era comunista ne passò 38 nascosta in una chiesa. Suor Teresa di Gesù Bambino e un´altra monaca si rifugiarono nel retro di una chiesa dopo che i comunisti avevano chiuso il loro convento. La religiosa aveva conosciuto di persona i tre preti assunzionisti che furono martirizzati a Plovdiv nel 1952 e che Giovanni Paolo II ha beatificato domenica 26 maggio». (Dall´agenzia di informazioni > “Zenit”, dispaccio del 27 maggio 2002).
Di notizie come queste ne passano in abbondanza. Ma non solo non hanno evidenza sui media più diffusi. Restano come sbriciolate. Non riescono, assieme, a fare memoria. Non vengono percepite come tessere di un mosaico unitario.
È il mosaico del martirio che subiscono i cristiani in numerosi Paesi del mondo. Giovanni Paolo II, nell´anno del Giubileo, ha sì richiamato l´attenzione su quello che egli ha chiamato «il secolo del martirio», il Novecento, statisticamente il più sanguinoso secolo di persecuzione anticristiana della storia. Ma i cristiani e l´Occidente pochissimo hanno fatto tesoro del richiamo del papa.
La stessa Chiesa cattolica – fatte salve le voci dissonanti – appare timida e muta. Eppure dalla Cina al Sudan, dall´Indonesia alla Nigeria è senza fine la schiera dei cristiani perseguitati e uccisi. In molti casi solo perché battezzati.
Antonio Socci né dà conto nel libro “I nuovi perseguitati”. In pagine incalzanti, documentate, serrate. Dove anche le cose già note appaiono nuove e inaudite, solo perché ricomposte in disegno unitario.
Ma, soprattutto, nel libro, Socci tratteggia una risposta alla domanda più inquietante. Quella sul silenzio e l´indifferenza dell´Occidente.
Che fa come non sia toccato dall´uccisione di cristiani che non sente più “suoi”, appartenenti alla sua identità. Semmai, se qualche volta reagisce, lo fa solo perché vede colpiti generici “diritti dell´uomo”.
E magari interpella l´Onu e la sua Commissione per i diritti umani. Nella quale siede anche il Sudan, uno dei Paesi al mondo più liberticidi e sfrenati nel perseguitare i cristiani, fa notare Ernesto Galli della Loggia nella prefazione al volume.
Questo libro apre lo sguardo sui moderni “Atti dei martiri”. Ma è anche lo svelamento della fine della cristianità. Il martire cristiano del secolo XXI è un martire solitario.

 

MILIONI DI MARTIRI di ANTONIO SOCCI
Secondo la World Christian Encyclopedia (Oxford University Press, 2001, seconda edizione, II voll.) di David B. Barrett, George T. Kurian e Todd M. Johnson, in duemila anni la storia cristiana ha avuto circa 70 milioni di martiri. Di questi, 45 milioni sono stati uccisi nel corso del XX secolo. I cristiani, inermi e pacifici, nei tempi moderni, per la loro fede, sono stati crocifissi, squartati, bruciati vivi, torturati, sgozzati, impalati, scorticati, soffocati, “gassati”, rinchiusi in lager, perseguitati in ogni modo. E hanno amato e perdonato e si sono chinati sempre e dovunque per primi sulle sofferenze degli altri. Perciò sono disprezzati dal potere (ai cui dèi non sacrificano) e devono essere cancellati dalla società e dalla storia. D’altra parte padre Jozo non si stupirà di tutto questo. Lui ha vissuto sulla sua pelle la persecuzione del comunismo e il disprezzo del potere. Parroco a Medjugorje in quel giugno 1981, all’inizio sconcertato e sospettoso verso i sei ragazzi che erano corsi a raccontargli delle apparizioni, fu poi investito da clamorosi segni soprannaturali e, arresosi all’evidenza, divenne il difensore dei bambini che vedevano la Vergine. Per questo il 17 agosto di quell’anno fu arrestato dalla polizia comunista, malmenato, detenuto per anni in condizioni penose per «attentato alla sicurezza e all’unità dello Stato». Per il regime chi credeva alla presenza della Madonna, che abbatte i potenti dai troni e innalza gli umili, era cospiratore. O pazzo o cretino. Dieci anni dopo quel regime era crollato. In quella terra, così vicina a noi, i cristiani sono perseguitati da secoli. I frati francescani per 400 anni in Bosnia sono vissuti in clandestinità sotto l’orrendo dominio turco. Padre Jozo vive oggi a due passi da Medjugorje, nel convento di Siroki Brijeg dove il 7 febbraio 1945 una banda di partigiani comunisti prese i trenta frati per costringerli a rinnegare la fede e di fronte al loro no, li massacrarono e li bruciarono tutti. Uno dei partigiani ha raccontato: «Quando mi sono trovato di fronte ai martiri di Siroki Brijeg e ho visto come quei frati hanno affrontato la morte, pregando e benedicendo i loro persecutori, chiedendo a Dio di perdonare le colpe dei loro carnefici, allora mi sono risuonate chiare le parole che mi diceva da piccolo mia madre e ho pensato: Dio c’è, Dio esiste». Quell’uomo si convertì. Oggi ha un figlio sacerdote e una figlia suo- ra. In questa terra da 26 anni accade lo straordinario. Che ha il volto di una giovane e bellissima ragazza di nome “Maria”. Che attrae milioni di persone, che cambia la vita e opera segni straordinari. L’incontro di Milano (organizzato dall’Associazione di volontariato “Mir i do- bro”, che tanto sta facendo, con padre Jozo, per gli orfani della guerra di Bosnia) è solo uno dei fiumi che portano a Medjugorje. Ce ne sono altri (basti pensare a Radio Maria). Che non fanno notizia sui nostri giornali, ma stanno cambiando il mondo e la storia.

Il 17 luglio del 1794 le carmelitane di Compiègne salivano sulla ghigliottina cantando il Veni Creator.
Mano a mano che le loro voci si spegnevano, si affermava la testimonianza della loro fede.
Del resto, «chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna» (Giovanni 12, 25).Sono salite sul patibolo cantando, sono morte cantando.
Hanno lavorato per Dio cantando.
La parola e le azioni, quindi: affermando la loro fede con fierezza e fermezza hanno reso la testimonianza più regale che essa comporta: la partecipazione al sacrificio di Gesù, in quella sacra comunione di desiderio propria dei viventi nel Corpo mistico di Cristo – il sangue dei martiri e il sangue divino versato dal Figlio.
In questo olocausto di oblazione totale della vittima a Dio sono presenti il perdono preventivo ed incondizionato dei nemici, la disponibilità aprioristica a porgere mitemente l’altra guancia e la remissione a Dio di ogni «vendetta» verso i carnefici.
La meravigliosa connessione tra il «dire» e il «fare» delle carmelitane di Compiègne è un paradigma tutto cristiano: l’amore che si vuole testimoniare, si mostra nelle opere.
«Pretiosa est in conspectu Domini mors sanctorum eius»: «E’ davvero preziosa agli occhi del Signore la morte dei suoi santi» (e la testimonianza dei suoi fedeli).
«Sanguis martyrum, semen christianorum» («il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani»): quanto sono vere – ancora oggi, soprattutto oggi! – queste parole di Tertulliano.
Nel mondo sono quotidiani gli assassinii di persone testimoni della loro fede cristiana.
Ed è proprio sul sangue dei martiri che i credenti debbono confidare: la Chiesa, mai come in questi ultimi decenni, ha posto sull’altare del suo Sposo divino il sangue non di migliaia, ma di milioni di martiri – altare di olocausti bagnato da una quantità di sangue innocente e prezioso offerto nel più assoluto silenzio, nella più tremenda ignavia.Chi ha accettato Cristo, si aspetta anche la croce: sono tanti quelli che hanno rifiutato di piegarsi al culto degli idoli del ventesimo secolo, rigettando una logica estranea al Vangelo.
Le vittime (vescovi, sacerdoti, semplici laici), uccise in odio alla fede – dalla Rivoluzione messicana alla Guerra Civile spagnola, al comunismo ateo – sono l’emblema di quella gelosa fedeltà ai diritti di Dio e della propria coscienza – «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29) – contro le usurpazioni di ogni Cesare terreno.
Solo nel Novecento (dati dell’Oxford University Press) i martiri cristiani di cui nessuno fa memoria ammonterebbero a 45 milioni di anime, che non entreranno mai nella storia, oltre ai perseguitati, agli oppressi, ai deportati.
Anche all’alba del Terzo Millennio – come ci ricorda Antonio Socci nell’impressionante saggio
«I nuovi perseguitati. Indagine sulla intolleranza anticristiana nel nuovo secolo del martirio» (Piemme, 2002) – i cristiani subiscono ancora persecuzioni cruente, costanti e diffuse: 160.000 vittime all’anno in Asia, America Latina, Nord Africa, Paesi Arabi.
S’impone una riflessione: non c’è pace senza giustizia, si dice.
C’è tutto un passato che sta lì a chiedere giustizia: in primo luogo la difesa della memoria, la difesa della dignità dei morti.Tanti cattolici masochisti, che oggi sputano sul passato cristiano, dovrebbero solamente inchinarsi di fronte alla tragedia dei martiri cristiani.
Dal coraggio e dalla fermezza con cui i credenti sapranno testimoniare pubblicamente la propria fede – e qui ritorniamo all’intimo legame tra parola ed azione cui già accennavamo – germoglierà l’inevitabile rinascita religiosa e culturale del secolo XXI.
I martiri sono dei vincitori perché hanno disprezzato la vita fino a morire, dimostrandoci che il mondo non è tutto, ma che esso si apre su qualcosa che lo trascende.La «saggezza» del martirio sta proprio qui: essa ci rende liberi di fronte al mondo – lo demitizza e, spogliandolo di qualsiasi preteso valore divino, ci vaccina dal rischio di inchinarci agli idoli di turno.
Mirabili in tal senso le parole di san Paolo: «Nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollonio, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1 Cor. 3, 21-23).

Marco Massignan

OTTOBRE ROSSO…..

 

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LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE, I MERITI DEI COMUNISTI,
GLI ERRORI DELLA CHIESA. ACCESO DIBATTITO SU “JESUS”

ROMA-ADISTA. La Rivoluzione d’ottobre del 1917 divide i lettori di Jesus che, sulle pagine del mensile dei Paolini di gennaio, contestano o apprezzano la linea del giornale, giudicata filo-comunista dai detrattori, lucida ed equilibrata dai sostenitori.Pietra dello scandalo, un commento di Maria Cristina Bartolomei, docente di Filosofia Morale alla Statale di Milano e collaboratrice stabile del giornale da diversi anni, pubblicato sul numero di novembre dal titolo “La rivoluzione d’ottobre e il dovere di cercare ancora“. Il “comunismo realizzato”, scrive, è da condannare per diversi motivi: “Mancanza di libertà individuali; di rispetto dei diritti umani; repressione religiosa e ateismo di Stato”. Tuttavia, è opportuno occuparcene poiché “i problemi che ha denunciato e cercato di risolvere sono veri e, nel quadro del capitalismo, si sono aggravati. Sono i problemi della ingiustizia, orrenda, gravissima che vige nei rapporti tra gli esseri umani; dello sfruttamento di molti a vantaggio di pochi, che vuol dire miliardi di vite triturate nelle rotelle dell’ingranaggio che produce benessere sufficiente a tacitare le nostre coscienze, e opulenza nonché potere di dominio del mondo (anche con l’uso della guerra) nelle mani di pochissimi”. “Prima del movimento socialista – prosegue – non si ricordano sollevazioni cristiane contro la trasformazione in merce dell’uomo, contro le condizioni disumane di lavoro, anche di donne e bambini. Ci furono molte generose iniziative di assistenza (quante congregazioni religiose!), ma non azioni politiche a contrasto di quell’ordine costituito. Diritti oggi (o almeno sino a ieri!) considerati ovvi furono conquistati a prezzo di dure e sofferte lotte: senza l’incitamento del movimento socialista, tutto ciò non sarebbe accaduto”. Il comunismo ebbe il torto, scrive la Bartolomei, di “indicare in Dio e nella religione il nemico della promozione umana. Ma più grave torto lo ebbero i cristiani a non schierarsi con gli ultimi, a non opporsi ai potenti che li opprimevano. Che Dio ci perdoni per come il suo volto e il messaggio dell’Evangelo sono stati deformati dalla prassi delle Chiese!”. Tanto che, aggiunge, dopo il “libro nero delle vittime del comunismo”, andrebbe scritto non solo “il libro nerissimo delle vittime del capitalismo” – “che non sono finite e comprendono non solo i miserabili del Sud del mondo sfruttati dalle multinazionali e in mille altri modi, ma anche i bambini cui negli Usa oggi viene negata assistenza sanitaria gratuita” – ma anche “un libro nero del cristianesimo ‘reale’: un libro di persecuzioni e violenze; di repressioni; di inadempienze, ritardi, cecità nel cogliere i bisogni del mondo”. “La tragica contraddizione tra mezzo e fine del comunismo fu l’uso della violenza per ottenere la liberazione sociale – conclude la Bartolomei –. Ma la spinta dell’ottobre 1917 fu l’indignazione per l’ingiustizia; la ricerca della giustizia per tutti, della eliminazione dei rapporti di dominio (purtroppo perseguita eliminando fisicamente i dominatori); fu la convinzione che, al di qua delle legittime differenze, gli esseri umani sono uguali e hanno uguali diritti: l’esatto contrario di ciò che ispirò i totalitarismi fascisti, ai quali a torto il comunismo viene assimilato. Il comunismo aprì un orizzonte di speranza e dignità a milioni di oppressi, che si riconobbero ‘compagni’: uomini che condividono lo stesso pane (quali assonanze per i cristiani!). Non lo rimpiangiamo, ma abbiamo l’onere di rispondere ai problemi che affrontò, di trovare vie più umane di economia e società; il suo fallimento ci interpella: ‘cercate ancora’!” (come suggeriva, nel 1990, all’indomani dell’abbattimento del Muro di Berlino, il titolo del libro dell’economista Claudio Napoleoni, ndr).La riflessione di Maria Cristina Bartolomei “mi ha ferito profondamente”, scrive da Brescia il prete ortodosso Vladimir Zelinskij, su Jesus di gennaio, a cui si associa Raffaele Savigni, da Lucca: “Desidero manifestare il mio dissenso rispetto a talune affermazioni di Maria Cristina Bartolomei”, poiché “ritengo che fossero sbagliati non solo i mezzi utilizzati da Lenin e compagni, ma anche il fine”. Sull’altro fronte Gio Ferri, da Novara, che scrive per congratularsi per il commento: “La lucidità di quell’articolo nell’interpretazione della storia e l’onestà intellettuale dell’autrice – prosegue –, con riferimento a due secoli di socialismo e di lotte per il riscatto degli oppressi mi hanno veramente impressionato e commosso”. “Se avessi dovuto scrivere un articolo sull’argomento – aggiunge B. Traverso – lo avrei scritto così. In fondo l’avvento del comunismo non fu altro che una risposta all’esigenza di giustizia ed equità. Purtroppo, come spesso succede agli uomini, nobili ideali vengono distorti in maniera incredibile fino a creare dei veri e propri mostri”.Lunga le replica della Bartolomei alle molte lettere ricevute “sia di assenso sia di dissenso”. “Nel comunismo ci sono verità cristiane impazzite”, scrive. “Ma perché sono impazzite? Non forse anche perché nella pratica cristiana non trovano più o piena accoglienza? I cristiani sono stati mediamente più pronti a cogliere l’offesa a Dio e all’uomo consistente nella repressione religiosa e nell’ateismo di Stato, che non quella consistente nello sfruttamento e oppressione dell’uomo, immagine di Dio. E, ora che hanno maturato l’opzione per la democrazia, quando condannano i totalitarismi tendono a farlo in modo indifferenziato. Mentre rimane una differenza essenziale tra chi è almeno inizialmente mosso dall’ideale della uguaglianza umana, della abolizione del dominio dell’uomo sull’uomo, del superamento della soggezione alla guerra come modo di rapporto tra gli Stati, e chi invece persegue esattamente il contrario: la disuguaglianza, il dominio e l’oppressione su individui e popoli, in base a criteri razzisti o classisti. Tra chi guarda il mondo a partire dai suoi ‘inferi’ e chi lo guarda dall’alto del privilegio”. (l. k.)

“Nessuno tocchi il bambino”. La Chiesa benedice la moratoria mondiale sull’aborto

Se vi va di aderire alla petizione di Giuliano Ferrara per salvare la
vita ai milioni di bambini a rischio di “pena capitale”, quasto è il
link: http://www.fratelloembrione.it/petizione/ (ndr)

L’iniziativa è nata in campo laico ma la gerarchia cattolica l’ha subito appoggiata. La nuova politica della Chiesa per la famiglia e la vita ha un precedente di successo: il referendum del 2005 in Italia in difesa dell’embrione. In anteprima, un’analisi di Luca Diotallevi

di Sandro Magister

ROMA, 7 gennaio 2008 – Natale del bambino Gesù, festa dei Santi Innocenti, domenica della Sacra Famiglia, festa della Madre di Dio… A Roma, in Italia, in Spagna le recenti festività natalizie hanno trovato una inattesa, formidabile eco non solo nella Chiesa ma nella società intera, anche la più secolarizzata.

Famiglia e nascita. Sono state queste le due parole che sono risuonate più forte, tra i cristiani come tra i laici.

Benedetto XVI ha imperniato sulla famiglia il suo messaggio al mondo per la Giornata della Pace celebrata il 1 gennaio. Sulla famiglia come “principale agenzia di pace”

Hanno dedicato una giornata a sostegno della famiglia anche i cattolici della Spagna, con un grandioso raduno domenica 30 dicembre a Madrid. Un analogo Family Day di massa era stato tenuto in Italia, a Roma, lo scorso 12 maggio. Il prossimo appuntamento sarà forse a Berlino, nel cuore dell’Europa scristianizzata.

A Madrid il raduno ha avuto una marcata caratterizzazione di Chiesa. Si è svolto come una immensa liturgia a cielo aperto, presieduta da vescovi e cardinali, offerta all’osservazione e alla riflessione di tutti. Il momento clou è stato il collegamento televisivo con il papa, che all’Angelus, da Roma, ha parlato direttamente alla folla, in spagnolo.

Anche il 12 maggio 2007, a Roma, la piazza di San Giovanni in Laterano era stata riempita soprattutto da cattolici. Ma a convocare e presiedere quel Family Day non era stata la gerarchia della Chiesa. Era stato un comitato di cittadini presieduto da Savino Pezzotta, cattolico, e da Eugenia Roccella, femminista di formazione laica radicale. Dal palco avevano preso la parola anche un ebreo, Giorgio Israel, e una musulmana, Souad Sbai. La famiglia proposta all’attenzione e alla cura di tutti non era primariamente quella celebrata dal sacramento cristiano, ma quella “naturale tra uomo e donna” iscritta nella costituzione civile.

Ancor più trasversale è sbocciata in Italia, nelle scorse festività natalizie, l’iniziativa di promuovere una moratoria mondiale anche sull’aborto, dopo la moratoria votata il 18 dicembre dalle Nazioni Unite sulla pena di morte.

Trasversale perché ideata e lanciata da un intellettuale non cristiano, Giuliano Ferrara, fondatore e direttore del quotidiano d’opinione “il Foglio”. E perché subito appoggiata dal giornale della conferenza episcopale italiana, “Avvenire”, ma anche da personalità di diverso credo, tra gli altri dall’inglese Roger Scruton, “il filosofo più influente al mondo” secondo il “New Yorker”.

La cronaca di questa moratoria sull’aborto getta luce sulle modalità con cui la Chiesa di Benedetto XVI, del suo vicario cardinale Camillo Ruini e della conferenza episcopale italiana si muove sul terreno politico.
Questa Chiesa non esige che diventi legge ciò che solo per fede può essere accettato e capito. Si batte però risolutamente a difesa di quelle norme che sa scritte nei cuori di tutti gli uomini.

Il rispetto della vita di ogni essere umano, dal primissimo istante del suo concepimento, è una di queste norme universali che la Chiesa giudica innegoziabili. Il fatto che dei non cattolici si levino a difesa della vita di tutti i nascituri è per la Chiesa una felice conferma dell’universalità di questo comandamento.

La Chiesa di Benedetto XVI, di Ruini e del cardinale Angelo Bagnasco, attuale presidente della CEI, ha visto quindi con grande favore che un non cattolico come Ferrara abbia preso l’iniziativa di lanciare la moratoria sull’aborto.

Perché in effetti è andata così. Il suo primo appello a favore della moratoria sull’aborto, Ferrara l’ha lanciato a sorpresa dagli schermi televisivi della trasmissione “Otto e mezzo” la sera stessa del voto dell’ONU a favore della moratoria sulla pena di morte, il 18 dicembre.

L’indomani, 19 dicembre, l’appello usciva stampato su “il Foglio”. Nel pomeriggio dello stesso giorno “L’Osservatore Romano” pubblicava in prima pagina un’intervista al cardinale Renato Martino, presidente del pontificio consiglio della giustizia e della pace:

“i cattolici non considerano il diritto alla vita trattabile caso per caso o scomponibile. […] L’esempio più evidente è quello dei milioni e milioni di uccisioni di esseri certamente innocenti, i bambini non nati”.

Il 20 dicembre “Avvenire”, il giornale della conferenza episcopale, dava pieno sostegno alla moratoria sull’aborto, con un’editoriale in prima pagina di Marina Corradi e un’intervista a Ferrara.

Il 21 dicembre Ferrara annunciava un suo digiuno dalla vigilia di Natale al primo giorno dell’anno nuovo, a sostegno di finanziamenti pubblici ai CAV, i Centri di Aiuto alla Vita che soccorrono le madri tentate di abortire.

In effetti, nei giorni successivi la Regione Lombardia e il comune di Milano hanno erogato 700 mila euro al CAV della Mangiagalli, la clinica milanese in cui si esegue il maggior numero di aborti. Nell’ultimo anno, in questa clinica, il CAV era riuscito a far nascere 833 bambini, aiutando le madri in difficoltà. In totale, si calcola che tutti i CAV all’opera in Italia abbiano salvato dall’aborto, dal 1975 a oggi, circa 85.000 bambini.

Intanto, pagine e pagine del “Foglio” si riempivano di lettere di sostegno alla moratoria. Una fiumana di lettere crescente e inarrestabile. Alcune di semplice adesione, altre, la maggior parte, di riflessione argomentata, di racconti, di esperienze di padri e di madri, di storie dolorose, di dedizioni entusiasmanti. Centinaia, migliaia di lettere nelle quali il protagonista assoluto era lui, il piccolissimo esserino nato dal concepimento, accolto, amato, esaltato. Difficilmente un Natale poteva essere festeggiato con una musica più appropriata di questo concerto epistolare.

Gli autori delle lettere sono per lo più sconosciuti. Molti sono cattolici, ma non appartengono alle élite delle associazioni che ricorrono puntuali ogni volta che c’è da sottoscrivere qualche appello. Le poche sigle che compaiono qua e là sono quelle dei CAV, oppure del Forum delle Famiglie, oppure di Scienza & Vita: le associazioni direttamente impegnate sul tema. Sembra che a scrivere siano in prevalenza i cattolici “domenicali”, quelli che vanno a messa ma per il resto sono nell’ombra. Oppure gli ascoltatori della popolare Radio Maria. Ma ci sono anche parecchi che cattolici non sono. È un’Italia poco presente sui grandi media, ma che la moratoria sull’aborto ha fatto prorompere inaspettatamente alla luce. Un’Italia anche poco praticante, ma in cui l’impronta cattolica è profonda e difficilmente cancellabile persino nei non battezzati.

Ma in concreto cosa propone la moratoria sull’aborto? Ferrara sogna “cinque milioni di pellegrini della vita e dell’amore, tutti a Roma nella prossima estate”. Per chiedere due cose ai governi di tutto il mondo: primo, di “sospendere ogni politica che incentivi la pratica eugenetica”; secondo, di “iscrivere nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo la libertà di nascere”. Con un manifesto preparato da personalità di diverso orientamento come il francese Didier Sicard, l’italiano Carlo Casini, l’inglese Roger Scruton, il bioeticista americano Leon Kass, il nuovo ambasciatore USA presso la Santa Sede Mary Ann Glendon, “naturalmente escludendo ogni forma di colpevolizzazione, men che meno di persecuzione penale, delle donne che decidessero di abortire” come consentito dalle leggi in vigore nei vari paesi.

La sera del 31 dicembre, intervistato in un telegiornale di grande ascolto, il cardinale Ruini ha così sintetizzato la posizione della Chiesa:

“Credo che dopo il risultato felice ottenuto riguardo alla pena di morte fosse molto logico richiamare il tema dell’aborto e chiedere una moratoria, quantomeno per stimolare, risvegliare le coscienze di tutti, per aiutare a rendersi conto che il bambino in seno alla madre è davvero un essere umano e che la sua soppressione è inevitabilmente la soppressione di un essere umano.

“In secondo luogo si può sperare che da questa moratoria venga anche uno stimolo per l’Italia, quantomeno per applicare integralmente la legge sull’aborto, che dice di essere legge che intende difendere la vita, quindi applicare questa legge in quelle parti che davvero possono essere di difesa della vita e forse, a trent’anni ormai dalla legge, aggiornarla al progresso scientifico che ad esempio ha fatto fare grandi passi avanti riguardo alla sopravvivenza dei bambini prematuri. Diventa veramente inammissibile procedere all’aborto a una età del feto nella quale egli potrebbe vivere anche da solo”.

“L’Osservatore Romano” ha dato evidenza a queste parole di Ruini e il cardinale Bagnasco ne ha ribadito i concetti sul più diffuso giornale laico italiano, il “Corriere della Sera” del 4 gennaio.

E a queste parole hanno corrisposto dei fatti. Negli stessi giorni, cinque ospedali di Milano si sono dati nuove “linee guida” per l’applicazione della legge nazionale sull’aborto, vietando l’aborto dopo la 21esima settimana di vita del nascituro (in precedenza il limite era la 24esima settimana) e proibendo l’aborto selettivo di una gravidanza gemellare in assenza di reali difficoltà fisiche o psichiche della gestante. Tali “linee guida” saranno presto adottate dall’intera regione della Lombardia.

È un altro segno, quest’ultimo, che l’appello per una moratoria sull’aborto cade oggi su un terreno più fertile che in passato. Il pensiero laico non è più così compatto nel negare dignità umana al concepito e nel far quadrato solo attorno all’autodeterminazione della donna. E la Chiesa non è più così timida e smarrita come lo fu, in Italia, dopo la catastrofica sconfitta del 1981, quando un referendum d’iniziativa cattolica per la cancellazione della legge sull’aborto rimediò appena il 18 per cento dei consensi.

La Chiesa italiana, al contrario, è oggi fresca di vittoria in un altro referendum in difesa della vita degli embrioni, svolto il 12 giugno del 2005. Un referendum il cui esito – secondo un recentissimo studio – è stato sensibilmente influenzato dall’identificazione cattolica del popolo italiano.

Riassumere questo studio è di grande interesse proprio per capire ancor meglio le attuali modalità d’azione della Chiesa nella società italiana: una società che – unico caso al mondo, di queste dimensioni – mantiene vivi i caratteri di un cattolicesimo di massa pur in un contesto di avanzata modernizzazione.
Lo studio apparirà sul prossimo numero di “Polis”, la rivista scientifica dell’Istituto Cattaneo di Bologna. Ne è autore Luca Diotallevi, professore di sociologia della religione all’Università di Roma Tre e autore di studi sulla “anomalia” religiosa italiana pubblicati anche negli Stati Uniti.
Il referendum del 12 giugno 2005 era stato promosso in Italia da gruppi e partiti laici per cancellare punti importanti della legge 40 del 2004 sulla fecondazione assistita, in pratica per liberalizzare la selezione, l’uso e l’eliminazione degli embrioni prodotti artificialmente.

La gerarchia cattolica, per far fallire il referendum, chiese ai fedeli e a tutti i cittadini di non andare a votare. E in effetti accadde così. Il 74,1 per cento dei votanti si astenne. I “sì” furono appena il 22 per cento e non raggiunsero la maggioranza nemmeno nelle province italiane più laiche e di sinistra.

Per valutare l’influsso del fattore religioso su questo risultato, Diotallevi ha incrociato quattro dati: i “sì” al referendum, l’identificazione cattolica, il civismo, la modernizzazione sociale.

Come principale misura dell’identificazione cattolica Diotallevi ha preso le firme dell’8 per mille a favore della Chiesa. In Italia i cittadini contribuenti hanno infatti la facoltà di indicare ogni anno, nella propria dichiarazione dei redditi, a chi destinare l’8 per mille delle imposte incassate dallo stato: se allo stato, oppure alla Chiesa cattolica, oppure alla comunità ebraica, oppure alle Chiese protestanti, eccetera. La quasi totalità delle firme va a vantaggio della Chiesa cattolica, con un crescendo che ultimamente è arrivato a sfiorare il 90 per cento.

Anche per il grado di civismo e di modernizzazione sociale Diotallevi ha preso come misura dei dati quantitativi, che specifica nel suo studio. Sta di fatto che, dall’insieme, è emerso soprattutto questo: la fortissima correlazione inversa tra l’identificazione cattolica espressa dalle firme dell’8 per mille e i “sì” al referendum.

Nelle province in cui è più basso il numero di firme per la Chiesa cattolica – Bologna, Livorno, Firenze, Ravenna, Siena, Reggio Emilia… – i “sì” al referendum hanno avuto le percentuali più alte, attorno al 40 per cento.

Il contrario è accaduto nelle province in cui le firme dell’8 per mille a favore della Chiesa sfiorano la totalità. Qui i “sì” sono stati pochissimi, il 10 per cento o anche meno.

Queste ultime province sono del sud, e sono anche le meno “civiche” e modernizzate. Ma attenzione: per il maggior numero delle province italiane, in particolare per quelle della Lombardia e del Veneto, gli alti indici di identificazione cattolica non si congiungono affatto con l’arretratezza, ma con gradi di modernizzazione sociale e di senso civico molto avanzati.

In altre parole, il fattore religioso in Italia non risulta essere una reliquia del passato destinata a scomparire con l’avanzare della modernizzazione, ma resta vivo in un contesto di forte modernità. Ed anzi – sostiene Diotallevi nella parte finale del suo studio – si modernizza esso stesso.

L’identificazione cattolica – scrive – non sarebbe infatti bastata, da sola, per produrre quel risultato nel referendum del 2005. Doveva essere attivata. Ed è ciò che ha fatto la gerarchia della Chiesa, in testa il cardinale Ruini, con mosse assolutamente nuove rispetto al passato. Ad esempio: optando per l’astensione invece che per il “no”; dettando in anticipo la linea invece che aspettare che le organizzazioni cattoliche si orientassero in ordine sparso; favorendo l’alleanza con personalità laiche concordi con la Chiesa nella difesa della vita nascente.

Prima ancora, quando la legge sulla fecondazione assistita che sarebbe stata poi oggetto del referendum era ancora in fase di elaborazione, la gerarchia della Chiesa aveva compiuto un’altra mossa inedita: tramite il Forum delle Famiglie aveva fatto lobbying in parlamento, anche qui con successo, a sostegno di un testo che non coincideva affatto con la dottrina morale della Chiesa, ma che riteneva accettabile come “male minore”.

Così, dunque, la Chiesa italiana ha vinto il referendum del 2005 in difesa dell’embrione: grazie a una campagna che è stata anche una formidabile alfabetizzazione di massa su questioni attinenti la vita umana nascente. Una campagna efficace. Dai sondaggi precedenti il voto emergeva che il “sì” restava bloccato, mentre crescevano di numero quelli che optavano per l’astensione “strategica” suggerita dalla Chiesa: nell’ultimo mese dal 17 al 25 per cento dell’elettorato.

Conclude Diotallevi il suo studio su “Polis”:

“È emersa la realtà di una politica ecclesiastica consapevole ed esperta dei valori e del funzionamento dei meccanismi politici, culturali e comunicativi propri di una società a modernizzazione avanzata e di una democrazia matura. […] Il successo è dipeso dall’aver puntato sul ruolo che poteva giocare l’identificazione religiosa – dimensione della religiosità ben diversa dalla partecipazione – con cui le autorità ecclesiastiche hanno mostrato di non aver perso familiarità. Perché essa emergesse non si sono limitate ai richiami retorici, ma hanno preparato le condizioni più favorevoli”.

Di questa modernizzazione della politica della Chiesa in difesa della famiglia e della vita, la moratoria sull’aborto è il nuovo grande scenario.

CON QUALE “BALLA” PROPAGANDISTICA SI OTTENNE LA LEGALIZZAZIONE DELL’ABORTO IN ITALIA 06.01.2008
A 30 anni esatti (quest’anno) dall’approvazione della legge 194 facciamo luce su ciò che accadde… Nel mio libro “Il genocidio censurato” è ricostruita tutta questa vicenda e altre analoghe, per esempio il caso degli Stati Uniti, con l’esplosiva “confessione” di uno dei protagonisti…
Nel frattempo va segnalata l’intervista di Rosy Bindi alla Stampa (6 gennaio), nella quale il ministro suddetto si oppone a “modifiche” della 194 e invita i cattolici a “farsi un esame di coscienza”. Avete letto bene: non invita i laici a fare un esame di coscienza sull’aborto, ma i cattolici. Le sono attribuite queste testuali parole: “Se la legge 194 è stata applicata solo limitatamente agli articoli sulla interruzione della gravidanza è perché quella legge è stata combattuta e chi lo ha fatto è stato principalmente il mondo cattolico”.
Avete capito bene? Se nei consultori per decenni si è rilasciato il certificato di aborto senza neanche provare a capire i problemi delle donne e senza tentare di aiutarle, se nessuna politica seria è stata fatta a sostegno della maternità e della famiglia, non è colpa della mentalità abortista, dei ministri della Sanità (come lei, in carica dal 1996 al 2000) e della classe politica a cui la Bindi appartiene da decenni, ma del mondo cattolico.
Di quel mondo cattolico che da 30 anni, sputazzato da tutti, con i centri di aiuto alla vita, ha salvato, a proprie spese, 80 mila bambini dallo sterminio e 80 mila mamme dalla tragedia. Mentre la Bindi faceva la sua carriera nel Palazzo del potere, pronta ad adeguarsi alla mentalità laica dominante …
Non per mettere “la Bindi al bando” (ci pensa da sola), ma sarà il caso che alle prossime elezioni il mondo cattolico ci pensi bene prima di ridarle anche un solo voto…
Da Libero 6 gennaio 2007Secondo Marco Pannella erano “un milione o un milione e mezzo” gli aborti clandestini che si facevano prima della legge 194 (tg5, venerdì sera). Con tante donne vittime. Per questo si è voluto l’aborto legale e assistito. Premesso che è un argomento per me insensato perché anche gli omicidi sono migliaia, ma nessuno propone di “risolvere” il problema legalizzando l’omicidio, bisogna capire, una volta per tutte, se quel dato è vero o falso. Intanto le cifre erano visibilmente sparate a caso. Per esempio secondo la proposta di legalizzazione fatta dal Psi al Senato nel 1971 erano ogni anno dai 2 ai 3 milioni gli aborti clandestini con circa 20 mila donne morte (nell’analogo progetto presentato alla Camera le morti lievitavano inspiegabilmente a 25 mila). Sui giornali le cifre oscillavano in modo abnorme: il “Corriere della sera” del 10 settembre 1976 per esempio dava da 1,5 a 3 milioni di aborti clandestini l’anno. E “Il Giorno” del 7 settembre 1972 da 3 a 4 milioni l’anno. In sostanza si davano i numeri (da 1,5 a 4 milioni), del tutto incontrollati e mai provati. Ma questa ossessiva campagna produsse la sensazione dell’emergenza nazionale e fece passare la legge 194.Eppure bastava qualche piccolo accertamento per scoprire la verità. Secondo calcoli fatti da statistici ipotizzando 3 (o addirittura 4) milioni di aborti clandestini l’anno ne derivava un tasso medio di abortività in base al quale – alla fine – “tutte le donne italiane avrebbero praticato nella loro vita almeno 8 aborti procurati clandestini” (Palmaro). Uno scenario ovviamente assurdo.Che i “milioni di aborti clandestini” ogni anno fossero un argomento totalmente infondato, è provato, in modo indiscutibile, oggi, dai dati ufficiali sugli aborti legali in Italia, fermi attorno ai 130 mila l’anno (dal 1978 hanno raggiunto al massimo la cifra di 240 mila all’anno, ma attestandosi subito molto al di sotto dei 200 mila). Se questo è il numero delle donne che interrompono la gravidanza oggi che l’aborto è facile, legale e assistito, in qualunque ospedale, e addirittura propagandato, è ovvio che dovevano essere un numero molto inferiore a praticarlo quando era illegale, si rischiava il carcere, la faccia e la pelle, ed era difficile trovare le “mammane” che lo praticassero.

Ma passiamo al cuore del problema. L’aborto clandestino – dicevano – provocava ogni anno in Italia la morte di 25 mila donne. Per questo fu reso legale e assistito. Ma era vero quel dato? No, era del tutto assurdo. E ci voleva poco a capirlo.

Dall’Annuario Statistico del 1974 risulta infatti che le donne in età feconda (cioè dai 15 ai 45 anni) decedute nell’anno 1972, cioè prima della legge 194, furono in tutto 15.116. Già il fatto che le morti totali siano la metà delle presunte morti per aborto parla chiaro. Ma poi si scopre che di quelle 15 mila solo 409 risultavano morte di gravidanza o parto.

Naturalmente fra tutte le morti “per gravidanza o parto” quelle dovute ad aborto clandestino erano una piccola parte: qualche decina ogni anno. Una cifra certo triste (umanamente anche una singola morte è una tragedia), ma non una emergenza nazionale. Erano molto più rilevanti, per capirci, le altre cause di decesso delle donne come le morti per parto, per infortuni domestici, per incidenti o per omicidio.

Le cifre che abbiamo visto per l’anno 1972 risultano costanti. Infatti nel 1969 le donne morte in età fertile per complicazioni da gravidanza, parto e puerperio furono in totale 550 (Annuario statistico italiano, 1971); 481 nel 1970 (Annuario 1972); 460 nel 1971 (Annuario 1973); 370 nel 1973 (Annuario 1975). E ogni anno le vittime dell’aborto clandestino erano poche unità.

Conclusione: le cifre sparate dalla propaganda abortista (25 mila donne morte) che hanno portato alla legalizzazione dell’aborto erano del tutto infondate. Erano balle. Lo conferma il fatto che dall’entrata in vigore della legge 194 la mortalità delle donne in età feconda, non ha avuto alcuna significativa diminuzione statistica improvvisa, quindi la 194 non ha modificato alcunché. “Ciononostante”, scriveva Roberto Algranati su Liberal “anche in epoca recente, l’onorevole Pannella ha riaffermato il vecchio luogo comune secondo il quale la legge sull’aborto avrebbe salvato la vita a centinaia di migliaia di donne”.

In realtà non ha portato neanche alla sparizione dell’aborto clandestino. Infatti sull’ “Espresso” del 10 novembre 2005, Chiara Valentini scrive che la relazione del ministro della Salute nell’anno 2005 stima circa in 20 mila gli aborti clandestini. E la stessa cifra è ribadita dal demografo Massimo Livi Bacci. Dunque la 194 è clamorosamente fallita: non ha estirpato neanche la piaga della clandestinità. E lo stesso fenomeno è accaduto in Gran Bretagna, nei Paesi Scandinavi, in Germania, Giappone, Russia Polonia, Romania e via dicendo.

Ma se la 194 non ha cancellato l’aborto clandestino – a 30 anni dalla sua approvazione – cos’ha prodotto? Rendere legale, facile, assistito e gratuito l’aborto può solo banalizzarlo e moltiplicarlo. E così è stato. Da 20-30 mila clandestini a 150-200 mila legali. Due ricercatori dell’Università di Trento, Erminio Guis e Donatella Cavanna (“Maternità negata”, Milano 1988) hanno scoperto che il 32 per cento delle donne che hanno abortito non l’avrebbe fatto se non ci fosse stata la legge 194 a permetterlo. Quindi migliaia di aborti che – in mancanza della 194 – sarebbero stati evitati. “Risultati del tutto analoghi” aggiunge Mario Palmaro “sono stati condotti in Francia. Il significato di questi dati è evidente: la legge incide in modo decisivo sui comportamenti”.

E’ vero che c’è stata una relativa diminuzione degli aborti legali dal 1978 ad oggi, ma intanto bisogna considerare la diffusione di abortivi chimici. In secondo luogo il fenomeno è tutto italiano ed è dovuto a una forte sensibilizzazione sui temi della vita fatta dalla Chiesa italiana (basti dire che i Centri di aiuto alla vita, anche concretamente, hanno salvato circa 80 mila bambini e altrettante mamme). Infatti negli altri Paesi europei, come Francia e Inghilterra, dove la presenza cattolica (e la cultura della vita) è irrilevante, gli aborti legali non sono in discesa, ma semmai in salita.

Infine 30 anni fa si costruì un’assordante campagna sulle “morti per aborto clandestino”, ma perché oggi non si parla delle morti per aborto praticato legalmente e assistito? Perché tanto silenzio sulle morti che hanno fatto clamore in America in relazione alla pillola abortiva (New York Times, 23.11.2005)? La sorte delle donne non interessa più?

La dottoressa Kustermann, dall’insospettabile pulpito di Micromega (7/05), fa sapere che “con la Ru486 c’è anche il dolore fisico, che almeno con l’aborto chirurgico non c’è”. Poi ha svelato quanto sia devastante anche l’aborto chirurgico legale che presenta “un rischio del 4 per cento di complicazioni più o meno gravi, che vanno dalla necessità di ripetere l’intervento, all’emorragia, alla perforazione dell’utero, all’infezione dell’utero che si manifesta nei giorni seguenti con febbre alta e dolori intensi. Quindi…

permangono dei rischi che possono determinare anche conseguenze di lungo periodo per la donna: per esempio un’infezione grave o una perforazione uterina” che “può determinare una sterilità permanente”.

La Kustermann aggiunge che “non c’è quasi nessun aborto che sia per sempre indolore”. Il dolore psichico è evidente in tante donne che hanno vissuto questo trauma. Ma, avverte la Kustermann, anche per le donne che “riescono a superare l’evento indenni”, dal punto di vista psicologico, “l’aborto può essere un fattore di rischio nel momento in cui intervengono depressioni legate al desiderio di maternità irrealizzato nel corso della vita”.

Insomma, aver presentato l’aborto come una conquista civile ha messo gravemente in ombra le conseguenze cui va incontro la donna. E ha spazzato via 4 milioni e 500 mila bambini. Un orrore.

Il genocidio censurato Autore: Antonio Socci
Aborto: un miliardo di vittime innocenti
Il genocidio censuratoI morti causati dai regimi totalitari e dagli innumerevoli conflitti armati che hanno insaguinato il Novecento sarebbero circa 200 milioni.
Eppure c’è una strage – tuttora in corso – che ha prodotto oltre un miliardo di vittime e di cui nessuno oggi vuole parlare: l’aborto. In maniera diretta, provocatoria e coinvolgente, Antonio Socci denuncia quello che è il peggior crimine commesso dall’umanità contro se stessa nel corso dell’ultimo secolo, raccontando tutta la verità sull’aborto: dalle origini del dibattito morale alle scelte politiche italiane, dalle politiche antinataliste cinesi all’attuale orientamento dell’Onu e delle istituzioni europee, dalle polemiche sulla Ru486 alle coraggiose iniziative del Moviemtno per la vita.
Con dati, documenti e testimonianze sconvolgenti che mostrano lo scellerato delirio di onnipotenza a cui si spinge l’uomo quando abbandona il rispetto della Legge di Dio e della Legge di natura.

SESSO-DROGHE E ALCOOL….VITE “BRUCIATE”

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Vi giro questo articolo, per proseguire la nostra preghiera e la
nostra accorata attenzione alle problematiche giovanili. Avete tutti
letto il libro della Lombardo “Ho 12 anni, faccio la cubista, mi
chiamano principessa”? E’ allucinante, ma questa situazione va
conosciuta, in modo da contrastarla con la positività. Dobbiamo
aiutare in nostri adolescenti a capire quanto siano preziosi!
Verbena

Dal Resto del Carlino “Allarme adolescenti”

ALLARME ADOLESCENTI
“La paghetta per comprare la cocaina”
Viaggio fra i ragazzi che fanno sempre più uso di droghe e alcol. Le
confessioni choc dei giovanissimi: “Perchè? per lo sballo, mia mamma
lo sa”. I dati preoccupanti dell’Aul

BOLOGNA, 2 GENNAIO 2008 – S’INUMIDISCONO l’indice e `assaggiano’
qualcosa, che tengono non così nascosto nel palmo della mano. Una
polverina bianca in una confezione di cellophane, abilissimi ad
aprire l’involucro senza disperdere nulla. Quella roba costa troppo:
è cocaina. A impressionare non è tanto la quantità di quel che
circola, tra i gruppetti di ragazzi che aspettano di entrare in
discoteca, quando è già il primo gennaio. E’ casomai l’indifferenza,
quel gesto fatto con disinvoltura, come se fosse la cosa più naturale
del mondo. Come se i ragazzi fossero insensibili a quel che gli sta
accadendo. Nessuno che smetta. Eppure il fotografo non è invisibile.

C’E’ questo sedicenne bello come un campione dello sport, il viso
pulito, il figlio ideale, che non prova neanche a nascondere la dose
appena acquistata da un coetaneo. Apre il palmo della mano
sinistra. «La foto? Se vuoi, ma non devi riprendere nulla di me»,
vuol essere sicuro. Lui sa benissimo che potrebbe farne a meno, dice.
E allora perché? «Per lo sballo», è quasi deludente. Come se quella
parola fosse uno slogan che mette a tacere gli adulti, finalmente.
«Scusa, adesso devo andare — ha fretta —. Lo so che la cocaina costa.
Ottanta-cento euro al grammo. Io la prendo quando posso. Più o meno
una volta al mese. Risparmio sulla paghetta. Sì, mia mamma lo sa,
anzi lo sapeva. Mi ha fatto le analisi. Per un po’ avevo smesso.
Chiaro, io la compro, non l’ho mai venduta».

POCHI passi indietro, in un angolo più buio, uno scambio velocissimo.
Un gruppetto di tre — c’è anche una ragazza — si avvicina a un
coetaneo. Il più basso e nervoso apre una scatolina di latta. E’
piena di dosi. Il cliente `tira’ una riga, lì, in piedi. Paga e se ne
va. «Ne hai bisogno?», prova a insistere l’altro. E non è una domanda
filosofica. No, stanotte basta così. Corre via anche la pattuglia dei
tre. Ogni tentativo di capire è respinto. «Guarda, abbiamo molta
fretta», è brusca la ragazza. Interrompe così le giustificazioni
dell’amico. Che, superata la sorpresa, si assolve: «Io non spaccio,
sono altri a farlo». Le spiegazioni un’altra volta.

EPPURE due notti di osservazione in giro sembrano confermare quel che
pensa il buttafuori di una nota discoteca: «La droga te la porti
dappertutto, è nella vita più normale della gente. Sempre. Non si
deve cercare qui. Non solo». Ti carichi e poi esci. «Ho tirato a
casa, con un grammo ci fai cinque righe. Gli effetti li conosco
benissimo, studio farmacia», confessa una ventiduenne all’una del
primo gennaio, seduta in un locale. E’ al quinto bicchiere: un cuba
libre, un long island, tre calici di prosecco. «Con la cocaina è
meglio — è convinta —. Una volta ogni tanto, sia chiaro. Lo faccio
quando posso, ho pochi soldi. La prendo e reggo meglio l’alcol. Parlo
di più, rido di più…». Ma la scienza racconta tutta un’altra
storia. Secondo alcuni studi la cocaina provoca danni al cervello.
Sicuramente dà paranoia, tremori, ipertensione, tachicardia, problemi
cardiaci, supervalutazione di sé, aggressività e insonnia. Può
bastare?

EPPURE la diciassettenne che è riuscita a smettere — il primo viaggio
a 14 anni — insiste: «La cocaina è carica di bonanza. Sei
polleggiato, vuoi bene a tutti e neanche te ne accorgi. Con la droga
ho iniziato a 12 anni, mi facevo le canne. Sì, anche a scuola. I
professori vedono che hai gli occhi rossi. Allora cominciano a
chiedere i servizi dei carabinieri con i cani. Due anni dopo ho
provato la coca. Come sono riuscita a smettere? Volendomi bene,
usando la testa». Una volta ha rischiato molto, per un micidiale
miscuglio di alcol e droga. «Ho preso una pasta, non mi saliva niente
di botta — racconta nel suo gergo —. Avevo bevuto un mojito, prima.
Allora ho preso un’altra pasta. Niente. Ma quando ho bevuto una
birra, la pasta mi è salita di colpo. Sono svenuta, mi hanno portato
in un parco. Avevo gli occhi ribaltati. No, nessuno ha pensato di
accompagnarmi all’ospedale. Quella è proprio l’ultima spiaggia. Se
sei a un rave e ti sei drogato, non ci vuoi andare perché sono
casini. Io mi sono salvata perché ho deciso che dovevo uscirne.
Questo dev’essere chiaro. Se non sei convinto tu, tutte le prediche
del mondo non servono a niente».

di Rita Bartolomei

Leopardi e il destino di DIVO BARSOTTI

leopardi.jpgLeopardi e il destinobarsotti.jpg

Firenze (5 luglio 1970)

In Leopardi il dolore
non nasce solo dalla fine
delle illusioni.
Il dolore ha una radice
religiosa: l’uomo
cerca disperatamente
un suo partner che non può
che essere fuori dal mondo mutevole.
«S’avessi io l’ale»

Leopardi si rivela con una semplicità e candore ammirabile nell’epistolario (lett. 824, 931). Nelle sue lettere, specialmente al padre, si spoglia di ogni veste letteraria e lascia parlare il suo cuore con un linguaggio di pura umiltà. Sono le lettere che più direttamente ci dicono la sua esperienza di pena. Quale è stato il rapporto tra il suo dolore e la visione che egli ebbe della infelicità universale? La sua poesia altissima è insieme testimonianza della sua pena e visione della universale infelicità: dalla poesia è così possibile riconoscere l’intimo rapporto tra l’esperienza e il pensiero. I Canti rimangono espressione di questa profonda unità. Nell’epistolario il poeta ci apre candidamente il suo cuore, nelle Operette morali, se non crea un vero sistema filosofico, ci vuol dare sicuramente il suo pensiero.

È indubbio che le Operette morali sono l’espressione più elaborata del pensiero del poeta. Come iniziano con un testo religioso, così avrebbero dovuto avere il loro compimento con un testo che ha tutta la solennità di un testo ispirato. Queste due operette possono rivelarci il nucleo centrale del pensiero leopardiano riguardo al tema fondamentale del dolore. All’inizio è la Storia del genere umano, alla fine Il canto del gallo silvestre. Sembra che il pensiero del poeta sia ondeggiante, tuttavia vi è una coerenza profonda in questo suo ondeggiamento medesimo. Vi è una fedeltà nel dubbio, ma anche una fedeltà nel proclama re quella che è la sua verità. E la verità fondamentale rimane, nel Leopardi, il dolore: «Arcano è tutto fuor che il nostro dolor» egli afferma nell’Ultimo canto di Saffo. Perché il dolore invece della gioia? Il poeta ne dà la colpa all’età vile nella quale si è trovato a vivere. È in opposizione al costume del tempo che egli dunque è infelice. Non si dà per lui ora altra scelta: «O codardi o infelici» (cfr. Per le nozze di Paolina). Nella sua prima giovinezza animata da «eroici furori» aveva preteso di risvegliare da solo un popolo schiavo; lo aveva esaltato la volontà dell’impresa, la visione di una gloria che avrebbe potuto conseguire, ma non ci volle molto perché egli stesso si risvegliasse dal suo sogno di gloria. Cadeva la prima illusione: doveva vivere in un mondo meschino, e vi sarebbe rimasto e sentito sempre un estraneo: sarebbe stato suo destino la solitudine. Del resto, anche se avesse conseguito la gloria, cos’era la gloria? Della potenza, della grandezza di Roma che rimaneva? Solo il canto di un carrettiere rompeva ora il silenzio della notte. Tutto, tutto sarebbe affondato nel nulla: così l’eroismo, oltre che impossibile, era inutile. Cercò allora il poeta rifugio nella natura. Crede che del male non fosse causa il grigiore dell’età, ma il progresso, la civiltà stessa che distaccava l’uomo dalla natura. L’integrazione dell’uomo con la natura era stato l’ideale della Grecia più antica: in quella età remota, l’uomo viveva una comunione col tutto, viveva in compagnia degli dei. Poteva l’uomo rinnovare questa alleanza? Leopardi sentì viva la nostalgia della Grecia, ma, a differenza del suo grande fratello, Hoelderlin, egli sentì irrevocabile il passato. Visse allora la natura ed era amica dell’uomo, ma il ricordo di questa età remota faceva ora più grande l’infelicità dell’uomo che si sentiva straniero. Cadevano una dopo l’altra tutte le illusioni che potevano far bella e desiderabile la vita, e il poeta si sentiva sempre più solo. Rimaneva una illusione e, come aveva scritto nella Storia del genere umano, questa illusione lo accompagnerà per tutta la vita, sorgente di ineffabili vagheggiamenti e di desolati risvegli: l’amore. Tutta la poesia del Leopardi canta l’amore. È vero che gli è sempre negato, ma in lui continuamente risorge. Neppure si è accorta di lui la cugina, la prima che lo fece palpitare di amore. Poi, la sua deformità fisica gli fece comprendere che, sì, egli poteva amare, ma non sarebbe stato mai amato. Così nell’Ultimo canto di Saffo, ma più vivo e personale è lo schianto ne La sera del dì di festa: «Non io, non già ch’io speri, / al pensier ti ricorro. Intanto io chieggio / quanto a viver mi resta, e qui per terra / mi getto e grido e fremo». A distanza di anni, nella dolcezza del ricordo riaffiorano le immagini di Silvia, di Nerina, fanciulle segretamente amate. La loro morte segna per lui la fine della giovinezza e, con questa, la fine della speranza. Non rimane al poeta che la morte. Eppure no, l’amore sembra immortale. Risorge la vita. Nell’opera del poeta solitario, unico è l’inno che canta l’amore. È l’amore che trionfa di ogni pena, l’amore che solleva a felicità «nuova» il poeta. Da tanta esaltazione, è proprio l’amore che, respinto e schernito, precipita il poeta nella più cupa e nera disperazione. Anche questa illusione l’abbandona. Quasi epigrafe sepolcrale nella sua brevità, conclude la parabola la poesia A se stesso. Il dolore non nasce solo dalla fine delle illusioni, più fonda è la sua radice. Non è frutto e conseguenza di qualcosa, dal momento che è all’origine di tutto: la vita stessa è dolore. Invano cerca il poeta un altro contenuto, una ragione alla vita. Dalla infelicità sua egli passa al riconoscimento di una infelicità universale, al dolore del mondo, al dolore di ogni essere creato. Ogni uomo tende a divenire la coscienza del mondo. Leopardi diviene il poeta del dolore universale. L’alta poesia delle Operette morali più direttamente si libera da ogni riferimento alla sua persona, tranne nell’ultima, che fu composta dopo vari anni; vuole essere una lucida e fredda accusa alla presunzione umana, alla viltà dell’uomo che rifiuta di vedere; ed è visione grandiosa e apocalittica della comune infelicità. Questa rimane per il poeta la verità unica e suprema. Se non vogliamo soltanto scorrere i suoi scritti, ma cercar di capire quale sia la posizione del poeta rispetto al suo tempo e che cosa può dirci oggi, se più profondamente vogliamo determinare il valore oggettivo del suo pensiero e come egli è potuto giungere a questa visione, s’impone che ci arrestiamo senza richiamare anche solo indirettamente i testi, – che sono innumerevoli, e appartengono ai Canti, alle Operette morali, allo Zibaldone. Il poeta ha voluto prima di tutto conciliare il suo pensiero col cristianesimo. A differenza di Hoelderlin, egli ben presto si è reso conto della crisi profonda della Grecia. Se Leopardi è discepolo dei greci, egli tuttavia è stato soprattutto segnato dalla crisi che la grecità conobbe nell’età dei sofisti. Egli non poteva credere agli dei dell’Olimpo; ogni sua integrazione con la natura gli era impossibile: egli sentiva di non essere soltanto un elemento della natura. Poteva sentire, sì, ed era questo uno dei motivi più forti della sua angoscia, che la natura aveva ogni potere sull’uomo. Sentiva che il tempo e la vastità sconfinata dell’universo, annullavano l’uomo, eppure l’uomo trascendeva, nel suo spirito, la natura. Il pensiero dei tragici greci gli aveva insegnato che l’uomo, nonostante la sua grandezza, non può nulla contro il fato e la natura, è senza difese contro un potere cieco che lo distrugge. Il cristianesimo nulla aveva cambiato, ma aveva aiutato l’uomo a superare l’angoscia col rinnovare le illusioni delle antiche età. Finché l’uomo ha creduto, non ha conosciuto l’angoscia: il cristianesimo ha saputo dare all’umanità, con una nuova fede, una nuova giovinezza. Ma la fede cristiana non aveva maggiore fondamento, secondo il poeta, delle favole antiche. Come gli antichi avevano creduto che scendevano fra i mortali gli dei dell’Olimpo (Alla primavera…), così ora. Al mito pagano si sostituiva il mito cristiano. La pena era, nella morte degli dei, il vuoto della creazione, il non-senso di tutto, il riconoscimento che «unico obietto» dell’esistenza era la morte. Il poeta vive la tragicità di una vita che gli appare vuota ed assurda. Più del dolore diveniva insopportabile la noia. Anche il dolore poteva essere un diversivo, ma dalla noia nulla poteva liberarlo. Ai vertici di ogni sua poesia, perché espressione suprema dell’umana infelicità, il Canto notturno di un pastore errante nell’Asia, chiedeva inutilmente un perché della vita, delle cose, del mondo. L’amore sembrava dare un fine alla vita, dal momento che per l’amore a questa infelice scena del mondo sorride all’uomo in vista di paradiso» (La vita solitaria). È certo significativo che il poeta, quando canta l’amore, usi inevitabilmente un linguaggio religioso, e inno divenga la sua poesia. Addirittura forse non si ritrova nella letteratura italiana un linguaggio così alto, così ispirato, così religioso come il canto Alla sua donna e Il pensiero dominante. E, certo, l’amore era la suprema illusione, e forse avrebbe potuto accompagnare l’uomo fino alla morte, ma l’uomo cercava disperatamente un suo partner senza trovarlo. Il partner dell’uomo non poteva essere che fuori di un mondo mutevole, di un mondo nel quale l’uomo si sentiva prigioniero: «Forse s’avess’io l’ale… ». Il dolore del poeta aveva un fondamento metafisico. L’uomo è straniero nel mondo: desideri immensi lo agitano, lo ispirano pensieri sublimi, ma tutto nella vita è disinganno. La vita non offriva nulla di quanto aveva promesso e l’uomo aveva potuto sperare. Si può pensare che se avesse conosciuto l’amore, il poeta avrebbe vinto la pena? Di fatto egli stesso aveva detto che questa illusione può accompagnare l’uomo fino alla morte, ma rimaneva illusione. Nonostante tutto, egli chiedeva e voleva di più dalla vita, pretendeva che la vita avesse un senso, una ragione. Non credeva al progresso, non credeva che l’uomo avrebbe potuto vincere mai la natura nella sua bruta necessità, nel suo potere di distruzione. Nonostante che invocasse la morte, perché intollerabile gli era la vita, non poteva accettare che la morte fosse «l’unico obietto» della vita. Il desiderio di morire non era in lui che rifiuto della vita, perché la vita era peggiore della morte. Chi avrebbe potuto dare un senso alla vita? Se nulla, nessuno vi è al di là della natura- e la natura è dio – allora l’uomo diviene incomprensibile. Come la natura può aver prodotto lo spirito? L’uomo di fatto si sente, ed è, della natura più grande. Come la natura, che è necessità senza ragione, avrebbe potuto dare una ragione alla vita? Unico, in un mondo cieco e muto, l’uomo soltanto conosce: può avere una ragione a quanto egli fa, non può dare un senso a se stesso. Ma se la natura non è dio, allora una divinità malvagia, intesa soltanto al male, «a comune danno impera». L’uomo diviene rivolta disperata e impotente. Potrebbe lo sforzo dell’uomo, inteso a debellare questo potere occulto, avere successo? Nella Ginestra il poeta si fa banditore ed apostolo di questo proposito. L’unione degli uomini postulata da lui ha qualche accento cristiano, il fine di questa unione sembra invece satanico. In questo proposito il poeta è l’uomo di un tempo che aveva già conosciuto la ribellione prometeica. Tuttavia Leopardi non è così ingenuo da credere che anche la coalizione di tutti possa cangiare la sorte degli uomini. Al fondo di tutto vi è in lui una immensa pietà per gli uomini condannati irrimediabilmente al dolore, alla infelicità. Nel Canto del gallo silvestre il poeta contempla l’immancabile fine dell’universo e dice che prima che sia svelata la ragione del tutto, l’universo medesimo si dissolverà, ritornerà nel nulla. Rimane, e rimarrà sempre, il mistero. L’uomo sarà solo sino alla fine. Alle sue domande nessuno risponderà. Al contrario di integrarsi come parte di un tutto in una natura amica, il poeta si sentirà sempre più un estraneo e la natura indifferente e ostile. Sempre più si allontanerà dagli uomini, frivoli e vuoti. Arido diverrà il suo cuore; il suo linguaggio, amaro. Dirà a se stesso: «Non val cosa nessuna / moti tuoi». Egli ha conosciuto qualcosa di più terribile del dolore. Vi è nell’esperienza del poeta la testimonianza di quanto paventava Nietzsche per gli uomini quando si accorgeranno che Dio per loro è morto. Senza Dio l’uomo vive già l’infelicità del dannato, una infelicità senza lenimento. Certo, non è stato pacifico nel poeta il rifiuto della fede cristiana, potrà persino affermare al padre di non essere stato mai irreligioso, e sempre risorgente sarà in lui il dubbio della vita futura; tuttavia l’incapacità di affidarsi alla fede è veramente all’origine della sua infelicità. Si ha quasi l’impressione che la sua bestemmia volesse provocare Dio a uscire dal silenzio. Dio e nessun altro poteva infatti essere il vero partner dell’uomo. Leopardi anticipa il pensiero di alcuni celebri filosofi contemporanei; il suo pensiero che nasce da un’esperienza profonda di pena è ben altrimenti vivo. Il poeta meglio assai di quei filosofi ci insegna l’origine religiosa del dolore. La donna gli avrebbe forse dato una momentanea ebbrezza, ma non avrebbe saputo rispondere alla domanda più fonda del suo spirito, e nello spirito era la sorgente della sua infelicità. Il cammino del pastore nella notte fu il cammino del poeta. L’uomo fatto per Iddio in Dio solo può trovare riposo. La tragica esperienza del poeta è una riprova della verità delle parole di Agostino. Come in Dio è la beatitudine dell’uomo così nell’assenza di Dio è la sua infelicità.

U.S.F.P.V.

© Divo Barsotti

TRA DUE FUOCHI…..

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Arriva nelle librerie un prezioso volume per gli appassionati di storia della Sicilia e non solo. Infatti,grazie al lavoro di Iole Mannino,sono state date alle stampe le memorie del fratello,Stefano il quale fu sindaco di Montelepre dal 1944 al 1950. Anni durissimi per il giovanissimo sindaco che si trovò a dover gestire la vicenda di Salvatore Giuliano,unita al fenomeno del separatismo e della strage di Portella delle ginestre.Il giovane sindaco si trovò tra due fuochi:”lo spadroneggiare del banditismo locale da una parte e la reazione dello Stato dall’altra”.Il sindaco Mannino morì nel 1974 dopo aver lasciato,attraverso il suo manoscritto, oggi dato alle stampe dalla sorella Iole,”una rara testimonianza in prima persona sugli anni terribili del banditismo italiano dell’ultimo dopoguerra”.Mannino si trovò “Tra due Fuochi”,quello dei mitra e quello del potere. Così grazie alla testimonianza di prima mano del giovane sindaco monteleprimo, il lettore potrà leggere un “vero e proprio diario di Montelepre durante gli anni terribili del bandito Salvatore Giuliano”.Grazie all’impegno della sorella Iole Mannino,che ha raccolto e curato le memorie del fratello,oggi vengono consegnate ai posteri pagine straordinarie della storia della Sicilia e d’Italia.

INTRODUZIONE

D libro “Fra due fuochi” sottotitolato “Tutti avanzarono di grado, noi restammo banditi” è il memoriale scritto dal prof. Stefano Mannino nel periodo cruciale e terribile del banditismo a Montelepre. Nato a Montelepre il 02/03/1922, Stefano Mannino si trovò a soli 23 anni, precisamente dal 1945 al 1950, come Sindaco di questo paese.”Fra due fuochi” è l’originale rivelazione di quanto avvenne dietro le quinte in un teatro di lotte e rapine di uccisioni e di avventure.Il libro è una chiara testimonianza di chi si è trovato al centro di una scottante e pericolosa situazione e l’autore seppe cavarsela con vera diplomazia; “un colpo di lupara da una parte, il confino ad Ustica dall’altro” egli scrive “non mi accadde mai nulla perché non collaborai connessuno”.La situazione in cui era finito il professore lo impegnava fino allo sfinimento.

Giuliano infatti diffidava di lui e la polizia lo pedinava giorno e notte,nonostante ciò promuoveva incontri per distogliere “Turiddu” dalla malavita.

Si spacciava separatista allo scopo di fare cosa gradita a Giuliano e non disdegnava di presentare al pubblico gli oratori della democrazia cristiana nella speranza di poter ricavare qualche beneficio per Montelepre.Nella forma più scorrevole e brillante il libro si legge tutto d’un fiato e lo scrittore presenta ai lettori la realtà umana di Montelepre.

Lo scopo per cui Stefano Mannino scrisse il libro è soprattutto quello di riabilitare la sua cittadina, che ancora oggi gode purtroppo, anche se in maniera più sbiadita, la triste nomea di capitale del banditismo.In realtà Montelepre è un delizioso ed ameno paese dove tutti vivono tranquillamente le problematiche e le vicissitudini di qualsiasi altra cittadina della Sicilia. Il Banditismo è stato un triste fenomeno del dopoguerra nato dalla nera miseria e dall’ignoranza deve le interferenze politiche di uomini influenti hanno speculato sulle spalle della povera gente.

Si legge ancora nel libro “Fu un curriri di giornalisti da ogni parte del mondo; venivano in cerca di primizie come nel paese della cuccagna, per vendere fandonie ai lettori buontemponi e creduloni calunnie, un travisare della realtà, un intorpidire di acqt gara per poche lirette e non sapevano o almeno fingevano i danno procurato…

La Sorella Iole MANNINO