Un Islam senza burqa è possibile, lo dicono i mussulmani europei.


di Valentina Colombo

«La libertà è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano dato agli uomini» disse don Chisciotte a Sancho. Parole sacrosante del genio Cervantes che mi sono venute in mente alla lettura delle dichiarazioni del Patriarca di Venezia Angelo Scola riguardo alle iniziative anti-burqa nella sua regione, in particolare, e alle legislazioni restrittive in Francia e Belgio. “La libertà religiosa è integrale o non è. Non si può rinunciare a questo principio. La questione del velo verrebbe affrontata in modo più equo all’interno del normale ambito sociale piuttosto che con una legge” ha dichiarato Scola.
A questo punto bisogna innanzitutto chiarire che il burqa, o niqab o velo integrale che dir si voglia, non è un obbligo religioso islamico, ma semplicemente il frutto di una interpretazione errata e integralista dei testi religiosi. Non sarebbe un precetto islamico nemmeno il velo semplice, o hijab, poiché quest’ultimo termine ricorre solo una volta nel testo coranico con il semplice significato di “cortina”, tenda che doveva separare le mogli di Maometto dagli estranei presenti nella loro abitazione. Se così stanno i fatti risulta evidente che non si tratta più di libertà religiosa, bensì di libertà di imporre, se vista dalla parte degli uomini, ciò che la religione non prevede. Non si tratta più di libertà religiosa, bensì la libertà di indossare, se vista dalla parte delle donne, un simbolo ideologico e politico, ma che non ha nulla a che fare con l’islam.
Tutto ciò si evince anche da quanto sta accadendo nel mondo islamico stesso. Molto esplicita è stata la sentenza della corte costituzionale del Kuwait dell’ottobre 2009. Ebbene quando alcuni deputati conservatori hanno sollevato la questione che due delle quattro deputate, ovvero Rola Dashti e Aseel al-Awadhi, non erano velate – e il riferimento qui era il hijab non il niqab – e che quindi contravvenivano alla legge elettorale che prevedeva che chiunque entrasse in parlamento dovesse vestire in conformità alla sharia, la Corte costituzionale ha stabilito che la Costituzione garantisce totale libertà personale e non discrimina in base al genere e alla religione e che quindi le due deputate avevano tutto il diritto di esercitare la loro funzione a prescindere dal fatto che indossassero o meno il hijab in quanto ciò non inficia la loro appartenenza o meno all’islam. Si è trattato di una sentenza storica il cui punto di partenza è lo stesso del cardinale, ma il risultato direi è opposto.
In Europa si considera il velo – integrale o parziale – un simbolo religioso, mentre nel mondo islamico, soprattutto nel caso del velo integrale, si vuole sottolinearne la non “islamicità”. A riguardo è interessante ricordare altri due fatti, l’uno accaduto in Italia l’altro sempre in Kuwait. Nel maggio scorso a Novara una donna con il velo integrale è stata multata con un’ammenda di 500 Euro perché si è rifiutata di farsi riconoscere, ovvero di togliersi il velo, dalle forze polizia, considerando la richiesta un oltraggio alla propria persona. Ebbene, pochi giorni prima in Kuwait, ribadisco paese dove il velo integrale è molto diffuso, compare su uno dei quotidiani più diffusi, il Kuwait Times, un articolo in cui si discute sulla liceità o meno per le donne con il velo integrale di guidare l’auto.
Nell’articolo vengono riportate alcune dichiarazioni, tra cui quella della ventisettenne Latifa al-Ajmi che sottolinea che il niqab non le impedisce assolutamente di guidare in tutta tranquillità, ma al contempo ricorda che “quando ci sono posti di controllo e i poliziotti mi chiedono di mostrare il viso per verificare la corrispondenza della mia persona con la fotografia della patente, lo faccio. E’ una necessità, devono sapere chi guida l’auto”. La ragazza ribadisce altresì che il niqab non ha alcun legame con la religione. Questi fatti dovrebbero fare riflettere chi, come il cardinale Scola, confonde la libertà religiosa con la libertà di indossare il niqab.
Di recente alcuni locali del litorale mediterraneo nei pressi di Alessandria d’Egitto, alcuni ristoranti e circoli del Cairo, hanno vietato l’ingresso alle donne non solo con il niqab, ma anche con il velo. D’altronde questi locali negli anni Cinquanta e Sessanta erano frequentati solo da donne e uomini del tutto simili ai frequentatori dei locali pubblici di Roma e Parigi. Anche in Siria il Ministro dell’Educazione superiore, Ghiyath Barakat, pochi giorni fa ha espresso l’intenzione di vietare l’ingresso nelle università siriane alle studentesse con il velo integrale poiché “i nostri studenti sono nostri figli e non li lasceremo cadere nella morsa di idee e usanza estremiste”.
Forse sono queste le notizie e le persone che il cardinale Scola dovrebbe ascoltare e sulle quali dovrebbe riflettere. E si accorgerebbe altresì che l’islam “moderato” – termine che sostituirei volentieri con islam liberale e democratico – esiste e che non è, come ha dichiarato nello stesso intervento alla Reuters, rappresentato da “pochi intellettuali occidentalizzati le cui riflessioni possono essere molto interessanti, ma raramente sono espressive del fenomeno musulmano che riguarda un miliardo di persone”. Direi che un ministro siriano sarà tutto fuorché un intellettuale occidentalizzato, che un gestore di uno stabilimento balneare di Alessandria d’Egitto sarà tutto fuorché un intellettuale occidentalizzato. E’ vero i musulmani sono un miliardo e trecento milioni, ma proprio per questo e proprio perché l’islam non prevede un rapporto mediato tra l’uomo e Dio, potremmo per assurdo trovarci d’innanzi a un miliardo e trecento milioni di islam diversi.
Perché mai dovremmo “demonizzare” i musulmani liberali al pari degli estremisti islamici che li vorrebbero morti in quanto apostati? I musulmani liberali e democratici non sono solo intellettuali, ma sono attivisti che si adoperano per proteggere le donne vittime di violenze e abusi, persone che lavorano e che hanno una famiglia e le cui priorità non sono la moschea o il velo, ma uno stipendio a fine mese, una casa e una vita serena. Quando il cardinale afferma che “Quando una comunità musulmana chiede uno spazio per la costruzione di una moschea, si dovrà verificare concretamente se questa richiesta è proporzionata al bisogno effettivo della comunità, quanto grande è la comunità che lo richiede e chi la rappresenta” cade in un ennesimo tranello. A quale comunità si riferisce? Si riferisce forse alle pseudo “comunità islamiche” che non sono altro che associazioni onlus? Si riferisce alla mitica e inesistente umma?
Sarebbe il caso di aprire finalmente gli occhi e comprendere che nell’islam non esiste un’autorità, che nessuno può rappresentare i musulmani, che ciascuno rappresenta solo se stesso. Sarebbe il caso di comprendere che non dobbiamo fare riferimento ai “musulmani europei”, cui tanto si rivolge Tariq Ramadan, bensì a tutti coloro che si sentono “europei musulmani”. Questi ultimi esistono e ribadisco non sono solo “intellettuali occidentalizzati”, ma persone che condividono i nostri valori e che come
Gamal Bouchaib, leader del movimento dei musulmani moderati in Italia, a proposito del burqa dicono a chiare lettere: “”Nonostante certi personaggi invochino il diritto alla libertà religiosa, scambiando quella che è un’usanza tribale e medievale per un precetto religioso, non siamo disposti a cedere a questo ricatto. Queste persone sono rimunerate dagli estremisti che comprano a suon di denaro il silenzio e la compiacenza. Il burqa rappresenta il simbolo più visibile di una strategia politica tesa a diffondere la visione integralista dell’islam. Se l’Europa non lo comprende subito, presto sarà troppo tardi”. Forse il cardinale Scola farebbe bene ad ascoltare queste persone, i veri musulmani e non i rappresentati di un inesistente “unico e vero” islam.

Ricerca sull’Italia religiosa: da cattolica a genericamente cristiana.

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Il futuro dell’Italia religiosa ha il profilo di un paese che da cattolico diviene genericamente cristiano. Un’indagine condotta da Paolo Segatti, docente di Sociologia politica presso l’Università di Milano, per la rivista Il Regno mostra che il processo di secolarizzazione in Italia non si è fermato, bensì ha prodotto un accentuato pluralismo nei modi di vivere il rapporto con la religione: i tratti che compongono l’identità religiosa degli italiani evidenziano una coerenza reciproca piuttosto debole, come debole risulta la loro capacità di orientare opinioni coerenti sul magistero e sui temi del dibattito pubblico. Paradossalmente, per quanto la Chiesa come istituzione occupi una posizione d’indubbio rilievo e goda di grande credibilità presso molti, tuttavia non mostra una netta capacità d’indirizzo sulle opinioni degli italiani sui temi che esulano dalle questioni strettamente spirituali. Nel volgere di una generazione, i cattolici in Italia cesseranno di essere una maggioranza.
P. Segatti, G. Brunelli,Ricerca de Il Regno sull’Italia religiosa: da cattolica a genericamente cristiana,Regno-att. n.10, 2010, p.337

I Satanisti. Storia, Riti e Miti del Satanismo.


Recensione di Luigi Berzano (Religioni e Società. Rivista di scienze sociali della religione, anno XXV, n. 67, maggio-agosto 2010, pp. 109-110)

Di satanismo e di satanisti tutti ne parlano, anche in quest’epoca post-secolare. I giornali, i tribunali, gli uomini di chiesa … tutti sanno, dichiarano, spiegano, ripudiano. Ma la tendenza colta è oggi totalmente antisatanista, negazionista, esorcista. Tutti ne parlano, ma per negarne la presenza. In più, non si trova nessuna simpatia per la letteratura quale quella di Bernanos, che tratta della presenza e delle azioni dei demoni invisibili e delle loro possessioni. E così pure per gli inferni pittorici di Bosch e i suoi affreschi saturi di demoni in libertà. Ancor meno attuali sono i capitoli della Vida di Teresa di Gesù e le sue minuziose descrizioni dei luoghi infernali. Insomma, è lontana la stessa filosofia di Aristotele che considerava demoniaca la Natura. La demonologia contemporanea è oggi la scienza che tratta della non esistenza del diavolo e, spesso, che non prende sul serio lo stesso oggetto delle sue ricerche.
Davvero, non si può dire che Massimo Introvigne non “prenda sul serio” il fenomeno del satanismo e che tratti del diavolo senza erudizione demonologica. Questa espressione “prendere sul serio” fa ricordare una delle ultime uscite in pubblico del filosofo Ernst Bloch. In una delle periodiche riunioni delle facoltà teologiche di Tubinga il relatore era stato Herbert Haag che presentava la sua opera di demonologia Abschied vom Teuftel (1969) (La credenza nel diavolo, Mondadori, 1976). Di fronte alle attenuazioni, demitizzazioni e secolarizzazioni che riducevano quasi a nulla la portata biblica e dogmatica sul diavolo, Bloch si sentì tradito nell’animazione profonda del suo filosofare, tanto che, spazientito, si alzò e uscì apostrofando l’oratore con queste parole: “Qui il demonio non è preso sul serio”.
Introvigne, direttore del CESNUR e tra gli studiosi più noti a livello internazionale sul tema del satanismo e, più in generale, dei nuovi movimenti religiosi, ritorna ora su un tema che aveva già affrontato in passato con altri due enciclopedici volumi: nel 1990 Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo (Milano, SugarCo, 1990) e nel 1994 Indagine sul satanismo. Satanisti e anti-satanisti dal Settecento ai giorni nostri (Milano, Mondadori, 1994).
Il nuovo volume si presenta molto documentato, con oltre un migliaio di note di approfondimento, una nota bibliografica finale e indici di nomi che danno conto di tutta la letteratura esistente. Il tutto si riferisce al fenomeno del satanismo che l’Autore individua con una definizione storico-sociologica particolarmente esclusiva. “Il satanismo può essere definito come l’adorazione o la venerazione, da parte di gruppi organizzati in forma di movimento, tramite pratiche ripetute di tipo cultuale o liturgico, del personaggio chiamato Satana o Diavolo nella Bibbia, sia questo inteso come una persona o un mero simbolo” (p. 13). Così definito il satanismo nasce solo con l’età moderna. Il volume di Introvigne ne ricostruisce la storia, i miti e i riti attraverso tre periodi storici successivi.
Il Seicento e il Settecento rappresentano le origini del satanismo moderno, allorché compaiono i primi rituali satanici collettivi. Il primo vero episodio di satanismo – alla corte di Luigi XIV – è parallelo alle prime autentiche inquietudini della modernità. Il satanismo classico si estende dal 1821 al 1952, da quando cioè il fenomeno si concretizza quale vero e proprio movimento sociale, seppur esiguo, fino alla scomparsa della figura carismatica e scandalosa di Jack Parsons (1883-1952) e alla fine del suo “culto dell’Anticristo” in California. Il terzo periodo è quello del satanismo contemporaneo, dopo il 1952. In questa fase il fenomeno si intreccia con una branca ‘nera’ della controcultura e produce forme quali quelle del satanismo di LaVey ufficialmente disapprovate, ma in realtà tollerate dalla cultura dominante.
È nella terza fase del satanismo contemporaneo che l’autore presenta una tipologia di sei satanismi stravaganti, ma di attualità: scismatico, comunista, incendiario, goliardo, ‘alla bolognese’, assassino. Dietro a ognuno di questi satanismi si ritrovano vicende ben note, quali i Satanic Reds, le ondate del black metal, le città di Satana, i Bambini di Satana, le Bestie di Satana.
Nella ricostruzione di queste tre fasi, Introvigne dimostra una conoscenza sorprendente dei dati oggettivi del fenomeno, delle sue fonti e dei modelli interpretativi che si sono susseguiti tra gli studiosi. Si tratta di un metodo che si potrebbe definire storico-sistematico: storico perché ricostruisce le forme che il satanismo ha assunto in contesti temporali e sociali diversi; sistematico perché per ogni fase l’autore individua teorie, modelli interpretativi e ricerche che possono rappresentare ancora oggi categorie euristiche ed interpretative utili per le attuali ricerche.
Nelle conclusioni ci si chiede se ci saranno ancora satanisti nel 2050 e se il satanismo finirà con l’epoca post-moderna o con la globalizzazione. L’Autore propende a formulare ipotesi secondo le quali in tutte le epoche di crisi, fino a quella finanziaria del 2008, riemergono miti e riti attorno a Satana. Ma l’impostazione scientifica dell’opera di Introvigne non prevedeva tale approfondimento. Siamo infatti qui al problema più difficile, quello dell’ermeneutica dei dati, cioè dell’interpretazione dei fatti storici dietro ai quali individuare le forme post-moderne dei miti e dei riti del satanismo.
Introvigne termina con una domanda che pare rappresentare l’inizio di una nuova ricerca di sociologia del diavolo. La stessa domanda che si poneva già Agostino nelle Confessioni: Quarebam unde malum, et non erat exitus. Si tratterebbe di una classica ricerca di sociologia della conoscenza sulle dottrine, i saperi e le mitologie attraverso le quali l’intera vita individuale e collettiva ha fatto i conti con il malum. Tale ricerca potrebbe anche inserire la teoria dei Vangeli cristiani sulla radicale tolleranza del male. Si tratta della teoria già contenuta nella tradizione orale ebraica, che un antico midrash illustra così. Un rabbino incontra un demonio e lo rimprovera di tutte le sue azioni cattive, fino a che il demonio si rattrista e chiede che gli siano date delle regole. Il rabbino gli consente di proseguire le sue cattive azioni, ma solo due volte alla settimana, il martedì e il giovedì, e solo dalla sera all’alba.
L’uomo che vuole salvarsi dagli artigli demoniaci, sa quando deve restare a casa. È il fatalismo temperato ebraico e dei Vangeli sulla presenza del male. È pure la misura greca del “niente di troppo”.

Massimo Introvigne, I satanisti. Storia, riti e miti del satanismo, Sugarco, Milano 2010