- Massimo Naro
(Docente di Teologia Dogmatica presso al Facoltà Teologica di Sicilia e Direttore del Centro Studi “A.Cammarata” di San Cataldo).
“Dovresti piangere, perché il minareto delle nostre moschee scrive sopra le città il nome di Allah, il campanile delle chiese scrive quello di Cristo”:così Jean Marie Roger Tillard, teologo domenicano morte qualche anno fa, si sentì apostrofare da un suo amico musulmano il giorno in cui insieme assistettero alla demolizione del campanile di un convento ceduto ad un’impresa edile dai frati ormai troppo anziani e sparuti per potersene prendere cura. Tillard, a partire da quel fatto, rifletteva poi sul dibattito che divide ancor oggi chi auspica la tenuta del cristianesimo ecclesiale quello “confessionalmente” credente – e chi invece s’accontenta dell’importanza, implicitamente ed esclusivamente culturale, del cristianesimo. Questo non avrebbe più bisogno delle espressioni visibili della fede ricevuta dalle generazioni passate da trasmettere a quelle future dato che i suoi valori etici – il rispetto per la dignità di tutti, l’impegno per la giustizia e per il bene comune, la solidarietà verso i deboli – sarebbero ormai stati assimilati dal sentire diffuso della gente che vive in terre di antica cristianizzazione come la nostra Europa, causandone l’irreversibile evoluzione morale.
Continuare a faticare per trasmettere la fede cristiana di generazione in generazione, oggi, sarebbe dunque tempo sprecato, perché il fine intrinseco al sorgere del cristianesimo stesso sarebbe stato già raggiunto: la totale umanizzazione del Dio incarnatosi in Gesù, vale a dire l’assimilazione dell’idea suprema del bene all’interno della coscienza degli uomini dei nostro tempo.
Le recenti notizie elvetiche sui minareti vietati curiosamente concomitanti con quelle che in Italia promettono la svendita dei siti chiesastici chiusi al culto, fanne sospettare che, in realtà, scomparendo i segni visibili della fede cristiana si affievoliscono rapidamente, nella coscienza della gente, anche le sue tracce più profonde. E fanne perciò sentire il bisogno di rivitalizzare la dinamica delta trasmissione della fede, che storicamente ha avuto una sua sintassi comunicativa ben precisa.
Emile Poulat ha individuato le forme più emblematiche di tale sintassi: la dottrina certamente, ma anche e soprattutto la testimonianza e il simbolo,
La fede cristiana, infatti, non è arrivata a noi solamente nelle formule del dogma e attraverso la tematizzazione teologica degli interrogativi sull’identità di Cristo e del Dio da lui predicato. La fede cristiana è giunta sino a noi innanzitutto in forza delta testimonianza di coloro che hanno sperimentato l’incontro con Cristo e hanno appreso da lui a ricomprendere e a rivivere il loro rapporto con Dio. All’inizio si trattò della testimonianza dei primi compagni di viaggio del Maestro dì Nazareth, dei pescatori di Galilea, e della testimonianza di coloro che accettarono di essere compagni di viaggio del Risorto di due anonimi discepoli lungo la via dì Emmaus, di Paolo lungo la via di Damasco, Poi è venuta la testimonianza di quelli che come Paolo hanno potuto affermate: “non io, ma Cristo in me”; è la testimonianza dei santi, che trasmette, in una sorta di vivificante “contagio”come ha scritto Yyves Congar, il nucleo principiale del credente cristiano cioè la disponibilità a riconoscersi in Cristo come uomini che ne condividono il rapporto con Dio ch’egli chiamava Padre suo. La fede cristiana,inoltre,è giunta sino a noi grazie alla forza dei simboli,cioè delle celebrazioni e della raffigurazioni capaci di dire la contemporaneità di Cristo ad ogni generazione di credenti. Si tratta dei segni liturgici che permettono di ricevere continuamente ciò che i primi discepoli ebbero in dono e trasmisero cioè l’annuncio evangelico della Pasqua, “in memoria” di Cristo, come accade nella celebrazione eucaristica sin dal tempo di Paolo.
Ma si tratta anche di ciò che fa da contesto all’azione liturgica.
Le opere d’arte cristiana, per esempio. specialmente quelle destinate a costituire, oltre che ad adornare, i luoghi in cui si celebra la liturgia sono sempre state come delle traduzioni figurali del messaggio biblico proclamato all’interno della liturgia stessa, leggere il racconto genesiaco della creazione del mondo e dell’uomo o rievocare le vicende dei patriarchi d’Israele narrare i miracoli compiuti da Gesù e proclamare la memoria evangelica della sua Pasqua in una chiesa come la cattedrale di Monreale,i cui interni sono ricoperti da mosaici che illustrano le pagine della Scrittore sacra, significa partecipare di una formidabile riscrittura del messaggio biblico-cristiano che interpella il fedele e accanto a lui ormai anche il turista, mentre essi se ne stanno lì ad ascoltare ma pure a guardare l’annuncio evangelico.
Oggi, pero, i canali catechistici – che traducono in termini culturali correnti il profilo dottrinale della fede cristiana – sembrano non essere più né efficienti né efficaci. E anche i registri simbolici – liturgici ed artistici – sembrano non avere più la loro antica capacità comunicativa, mentre l’indole testimoniale del cristianesimo rimane spesso sotto traccia, sepolta tra le polemiche attorno alla sua (ir)rilevanza pubblica. L’appello conciliare al rinnovamento talvolta è stato disatteso e talvolta persino frainteso e ha portato a scelte pratiche nella liturgia, nella catechesi, nella pastorale – arbitrarie rispetto a quelle decise dal Vaticano II – che non sempre risultano congeniali alla trasmissione della fede.
Per superare questa “impasse” non basta tentare il ritorno al passato. La trasmissione della fede non consiste nel restaurare il passato dottrinale, simbolico e spirituale del cristianesimo, ma nell’ attualizzarlo. La tradizione ecclesiale stessa non è una specie di archivio o di museo della Chiesa. Prima e più che uno scrigno contenente bellezze e simboli antichi, essa e’ un’azione vitale, tramite cui si realizza il rapporto fra le generazioni dei credenti. Essa è l’atto stesso del trasmettersi credente da una generazione all’ altra. Ciò avviene veramente se la generazione che riceve il messaggio cristiano lo fa radicalmente proprio, apprendendolo di nuovo senza limitarsi a replicare la comprensione che ne ebbe la generazione precedente ma reinterpretandolo profondamente. C’è, nella tradizione ecclesiale, un sottofondo di continuità: è il vangelo di Cristo ad essere di volta in volta ricevuto e trasmesso: è lo Spirito che pervade quell’unico vangelo a prolungare la sua eco lungo i secoli. Ma c’è anche l’irrompere della discontinuità: quel vangelo eterno dev’essere ascoltato con le orecchie dell’epoca in cui esso va risuonando. Questa irrinunciabile novità è la conversione cui tutte le generazioni cristiane sono chiamate, quell’intimo cambiamento spirituale che porta i credenti a immedesimarsi nel Cristo narrato dai vangeli, finendo per iò per incarnare a loro volta l’avventura e diventando altrettanti “evangeli”. La fede è veramente tale se creduta, cioè se è vissuta in personale responsabilità: all’oggettività della fede deve corrispondere la soggettività del credente, Cristiani non si nasce ma si diventa affermava già nel III secolo Tertulliano.
In questo senso la trasmissione della fede è un permanente concepimento, una gestazione, un dare alla luce, un allevare le nuove generazioni di credenti. La Chiesa – con le sue guide pastorali, con i suoi fedeli, con le sue varie articolazioni – e per questo come una famiglia, il cui compito più necessario è quello di curare, in modi adeguati alle cangianti situazioni, l’educazione alla Fede, Da questa dipende non soltanto la corretta ed efficace trasmissione della lede alle nuove generazioni, ma anche lo stimolo a maturare una qualità alta della vita credente, E un compito performativo: illustrare ai nostri giovani il mistero ecclesiale e testimoniare loro il vangelo in maniera tale che essi possano entrarvi e possano viverlo Oggi più che mai dobbiamo sentite la responsabilità di diventate maestri capaci d’essere ancor prima e ancor più testimoni di ciò che insegniamo.
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