Quasi sottotraccia….



Di

    Massimo Naro

(Docente di Teologia Dogmatica presso al Facoltà Teologica di Sicilia e Direttore del Centro Studi “A.Cammarata” di San Cataldo).
Dovresti piangere, perché il minareto delle nostre moschee scrive sopra le città il nome di Allah, il campanile delle chiese scrive quello di Cristo”:così Jean Marie Roger Tillard, teologo domenicano morte qualche anno fa, si sentì apostrofare da un suo amico musulmano il giorno in cui insieme assistettero alla demolizione del campanile di un convento ceduto ad un’impresa edile dai frati ormai troppo anziani e sparuti per potersene prendere cura. Tillard, a partire da quel fatto, rifletteva poi sul dibattito che divide ancor oggi chi auspica la tenuta del cristianesimo ecclesiale quello “confessionalmente” credente – e chi invece s’accontenta dell’importanza, implicitamente ed esclusivamente culturale, del cristianesimo. Questo non avrebbe più bisogno delle espressioni visibili della fede ricevuta dalle generazioni passate da trasmettere a quelle future dato che i suoi valori etici – il rispetto per la dignità di tutti, l’impegno per la giustizia e per il bene comune, la solidarietà verso i deboli – sarebbero ormai stati assimilati dal sentire diffuso della gente che vive in terre di antica cristianizzazione come la nostra Europa, causandone l’irreversibile evoluzione morale.
Continuare a faticare per trasmettere la fede cristiana di generazione in generazione, oggi, sarebbe dunque tempo sprecato, perché il fine intrinseco al sorgere del cristianesimo stesso sarebbe stato già raggiunto: la totale umanizzazione del Dio incarnatosi in Gesù, vale a dire l’assimilazione dell’idea suprema del bene all’interno della coscienza degli uomini dei nostro tempo.
Le recenti notizie elvetiche sui minareti vietati curiosamente concomitanti con quelle che in Italia promettono la svendita dei siti chiesastici chiusi al culto, fanne sospettare che, in realtà, scomparendo i segni visibili della fede cristiana si affievoliscono rapidamente, nella coscienza della gente, anche le sue tracce più profonde. E fanne perciò sentire il bisogno di rivitalizzare la dinamica delta trasmissione della fede, che storicamente ha avuto una sua sintassi comunicativa ben precisa.
Emile Poulat ha individuato le forme più emblematiche di tale sintassi: la dottrina certamente, ma anche e soprattutto la testimonianza e il simbolo,
La fede cristiana, infatti, non è arrivata a noi solamente nelle formule del dogma e attraverso la tematizzazione teologica degli interrogativi sull’identità di Cristo e del Dio da lui predicato. La fede cristiana è giunta sino a noi innanzitutto in forza delta testimonianza di coloro che hanno sperimentato l’incontro con Cristo e hanno appreso da lui a ricomprendere e a rivivere il loro rapporto con Dio. All’inizio si trattò della testimonianza dei primi compagni di viaggio del Maestro dì Nazareth, dei pescatori di Galilea, e della testimonianza di coloro che accettarono di essere compagni di viaggio del Risorto di due anonimi discepoli lungo la via dì Emmaus, di Paolo lungo la via di Damasco, Poi è venuta la testimonianza di quelli che come Paolo hanno potuto affermate: “non io, ma Cristo in me”; è la testimonianza dei santi, che trasmette, in una sorta di vivificante “contagio”come ha scritto Yyves Congar, il nucleo principiale del credente cristiano cioè la disponibilità a riconoscersi in Cristo come uomini che ne condividono il rapporto con Dio ch’egli chiamava Padre suo. La fede cristiana,inoltre,è giunta sino a noi grazie alla forza dei simboli,cioè delle celebrazioni e della raffigurazioni capaci di dire la contemporaneità di Cristo ad ogni generazione di credenti. Si tratta dei segni liturgici che permettono di ricevere continuamente ciò che i primi discepoli ebbero in dono e trasmisero cioè l’annuncio evangelico della Pasqua, “in memoria” di Cristo, come accade nella celebrazione eucaristica sin dal tempo di Paolo.
Ma si tratta anche di ciò che fa da contesto all’azione liturgica.
Le opere d’arte cristiana, per esempio. specialmente quelle destinate a costituire, oltre che ad adornare, i luoghi in cui si celebra la liturgia sono sempre state come delle traduzioni figurali del messaggio biblico proclamato all’interno della liturgia stessa, leggere il racconto genesiaco della creazione del mondo e dell’uomo o rievocare le vicende dei patriarchi d’Israele narrare i miracoli compiuti da Gesù e proclamare la memoria evangelica della sua Pasqua in una chiesa come la cattedrale di Monreale,i cui interni sono ricoperti da mosaici che illustrano le pagine della Scrittore sacra, significa partecipare di una formidabile riscrittura del messaggio biblico-cristiano che interpella il fedele e accanto a lui ormai anche il turista, mentre essi se ne stanno lì ad ascoltare ma pure a guardare l’annuncio evangelico.
Oggi, pero, i canali catechistici – che traducono in termini culturali correnti il profilo dottrinale della fede cristiana – sembrano non essere più né efficienti né efficaci. E anche i registri simbolici – liturgici ed artistici – sembrano non avere più la loro antica capacità comunicativa, mentre l’indole testimoniale del cristianesimo rimane spesso sotto traccia, sepolta tra le polemiche attorno alla sua (ir)rilevanza pubblica. L’appello conciliare al rinnovamento talvolta è stato disatteso e talvolta persino frainteso e ha portato a scelte pratiche nella liturgia, nella catechesi, nella pastorale – arbitrarie rispetto a quelle decise dal Vaticano II – che non sempre risultano congeniali alla trasmissione della fede.
Per superare questa “impasse” non basta tentare il ritorno al passato. La trasmissione della fede non consiste nel restaurare il passato dottrinale, simbolico e spirituale del cristianesimo, ma nell’ attualizzarlo. La tradizione ecclesiale stessa non è una specie di archivio o di museo della Chiesa. Prima e più che uno scrigno contenente bellezze e simboli antichi, essa e’ un’azione vitale, tramite cui si realizza il rapporto fra le generazioni dei credenti. Essa è l’atto stesso del trasmettersi credente da una generazione all’ altra. Ciò avviene veramente se la generazione che riceve il messaggio cristiano lo fa radicalmente proprio, apprendendolo di nuovo senza limitarsi a replicare la comprensione che ne ebbe la generazione precedente ma reinterpretandolo profondamente. C’è, nella tradizione ecclesiale, un sottofondo di continuità: è il vangelo di Cristo ad essere di volta in volta ricevuto e trasmesso: è lo Spirito che pervade quell’unico vangelo a prolungare la sua eco lungo i secoli. Ma c’è anche l’irrompere della discontinuità: quel vangelo eterno dev’essere ascoltato con le orecchie dell’epoca in cui esso va risuonando. Questa irrinunciabile novità è la conversione cui tutte le generazioni cristiane sono chiamate, quell’intimo cambiamento spirituale che porta i credenti a immedesimarsi nel Cristo narrato dai vangeli, finendo per iò per incarnare a loro volta l’avventura e diventando altrettanti “evangeli”. La fede è veramente tale se creduta, cioè se è vissuta in personale responsabilità: all’oggettività della fede deve corrispondere la soggettività del credente, Cristiani non si nasce ma si diventa affermava già nel III secolo Tertulliano.
In questo senso la trasmissione della fede è un permanente concepimento, una gestazione, un dare alla luce, un allevare le nuove generazioni di credenti. La Chiesa – con le sue guide pastorali, con i suoi fedeli, con le sue varie articolazioni – e per questo come una famiglia, il cui compito più necessario è quello di curare, in modi adeguati alle cangianti situazioni, l’educazione alla Fede, Da questa dipende non soltanto la corretta ed efficace trasmissione della lede alle nuove generazioni, ma anche lo stimolo a maturare una qualità alta della vita credente, E un compito performativo: illustrare ai nostri giovani il mistero ecclesiale e testimoniare loro il vangelo in maniera tale che essi possano entrarvi e possano viverlo Oggi più che mai dobbiamo sentite la responsabilità di diventate maestri capaci d’essere ancor prima e ancor più testimoni di ciò che insegniamo.

Prego Dio che mi liberi da Dio…..

    VANNINI MARCO
    L’assenza apparente di Dio in questo mondo è la realtà di Dio.
    Il contatto con le creature ci è dato tramite il senso della presenza.
    Il contatto con Dio ci è dato tramite quello dell’assenza.
    In confronto a questa assenza,la presenza diviene più assente dell’assenza.

(Simone Weil)

Il dibattito tra credenti e non credenti è sempre più vivo, specialmente in questi ultimi anni.
Marco Vannini esce nelle librerie con un nuovo libro che si aggiunge a questo eterno dibattito “Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna”.
La quarta di copertina:“Il dibattito tra credenti e non credenti, atei e cristiani, laici e laicisti infiamma tutti i settori della società.
Eppure esso si svolge per lo più a un livello di superficie, tanto che si ha l’impressione che i ruoli si confondano: che i veri credenti siano gli atei, che i laici portino avanti ragioni che i chierici dimenticano e che le motivazioni dei laicisti combacino, per una strana alchimia, con quelle dei cattolici più ortodossi.
Questi paradossi, come mostra Marco Vannini in questa riflessione, hanno radici profonde e non sono per nulla casuali: consistono nella dimenticanza di una serie di categorie che hanno attraversato la tradizione più alta dell’occidente, a partire dalla filosofia greca, attraverso i mistici e i filosofi della modernità, sino a personalità come Simone Weil.
Che Dio sia Spirito; che la religione sia essenzialmente un rapporto nello Spirito in cui Dio e uomo si muovono l’uno verso l’altro, l’uno nell’altro; che la vera religione sia uno spogliarsi della propria volontà, liberarsi dalla costrizione delle cose del mondo per entrare in una dimensione di libertà, di grazia.
Questi concetti si sono via via eclissati a favore di rappresentazioni più comode di Dio e della religione, spesso ridotta a una dottrina morale, a una serie di precetti fisici, adirittura sessuali.
E di questo oblio colpevoli non sono tanto i laici o gli atei ma, piuttosto, chi di questa tradizione doveva farsi depositario e custode: la Chiesa”.
E per questo,a volte,i veri atei,facendo piazza pulita dei falsi concetti della religione,sono più vicini allo Spirito di quanto non lo siano i falsi credenti. In questo viaggio controcorrente,Marco Vannini riallaccia i nodi più profondi di una millenaria tradizione e riaccende fuochi che sembravano sopiti nella banalità delle discussioni odierne,formulando una proposta per credenti e non credenti di certo inattuale ma proprio per questo essenziale.

Se il mistico cristiano non ama gli ebrei
di Vito Mancuso
Ciò che più colpisce nell’ultimo libro di Marco Vannini è la violenza. Convinto che «ai nostri giorni la religione sia tornata a essere oggetto di grande interesse», in Prego Dio che mi liberi da Dio (Bompiani) l’insigne studioso della mistica occidentale intende separare all’interno della religione la verità dalla menzogna, e lo fa sostenendo che il cristianesimo è frutto di due componenti, una buona che è quella greca e più precisamente platonica, e una cattiva che è quella ebraica. Infatti mentre «il platonismo dà il regno di Dio, ossia verità e giustizia», «la mitologia biblica dà un Dio esteriore, creatore e signore – un Dio speculare a un’idolatria del corpo, del sangue, della razza», da cui occorre liberarsi per giungere a «un cristianesimo purificato dall’eredità di Israele». Con tale obiettivo Vannini attacca duramente la teologia, la Bibbia e ogni dimensione istituzionale: «teologie, cerimonie, sinagoghe, chiese, con le loro implicite ma non troppo implicazioni razziste di popolo eletto, comunità di santi ecc., fonte continua di discriminazione e di odio». Spesso lo fa con un livore che contrasta con quel “distacco” da lui posto al cuore dell’esperienza mistica, come quando dice che la teologia «è menzogna e peccato, anzi qualcosa di animalesco», un «prodotto della gula spiritualis con una finalità appropriativa, goditiva, golosa». Il discorso raggiunge toni da invettiva soprattutto contro la Bibbia ebraica, per Vannini «serie di falsità create per un’ideologia razziale». Vi sono persino parole che non dovrebbero essere più scritte dopo la Shoah, come quelle secondo cui «gli ebrei, dopo aver fatto uccidere Gesù, perseguitarono sin dall’inizio i suoi seguaci»; oppure quelle secondo cui «figli del demonio, che è padre della menzogna, sono chiamati i giudei da Gesù». In realtà basta leggere i vangeli con attenzione per vedere che Gesù non ha mai definito gli ebrei in quanto tali “figli del demonio”, perché il testo precisa che si rivolgeva così a quegli ebrei «che avevano creduto in lui» (Gv 8,31), non al popolo ebraico in quanto tale. Né è lecito dire che furono “gli ebrei” a uccidere Gesù, perché è noto che fu l’aristocrazia sacerdotale del tempio, del partito collaborazionista dei sadducei, a consegnare Gesù al potere romano, che poi giustiziò Gesù in quanto minaccia allo status quo. A uccidere Gesù non furono “gli ebrei”, ma il potere religioso e il potere politico uniti in comuni interessi (come spesso accade nella storia). Ma come si fa, ancora oggi, a far ricadere la responsabilità della morte di Gesù su un intero popolo dicendo che “gli ebrei” fecero uccidere Gesù? E sarebbe questo il cristianesimo purificato? In realtà ripetere questi stereotipi, i medesimi dell’antigiudaismo religioso alla base dell’antisemitismo etnico che ha prodotto Auschwitz, è (come minimo) un errore, significa ignorare del tutto i risultati della più accreditata storiografia ed esegesi storico-critica. Ma è tutta l’impostazione di Vannini a lasciare perplessi, non solo il suo sinistro antigiudaismo. Parlare di teologia, di Bibbia, di Chiesa al singolare, è sbagliato. Vi sono diverse teologie, diversi aspetti delle chiese, diversi libri biblici. E che tra queste variegate realtà ve ne siano di negative è vero, verissimo, e occorre criticarle, guai a non farlo. Ma non esercitare la sapienza della distinzione facendo di ogni erba un fascio, significa venir meno al principale compito del pensiero, significa non consegnare alla società ciò che solo il pensiero può darle, cioè la decantazione delle passioni e la luce calma dell’intelligenza. Dire che la teologia in quanto tale è «negazione della religione vera» significa ignorare la storia della teologia del ‘900, nella quale vi sono stati uomini di una grandezza spirituale unica, non inferiori ai maestri medievali cari a Vannini, si pensi a Florenskij, Bonhoeffer, Teilhard de Chardin, teologi che hanno pagato con la vita (martirio rosso e martirio verde) la loro dedizione alla ricerca e al bene del mondo. Come si fa, dimenticandoli, a parlare della teologia nei modi spregiativi e sommari di Vannini? Ma la vera radice del suo errore consiste, a mio avviso, nel concetto di spirito. Spirito per Vannini è correttamente inteso solo come opposizione ad anima, sorge solo come “distacco”, come “rimozione di tutti i contenuti-legami psichici”, come “morte dell’anima”: perché un uomo possa vivere l’esperienza dello spirito, deve morire nella sua individualità psichica. In questa opposizione tra spirito e anima, e tra anima e corpo, rivive la tradizione dell’agostinismo radicale col suo disprezzo del mondo, in particolare della natura umana. Così Vannini: «La natura umana è la fonte da cui derivano tutti i mali dell’uomo, per cui chi si fonda esclusivamente sull’umano non può essere altro che malvagio»; e ancora, l’uomo deve sapere che «tutto quello che procede da se stesso, dalla volontà propria, è menzogna e procede dal demonio». In fondo per lui la vera menzogna, ben oltre teologia chiesa ebraismo, è la natura umana. Attualizzando il gelido pessimismo antropologico del tardo Agostino che faceva dell’umanità una “massa dannata” e collocava tutti i non battezzati all’inferno, Vannini sostiene mediante il concetto di “distacco” che si entra nell’esperienza dello spirito solo negando la natura umana. Se il cristianesimo fosse davvero così, Nietzsche avrebbe ragione a definirlo odio verso la salute, la forza, la bellezza dell’esistenza naturale. E che vi siano elementi in tal senso è vero, l’agostinismo radicale lo mostra. Ma per Gesù l’anima non deve morire, ma deve essere salvata, custodita, coltivata; e tutto ciò va fatto in amore con il mondo e con ogni frammento di essere, non nel distacco ma nella comunione (unione-con), con la gioia della fratellanza verso ogni forma di vita, perché, come insegna la Bibbia ebraica, viviamo all’interno di «un’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne» (Genesi 9,16).
in “la Repubblica” del 19 gennaio 2010

Replica
“Io, la religione e la lettura biblica”
di Marco Vannini

Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo. È un’accusa che respingo fermamente,chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael). Tale accusa si fonda
infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità. Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia
definita come “animalesca”: non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è
presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile
discorso. È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di
riferimento fondamentale del libro – e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di “sinistro antigiudaismo”?
Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di “ebrei”,senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga
precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico,alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso. È comunque
evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra
Gesù e il Padre – bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni. Che la storia biblica sia costruita su falsità – invenzione i Patriarchi, invenzione
l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc. – e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid. p. 391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare
sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa. Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna,accanto a religione come verità. Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendical’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire teologie/mitologie, ma cercare di “farsi simili a Dio” nella giustizia. Significa conoscenza della malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una
conversione, di una “morte dell’anima”, ossia di un radicale distacco dall’egoità. Significa, in conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima – ed è
su questo che il cristianesimo si è fondato – e che la mistica – unica vera erede della filosofia greca– ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo “gelido pessimismo”, come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi
come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi. Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
in “la Repubblica” del 26 gennaio 2010

VANNINI MARCO, Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna, Bompiani, Milano, 2010, pp.192, € 16.00

Creazionismo ed evoluzionismo…..

  • Di Federico Lenchi
  • Parte I
    La teoria dell’evoluzione, fin dal suo primo apparire, sembrava favorire l’ateismo e il materialismo, in quanto sembrava negare quanto afferma la Bibbia in merito alla creazione degli esseri viventi, e sull’origine dell’uomo creato direttamente da Dio e dotato di anima spirituale. Negazione resa evidente dal farlo derivare dalla scimmia, ed escludendo ogni intervento divino nel passaggio della materia non vivente alla vita e dagli esseri non intelligenti all’uomo.
    R.Dawkins considerava gli organismi viventi come il mezzo inventato dai geni per riprodursi, che definiva il “carattere egoista” di questi ultimi.
    Monod concludeva il suo saggio” Il caso e la necessità” con queste parole: “ L’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo
    J. Monod, Il caso e la necessità, Mondatori 1972, 172.

    La fede cristiana, afferma al contrario,che tutto ciò che esiste, sia essa materia che spirito,è creato liberamente e per amore da Dio ed è da lui condotto e guidato secondo un disegno fino al suo completo compimento.
    DA QUANTO HO DETTO RISULTA CHE TUTTO, ANCHE IL PROCESSO EVOLUTIVO, SI SVOLGE SECONDO LA DIPENDENZA DA DIO ED E’ SOTTO LA SUA PATERNA PROVVIDENZA.
    Ma cos’è la Creazione? Per il cristiano è innanzi tutto un mistero da credere:” Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra(…).
    La creazione quindi appartiene unicamente a Dio al punto che la Bibbia inizia con “ In principio Dio creò il cielo e la terra(Gn1,1) dove il verbo usato per “creò” è bara^, il cui soggetto è esclusivamente Dio per indicare che è proprio Lui che ha creato e a cui spetta la creazione.
    CIELO E TERRA nel linguaggio ebraico indica la totalità, tutto ciò che esiste.
    IN PRINCIPIO significa che tutto quello che esiste ha avuto un principio ma non nel senso che Dio ha creato il mondo nel tempo ma in quello che CON IL MONDO DIO HA CREATO ANCHE IL TEMPO.
    DIO quindi non ha creato il mondo nel tempo ma , col mondo, Dio ha creato il tempo come elemento costitutivo del suo divenire ovvero il mondo non è eterno ma ha avuto un inizio temporale.
    CREO’ ( E Dio disse…Gn1) significa che Dio crea con la sua Sapienza ovvero che Dio non fabbrica facendo passare il mondo dal non essere o dal nulla, all’esistenza. La creazione che Dio opera non rientra nella categoria dell’azione ma in quella della RELAZIONE. Questo significa che nella creazione si deve intendere non una “operazione” di Dio ma la dipendenza, che l’essere creato ha con il principio che lo fonda.
    Le creature dipendono da Lui ma Lui non dipende dalle creature. E la creazione non causa in Dio nessun mutamento per cui Dio non passa DAL NON ESSERE CREATORE ALL’ESSERE CREATORE.
    Quindi Dio decide di dare l’ESSERE alle creature che vengono a trovarsi in una situazione di assoluta dipendenza ma tutto questo avviene SENZA CHE EGLI AGISCA.
    Egli, ripeto, non opera e non operando non passa dal non essere creatore all’essere creatore, Egli è immutabile.
    Le creature dipendono da Lui ma Lui non dipende da esse.
    Le creature iniziano ad esistere senza che ci sia alcun essere su cui Dio abbia agito per dare l’essere alle creature.
    In altri termini questa è la creazione dal nulla (creatio ex nihilo).

    Ma bisogna subito comprendere che “creazione dal nulla” non significa che per creare il mondo Dio sia partito dal nulla , come se il nulla fosse qualcosa di diverso da Dio e dalle cose create.
    Infatti il “nulla” non è che nulla e non può servire da punto di partenza per nessuna operazione. Un momento in cui non ci fosse nulla è un assoluto non senso infatti affinché ci sia un momento è necessario che ci sia già qualche cosa. Un momento è una porzione del tempo e il tempo è un attributo delle cose esistenti. Noi non riusciamo a rappresentare nulla fuori dalle forme del tempo, per cui quando cerchiamo di rappresentare il non essere preesistente al mondo, noi lo collochiamo nel tempo, e in tal modo costituiamo un tempo vuoto, pronto a ricevere in un dato momento il mondo e la sua durata. Ma questo non ha alcun senso.

    La creazione quindi non parte dal nulla per giungere all’essere. Non c’è prima il nulla e poi l’essere. Il mondo non è creato in un dato momento prima del quale solo Dio esisteva e che quindi l’atto creatore sia avvenuto in un dato momento, quando Dio ha deciso di far esistere il mondo perché in tal modo la creazione sarebbe un divenire e il divenire presuppone che ci sia un tempo, quello prima e quello dopo. Ma il tempo è la misura delle cose e come tale creato con esse.

    Questa lunga premessa per capire meglio quello che cercherò di spiegare successivamente ovvero come in Teologia si possa conciliare la Creazione con l’ Evoluzione.
    Parte II
    CREAZIONE ED EVOLUZIONE
    Riepilogando quanto fin qui detto vediamo come:
    1) Dio non crea dal nulla, per cui il mondo non passa dal nulla all’esistere;
    2) Dio non crea in un tempo vuoto e in uno spazio vuoto, ma con il mondo crea il tempo e lo spazio;
    3) Dio però non crea e non opera perché se così fosse non sarebbe immutabile, dato che in tal caso passerebbe dal non essere creatore all’essere creatore, per cui dobbiamo ritenere che
    4) Quello che noi intendiamo come CREAZIONE da parte di Dio è la “RELAZIONE DI DIPENDENZA ” voluta liberamente da Lui che pone la creatura nei suoi riguardi.
    5) Ovvero, l’ESSERE CREATO diviene dipendente in rapporto al principio che lo fonda.
    Capisco la difficoltà che vi può essere per chi, come me del resto, non possiede adeguati strumenti di filosofia.
    Questa premessa è però fondamentale per capire quello che ora andrò ad esporre e che più da vicino riguarda il problema che il Prof. Caputo ha sollevato.
    Le conclusioni che presenterò sono l’espressione dei lavori della COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE.
    Dio, liberamente e per amore ha voluto che il mondo esistesse.
    Il mondo esiste esattamente come Dio l’ha voluto, governato dalle leggi che liberamente gli ha dato ed è continuamente sorretto dalla sua forza creatrice.
    Per tale ragione il mondo non è abbandonato a sé stesso, ma continuamente sostenuto nel suo essere e nel suo agire dalla provvidenza e dall’ amore di Dio.
    Ma Dio non si sostituisce alle cause naturali, lascia cioè agire le leggi e le cause naturali che gli ha dato e che lo governano.
    In altri termini: DIO NON SI SOSTITUISCE ALL’ATTIVITA’ CHE LUI MEDESIMO HA CONFERITO ALLE CAUSE CREATURALI, MA PERMETTE CHE QUESTE POSSANO AGIRE SECONDO LA LORO NATURA PER CONSEGUIRE PERO QUELLE FINALITA’ ’ CHE LUI HA STABILITO E VOLUTE.
    In virtù dell’attività che le cause naturali hanno,si sono verificate quelle condizioni biologiche necessarie alla comparsa degli organismi viventi, nonché alla loro riproduzione e DIFFERENZIAZIONE.
    Dio ha quindi voluto che ci fosse un MONDO IN EVOLUZIONE in modo che sotto l’azione delle cause naturali ci fosse il passaggio dal meno al più, dalla materia non vivente alla vita, inizialmente semplice, unicellulare e poi via via sempre più complessa, fino ad arrivare all’uomo, massima espressione dell’evoluzione.
    Risulta evidente che le cause naturali avendo una natura imperfetta e contingente hanno realizzato un processo evolutivo in cui hanno potuto trovare posto la CASUALITA’ e L’ ALEATORIETA’ ovvero mutazioni genetiche disastrose o afinalistiche e anche eventi catastrofici in cui hanno trovato l’estinzione specie vegetali ed animali come appunto i DINOSAURI.
    Sintetizzando possiamo affermare con estrema certezza che non vi è opposizione tra CREAZIONE ed EVOLUZIONE dato che nel processo evolutivo trovano posto tanto il CASO che la FINALITA’ e nell’EVOLUZIONE tanto la FINALITA’ che il CASO.

    L’opposizione e l’inconciliabilità vi è invece tra il “Creazionismo fissista” secondo cui Dio ha creato ab origine tutte le specie quali le vediamo oggi, e “l’Evoluzionismo ateo”, secondo cui il mondo si è evoluto esclusivamente secondo il caso e non con una finalità superiore.
    Dawkins scrive : “…Essa (l’esistenza) non ha una mente né alcuna forma di coscienza. Non progetta il futuro. Non vede, non ha alcuna forma di pre-veggenza. Se si può dire che essa svolga il ruolo di orologiaio in natura, è l’orologiaio cieco. (L’orologiaio cieco, Milano, Rizzoli, 1988).
    Parte III
    L’uomo, come il fine del processo evolutivo.
    Abbiamo fin qui visto come per la concezione cattolica, la contingenza dell’ordine creato, non è incompatibile con un disegno divino , indirizzato, pur nella possibilità di elementi di casualità, ad una finalità, di cui l’uomo, come vedremo, rappresenta la massima espressione, mentre per l’evoluzionismo ateo il processo evolutivo è cieco, privo di guida.
    Ma la scienza e quindi lo scienziato non può né negare né affermare che vi sia una causalità divina.
    Può solo constatare che, nonostante mutazioni genetiche a volte dannose e nonostante eventi distruttivi l’evoluzione sia indirizzata verso forme viventi sempre più evolute e complesse avvalorando in questo modo la realtà di una finalità ed di un disegno intelligente.
    Per la teologia cattolica il fine perseguito da Dio nella creazione è l’uomo, in quanto è l’unico in grado di auto-trascendersi e auto-superarsi, ovvero di essere intelligente e libero.
    L’uomo infatti in quanto costituito da una parte materiale e come tutti gli esseri materiali costretto a discendere per evoluzione da un altro essere materiale, dall’altra è anche parte spirituale il che gli permette di trascendere la materia e di essere appunto, intelligente e libero.
    E’ solo l’uomo che nella sua realtà materiale riassume tutta la sua sapienza, bellezza, perfezione dell’universo e con la sua intelligenza ne scopre la ricchezza e perfezione, la mette a vantaggio degli altri esseri, con le sue scoperte, invenzioni tecnologiche, produzioni artistiche e ne rende gloria al Dio creatore.
    Non importa che egli sia un puntino che abita in un puntino periferico dell’universo perché lo spirito trascende la materia, la pensa, la valuta, la modifica e le fa compiere con la cultura, l’arte, la scienza e la tecnica, quello che essa non sarebbe, se lasciata a sé stessa, mai capace di compiere.
    La grandezza dell’Universo è insignificante davanti alla grandezza dello spirito umano.
    Un pensiero di Pascal esprime magnificamente questo concetto:” L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo si armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta ad ucciderlo. Ma anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancora più nobile di chi l’uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’Universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente” (B. Pascal, Pensieri ed altri scritti di e su Pascal, Ed. Paoline 1986.
    L’uomo è quindi essere spirituale e come tale non può essere il prodotto della materia in evoluzione.
    Con l’uomo ci troviamo davanti ad un salto ONTOLOGICO. Questo non significa negare od opporsi a quella continuità fisica che rappresenta il filo conduttore dell’evoluzione sul piano della biologia, della fisica e della chimica. Il salto ontologico, ovvero il passaggio all’ambito spirituale non è ambito di osservazione scientifica, anche se a livello sperimentale se ne possono scoprire gli effetti, rappresentati dalla autocoscienza, dalla capacità di progettazione del futuro e di simbolizzazione come è il linguaggio simbolico.
    L’esperienza della coscienza di sé, del sapere metafisico, della coscienza morale, della libertà, della esperienza estetica e religiosa sono materia di competenza e riflessione filosofica, mentre è compito della teologia coglierne il senso ultimo secondo il disegno del Creatore.
    Questo salto ONTOLOGICO che ha infuso in una o più forme pre-umane il PRINCIPIO SPIRITUALE, non presente nelle potenzialità della materia anche più evoluta, ha richiesto un intervento particolare e diretto di Dio creatore.
    L’infusione di un principio spirituale (anima) in un principio materiale (corpo) ha potuto avvenire se non quando il corpo era ormai disposto a ricevere l’intervento creatore di Dio ovvero quando da forme pre-umane, australopiceti e ominidi, si è passati a quelle di Homo sapiens.
    L’uomo rappresenta pertanto il culmine e il fine ultimo del processo creativo in quanto è l’unico in grado di dargli un senso, coglierne il significato, comprenderlo, ammirarlo.
    Senza l’uomo, il mondo sarebbe muto, immerso in un eterno silenzio, perché non ci sarebbe nessuno capace di dargli voce.
    Soltanto l’uomo è capace di rompere questo silenzio perché soltanto l’uomo da voce all’universo con la cultura, l’arte, la scienza.
    Affermava Pascal: “ Il silenzio eterno degli spazi infiniti mi sgomenta”.
    Questi sono i rapporti tra creazione ed evoluzione secondo l’insegnamento cattolico.
    A questo va aggiunto che Cristo è Colui cui tutto tende come ultimo fine.Solo allora il faticoso e drammatico processo evolutivo dei viventi acquisterà tutto il suo significato.

    Vi ringrazio e nel caso voleste approfondire l’argomento vi segnalo il notevole lavoro di Giuseppe De Rosa, Quaderno 3752 di La Civiltà Cattolica pp. 127 e seg. da cui ho tratto questo mio intervento.

    Vallelunga e l’elisir di lunga vita:103 candeline per Serafina Criscuoli!


    A Vallelunga Pratameno,comune dell’entroterra siciliano,le persone che hanno raggiunto i 100 anni di vita sono state parecchie.La signora Serafina Criscuoli in Oliveri,martedì 26 Gennaio 2010,compirà 103 anni.Ad oggi è la vallelunghese vivente più longeva pur non vivendo più,da tanto tempo,nella cittadina che le ha dato i natali, la si può considerare,a giusta ragione,la nonna di tutti i vallelunghesi.
    Serafina Criscuoli è nata a Vallelunga Pratameno ( Cl) il 26 Gennaio 1907 da Giovanni Criscuoli e Rosina Cipolla,seconda di tre figli,dopo Vincenzo e prima di Orsola .Ha frequentato la scuola elementare a Vallelunga e poi la Scuola Normale (Istituto Magistrale) a Noto (Sr.) nel Collegio delle Suore Domenicane fino al penultimo anno. Poi il padre decise di ritirarla perché non volle che prendesse il diploma magistrale che poi avrebbe potuto portarla ad insegnare fuori dalla Sicilia (Altri tempi!). Suo malgrado, lei accettò la decisione paterna e rimpiangerà sempre questo mancato diploma, specialmente quando, rimasta vedova dopo sei anni di matrimonio con Rosario (Sasà) Oliveri e con tre figli (Cenzina, Tuccio e Giovanni), le sarebbe piaciuto avere un’attività professionale.E’ una donna eclettica, ama e conosce la musica, canta, suona il pianoforte,dipinge (alcuni suoi dipinti, dedicati a Sant’Antonio, sono custoditi nell’altare dedicato al Santo nella Chiesa Madre di Vallelunga), ricama benissimo, lavora la maglia, l’uncinetto ed esegue quei lavori di cucito che evidenziano creatività e fantasia eccellenti, è un’ottima cuoca (Famose sono le sue torte) .E’ una mamma eccezionale, coraggiosa, arguta, di grande temperamento, dalla forte personalità, di buona cultura, che ha saputo benissimo svolgere il doppio ruolo di genitore alla morte del marito guidando i figli durante la loro crescita, aiutata in ciò dalla cognata Fifì Oliveri.
    Ha nove nipoti e una pronipote(Sofia) che ama moltissimo e con i quali ha avuto sempre un bel rapporto . Di forte costituzione e di carattere allegro e socievole : sono questi i requisiti che l’hanno portata al traguardo dei cento anni. Ancora oggi è autosufficiente, lucida, segue gli eventi familiari e della cronaca nazionale,esce accompagnata, non può fare a meno del mezzo bicchiere di vino a pranzo e a cena e dichiara di non sentirsi questa veneranda età ma molti anni di meno.
    La sua lunga vita è trascorsa a Vallelunga fino al 1956 e poi a Palermo dove abita. Ma non ha mai trascurato la sua Vallelunga, dove ogni tanto si reca, nella casa di campagna di famiglia.
    Il suo centesimo compleanno è stato festeggiato il 26 Gennaio 2006 a Partinico da tutti i figli , i nipoti e i parenti con la pergamena di benedizione del S. Padre Benedetto XVI richiesta per lei da Mon. S. Salvia, Parroco della Chiesa del Carmine di Partinico, città dove abita la figlia Cenzina.
    Ma anche la RAI, vedendo la sua fotografia sul Giornale di Sicilia, ha cercato il contatto ed è venuta con giornalista e troupe a seguire,fin dall’arrivo all’aeroporto del figlio Tuccio e dei nipoti che abitano a Torino, tutta la fantastica giornata del 26 Gennaio 2007 conclusasi con la Messa, con un rinfresco e un brindisi al prossimo …..centenario. Il servizio è stato trasmesso da RAI 1 durante la trasmissione “Festa Italiana”. Adesso è già pronta per festeggiare il suo 103° compleanno.
    Attorno ad lei si stringeranno,come sempre,i suoi tre figli i tanti nipoti e pronipoti per festeggiare questo ragguardevole traguardo esistenziale.
    Augurissimi,di vero cuore, alla Signora Serafina,ai suoi tre figli e ai suoi tanti nipoti.

      ”Ad multos annos”

    dal Webmaster di Terra Mia.

    La via della Bellezza!

    Duomo_Monreale-FC50-2009[1]

    La dimensione estetica è essenziale nella vita umana. A detta di Dostoevskij (I demoni), la bellezza è «il vero frutto dell’umanità intera e, forse, il frutto più alto che mai possa essere». «Quale bellezza salverà il mondo?», si chiede allora lo scrittore russo nell’Idiota.
    Charles Moeller in Saggezza greca e paradosso cristiano dice: la bellezza dell’arte su questa Terra è superata dalla bellezza dei santi, quindi dell’uomo, che di Dio è immagine. «La gloria di Dio è l’uomo vivente», aveva affermato prima di lui icasticamente sant’Ireneo.
    Tutto ciò non può che aiutarci ad apriare gli occhi su quel brutto a cui ci siamo abituati e che sta diventando categoria di giudizio per venire, pian piano, istradati dentro quella via pulchritudinis che davvero rappresenta l’urgenza educativa del nostro tempo».

    In questo contesto si inserisce il Duomo di Monreale con lo splendore incomparabile dei suoi mosaici. Il duomo di Monreale è una delle testimonianze più impressionanti di quella stagione artistica straordinaria che la Sicilia visse nel XII secolo.
    Sulle pareti del duomo si snoda un ciclo musivo, conservatosi pressoché intatto, che racconta la storia della salvezza, dalla creazione del mondo alla resurrezione di Cristo, in un percorso che ha alle sue estremità le due figure imponenti del Cristo pantocratore dell’abside, le cui braccia si aprono in un abbraccio commovente che accoglie il fedele lasciandolo senza parole, e della Vergine nella controfacciata, la cui maternità è segno perenne del rinnovarsi della presenza di Cristo che accompagna la vita degli uomini, posto genialmente sopra la porta attraverso la quale i fedeli lasciano la basilica per portare nel mondo la loro speranza.
    Oltre alla sequenza narrativa vetero e neotestamentaria, le pareti della basilica ospitano una impressionante serie di ritratti di santi, testimonianze perenni della vita della Chiesa. Anche in questo caso, la loro collocazione rivela un progetto geniale:
    se infatti le absidi laterali ospitano i due capisaldi della fede cristiana, Pietro e Paolo, lungo le pareti del presbiterio e nei sottarchi delle navate si susseguono figure intere, busti e volti di monaci, vescovi, laici, eremiti, uomini e donne che hanno testimoniato la loro fede, chiesa trionfante sempre più vicina alla chiesa militante che affolla ogni giorno la chiesa, per concludersi nella controfacciata, accanto alla figura di Maria, con gli esempi più vicini alla gente di Monreale, Cassio, Casto e Castrense, i “loro” santi.
    Il ciclo musivo di Monreale dispiega così un inno alla Chiesa di eccezionale bellezza.

    Un patrimonio artistico di eccezionale bellezza mai documentato prima d’ora con tale ampiezza di immagini, realizzate mediante una apposita campagna fotografica e strumenti tecnici all’avanguardia.

    «Il duomo di Monreale mostra tutta la sua bellezza quando vi si celebra la liturgia. È stato costruito per la liturgia. E per una liturgia regalmente solenne. È nel momento liturgico che esso appare davvero una reggia, una bellissima reggia, una regale casa di Dio, in cui si celebrano i divini misteri e sulle cui pareti si leggono i racconti della Bibbia, le storie di Dio. Tutto vi dice la presenza del Cristo risorto. Tutto aiuta a farsi presenti alla Divina Presenza. Il mondo di Dio e il mondo degli uomini vi appaiono contigui. Chi lo progettò e ne ideò i cicli musivi aveva molto vivo il senso della trascendenza di Dio e, insieme, della regalità divina di Gesù Cristo, il Figlio eterno di Dio fattosi uomo e morto e risorto per la nostra salvezza.»
    S.E. Mons. Cataldo Naro

    Testi di David Abulafia e Massimo Naro
    Presentazione di Cataldo Naro
    Curatore campagna fotografica: Giovanni Chiaramonte
    Fotografi: Daniele De Lonti, Santo Eduardo Di Miceli, Jurij Gallegra
    Coedizione Itaca – Libreria Editrice Vaticana

    Il duomo di Monreale – Recensioni
    Per chi… cerca Dio nel bello. «Il duomo di Monreale»,
    «Famiglia Cristiana», n. 50, 13 dicembre 2009
    Duomo_Monreale-FC50-2009.pdf (265,6 KB)

    Insula,frammenti di cultura siciliana.


    Presentato a Giuliana (Pa),a cura del Dott.Amato,del Dirigente Scolastico Prof.Randazzo e dell’On.Russo, l’opera “INSULA,” dello storico A.G.Marchese

      di Ferdinando Russo

        Il letterato, “medico umanista dall’alta qualità intellettuale ed etica e dai rigorosi studi”, Antonino Giuseppe Marchese, come lo descrive Tommaso Romano , è l’analista dei centenari che insegnano la moderatezza dei costumi, dei dotti medici e degli uomini illustri della provincia di Palermo, ed è riconosciuto in Sicilia come lo “storico “ ormai indiscusso di una “Nuova Storiografia Municipale”.

        Per le sue quarantasei opere scritte sugli eventi storici dall’ antichità al ventesimo secolo e sulla storiografia artistica e scientifica, è denominato anche “lo scopritore delle cose vecchie “, dal suo popolo giulianese, benevolo e sornione, che, affascinato dai ritrovamenti di figure di pittori, scultori, scienziati, poeti,come pure di pietre dure , dai successi, dai premi, dalle onorificenze del compaesano, è accorso, incuriosito e numeroso, allo scoccare del 2010, per ricevere, come un regalo per le festività natalizie, il volume “Insula, Frammenti di cultura siciliana” (1).
        Ai suoi concittadini Marchese ha insegnato, con Cicerone, che “una casa senza libri è come un corpo senza anima”.
        Il nuovo saggio, organico nella sua multiformità, si configura in un’antologica d’inediti e di precedenti scritti pubblicati dall’autore su riviste, giornali, enciclopedie, o storicizzati in ricercate e raffinate prefazioni, redatte per volumi e opere di intellettuali ed
        operatori sociali e culturali del territorio sicano. Ed è ancora una rivelazione.
        “Insula” racchiude, infatti, come in uno scrigno prezioso di genialità, identità scolpite in un’avvincente narrazione della vita e delle opere d’artisti, medici, farmacisti, letterati, storici, musici, operatori sociali, di un’area della Sicilia, studiata per riscoprirla, evidenziarla, renderla
        fruibile e valorizzabile per il turismo culturale. E troverà accoglienza in tutti i comuni del comprensorio.
        Un territorio, apparentemente povero di risorse materiali, d’infrastrutture e di servizi della modernità, ma ricco e controbilanciato dai suoi abitanti, dotati di vivaci intelligenze, eredi di un notevole patrimonio archeologico, di una storia documentata da monumenti e opere della creatività umana, di eventi
        segnati dalla passione civile e dalle diffuse vocazioni artistiche.
        Ed è come un consegnare alla Storia della Sicilia i segreti di una profonda cultura locale, ma non per questo da dimenticare o trascurare, se la si confronta con i letterati ad essa ispiratisi ed affermatisi da Pirandello a Navarro, a Tomasi di Lampedusa, a Sciascia, Bufalino, Camilleri, Consolo, Lauricella, Randazzo, Di Cara, Vilardo, Grasso, Mazzamuto.

        Marchese ha indagato sui sentimenti, le tradizioni, i costumi, i valori degli uomini e delle donne di questo territorio antico, di questo “mare pietrificato”, per l’autore del Gattopardo, ed i cui abitanti hanno una loro lingua, una civiltà, una predisposizione all’accoglienza degli immigrati, ed ove, precisa l’autore citando Lucio Villari, è come se ci ritrovassimo in “un gran teatro, dove tutti hanno un ruolo e una parte”. E gli attori d’Insula non sono, infatti, pochi.
        Il Nostro li ha incontrati per strada, nelle piazze, sempre meno popolate, dei centri storici, come Tornatore in Baaria, nelle Biblioteche, come Borges, negli archivi dei comuni, delle parrocchie, degli studi notarili, come Mons. Ferina ed il prof. Schirò di Monreale, e ora ne svela in Insula la storia, le opere, le identità multiple, che risultano scolpite dalla sua penna di scrittore ormai raffinato.

        Come poeta della storia locale del corleonese e del territorio sicano, del mondo contadino ed artigiano, che il pittore Gianbecchina, originario della vicina Sambuca di Sicilia, ha immortalato nelle sue tele, Marchese raccoglie l’eredità del suo illustre collega e predecessore Pitrè, mette assieme cimeli letterari, ”frammenti”, come pezzi e beni culturali del Museo etnografico del Corleonese, che Padre Calogero Giovinco e l’Associazione S.Leoluca hanno organizzarto e che migliaia di visitatori annualmente si recano a visitare.

        E da Corleone inizia il suo viaggio nella vasta miniera culturale di letterati, storici, pittori, scultori,sindacalisti, operatori sociali, che hanno onorato questa città “capitale contadina” per Francesco Renda e “capitale artistica” per Marchese , che ne rivela, con Padre Giovinco, i tesori nascosti nella statuaria siciliana tra la piu’ vasta e di notevole valore europea, con molte opere di Antonino Ferraro e della sua dinastia custodite nelle chiese e negli oratori (2).

        Ma Corleone non è solo la miniera della statuaria artistica, tra santi e demoni, ove primeggia la statua lignea di San Leoluca, ora visibile nel magnifico volume su Antonino Ferraro, che sara’ presentato alla cittadinanza nell’anno in cui si celebra, proprio per iniziativa di Marchese, il quattrocentesimo anniversario dalla morte (1609-2009).

        Marchese è stato anche uno dei più attenti osservatori dei fermenti culturali e sociali del corleonese sin dalla fine degli anni sessanta, partecipando, dal suo paese natale, Giuliana, ancora giovanissimo, alle iniziative giornalistiche locali, nelle quali mai è venuta meno la speranza di costruire uno sviluppo sostenibile, libero da ancestrali condizionamenti sociali,quasi a segnare la voglia di ritrovare, rappresentare e costruire un’identità reale dell’umanità e della cultura dell’area interessata.
        Ha raccolto al riguardo, in diversi volumi, momenti antologici del pensiero e della storia artistico-culturale e sociale del comprensorio. Ricordiamo tra gli altri “Inventario corleonese”, “L’Ulivo saraceno”, “Polittico siciliano, scritti d’arte e di storia “ (3).
        La Corleone di Naso e di Vasi, di Giovanni Colletto e di Pippo Rizzo, maestro di Guttuso e dei contemporanei Bruno Ridulfo, Biagio Governali; la Corleone di Bentivegna e di Bernardino
        Verro, delle lotte contadine e dei residui di una violenza inaudita, hanno incoraggiato Marchese a tessere una tela di ricerche e studi su tutto il territorio sicano tra il Sosio e il Belice, partendo
        dal laboratorio primo dei suoi studi, quello della città natale, Giuliana.

        La città universitas dall’antica origine sicana, ripopolata dai romani, militarizzata con il castello di Federico III d’Aragona (4), con le dimore dei Peralta e la figura di Eleonora d’Aragona, morta
        in quella città e seppellita a Santa Maria del Bosco e poi fissata nel busto-ritratto del Laurana, ora divenuta l’icona della copertina del volume di Marchese,” Insula”, a disegnare un riferimento
        geografico dell’autore, colpito ed ispirato, sin dalle sue prime ricerche, dalle vicende storiche del suo paese e del monastero di S. Maria del Bosco di Calatamauro.

        Marchese vive nel centro storico di Giuliana, proprio sotto il Castello,nella casa natale di Via Tomasini, ove istituisce la sua ricca Biblioteca personale, dopo avere collaborato a raccogliere libri per la biblioteca dell’azione cattolica, ideata dall’arciprete Pietro Marchisotta
        ed alimentata già da Luciano D’Asaro, Ferdinando Russo, Giovanni Colletti, Giuseppe Iannazzo, e poi da P.Giovinco, per pervenire, infine, alla costituzione della prima Biblioteca comunale, di cui in “Insula”, ritroviamo l’eco.
        E maturano le prime sue opere notevoli come “Il Castello di Giuliana “ (4) e l’appassionata ricerca su “Giacomo Santoro detto Jacopo Siculo” (5), il pittore rinascimentale siciliano attivo in numerosi centri dell’Umbria e del Lazio, studiato sistematicamente dal Nostro.

        Sono queste due opere a svelare la maturità di Marchese e ad aprire le istituzioni locali, dall’amministrazione Russo a quella Campisi, verso un’azione culturale promozionale per le arti, quasi alla riscoperta di una sopita vocazione della popolazione, a ricercare un futuro, partendo dalla cultura, dal restauro del castello, dall’investimento nelle scuole e nella formazione, dalla riapertura del castello e dell’Opera Pia Buttafoco Tomasini, ove invitare gli artisti del comprensorio a confrontarsi sulle moderne produzioni pittoriche, sulle produzioni artigianali, sulla promozione della musica, per ricostruire la banda comunale ed anche sull’arte del ricamo.

        Marchese aveva già scoperto l’origine giulianese di Antonino Ferraro e della sua dinastia familiare e dei seguaci e gli studiosi di Castelvetrano si accorgevano di avere quasi dimenticato quella dinastia, che pure per oltre un secolo aveva operato per trasformarla in città d’arte.

        In trenta comuni della Sicilia occidentale Marchese individuava le opere dei Ferraro da Giuliana, comprese quelle da lui stesso attribuite e di cui successivamente avrà conferma documentaria grazie alle sue stesse ricerche d’archivio, opere di notevole valore storico-artistico, quasi dimenticate, a Burgio (la città che da secoli forgia le campane e modella le caratteristiche ceramiche artistiche), a Caltabellotta, a Mazara, Trapani, Corleone, Erice, Monreale, Naro, Sciacca. E la fama dello storico Marchese faceva il giro dei paesi Sicani e del Belice e dell’intera Sicilia.

        Terramia Blog,(www.maik07.wordpress.com) ed il motore di ricerca http://www.google.it hanno presentato alcune delle opere dello storico
        degli anni 2008 e 2009 con figure ed eventi della terra Sicana.
        Si rispolverano gli archivi a Chiusa Sclafani, la città, del “barocco inedito” e della musica (3 ), dei compositori, Orlando, Ignazio Sgarlata, Liberto, Lo Cascio e Marchese intesse una storia della musica e scopre che è anche la città dei Lo Cascio, gli artisti del legno, emigrati da Giuliana e il Sindaco Pollichino istituisce l’archivio storico del comune mentre emuli di Marchese scavano con lui nella storia delle arti, delle chiese barocche, della medicina del famoso medico Ingrassia mentre il dr.G.Di Giorgio traccia una storia del comune.
        Il tessuto artistico dei comuni confinanti con Giuliana trova in Marchese uno studioso attento delle emergenze culturali di Campofiorito, Prizzi, Bisacquino.

        Una mostra di Girolamo Di Cara ha presentato le immagini del barocco lasciate nelle chiese e nelle piazze. Marchese scopre che Serpotta ha lavorato a Bisacquino e il decano Pasquale Di Vincenti gli commissiona un volume sulla Chiesa madre (6).Frank Capra, il regista tanto amato dalla cinematografia mondiale, portava con sè l’immagine della facciata. Ora gli emigranti di Bisacquino portano, con l’opera di Marchese, i tesori interni di quella Chiesa, che li ha forgiati nella fede e nei valori della famiglia e del lavoro(8), come scrive F.Russo in http://www.vivienna.it.

        Ma Marchese non è solo il fotografo delle emergenze monumentali e pittoriche, della statuaria, in queste arti lo seguono e lo accompagnano il rinomato scopritore di tradizioni, Enzo Brai, e poi Giuseppe Lombardi, da Chiusa Sclafani, Totuccio Salvaggio, il pittore Giovanni Schifani ,la pittrice Anna Iannazzo, mentre il web master Pietro Daidone fa fatica a riportare nel sito del Comune di Giuliana ,i nuovi libri che Manzoni gli pubblica e gli eventi che si susseguono al Castello ,con i positivi commenti giornalistici che li illustrano .

        Il Nostro è critico letterario, amico di scrittori, poeti, pittori, fotografi, collezionisti. Dei poeti giulianesi, Giuliano D’Aiuto e Giuseppe Buttafoco, ha raccolto dalla bocca degli autori i versi non scritti, d’Antonietta Catalanotto, in Insula riporta un desiderio:“vorrei essere un gabbiano e volare alto nel cielo/vorrei avere due cuori per amare di più/vorrei gridare al mondo che sono felice di esserci/vorrei abbracciare tutte le genti che soffrono.” C’è il sentire di un popolo, la generosità, la fede, nei versi appena abbozzati e Marchese n’è felice.Vi vede impressa l’identità del suo popolo e quella della sua maestra della quinta elementare, la poetessa ins.Caterina Gullo Moleni, che riscopre dopo cinquanta anni ,attraverso i suoi scritti. Ora a Prizzi s’indaga su Vito Mercadante, un gran poeta dialettale e Marchese è chiamato a scrivere la prefazione della sua produzione più espressiva.

        A Campofiorito, ”genius loci” è Giovanni Giordano: usa il dialetto per “cuntare la sua Bellanova-Campofiorito, tra storia e memoria popolare e Marchese non può non apprezzarlo e ricordalo in Insula, affidando a quest’opera di raggiungere,con le storie,i racconti,le opere degli artisti dei Monti Sicani , le famiglie degli emigrati, sparsi in tutto il mondo.

        E sarà per gli emigrati un ritrovarsi nelle terre dei padri, tra le campagne a raccogliere olive “Giarraffa” ed a seminare il grano duro, fino a quando non li raggiungeranno i rintocchi delle campane di Burgio, portate degli emigranti, come ricorda Marchese,in numerosi centri del territorio nazionale e poi nel Madagascar,nello Zaire(Congo),nella Zambia,e persino negli States. Il salesiano Don Salvatore Provinzano, sacerdote, educatore missionario, alla quale memoria è dedicato Insula, quei rintocchi li avrebbe portati nell’America Latina.

        Alla presentazione, in prima assoluta, di “Insula”, a Giuliana, nell’ospitale salone del Collegio di Maria, dopo il saluto dell’assessore alla cultura prof.ssa Antonella Campisi e dell’arciprete Mariano Giaccone, hanno parlato, il dr.Salvatore Amato, presidente dell’Ordine dei Medici della provincia di Palermo, il prof. Enzo Randazzo, preside del Liceo scientifico “G. P. Ballatore” di Mazara del Vallo, scrittore e romanziere, e l’on. Ferdinando Russo.
        Sulla personalità dell’autore, significative le testimonianze di Mons. Lino Di Vincenti,decano di Bisacquino, del Parroco di S. Leoluca di Corleone, P. Calogero Giovinco, dell’ex assessore alla provincia Colca, del rappresentante dell’A.S.L.T.I. Onlus, Guzzardi, la Sig.ra Caterina Gullo.
        Tra i presenti, il V. sindaco Dr. Provinzano, l’amministratore immobiliare Santo Carlino, l’assessore Pietro Musso, la V. presidente del Consiglio comunale Anna Colletti, il consigliere Mario Arcuri e l’assessore Totò Ragusa, in rappresentanza del comune di Bisacquino, l’amministratore dell’impresa Arredamenti Musso, ringraziati espressamente dall’autore del volume “Insula”, dr.A.G.Marchese, volume dedicato alla memoria del salesiano giulianese Don Salvatore Provinzano, deceduto cinque anni fa in Ecuador, eletta sua terra di missione.

        Ferdinando Russo
        onnandorusso@libero.it

        1) A.G.Marchese, Insula, Frammenti di cultura siciliana, I.L.a.Mazzone Produzioni 2009 con prefazione di Tommaso Romano.
        2) A.G.Marchese, Antonino Ferraro e la statuaria lignea del’500 a Corleone, con prefazione di Aldo Gerbino, Palermo 2009.
        3) A.G.Marchese, L’ulivo saraceno.Civiltà letteraria siciliana, con prefazione di Antonino De Rosalia, Palermo 1999.
        4)A.G.Marchese, Il Castello di Giuliana. Storia e architettura, presentazione di Maria Giuffrè, Ila Palma, Palermo 1996.
        5)A.G.Marchese, Giacomo Santoro da Giuliana, detto Jacopo Siculo, Ila Palma, Palermo 1998.
        6) A.G.Marchese, La Chiesa Madre di Bisacquino.Artisti, maestranze e committenti dal Cinquecento al Settecento, con prefazione di Piero Longo e Don Pasquale Di Vincenti e presentazione di Salvatore Di Cristina, Arcivescovo di Monreale, e Foto di Enzo Brai. Editrice Plumelia ,2009.
        7)A.G.Marchese, Il serpente di Esculapio: medici, chirurghi e speziali a Chiusa Sclafani nella prima età moderna, da Giovanni Filippo Ingrassia a Francesco Di Giorgio,con prefazione di Marisa Buscami,Ila Palma ,2006.
        8)F.Russo,Commenti su opere di A.G.Marchese in http://www.maik07.wordpress.com ,in http://www.google.it, in http://www.vivienna.it, in http://www.fasokamba.it