S.Giuseppe 2015.

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L’Arcivescovo di Aleppo(Siria) a Monreale.

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Arcidiocesi di Monreale

Ufficio Comunicazioni Sociali

L’ARCIVESCOVO DI ALEPPO (SIRIA) A MONREALE

RACCONTA LA SUA CHIESA PERSEGUITATA

Divina Liturgia nel Duomo con Russia Cristiana e

Incontro Interreligioso con il Rabbino Capo di Sicilia e l’Imam della grande moschea di Roma

Monreale 14.01.2015 – Al termine della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e nel mese della pace, due importanti momenti di riflessione e preghiera consentiranno di approfondire il tema della pace attraverso la testimonianza preziosa dell’Arcivescovo di Aleppo.

La Siria, infatti, è oggi una terra insanguinata, in cui i cristiani e altre minoranze religiose sono perseguitati a causa della loro fede dal fondamentalismo del sedicente Stato Islamico dell’Iraq e della Grande Siria (ISIS).

Una tavola rotonda con l’arcivescovo di Aleppo, il rabbino capo di Sicilia e l’imam della grande moschea di Roma rifletterà sul tema: “Libertà religiosa, via per la pace”, che verrà preceduta dal gesto simbolico della piantumazione di un albero di ulivo, simbolo della pace.

Il 24 Gennaio alle 10.30 presso il palazzo Arcivescovile di Monreale, S.E. Mons. Jean-Clément Jeanbart, Arcivescovo greco-melkita di Aleppo, su invito di Mons. Michele Pennisi, Arcivescovo di Monreale, darà una testimonianza della tragica situazione della sua Chiesa. Nel pomeriggio, alle 17.00, Mons. Jeanbart terrà una Lectio Magistralis: I Cristiani in Medio Oriente, per il conferimento del titolo di Accademico Ordinario dell’Accademia Teutonica Enrico VI di Hohenstaufen.
La giornata si chiuderà alle ore 20.00 in Cattedrale con un Concerto per Organo offerto dal Maestro Diego Cannizzaro per la Siria.

Domenica 25 Gennaio, l’Arcivescovo di Aleppo, alle 11.30, presiederà la Divina Liturgia in rito Bizantino-Slavo, nel Duomo di Monreale, con la partecipazione del coro dell’Associazione Russia Cristiana di Roma, del presidente Mons. Francesco Braschi e di Padre Rostislav Kolupaev, sacerdote Russo Cattolico di rito Bizantino.

Il pomeriggio del 25 Gennaio, alle 16.00, presso il giardino del Seminario verrà piantumato un albero d’ulivo, simbolo di pace, subito dopo al Palazzo Arcivescovile, si terrà una Tavola Rotonda Interreligiosa a cui siederanno oltre L’ARCIVESCOVO greco-melkita Mons. Jeanbart, anche il RABBINO capo del Centro Sefardico Siciliano, Prof. Stefano Di Mauro, Itzaak Ben Avraham e l’IMAM della grande moschea di Roma, Sami Salem.

L’incontro, promosso anche dall’Azione Cattolica Diocesana, servirà a riflettere sul tema: “Libertà religiosa, via per la Pace” che pur essendo stato organizzato già da tempo, pare rispondere alle domande e alle paure di questi giorni all’indomani delle stragi di Parigi e di Baga in Nigeria.

Il Direttore

Don Antonio Chimenti

L’attentato a Parigi…..

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L’attentato di Parigi. L’editoriale di Massimo Introvigne sul “Mattino” di Napoli
L’Europa al buio con la testa sotto la sabbia
Massimo Introvigne (il Mattino, 8 gennaio2015)

Il 7gennaio 2015 si è spenta a Parigi una luce sull’Europa, e Dio solo sa quando mai sarà riaccesa. I terroristi – qualunque sia la congrega di tagliagole cui davvero appartengono – hanno mostrato di poter colpire non solo in Iraq o inSiria, non solo nei luoghi nomadi dove si viaggia in aereo o in metropolitana, ma di giorno, in una grande città, nella sede di un giornale, cioè in uno di quei luoghi che ci sembrava potessero godere di un qualche statuto di zona franca. Ma non esistono più zone franche: ogni luogo, ogni uomo, ogni donna è un obiettivo di questa guerra maledetta.
Sì, la luce si è spenta. Si è spenta sui sogni di Hollande,di Obama, dell’Unione Europea, delle Nazioni Unite, e anche dei nostri politici italiani di potersi permettere di non occuparsi dell’ISIS, del califfo, di al-Qa’ida che si riorganizza e che forse, a un anno dalla rottura con il Califfato, sta riannodando le fila di un grande cartello del Male che raduni tutti i terroristi dell’ultra-fondamentalismo islamico. Ci si illudeva in Francia, ci si illude anche da noi che, se non ci occupiamo dei terroristi, se non mandiamo neppure un soldato a combattere in Medio Oriente o a difendere i cristiani massacrati e crocefissi o le donne della minoranza yazida violentate e vendute come schiave – perché ogni soldato che torna a casa in una bara fa perdere voti al governo che lo ha mandato a combattere – i terroristi ci lasceranno in pace. Ma se noi non ci occupiamo dei terroristi, i terroristi si occupano di noi, e torna a casa in una bara chi è semplicemente andato a lavorare nel centro di una delle nostre capitali. Possiamo condannare, deprecare, firmare appelli, ma le chiacchiere stanno a zero e si combatte il terrorismo solo andandolo a estirpare nei suoi santuari, con gli stivali delle truppe sul terreno e non con la semplice propaganda o i droni di Obama. Altrimenti diamo ragione a Osama bin Laden, il quale sosteneva che tra chi non vuole rischiare di morire e chi ama la morte vince sempre il secondo – e il primo muore comunque.
Sì, la luce si è spenta. Si è spenta su chi non ha capito la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona e oltre Ratisbona, che non offendeva affatto l’Islam – chi ha risposto alla satira di «Charlie Hebdo» con gli omicidi è un miserabile farabutto, e tuttavia i discorsi di Papa Ratzinger e le vignette non sono sullo stesso piano – ma lo invitava a riannodare le fila di un dialogo fra fede e ragione partendo dalla sua stessa tradizione, senza rinnegarla ma nello stesso tempo senza rifiutare di vederne gli aspetti oscuri e problematici. Non hanno capito quella lezione i buonisti per cui tutti i musulmani sono amanti della pace, gentili e magari amici degli animali e dei fiori. Ma non l’hanno capita neanche i «cattivisti» che oggi se la prendono con Papa Francesco perché non hanno mai letto Papa Benedetto, il quale affermava anche, il 28 novembre 2006, che il dialogo con i musulmani «non può essere ridotto ad un extra opzionale: al contrario, esso è una necessità vitale, dalla quale dipende in larga misura il nostro futuro».
Sì, la luce si è spenta. Si è spenta sui politicanti estremisti e sciacalli di tutte le risme, i quali sperano di lucrare su queste tragedie per fare i martiri con il sangue degli altri alla ricerca di un miserabile tornaconto elettorale, o per arruolare anche i poveri morti di Parigi in rese dei conti ecclesiastiche che oggi hanno di mira Papa Francesco, accusato di inventare un dialogo con l’islam che invece già Benedetto XVI definiva «non opzionale», cioè obbligatorio.
Mantenere i nervi saldi quando la luce si spegne è molto difficile. Ma chi sa vedere nel buio comprende che la «strategia Francesco» che Papa Bergoglio ha più volte proposto di fronte alle stragi dell’ISIS è l’unico modo ragionevole di rispondere a questa criminale follia. Non è delegando a qualche generale medio-orientale con gli stivali sporchi di sangue la repressione insieme dell’islam politico e dei diritti umani nel suo Paese, e non è strillando in piazza che tutti i musulmani sono terroristi che si disinnesca l’ultra-fondamentalismo assassino. Al contrario, lo si alimenta, e si spengono altre luci. Oriana Fallaci, poco prima di morire, aveva riferito che Benedetto XVI in un colloquio privato con lei aveva definito il dialogo con il mondo islamico «impossibile ma obbligatorio». In giornate come quella di oggi il dialogo sembra davvero impossibile. Ma è solo trovando interlocutori islamici disposti non a rinnegare la propria storia e la propria identità ma a cercare con fatica al loro interno le ragioni per condannare e isolare i terroristi che questi assassini potranno essere davvero sconfitti. È la strategia di Papa Francesco, era la vera strategia di Papa Benedetto. È la strategia più difficile. Ma non ce ne sono altre.
Benedetto XVI ama ricordare un proverbio della sua terra, la Baviera. Quando la luce si spegne si possono fare due cose: maledire l’oscurità, che non serve a nulla, o accendere una fiammella. Oggi ci sembra che anche la fiammella serva a poco. Ma se ognuno di noi accende la sua fiammella, alla fine tornerà la luce. Alla fine non avremo più paura del buio, e potrà perfino capitare che sia il buio ad avere paura di noi.

Lo spazio dei Fratelli.

cop Sintesi&Proposte 65
Invito conf. confraternite

Un mese dedicato alla faccia delle donne.

Contro la sterilità imperante. Dopo anni di maschilizzazione liberal

Onan è la pietra di paragone dell’indignazione. Disperde il proprio seme in terra piuttosto che inseminare la donna. Musil è la pietrificazione del risentimento. Disperde il proprio seme in ogni donna perché non vuole più perdonare la terra («non potrei più guardare una donna allo stesso modo se sapessi che è stata inseminata da un altro uomo»). Sade è puro e semplice onanismo assistito. Il razionalismo, come diceva il vecchio Diderot alla vista delle passeggiatrici, del «sono le idee le mie puttane». Altra forma di dispersione del seme (oltre che di anestesia, o privazione dell’estasi) è, per esempio, il “savianesimo”. Il quale rinvia all’efebìa ateniese. Efebo, “recluta”, l’adolescente a cui era richiesta una esibizione pubblica di adesione agli ideali della polis. Nella attuale variante trombona italiana, la prova pubblica di efebìa è il reclutamento antimafia (vedi in proposito la recente messa alla scuola di giornalismo di Perugia cantata da Avatar Al Gore e dal Tristano di Gomorra di famosa e delicata peluria; o si veda il rito mediatico officiato intorno all’albero di Falcone profanato e orbato dai disegni dei bambini antimafia).
Diversamente da questo maschilismo imperante – questo maschilismo che si esprime nelle narrazioni giornalistiche e nell’intrattenimento televisivo come seme disperso, risentimento, efebìa – Tempi rimane persuaso che tutto (nell’economia come nello spettacolo) e tutti (anche i leader dei partiti e quelli di Chiesa) starebbero meglio (e di conseguenza anche noi persone in società) se vi fosse occasione di lasciarsi educare dal talento femminile. Che, come scrisse Cesare Pavese, «è un talento innato, una disposizione originaria, un assoluto virtuosismo nel conferire al finito un senso». Nasce di qui l’idea di dedicare un maggio alla “faccia delle donne”. Non un’evasione civettuola dalla cronaca cicisbea (per esempio, non può essere che anche il siparietto, pericoloso per l’Italia, tra Fini e Berlusconi, abbia radici maschiliste?), ma un diverso abitare la cronaca. Tant’è che l’idea ci è venuta dalla solida provocazione della nostra amica Susanna Tamaro. Che dopo averci fatto l’onore di una visita in redazione, si è esibita sul Corriere della Sera in un bel tuffo nel femminismo italiano d’antan, riguardato dall’autrice di Anima mundi come “fallimento” (diverso, e forse meritorio di un’altra crime scene investigation, il caso del femminismo virago che ha messo radici in Nordeuropa e Nordamerica). Non staremo qui a discutere le tesi di Susanna (per altro già dibattute dagli interventi della Comencini, Rodotà e Terragni). Ma partendo da lei, prendendo le mosse da una questione che sembrava perduta nelle rughe de “l’utero è mio”, riprenderemo in chiave di grimaldello, di lettura dell’attualità, l’intuizione secondo cui «la donna concilia l’uomo e se stessa col mondo» (Pavese). Per esempio: come si concilia (si concilia?) la donna con il “manipulitismo”, cioè con quella forma di violento onanismo che a fronte delle continue “perdite” del reale, persegue la purità cercando di imporre (alle donne, alla politica, alle imprese, al calcio, alla Chiesa, eccetera) sistemi sempre più pazzeschi – o come li chiamano loro, “perfetti” – di purificazione e abluzione?
Proveremo a sondare il lato femminile della cronaca e a fare un mese di giornale femminile. Nonché – e questo è il punto – proveremo a capire se è proprio questo il lato della vicenda umana che decide di personalità e società aperta o chiusa; di giustizia matrigna o misericordiosa; di bellezza chirurgica-preservativa o di “cara Beltà-freschezza più cara” (e dire che Leopardi era un “materialista”, e dire che Gerald Manley Hopkins era un gesuita!). Insomma, poiché il tratto essenziale del femminile sulla terra non è il fatto che la donna dia la vita (è infatti possibile, in un futuro, che si avveri quella tremenda e schifosa cosa prometeica che è la riproduzione per via completamente artificiale) ma è l’atteggiamento originale insito nel suo dare la vita e, soprattutto, insito nella vita stessa (perfino Eugenio Scalfari sarà stato quell’urlo in utero, poi lo stupore di cose fuori di sé, poi lo stupore di sé, insomma il bambino che domanda e non chiude mai la porta al mondo), cercheremo la biblica “costola dell’uomo”. Che come ha notato il grande storico Jacques Le Goff è tutt’altro che la prima affermazione di un maschilismo ancestrale. Ma è la prima parola di uguaglianza uomo-donna che sia risuonata nella storia. Parola di liberazione, precisa l’agnostico Le Goff, quando tutte, ma proprio tutte, le radici non giudeo-cristiane del mondo (compresa l’attuale, liberal, occidentale, Homo Sapiens New York Times, come ci spiega in questo numero Irene Vilar) erano state e restano saldamente maschiliste.

http://www.tempi.it/editoriale/008950-un-mese-dedicato-alla-faccia-delle-donne-dopo-anni-di-maschilizzazione-liberal

IL GREMBIULE E LO SCETTRO.

Il grembiule e lo scettro, due simboli per indicare immediatamente due realtà complesse: la Chiesa e la politica. Il primo simbolo è relativo al servizio che la comunità cristiana presta in nome diGesù, che non è venuto per “essere servito ma per servire” (Mt 20,28). E qui la memoria di molti va all’insegnamento e alla testimonianza di don Tonino Bello, cui questo libro è dedicato. La Chiesa del grembiule – scriveva don Tonino nel 1988 – è certamente “l’immagine che meglio esprime la regalità della Chiesa, per la quale, come per Cristo, regnare significa servire”.E poi lo scettro. Ovvero il simbolo del potere. Non certo considerato in un’analisi storica e dottrinale, ma nella sua valenza quotidiana, cioè in riferimento a coloro che lo detengono, a coloro che hanno la responsabilità di provvedere, in varie forme e tempi, al bene comune, alla giustizia e alla pace della società.
Sul rapporto tra queste due realtà complesse si soffermano le pagine seguenti. Sono appunti di un viaggio di diversi anni che non hanno nessuna pretesa di esaustività, ma solo il carattere di una riflessione ad alta voce da condividere, criticare, arricchire e orientare meglio. Essi sono stati scritti insieme ai credenti con cui ho percorso itinerari di formazione all’impegno sociale e politico, ai tanti pastori e laici incontrati nelle nostre comunità, agli uomini e alle donne provenienti da altre culture o sensibilità religiose, agli amici con cui continuo a discutere di queste tematiche. In alcuni casi hanno ispirato articoli apparsi su giornali, in altri sono stati oggetto di discussione in incontri pubblici e personali. Mi auguro che – anche grazie a questa veste editoriale – possano essere utili a chi continua a camminare, con ingegno, passione e coraggio, verso la pienezza del Regno di giustizia e di pace.

Le verità del Vangelo non fanno mai l’occhiolino

Quando incontri una verità di passaggio – scriveva George Bernanos nel suo Diario –guardala bene, in modo da poterla riconoscere, ma non aspettare che ti faccia l’occhiolino. Le verità del Vangelo non fanno mai l’occhiolino”[1]. È questo brano del famoso scrittore francese che mi ritorna spesso inmente quando sento parlare o leggo dei teo-con (credenti e conservatori in formato unico) a braccetto con i neo-con(conservatori di ultima produzione), del troppo insistere di alcuni cattolici in materia di aborto, di unioni civili, del ruolo della donna e della famiglia, della loro riscoperta e riproposta di tradizioni cristiane antiche, di Bush e del partito di Dio e via discorrendo.
Il Vangelo ha le sue verità. Per chi ne volesse una sintesi ragionata ed agile, in materia sociale, economica, culturale e politica, basta fare riferimento al recente Compendio[2].
Da che mondo è mondo il magistero ecclesialele approfondisce, ribadisce e propone secondo il suo proprio ministero. Da che mondo è mondo la Chiesa ha degli oppositori, alcuni corretti e altri scorretti; alcuni pacifici e altri violenti; alcuni rispettosi della diversità di opinioni e prassi, altri no; alcuni interessati a stabilire un dialogo per superare la trappola del clericalismo-anticlericalismo, altri no; alcuni disposti a collaborare con la Chiesa in vista del bene di tutto il corpo sociale, altri no.
È questo il problema? Sembra proprio di no. Il punto sembra essere un altro; cioè il riferimento a queste verità nella lotta politica, sia da parte di credenti di lunga data, sia da parte di convertiti dell’ultima ora o neofiti, come dir si voglia. E qui Bernanos c’entra a pieno titolo. Si ha molto spesso l’impressione che il riferimento alle verità evangeliche – indiscutibili e sovrane – sia un modo per strizzare l’occhio a qualcuno, singolo alleato o compagine istituzionale che sia.
Ma le verità evangeliche non strizzano l’occhio.Qualora lo facessero diventerebbero funzionali ad un progetto, ad un partito o schieramento politico, al potente di turno o a chissà chi. Il Vangelo è fine a se stesso, cioè al buon annuncio di un Dio che si incarna e salva coloro che a Lui aderiscono. E sì, le verità evangeliche non si usano, si servono. O, come direbbe un altro grandefrancese, Jacques Maritain,“ciò di cui noi abbiamo bisogno non è un insieme di verità che servono, ma piuttosto di una verità da servire”[3].
Nel servire la Verità, la tradizione della Chiesa insegna molte cose, sia in ordine ai contenuti, sia alle finalità e alle strategie, sia allo stile e alle valutazioni contingenti.
Annunciare e testimoniare il Vangelo in politica è arduo; non so dire se meno o più che altrove, ma certamente comporta una fatica intellettuale, emotiva e (anche) fisica di non poco conto. Lo sanno bene quei tanti cattolici impegnati in politica seriamente e coerentemente, che, pur non apparendo alla ribalta della cronaca, portano comunque un contributo notevole nel far crescere la città di Dio nella città umana.
Per fronteggiare questa fatica è necessario anche un metodo, elaborato dal magistero sociale e conosciuto come metodo del vedere-giudicare-agire[4]. Con esso singoli e comunità cercano, come scriveva Giovanni XXIII, di tradurre in termini di concretezza i principi e le direttive sociali, attraverso tre momenti: rilevazione delle situazioni; valutazione di esse nella luce di quei principi e di quelle direttive; ricerca e determinazione di quello che si può e si deve fare per tradurre quei principi e quelle direttive nelle situazioni, secondo modi e gradi che le stesse situazioni consentono o reclamano”[5].
Applicando questo metodo sempre e comunque, oggi giorno, a mio modesto avviso, vale la pena sottolineare alcuni atteggiamenti, indispensabili quando si vuole servire la verità e non servirsene. Essi sono: la libertà, il rispetto, il dialogo e la scaltrezza.

La libertà

Si dovrebbe dire una libertà da tutto e da tutti: “Cristo ci ha liberati – ammonisce l’Apostolo – perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1). E sono schiavitù, in politica come altrove, anche tutte le dipendenze e asservimenti su base economica e/o di potere. Quelle che il Papa definisce la brama esclusiva del profitto e dalla sete del potere. Esse sono da considerare come “azioni e atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo. […]. A ciascuno di questi atteggiamenti si può aggiungere, per caratterizzarli meglio, l’espressione: ‘a qualsiasi prezzo’. In altre parole, siamo di fronte all’assolutizzazione di atteggiamenti umani con tutte le possibili conseguenze”[6]. Sono liberi i teo-con rispetto ai potentati economici che alcune volte finanziano iniziative cattoliche? Sono liberi quei politici che si ritrovano in schieramenti dove il peso economico e le vicende personali dei leader hanno una forte influenza? “Conosco il partito clericale – ancora la penna sferzante di Bernanos–. So quanto sia privo di coraggio e di onore. Non l’ho mai confuso con la Chiesa di Dio. La Chiesa ha la custodia del povero ed il partito clericale è sempre stato soltanto il sornione intermediario del cattivo ricco, l’agente più o meno inconsapevole, maindispensabile, di tutte le simonie”[7].

Il rispetto

Il cattolicesimo non è più né religione di Stato, né religione della maggioranza degli italiani. È una realtà difficile da accettare. Allora più che rimpiangere i tempi passati ci dovremmo interrogare sulle responsabilità personali ed ecclesiali che hanno portato alla scristianizzazione, sulle colpe e sulle mancate testimonianze della comunità cristiana – il Papa lo ha fatto solennemente il 12 marzo 2000 –Non è tempo di nuove crociate. È tempo di imparare ad essere minoranza in un mondo secolarizzato, contraddittorio, che presenta segni positivi e negativi, ed anche ambigui. È tempo di rispettare e accogliere, come dice il Concilio, “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloroche soffrono” perché “sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”[8]. Certo, in politica si devono prendere delle decisioni e queste possono essere immorali, secondo la fede cristiana, ma ciò non toglie il rispetto di chi la pensa diversamente in merito a questioni scottanti dal punto di vista morale, psicologico e sociale. Va anche detto che, nel momento in cui le scelte politiche sono contrarie a quanto ispirato dalla fede, il fedele impegnato è chiamato alla coerenza e ad esprimere la sua obiezione di coscienza. Tuttavia nulla di tutto ciò autorizza a nuove crociate e ad ergere steccati, che non giovano né alla comunità cristiana, né ai singoli fedeli, né alle istituzioni politiche e, quindi, al bene dell’intera collettività.

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[1] G. BERNANOS, Journal d’un curé de campagne, Plon, Paris, 1936; trad. it. Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano, 1965, p. 72.
[2] PONT. CONS. DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE,Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano 2004; con un ricco indice per argomenti.
[3] J. MARITAIN, Distinguer pour unir ou Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Paris, 1932-1959; trad. it. Distinguere per unire. I gradi del sapere,Morcelliana, Brescia, 1974. p 22.
[4] Si vedano CONC. ECUM.VATICANO II, Gaudium et Spes, Roma, 1965, n. 4; PAOLO VI,Octogesima adveniens, Roma, 1971, nn. 4 e 42.; CONGR. EDUCAZIONE CATT.,Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale, Roma, 1988, nn. 7-10; GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo Rei Socialis, Roma, 1987, n. 1; GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus, Roma, 1991, nn. 5, 43, 56-59.
[5] GIOVANNI XXIII, Mater etMagistra, Roma, 1961, n. 217.
[6] GIOVANNI PAOLO II,Sollicitudo rei socialis, Roma, 1987, n. 37.
[7] G. BERNANOS, Scandale de la vérité, Gallimard, Paris, 1939; trad. it. Scandalo della verità,Logos, Roma, 1980, p. 86.
[8] CONC. ECUM. VATICANO II,Gaudium et Spes, Roma, 1965, n. 4.

Introduzione

Il grembiule tra fughe e attivismi

Le verità del Vangelo non fanno mai l’occhiolino

Tangentopoli, legalità e credenti

Cara raccomandazione, cosa non farei per te

Per amore dei poveri non tacerò

Ripartendo dagli ultimi: No profit e dintorni

Dalla parte degli immigrati

Il Papa, la pace e i distinguo

Lo scettro al vaglio

Chiesa, Massoneria e doppie appartenenze

I privilegi e il potere dei segni

Il denaro nel cortile del tempio

Mass media e teste vuote

Voglia di Democrazia Cristiana

Cattolici in bilico tra destra, centro e sinistra

Drammi e dilemmi del voto

Il clero presso lo scettro

Don Tonino conclude

Rocco D’Ambrosio,Il Grembiule e lo Scettro,Ed.La Merdidiana.

Spagna:aborti con lo sconto!!!


Spagna, ora si offrono aborti con lo sconto

Quindici per cento di sconto su elettrodomestici, armadi a muro e aria condizionata; 20% su occhiali e lenti a contatto; 15% su manicure e pedicure e 20% per le interruzioni volontarie della gravidanza.
Sconti per abortire. Non è un macabro scherzo e neppure un errore. Nella lista dei servizi offerti da negozi e aziende private – convenzionati con la regione Andalusia – c’è anche l’aborto.
Una clinica di Almeria e un istituto di Siviglia offrono prezzi speciali per le ragazze che presenteranno il Carnet Joven: una “Carta Giovane” promossa dall’Istituto Andaluso della Gioventù, dipendente dal governo della regione.
«Usala per tutto», è lo slogan della tessera: apparentemente una fidelity card come tante altre in Europa (il modello è l’European Youth Card, recentemente estesa fino ai 30 anni). Ma in Andalusia sono andati ben oltre: nell’elenco dei servizi convenzion ati – accanto all’autoscuola, alle librerie e ai negozi di abbigliamento – ci sono anche le interruzioni volontarie di gravidanza.
La vicenda – denunciata dal quotidiano Abc – ha sollevato una valanga di polemiche in Spagna. La commercializzazione dell’aborto è esplicita. Gli sconti proposti da una clinica sivigliana, ad esempio, riguardano «visite e servizi diretti all’interruzione volontaria della gravidanza, ecografia, servizi di pianificazione familiare, visite ginecologiche, vasectomia» e altro.
I responsabili dell’istituto sivigliano non hanno smentito l’informazione, al contrario: fonti della clinica assicurano che esiste una regolare convenzione con la previdenza sociale e che è uno sconto come tanti altri, «come quelli che trova un ragazzo quando vuole andare al cinema, al teatro, o questo tipo di cose». Il 10% di riduzione viene applicato ai proprietari della Carta Giovane anche da alcune farmacie sui medicinali: s! econdo i l giornale Abc questo potrebbe riguardare pure la “pillola del giorno dopo”, che in Spagna può essere acquistata liberamente senza ricetta medica.
La polemica esplode in un momento critico: la riforma dell’aborto voluta dal governo di José Luis Rodríguez Zapatero – approvata dal Senato a febbraio – entrerà in vigore fra pochi mesi. La nuova legge – che liberalizza l’aborto fino alla 14esima settimana di gestazione – permette alle minorenni di 16 e 17 anni di interrompere la gravidanza senza l’autorizzazione dei genitori. «L’ideologia del signor Zapatero non prevede una politica della salute per la donna, bensì una politica commerciale per l’industria abortista» è la denuncia della dottoressa Gador Joya, portavoce della piattaforma pro-life Diritto di vivere (Dav). Gli sconti «non possono sorprendere nessuno. È perfettamente coerente con il process o di imposizione della legge abortista più radicale d’Europa».
Per il direttore della Fondazione Vita, Manuel Cruz, è un problema di «banalizzazione» dell’aborto: «È vergognoso che si accompagnino praticamente per mano le donne ad uccidere un innocente, sovvenzionando delle imprese private, invece di usare quei fondi per aiutare le madri e lottare contro la crisi». Cruz accusa il governo andaluso (guidato dal Partito socialista, come l’esecutivo centrale) di «spingere la donna verso l’aborto senza riflettere, come se fosse un gioco», promuovendo un’«irresponsabilità sessuale» che rischia di trasformare l’interruzione della gravidanza in un metodo contraccettivo in più.
Michela Coricelli
avvenire.it
10 Aprile 2010

Ci sono idee che possono trovare condivisioni o bocciature clamorose, perché dipendono dalla sensibilità personale, dalla cultura acquisita, dall’ambiente che si è frequentato, dall’esperienza o dal naturale disincanto di fronte agli uomini e alle cose.
Ci sono poi valori non negoziabili, ovvero capisaldi nella nostra esistenza quotidiana, fattori imprescindibili dal nostro essere e dal nostro operare perché parte integrante della nostra storia. Uno di questi valori è il diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale.
Negare ciò è assurdo e inconcepibile. Negare che il diritto alla vita (dal concepimento alla morte naturale) sia un valore non negoziabile è un controsenso per chi la vita l’ha ricevuta.
Come può un uomo negare la vita ad un altro uomo? Può non accoglierlo, può stabilire di non curarsi di lui, magari perché e un diversamente abile, o perché non ha risorse per farlo, o perché è frutto di una violenza subita, o anche perché semplicemente necessita di tempo e amore che si sceglie di non dare.
Al di la dell’abito che si è deciso di indossare in società, del suo colore e della sua fattura, c’è una consistenza intrinseca all’uomo che non si può trascurare: anche lo spirito più libero e laico, prima o poi, deve fare i conti con se stesso.
Nel corso della passata campagna elettorale sono venute fuori posizioni ideali forti e coraggiose, che, se non hanno trovato immediato riscontro nell’elettorato (per la logica del ‘voto utile’? per posizioni ideologiche incancrenite?) hanno tuttavia smosso numerose coscienze e, soprattutto, hanno portato alla luce un numero incredibile di persone che ancora credono nel valore della vita, nella forza della famiglia, in una società più matura e consapevole.
Proponiamo in queste pagine i contributi più significativi che sono emersi sulla stampa negli ultimi due mesi. Vogliamo suscitare reazioni finalizzate ad un dibattito costruttivo con quanti avranno voglia di misurarsi con temi come questi.
L’auspicio è offrire al dibattito politico attuale temi forti a favore della persona. L’auspicio è che le fila di persone convinte che valga la pena di lottare per la vita, cresca in maniera esponenziale. L’auspicio è arrivare a far sentire la nostra voce nelle sedi competenti.
Giovanni Salizzoni

Quello di cui abbiamo bisogno è una giustizia a noi impossibile.

di Julián Carrón

Caro direttore,
mai come davanti alla dolorosissima vicenda della pedofilia tutti abbiamo sentito tanto sgomento.
Sgomento dovuto alla nostra incapacità di rispondere all’esigenza di giustizia che veniva fuori dal profondo del cuore.

La richiesta di responsabilità, il riconoscimento del male fatto, il rimprovero degli errori commessi nella conduzione della vicenda, tutto ci sembra totalmente insufficiente di fronte a questo mare di male. Niente sembra bastare. Si capiscono, così, le reazioni irritate che abbiamo potuto vedere in questi giorni.

Tutto questo è servito per mettere davanti ai nostri occhi la natura della nostra esigenza di giustizia. È senza confini. Senza fondo. Tanto quanto la profondità della ferita. Incapace di essere esaurita, tanto è infinita. Per questo è comprensibile l’insofferenza, perfino la delusione delle vittime, anche dopo il riconoscimento degli errori: nulla basta per soddisfare la loro sete di giustizia. È come se toccassimo un dramma senza fondo.
Da questo punto di vista, gli autori degli abusi si trovano paradossalmente davanti a una sfida simile a quella delle vittime: niente è sufficiente per riparare il male fatto. Questo non vuol dire scaricarli della responsabilità, tanto meno della condanna che la giustizia potrà imporre loro. Non basterà neanche scontare tutta la pena.

Se questa è la situazione, la questione più bruciante – che nessuno può evitare – è così semplice quanto inesorabile: «Quid animo satis?». Che cosa può saziare la nostra sete di giustizia? Qui arriviamo a toccare con mano tutta la nostra incapacità, genialmente espressa nel Brand di Ibsen: «Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?». O, detto con altre parole: può tutta la volontà dell’uomo riuscire a realizzare la giustizia a cui tanto aneliamo?

Per questo anche quelli più esigenti, più accaniti nel pretendere giustizia, non saranno leali fino al fondo di se stessi con la loro esigenza di giustizia, se non affrontano questa loro incapacità, che è quella di tutti. Se questo non accadesse, soccomberemmo a una ingiustizia ancora più grave, a un vero “assassinio” dell’umano, perché per poter continuare a gridare giustizia secondo la nostra misura dovremmo far tacere la voce del nostro cuore. Dimenticando le vittime e abbandonandole nel loro dramma.

Nella sua audacia disarmante è stato il Papa, paradossalmente, a non soccombere a questa riduzione della giustizia a una misura qualunque. Da una parte, ha riconosciuto senza tentennamenti la gravità del male commesso da preti e religiosi, li ha esortati ad assumersi le loro responsabilità, ha condannato il modo sbagliato con cui è stata gestita la vicenda per paura dello scandalo da parte di alcuni vescovi, esprimendo tutto lo sgomento che provava per i fatti accaduti e prendendo dei provvedimenti per evitare che si ripetano.
Ma, dall’altra parte, Benedetto XVI è ben consapevole che questo non è sufficiente per rispondere alle esigenze di giustizia per il danno inferto: «So che nulla può cancellare il male che avete sopportato. È stata tradita la vostra fiducia, e la vostra dignità è stata violata». Così come il fatto di scontare le condanne, o il pentimento e la penitenza dei fautori degli abusi, non sarà mai sufficiente a riparare il danno arrecato alle vittime e a loro stessi.

È proprio il suo riconoscimento della vera natura del nostro bisogno, del nostro dramma, l’unico modo per salvare – per prendere sul serio e per considerare – tutta quanta l’esigenza di giustizia. «L’esigenza di giustizia è una domanda che si identifica con l’uomo, con la persona. Senza la prospettiva di un oltre, di una risposta che sta al di là delle modalità esistenziali sperimentabili, la giustizia è impossibile… Se venisse eliminata l’ipotesi di un “oltre”, quella esigenza sarebbe innaturalmente soffocata» (don Giussani). E come il Papa l’ha salvata? Appellandosi all’unico che può salvarla. Qualcuno che rende presente l’aldilà nell’aldiqua: Cristo, il Mistero fatto carne. «Egli stesso vittima di ingiustizia e di peccato. Come voi, egli porta ancora le ferite del suo ingiusto patire. Egli comprende la profondità della vostra pena e il persistere del suo effetto nelle vostre vite e nei vostri rapporti con altri, compresi i vostri rapporti con la Chiesa».
Fare appello a Cristo, dunque, non è cercare un sotterfugio per scappare davanti all’esigenza della giustizia, ma è l’unico modo di realizzarla.
Il Papa si appella a Cristo, evitando un scoglio veramente insidioso: quello di staccare Cristo dalla Chiesa perché troppo piena di sporcizia per poterlo portare. La tentazione protestante sempre è in agguato. Sarebbe stato molto facile, ma a un prezzo troppo alto: perdere Cristo. Perché, ricorda il Papa, «è nella comunione della Chiesa che incontriamo la persona di Gesù Cristo». E per questo, consapevole della difficoltà di vittime e colpevoli a «perdonare o essere riconciliati con la Chiesa», osa pregare perché, avvicinandosi a Cristo e partecipando alla vita della Chiesa, possano «arrivare a riscoprire l’infinito amore di Cristo per ciascuno di voi», l’unico in grado di sanare le loro ferite e ricostruire la loro vita.

Questa è la sfida davanti alla quale siamo tutti, incapaci di trovare una risposta per i nostri peccati e per quelli degli altri: accettare di partecipare alla Pasqua che celebriamo in questi giorni, l’unico cammino per veder rifiorire la speranza.

Tratto da:Repubblica del 4-04-2010.

Il Caso della Baronessa di Carini….

BA

Chi fù la Baronessa di Carini?Personaggio femmineo realmente esistito,Laura Lanza di Trabia,il suo “mito” vive, imperituro, da circa 500 anni. La Baronessa fa,ancora oggi,parlare di sé. Perché? Perché è diventata,nell’immaginario collettivo siculo,l’archetipo del tradimento,dell’amore consumato in gran segreto,contro la volontà del “padre-padrone”.Dunque, amante ideale che volle pagare le sue pulsioni erotiche(per dirla con Freud) con il sacrificio della sua giovane vita. Perchè,dunque,non ricordarla oltre il tempo? Infatti,la storia della avvenente Laura Lanza è stata oggetto di studi e di ricerche,di canzoni popolari,di folclore,di romanzi. E lo sarà ancora…

La storia di Laura ha colpito,è colpisce ancora-come non potrebbe?-perché essa è divenuta il simbolo di un amore “impossibile”.Già,il mito del frutto proibito!Eros e Thanatos,Amore e Morte….Chissà se Freud ha conosciuto la storia della Baronessa…..poichè,essa,si presta molto all’analisi degli amori “proibiti”,a tratti “platonici” e,a tratti terribilmente erotici….di un erotismo fugace,ma intenso. A tratti angelicata,quasi fosse una stella proibita,a tratti donna passionale che non accetta la “ragion di stato” (di machiavelliana memoria)impostale dal padre-padrone.”Sa da fare”,insomma,proprio contro la ragion di stato! Così la Baronessa visse la sua giovane vita dimenandosi tra la ragion di stato del padre-padrone,contro la sua coscienza,e la trasgressione…..

Eppure una domanda sorge spontanea:ad oggi,quante “baronesse” ci sono ancora in giro? Cioè quante donne passionali  che coltivano amori “proibiti”,pur fingendosi,abilmente,donne angelicate e  sostenitrici del puro amore platonico e sempre disposte ad immolarsi per la ragion di stato che il “Papi-padrone”, di turno,chiederà? Insomma,uno spunto per riflettere sul fatto che un briciolo di correttezza,onestà e  dignità non guasta…..!!!

A riproporci tutto ciò il bel romanzo di Mariano Di Giovanni dal titolo emblematico:Il caso della Baronessa di Carini.Laura Lanza di Trabia.

 Interessante il commento,che vi propongo di seguito, di Lelio Rossi.

 La Baronessa di Carini, l’eroina del «Caso», non è soltanto per Mariano Di Giovanni il personaggio del suo romanzo; ma è anche il centro di appassionati studi sul fatto particolare, sulla storia del periodo in cui esso si svolse e sul folclore siciliano.

Il romanzo è un amaro commovente dramma d’amore, in cui due giovani innamorati. Laura Lanza di Trabia e Ludovico Vernagallo, sono inesorabilmente separati dalla volontà del padre di lei, Don Cesare, ligio interprete della legge feudale: Laura è obbligata a sposare il barone di Carini, don Vincenzo La Grua, e Ludovico, prode e leale cavaliere, a spasimare d’amore per Lei, cercando fugaci incontri o un impossibile oblio in qualche avventuroso viaggio. Ma Laura e Ludovico non sono soltanto due tenerissimi amanti; sono anche due spiriti eletti, alieni da ogni viltà e perciò condannati a soffrire ed a soccombere al tradimento altrui. Laura cade trucidata dal padre, Ludovico si lascia trafiggere da un sicario di don Vincenzo La Grua.

La natura della vicenda ed il carattere dei personaggi danno al romanzo un tono tutto particolare, a cui il Di Giovanni ha certamente dato l’accento. Laura e Ludovico sono nella fantasia dell’artista le forze del bene, incapaci di sopravvivere nella lotta che debbono sostenere contro quelle del Male.

Il loro linguaggio è sempre pervaso di questa loro fedeltà al Bene che, dopo tutto, coincide col loro amore; poche volte esprime un proposito di lotta o di reazione; invoca sempre la morte liberatrice. Da questo deriva un carattere di costante ed estrema delicatezza che si palesa soprattutto nel dialogo fra i due amanti, che è sempre musica, talvolta elegiaca, ma sempre legata ad uno stato d’animo sospeso tra il cielo e la terra, tra il sogno e la realtà.

Se la ricostruzione storica del «Caso» è molto vicina alla verità, bisogna dire che la ricostruzione fantastica, fatta dal Di Giovanni, è un grande atto di amore verso i valori che in essa intese onorare.

LELIO ROSSI

Orgoglio “vallelunghese”!

Ciascuno di noi porterà con sè,dalla nascita alla morte,l’aria del luogo dove è nato.Quest’aria cercherà sempre di ritornare a respirare e se vive lontano dal proprio paese natio,lo farà attraverso i ricordi dell’infanzia,gli odori che ha respirato,il sapore dei cibi che ha mangiato.Tutto ciò si chiama IDENTITA’  e affonda le proprie RADICI nell’humus dove si è nati. Mai,dunque,perdere la propria IDENTITA’.Per fare ciò,bisogna stare attaccati,con qualsiasi modo lecito, alle proprie RADICI.Molta bibliografia scientifica ha provato che molti emigrati che hanno perso le loro RADICI,hanno subito danni gravi,nel tempo,alla loro salute psico-fisica.

Detto ciò,do seguito,con molto piacere,alla richiesta dell’amico e compagno di scuola(seppur per un anno)dell’Ingegnere Ferdinando D’Anna che lavora presso i Vigili del Fuoco di Torino,di rendere note nel mio blog,le tante cose utili e belle che i tanti vallelunghesi ,sparsi nel mondo, fanno ogni giorno e in silenzio.L’ingegnere D’Anna ha partecipato,a Coppito in Abruzzo, alle operazioni di soccorso pro terremotati,ricevendo,insieme ai suoi colleghi di lavoro,vari attestati di riconoscenza per il lavoro svolto. Tanti altri vallelunghesi onorano le loro origini,lavorando con dignità  e senso di responsabilità.Vallelunga,dunque,non solo mafia. Un ringraziamento sentito a Ferdinando per il lavoro svolto in favore dei terremotati d’Abruzzo,avendo sempre nel cuore,così come tutti noi,la nostra amata cittadina che ci ha dato i natali.

coppito per michele

Invito altri vallelunghesi che,per caso,”passassero” da questo blog,a segnalarmi,se lo vorranno,ciò che fanno in favore delle comunità dove vivono,in Italia o all’estero.

Cordiali saluti a tutti i vallelunghesi emigrati.

Quando l’arte è amica dei disabili….

PALERMO

QUANDO L’ARTE E’ AMICA DEI DISABILI

RAFFAELE LEONE, IL CORAGGIO DI UN ARTISTA

Le ultime mostre a Capaci e a Isola delle Femmine

di Ferdinando Russo

Ha detto sì alla vita, al lavoro, all’arte, Raffaele Leone, l’artista tetraplegico, dall’età di quindici anni. Un incidente stradale lo ha immobilizzato per tutta la vita su una sedia, due ruote, una mano che doveva spingerlo, per sempre. Non riusciva a darsi pace, a quindici anni, all’età delle corse e della fantasia creatrice, l’età degli studi, dei sogni e delle avventure. 

Ed era come se tutto gli fosse negato, il movimento, il diverso paesaggio delle diverse giornate,la libertà di relazionarsi con gli altri, i compagni,gli amici, le ragazze, i parenti lontani. 

Nell’ospedale c’era il medico di turno, sembrava che conoscesse tutto e non potesse fare  niente c’era l’infermiere che passava sempre frettoloso, c’era  il vicino ,in un lettuccio bianco ,che tentava consolarlo.  Ma un “angelo terreno” avrebbe incontrato Leone, un giorno, là proprio in ospedale ,mentre meditava , tra disperazione e sconforto.

Aveva il nome di Eleonora Dragotta, la signora che l’avvicinava per incoraggiarlo,per dirgli che si sarebbe ripreso,che la vita lo avrebbe ancora interessato ,bastava volerlo. Da allora Eleonora divenne, a poco a poco, la sua “mamma adottiva”. Poi i colori dell’arcobaleno per scomporli e ricomporli come compete all’uomo, in ogni tempo, perchè altri li scoprano, dopo le tempeste della vita e ne diano merito al Creatore.  Un’eccellente fotografa, la sig.ra Maria Pia Lo Verso ha scritto, recentemente , “Se tornassero gli angeli in città”(1). 

Raffaele li ha conosciuti gli angeli, hanno le sembianze degli uomini e delle donne buone e generose della Sicilia, come li hanno rappresentati, nelle foto della Lo Verso,gli artisti più rinomati. 

Lo sanno gli immigrati senza documenti, ospitati tra amore e paura. Lo costatano i poveri di Biagio Conte, lo verificano gli anziani accolti nelle opere di Giacomo Cusmano, lo sanno i bambini della Georgia, che ogni anno tornano nella città di Palermo tra  famiglie affettuose e non necessariamente ricche, per un soggiorno curato dal Movimento Cristiano dei Lavoratori. 

Com’Eleonora, che aiutava Raffaele a scoprire la sua vocazione d’artista, ad avere fiducia nella vita, a crearsi un lavoro, il piu’ bello, quello del pittore. 

E Raffaele s’innamora subito dei colori, delle terre gialle e rosse, delle polveri che Eleonora dovrà impastare nell’olio, per essere pronte a transitare sulle tele e diventare oggetti ,soggetti di ammirazione ,  e ciò nei tempi strappati ai prevalenti doveri della famiglia .

Eleonora lo aiuta a scoprire il suo innato talento d’artista pittorico delle piccole e poi delle grandi tele. Su queste si configurano gli alberi, come il rifugio degli uccelli, come il posto di lavoro e di studio di un altro artista del novecento, Benedetto Messina. Leone è cresciuto così ogni giorno nella sua vocazione di pittore.

Ha recuperato la rinascente naturale voglia di vedere e di comunicare, come ogni uomo da quello delle caverne, che ha abitato le grotte del territorio di Carini e Capaci, il comune che ospita ora una sua mostra, a quello che si rifugiava nelle grotte dell’Addaura, ove da ragazzo era stato accompagnato . L’Associazione “Elios” gli ha organizzato una mostra nel Palazzo dei conti Pilo di Capaci e l’iniziativa è stata patrocinata dal Comune di Capaci, che ha voluto premiare il maestro d’arte  Leone , unendo la sua esposizione a quella di un’altra famosa artista ,Patricia Falcone. 

La sua libertà nei ricordi degli alberi della Palermo, dai viali verdi, dalle ville con le magnolie giganti, i platani che si rincorrono in via Libertà. 

Gli riapparivano le immagini delle cose viste, dei fiori che tornavano ad ogni primavera dei prospetti dei palazzi lungo le strade del centro storico di Palermo che guardava sgomento ragazzino, correndo in bicicletta e che ora i giovani ricercatori catalogano perchè nessuno di loro sia mai più distrutto dall’uomo del terzo millennio.Incontrandolo, tra le sue amate tavolozze, a Capaci, racconto a Leone che nell’amata città di Palermo, due giovani architetti ricercatori hanno catalogato le cento migliori opere dell’architettura della città capoluogo (2).

Hanno mostrato cento opere, degne d’ammirazione, del nostro Novecento architettonico e una scrittrice, proprio d’Isola delle Femmine, ha scoperto tra i vicoli dell’abbandono, Cento chiese in ombra, degna d’attenzione per le opere che nascondono, per la storia che racchiudono, frutto della fede popolare e ricche di tesori, riserva privilegiata dei ladri senza anima.(3) 

Potrebbero diventare altri soggetti reali e non fantastici per Leone, cosi attento e ricercato nel dare luce alle opere dell’ingegno costruttivo come la “Stazione centrale”, che fa bella mostra nell’esposizione di Palazzo Pilo e da dove sono partiti in cerca di lavoro tanti isolani, senza poter dimenticare il sole ed il mare,il cielo di un azzurro, che gioca con batuffoli di neve ,quello di Cefalù o di Capaci. 

Nelle tele non mancano le spiagge, con le vicine barche confortevoli, in cerca di polipi smarriti,  quando la luna si nasconde ,e giu’, tra gli scogli visibili  per l’acqua ancora cristallina gli ultimi pesci mediterranei. 

A Capaci sono nell’attesa dell’Acquario, promesso ai pescatori, ai pochi marinai ed ai ragazzi dal sindaco Benedetto Salvino e dai parlamentari, per ricordare che il territorio comunale e la città, un giorno erano fondo marino. 
 
Il sindaco ci ripensa, mentre si sofferma, con il Presidente del consiglio Provinciale Marcello Tricoli, con gli assessore Margarini e Ravveduto ad ammirare i quadri di Leone, i fiori della terra e quelli delle donne alla prima maternità e nell’arte trova ispirazione, con gli assessori comunali,che visitano con interesse la mostra e vi trovano stimoli per altre iniziative sociali e culturali. 

Raffaele Leone non è  nuovo ad esporre i suoi quadri in significative mostre .Dopo Capaci lo hanno richiesto ad Isola delle Femmine.

Ha raccolto successi e favorevoli critiche a Palazzo d’Orleans, con il patrocinio dell’allora Presidente della Regione Totò Cuffaro, a Villa Niscemi, alla Fiera del Mediterraneo, nella città dell’arte, a Monreale, nel restaurato Palazzo monumentale “Guglielmo II”e le sue tele, anche di gran dimensione, coprono intere pareti, con gli alberi che ama, con i paesaggi, che ritrae splendidamente, con i bambini, che gli ricordano un’altra infanzia,  

In futuro forse non mancherà una sua mostra sui prospetti artistici delle case della Sicilia, per conservarli almeno nelle tavolozze dei pittori e forse dalla rovina, ora che i comuni e la Regione incoraggiano i proprietari degli immobili a dare la giusta evidenza ai palazzi ed alle abitazioni anche modeste. 

Leone insegue l’architettura del Creatore, prima di quella d’ingegneri, architetti, maestri marmisti, scultori della pietra, intagliatori, depositata in quest’Isola da amare, come solo gli artisti sanno fare. Come Leone.   

 I prospetti allineati lungo le strade del centro, le cento e cento chiese delle preghiera e dell’incontro con Dio e dentro i quadri degli artisti ispirati dalla fede,le immagini della Madonna e dei santi. 

Leone impara ad emularli, si fa condurre a vistare le chiese della grande Palermo,. 

Ed è come pregare, trovare risorse immense da distribuire alla sua fantasia , poi, nelle giornate con i colori e i libri ,già i libri delle arti italiane e straniere.   

Ora Raffaele Leone è un artista nella pienezza del termine, lavora in Via Tasso, a Palermo, ove abita ed ha il suo laboratorio.I ragazzi, i curiosi gli appassionati, amanti delle arti, lo chiamano il “maestro.” E Raffaele, si compiace, lo gradisce quel titolo, quell’identità in fieri, come i grandi del pennello delle arti . 

Non ha ancora iniziato ad insegnare, come ha fatto Benedetto Messina, il pittore, scultore, ceramista e mosaicista di Monreale, che ci ha lasciato all’età di novantanni e che, ancora giovanissimo, ha trasformato la sua casa in scuola d’arte, come Aida Vivaldi, che insegna ai ragazzi delle scuole di Palermo, che non hanno più la voglia di studiare le lingue morte, le astrusità matematiche, le regole grammaticali di uno scrivere e parlare diverso da quello dei quartieri di provenienza ed invece s’innamorano subito della musica, dell’arte del disegno e della pittura, della scultura di legno e pietra. 

Ma “i papaveri rossi in un campo verde, ”(altra opera esposta da Raffaele Leone a Capaci) attraggono i giovani, sono come le speranze che hanno nutrito i popoli per la giustizia ,sono come le bandiere che hanno alzato al vento ed inseguito interi popoli in cerca di futuro,sono come le sirene dei molti giovani, che ne diventano prigionieri e Leone li mette già in allarme. 

Un giorno, anche lui sarà maestro come Messina e Vivaldi, per questi giovani con l’entusiasmo e la generosità d’Eleonora e chissà che a Capaci, tra le tavolozze che guardano i turisti, i pittori come Leone non si riuniscano per istituire una scuola di pittura per i ragazzi senza un mestiere, senza una speranza ,ma con tanti talenti naturali, che le arti aiutano a scoprire .

Questo ha voglia di comunicare Leone, mentre non nasconde la sua gratitudine immensa che rivolge ad Eleonora e, sua tramite, a Dio che non abbandona le creature della terra, anche quando il dolore si abbatte su di loro.

Ed Eleonora è anch’essa la protagonista umile delle mostre di Raffaele.

Ha il volto della Sicilia generosa e ci accompagna ora nelle sale di Palazzo Pilo, nelle sale che si offrono a tutti gli artisti, che hanno diritto a sperare nella bontà del prossimo e delle istituzioni. 
 

  Ferdinando Russo

  onnandorusso@libero.it 

1)M. P.Lo Verso, Il Giardino degli Angeli, a cura di Francesco Marcello Scorsone, Documentario della Mostra con Vinny Scorsone in www.Youtube.it  

2)M.Iannello e G.Scolaro, Palermo Guida all’architettura       del ‘900,introduzione di Vittorio Gregotti, Edizioni Salvare Palermo 

3)G.Sommariva, Palermo cento Chiese in ombra, Conoscere i tesori nascosti del centro storico Fotografie d’Andrea Ardizzone,Dario Flaccovio Editore,Palermo 2007

San Giuseppe 2009:altari,mense,tavolate…

VALLELUNGA PRATAMENO (CL)

Istituto San Pio X-Casa del Fanciullo

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TERRASINI (PA)

Abitazioni private

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SAN CATALDO (CL)

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Chiesa di San Giuseppe-San Cataldo.

Ci alzeremo…..

 

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Ci alzeremo in piedi ogni volta che

la vita umana viene minacciata…

 

Ci alzeremo ogni volta che

 la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita

 

Ci alzeremo e proclameremo che

nessuno ha l’autorità di distruggere la vita non nata…

 

Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso

o solo come un mezzo per soddisfare un’emozione

e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio…

 

Ci alzeremo quando l’istituzione del matrimonio

viene abbandonata all’egoismo umano…

e affermeremo l’indissolubilità del vincolo coniugale..

 

Ci alzeremo quando il valore della famiglia

è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche…

e riaffermeremo che la famiglia è necessaria

non solo per il bene dell’individuo

ma anche per quello della società…

 

Ci alzeremo quando la libertà

viene usata per dominare i deboli,

per dissipare le risorse naturali e l’energia

e per negare i bisogni fondamentali alle persone

e reclameremo giustizia…

 

Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti

vengono abbandonati in solitudine

e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto

GIOVANNI PAOLO II

Caso Englaro:tre opinioni a confronto.

IL CASO ENGLARO
 

 

La natura e il suo corso

di Ernesto Galli Della Loggia

 

 

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E così alla fine il governo è intervenuto in prima persona con un provvedimento d’urgenza nella vicenda di Eluana Englaro. È giusto comprenderne le indubbie motivazioni di carattere umanitario, ma non per questo si può passare sotto silenzio il vulnus che il governo stesso, se questa sua decisione avesse avuto corso, avrebbe inferto alle regole dello Stato costituzionale di diritto. Un cui principio fondamentale, come fin dall’inizio ha giustamente ricordato il presidente Napolitano, è che l’esecutivo non può emanare decreti con lo scopo di modificare o rendere nullo quanto deciso in via definitiva da un tribunale.

E se Napolitano ha mantenuto questa sua opposizione fino al punto di rifiutarsi di controfirmare il decreto uscito dal Consiglio dei ministri, non si può che apprezzare la coerenza e la fermezza del capo dello Stato. Il che non vuole affatto dire però, si badi bene, che ciò che in questo caso i giudici hanno stabilito non lasci nell’opinione pubblica (e certamente, e fortunatamente, non solo in quella cattolica) profonde e giustificatissime perplessità. Le quali, data la materia di cui si tratta, possono arrivare talvolta a prendere perfino la forma di un vero sentimento di rivolta morale. A suscitare forti dubbi è proprio il fondamento stesso della decisione finale presa dalla magistratura e cioè l’asserita volontà (ricostruita ex post su base totalmente indiziaria; ripeto: totalmente indiziaria) di Eluana; la quale, si sostiene, piuttosto che vivere nelle condizioni in cui da diciotto anni le è toccato di vivere, avrebbe certamente preferito morire.

L’altissima opinabilità di questa ricostruzione è dimostrata dal semplice fatto che in precedenza per ben due volte (Tribunale di Lecco nel 2005, Corte d’appello di Milano nel 2006) le conclusioni dei giudici erano andate in direzione opposta a quella successiva: allora, infatti, essi sostennero che non esistevano prove vere e affidabili per stabilire la reale volontà della ragazza, intesa come «personale, consapevole e attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa». Poi la sentenza terremoto della Corte di cassazione; prove simili non furono più ritenute necessarie: per decidere della vita e della morte di Eluana, stabiliscono i giudici, basta adesso tener conto «della sua personalità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche» (si sta parlando, lo si ricordi sempre, di una persona che all’età dell’incidente aveva diciotto anni).

Ed è precisamente sulla base di questa direttiva emanata dai giudici supremi che la Corte d’appello di Milano cambia nel 2008 il proprio orientamento e quelli che prima erano indizi generici si tramutano in prove della personalità di Eluana «caratterizzata da un forte senso d’indipendenza, intolleranza delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni ». Dunque si proceda pure alla sua eliminazione. Mi sembra appropriato il commento di un giurista di vaglia, Lorenzo D’Avack, sull’Avvenire di giovedì: «Giovani liberi, tendenzialmente anticonformisti, un poco anarchici, dinamici, attivi, con qualche entusiasmo per lo sport, diventano così per la Corte i soggetti ideali per un presunto dissenso, ora per allora, verso terapie di sostegno vitale ». C’è o non c’è, mi chiedo, motivo di qualche perplessità? Tanto più che contemporaneamente, come fa notare sempre d’Avack, la stessa Cassazione, in un caso di rifiuto delle cure da parte di un Testimone di Geova, stabilisce, invece, che a tale rifiuto i medici devono sì ottemperare, ma solo se esso è contenuto «in una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà».

Ma guarda un po’! Torno a chiedermi: c’è o non c’è motivo di qualche perplessità, forse anzi più d’una? Detto ciò della ricostruzione della volontà di Eluana — che pure, non lo si dimentichi, allo stato attuale è premessa assolutamente dirimente per qualunque decisione da prendere—resta un’ultima questione, quella del «lasciar fare alla natura il suo corso», come si dice da parte di chi pensa che si possa tranquillamente far morire la giovane. Un’ultima questione, cioè un’ultima domanda: davvero l’espressione «lasciar fare alla natura il suo corso» può arrivare a significare il divieto di idratazione e di alimentazione di un corpo umano? Davvero «far fare alla natura il suo corso» può voler dire far spegnere una persona per mancanza d’acqua? La coscienza di ognuno di noi risponda come può e come sa. Ma per tutto questo tempo, in realtà, il corpo di Eluana Englaro non ha ricevuto solo liquidi e alimenti; esso è stato anche costantemente sottoposto ad una penetrante protezione farmacologica senza la quale assai probabilmente non avrebbe mai potuto sopravvivere così a lungo.

È proprio da qui si potrebbe forse partire per immaginare quale soluzione dare in futuro ad altri casi analoghi. Una soluzione, questa volta legislativa, che proprio il decreto di ieri del governo mette in modo ultimativo all’ordine del giorno dei lavori parlamentari, e che potrebbe fondarsi sul concetto di divieto di accanimento terapeutico, ormai pacificamente accolto nelle nostre leggi. Tale divieto, com’ è noto, si sostanzia in un obbligo di non fare, di non procedere alla somministrazioni di cure allorché è ragionevole pensare che esse non possano in alcun modo servire alla guarigione o a qualche miglioramento significativo delle condizioni del paziente; limitando in questi casi l’opera del medico solo al sollievo dal dolore. Si tratta peraltro—ed è questo un aspetto decisivo—di un obbligo/ divieto che per valere non ha bisogno di essere convalidato da alcuna decisione particolare del malato, dal momento che fa parte del codice deontologico di tutti coloro che esercitano la professione medica.

Ebbene, non riesco a vedere una ragione valida per cui nel divieto di accanimento ora detto non possa essere fatto rientrare la non somministrazione di farmaci a chi, come è il caso di Eluana Englaro, si trova da tempo in condizioni di stato vegetativo persistente al quale quelle medicine stesse non possono arrecare alcun giovamento ma al massimo assicurarne l’indefinita prosecuzione. Non produrre la morte di alcuno negandogli l’idratazione e l’alimentazione. Togliere invece ogni medicamento. Questo sì mi sembrerebbe un vero «lasciar fare alla natura il suo corso»: rimettendosi al caso o ai disegni imperscrutabili da cui dipendono le nostre vite.

Corriere della Sera 07 febbraio 2009

 

«E’ un omicidio, quel decreto è un dovere»   
«Lo Stato ha il diritto di proteggere la vita di ogni suo cittadino» 
Intervista al cardinale Camillo Ruini

di Aldo Cazzullo

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 Cardinal Ruini, quali sono i suoi sentimenti in queste ore decisive per la sorte di Eluana Englaro?
«Sofferenza. Non ho mai conosciuto Eluana, ma prego per lei ogni giorno. Preoccupazione. Speranza. E impegno a fare tutto il possibile. Innanzitutto, per far sapere quali sono le sue reali condizioni: chi è informato bene, di solito non ha più dubbi. È stato importante che la suora che l’ha assistita sia andata in tv a raccontare la sua esperienza con Eluana. Non ha senso attribuire all’Eluana di oggi, dopo quel tragico incidente, le aspirazioni e i desideri di prima. Eluana è stata sfortunata. Ha perduto molto. Ora ha bisogno di poco, è protesa verso quel poco, con poco può vivere senza soffrire. Non colpiamola una seconda volta. Non togliamole anche questo poco».
Lasciarla morire equivale a un omicidio?
«Lasciarla morire, o più esattamente — per chiamare le cose con il loro nome — farla morire di fame e di sete, è oggettivamente, al di là delle intenzioni di chi vuole questo, l’uccisione di un essere umano. Un omicidio. Purtroppo inferto in maniera terribile, senza che nessuno possa essere certo che Eluana non soffrirà».

È giusto che il governo sia intervenuto con un decreto? E il capo dello Stato avrebbe dovuto firmarlo?
«Non ho ancora avuto modo di conoscere il testo del decreto del governo e della lettera del capo dello Stato, ma conosco le obiezioni secondo le quali questo decreto sarebbe una prevaricazione nei rapporti tra i poteri dello Stato. Di prevaricazioni però in questa vicenda se ne sono già fatte molte. A cominciare dai giudici che hanno applicato una legge che non esiste e che, soprattutto, non hanno tenuto conto della situazione reale di Eluana. Ad ogni modo, ritengo che lo Stato abbia il diritto, e aggiungerei il dovere, di proteggere la vita di ogni suo cittadino».

Una legge sul testamento biologico ora è necessaria? E come andrebbe impostata?
«Preferisco parlare di legge sulla fine della vita. La parola testamento implica infatti che si disponga di un oggetto, ma la vita non è un oggetto, non è un appartamento o una somma di denaro. La legge dovrebbe evitare sia l’eutanasia sia l’accanimento terapeutico. Ma è ovvio che la nutrizione e l’idratazione non possono essere lasciate alla decisione dei singoli, perché toglierle significa provocare la morte. Se eutanasia significa morte “dolce”, “buona”, la fine di Eluana sarebbe peggio dell’eutanasia: Eluana morirebbe di fame e di sete. La sua sarebbe una morte pessima».

Il padre, Beppino Englaro, ha avuto parole dure su quella che considera un’ingerenza della Chiesa. Ha torto?
«Il rispetto è dovuto a tutti, ma il rispetto massimo è dovuto al signor Englaro, che vive questa terribile esperienza di persona. Nessuno di noi può sindacare su come reagiscono i genitori toccati così profondamente dal dolore. Ho conosciuto genitori che si ribellavano di fronte a quella che ritenevano un’ingiustizia divina, e altri che la accettavano. Ricorderò sempre il giorno in cui fui testimone di un incidente stradale a Regnano, sulle colline di Reggio Emilia. Stavo guidando. Davanti a me, un giovane cadde dalla moto. Non andava forte, ma c’era ghiaia sulla strada e perse il controllo, la moto gli cadde addosso. Mi fermai, gli diedi l’estrema unzione, ma era già morto. Gli abitanti del paese mi dissero: la madre è malata di cuore, vada lei a darle la notizia. Mi feci carico del duro compito. Quella donna, una contadina, rimase a lungo in silenzio. Poi mi guardò e disse: “La Madonna ha sofferto di più”…». (Il cardinale si interrompe, commosso).

Parlavamo dell’ingerenza.
«Non ingerenza, ma adempimento della missione della Chiesa. Come ha detto con una formula molto efficace Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptor hominis, “sulla via che conduce da Cristo all’uomo la Chiesa non può essere fermata da nessuno”. Ogni essere umano è degno di rispetto e amore; tanto più gli innocenti, gli inconsapevoli, i colpiti dal destino».

L’ha colpita il gesto delle suore che erano pronte ad accogliere Eluana e occuparsi di lei negli anni a venire?
«Mi ha toccato profondamente, ma non mi ha sorpreso. Ho avuto molte esperienze in merito. Penso alle suore delle case di carità di Reggio Emilia, che ora sono anche qui a Roma. Donne che accolgono persone in condizioni gravissime e le accudiscono con dedizione totale e con gioia. E molti sono i volontari che le affiancano».

Quali casi ha conosciuto di persona?
«Ad esempio, famiglie che hanno figli cerebrolesi dalla nascita, incoscienti eppure non indifferenti, perché in modo istintivo percepiscono le correnti di affetto. Ci sono genitori che rifiutano figli così, ma ci sono altri che li accettano. La vita di quei ragazzi, che talora ho visto diventare adulti, non è meno preziosa. Non posso accettare l’idea che la loro vita valga meno della mia o di qualsiasi altra».

Quali sensibilità ha colto sulla vicenda nell’opinione pubblica, credente o non credente? I sondaggi indicano che in molti sostengono le ragioni di Beppino Englaro.
«Io non ho fatto sondaggi, ma ho discusso in varie occasioni con la gente comune. All’inizio l’interesse era minore, e in tanti consideravano giusto che fosse il padre a decidere. Ma non appena vengono informati sulle reali condizioni di Eluana, in pochissimi restano favorevoli a lasciarla morire. Uno dei miei interlocutori si è proprio arrabbiato: “Ma perché i giornali non scrivono queste cose?”».

E lei come ha trovato i giornali?
«In buona parte schierati. Mentre le tv lo sono state meno, hanno dato spazio anche alle nostre ragioni, come già accadde per il referendum sulla procreazione assistita».

Diceva delle sue discussioni con la gente comune.
«Il fattore che la orienta non è tanto quello religioso. Non ci sono i credenti di qua e i non credenti di là. L’impressione è che ci siano piuttosto gli informati e i non informati. L’esperienza mi ha insegnato inoltre che i malati, per quanto gravi, sperano sempre di continuare a vivere».

In un’intervista a Giacomo Galeazzi della «Stampa», l’arcivescovo Casale, schierandosi con papà Englaro, dice: «Anche Giovanni Paolo II ha richiesto di non insistere con interventi terapeutici inutili».
«Penso di aver conosciuto bene Giovanni Paolo II, e ho vissuto quei giorni in stretto contatto con il suo segretario Don Stanislao Dziwisz, mio carissimo amico. So bene dunque il senso delle ultime parole del Papa, “lasciatemi andare”. Quando non c’è più niente da fare, il credente sa che, con la morte, per lui la vita non finisce, ma in un certo senso comincia. Sia credenti sia non credenti possono dire “lasciatemi andare” in modo eticamente legittimo, ma per un credente queste parole indicano anche una speranza, significano “lasciatemi tornare alla casa del Padre”. Chi ha un’esperienza anche piccola del modo in cui Giovanni Paolo II viveva il suo rapporto con Dio non ha dubbi al riguardo».

Lei era capo dei vescovi quando si visse il dramma di Piergiorgio Welby. Diverso da quello di Eluana perché il malato era cosciente e aveva chiesto di morire. Ripensandoci oggi, non era possibile un atteggiamento diverso da parte della Chiesa? Ad esempio concedere i funerali?
«È vero, quel caso era molto diverso. Non solo Welby era cosciente; era molto più dipendente dalla tecnologia per continuare a vivere. Nel mezzo della prova, lui scelse di porre fine alla sua vita. Una scelta che Eluana non ha mai fatto. Quanto alla mia decisione, la Chiesa non può consentire — tanto più quando un caso ha rilevanza pubblica — che si rivendichi nello stesso tempo l’appartenenza al cattolicesimo e l’autonomia nel decidere sulla propria vita. Non si può dire: “Io sono cattolico, e decido io”».

Può un cattolico, tanto più un vescovo, negare la Shoah? È una semplice opinione personale in contrasto con quanto sostiene la Chiesa, o è un dato incompatibile con la presenza della Chiesa stessa?
«A questa domanda ha già risposto la Santa Sede, con la nota della Segreteria di Stato pubblicata sull’Osservatore Romano secondo la quale, per essere ammesso alle funzioni episcopali, Williamson deve “prendere in modo inequivocabile e pubblico le distanze dalla sua posizione sulla Shoah”. Se non lo fa, non può fare il vescovo».

Come giudica l’invito del cancelliere Angela Merkel al Papa a fare chiarezza sul negazionismo dei lefebvriani?
«Quanto meno superfluo. Basta ricordare o rileggere quanto disse Benedetto XVI ad Auschwitz, domenica 28 maggio 2006, con parole che toccarono profondamente tutti i presenti, me compreso».

La vicenda Englaro le pare collegata alla denuncia del vuoto di valori e del relativismo etico, temi-chiave del pontificato di Ratzinger?
«Uno dei caratteri del magistero di Benedetto XVI e della teologia di Joseph Ratzinger è la denuncia del relativismo etico o, per usare la formula da lui coniata, della dittatura del relativismo. In Italia, e ancor più in altri Paesi dell’Occidente, esiste un’emergenza educativa, che rappresenta un’ipoteca sul nostro futuro e ha le sue radici nella mentalità diffusa, secondo la quale non esistono più punti di riferimento che precedano e possano illuminare le nostre scelte. Quando non siamo più d’accordo su cos’è l’uomo, quando l’uomo viene ricondotto totalmente ed esclusivamente alla natura, salta ogni differenza qualitativa, viene meno lo specifico umano, cadono o cambiano radicalmente i parametri educativi. Si aprono così le porte al nichilismo, che nasce, come ha spiegato bene il suo primo sostenitore, Federico Nietzsche, con la “morte di Dio”. La Chiesa italiana è pronta a un grande sforzo sull’educazione, collaborando con altri soggetti per il futuro del Paese, e pubblicherà in merito un “rapporto-proposta”. Stiamo lavorando inoltre ad un grande evento internazionale per il dicembre prossimo a Roma, dove arriveranno alcuni tra i più importanti studiosi del mondo a confrontarsi sul tema di Dio e del suo significato per la nostra vita, anche in rapporto con la scienza». 

Corriere della sera 07 febbraio 2009

 

 Giovanni Reale: «Farla sopravvivere è andare contro natura»

Il filosofo cattolico: la Chiesa e il governo politicizzano una cosa metapolitica

di Daniela Monti

 

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«Ma ancora non c’è nulla di deciso, vero?», chiede Giovanni Reale. «Il decreto del governo è un errore, si oppone all’idea di libertà su cui è radicato il concetto occidentale dell’uomo. E lo dico da cattolico». «Napolitano ha fatto il suo dovere di Presidente, ha richiamato l’attenzione sulla sostanza della Costituzione. Un uomo saggio. Almeno uno».

«Sopravvivenza a prezzo di vita». Quando entra nel merito della vicenda di Eluana Englaro, cita il francese Jean Baudrillard. Da 17 anni, per Reale, Eluana Englaro sopravvive a prezzo della vita. «La tesi portata avanti da molti uomini della Chiesa, e ora anche del governo, è sbagliata e va corretta — dice il filosofo —. Nel caso di Eluana vedo un abuso da parte di una civiltà tecnologica totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi da volersi sostituire alla natura. Si è perduta la saggezza della giusta misura. La Chiesa, e il governo insieme a lei, sono vittime di questo paradigma culturale dominante». Racconta di sua madre. «Era all’ospedale con il cancro, i medici volevano riempirla di tubi. “Potremmo prolungarle la vita di qualche mese”, dicevano. Io ero frastornato. È stata lei a decidere: lasciatemi morire a casa, nel mio letto. In quel periodo stavo traducendo il Fedone di Platone e anche lì, con parole diverse, ho ritrovato il senso di quel desiderio di mia madre. Quando Socrate deve bere la cicuta, qualcuno gli suggerisce: “C’è ancora qualche ora, attendi finché il sole non sia tramontato”. Ma non ha senso aggrapparsi alla vita quando ormai non ce n’è più». Se mi trovassi nella condizione di non aver più speranze di guarigione, aggiunge Reale, «non avrei dubbi su cosa scegliere».

Anche la Chiesa condanna l’accanimento terapeutico. Ma un sondino per l’alimentazione è accanimento terapeutico? Su questo ci si divide. «La Chiesa dice molte cose sagge. Per esempio: si può rinunciare all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo. Ed è proprio questo il caso di Eluana: qui non c’è stata proporzione e non c’è nessuna ragionevole speranza di esito positivo. E allora? Perché questo accanirsi contro di lei?». Reale, da credente, rivendica la libertà di coscienza dei cattolici sul caso di Eluana. Di più: dice che la libertà di coscienza «è un preciso dovere morale» e si affida a un’altra citazione, questa volta un aforisma di Gomez Davila: «Ciò che si pensa contro la Chiesa, se non lo si pensa da dentro la Chiesa, è privo di interesse». «Ecco — riprende — molte critiche che vengono dall’interno sono costruttive. Io critico il paradigma culturale che vorrebbe tenere in vita Eluana contro la natura, e la fede con questo non ha nulla a che fare, la fede è al di sopra della cultura, il suo compito è fecondare la cultura stessa».

Se il diritto alla vita perde la precedenza su tutti gli altri valori, sa anche lei quale potrebbe essere il prossimo passo: parlare in termini meno ideologici di eutanasia. «Errore. Io non lascio aperto nessuno spiraglio all’eutanasia. Non dico: fammi morire. Ma: lasciami morire come ha stabilito la natura. Né io, né tu. La natura. Prendiamo il caso di Piergiorgio Welby, che ho seguito da vicino. Welby sostanzialmente non disse: staccate la spina. Ma: lasciate che la natura faccia il suo corso, non fatemi restare vittima di una tecnologia che costruisce qualcosa di sostitutivo e artificiale rispetto alla natura. È un’affermazione identica a quella che si dice abbia fatto Giovanni Paolo II: lasciatemi tornare alla casa del padre. Il secondo aveva fede, il primo no. Per Welby era andare nella notte assoluta, per il Papa nella vita. Ma dal punto di vista umano è la stessa condivisibile richiesta». A complicare il caso di Eluana c’è la questione della ricostruzione della sua volontà presunta. «Chi più del padre e della madre ama quella ragazza? Mi sembra che nessuno più di loro abbia il diritto di dire che cosa avrebbe voluto fare la figlia, ora che lei non è più in grado di esprimersi».

Giovanni Reale in più occasioni, durante questa intervista, usa il «noi»: «Noi pensiamo che la vita di Eluana sia artificiale». «Secondo noi questo sistema che si è sostituito alla natura per un tempo così spaventosamente lungo è aberrante». Reale parla per sé, ma la sua non è una voce isolata. Attorno al diritto all’autodeterminazione e all’idea di libertà di coscienza dei cattolici si è costituito un gruppo di filosofi: da Vito Mancuso a Roberta De Monticelli, da Vittorio Possenti a, appunto, Giovanni Reale, le «intelligenze più acute del cattolicesimo italiano», come li ha definiti Luigi Manconi su L’Unità. Che succede ora: nella Chiesa si arriverà a una sintesi? «Gettiamo semi, non tocca a noi raccogliere frutti. Speriamo li diano. Ma l’errore che con Eluana stanno facendo religiosi e uomini di governo è di cadere nella politicizzazione di qualcosa che con la politica non c’entra niente, che è metapolitico».

Corriere della Sera 07 febbraio 2009

 

 

 

http://www.rivistadireligione.it/rivista/articolo.aspx?search=TG4evq3eYMJQs48v8bQuHbd4YAm0utNQ

 

 

NON UCCIDETE ELUANA.

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NON UCCIDETE ELUANA E’ urgente che il popolo della VITA si mobiliti il più presto possibile per salvare Eluana dall’ennesimo tentativo di ucciderla. Per farsi sentire abbiamo due vie: la posta elettronica e il telefono. Per la posta elettronica scrivere a: segreteria@laquieteudine.it Per il telefono telefonare a: Ufficio Segreteria dell’Asp “La Quiete”, la responsabile dell’ufficio è la sig.ra Barbara Duriavig, tel. 0432-8862216 oppure 0432-8862214, fax. 0432-26460. Che cosa scrivere? Scrivete quello che volete oppure: “Per salvare la vostra anima e per impedire la morte di una civiltà NON UCCIDETE ELUANA Non mettetevi a disposizione di chi vuole spegnere una vita” Dato che la casa di riposo è convenzionata con il comune di Udine non sarebbe male scrivere e telefonare anche in comune. Stesse parole… Per scrivere al comune: e-mail: urp@comune.udine.it Per telefonare in comune: Ufficio Relazioni con il Pubblico Telefono: 0432-271616 – Fax: 0432 – 271355 Eluana Englaro giunta a Udine La Clinica La Quiete “accoglie” la ragazza L’ambulanza che trasporta Eluana Englaro, partita da Lecco lunedì all’1 e 30, è arrivata alla casa di cura ‘La Quiete’ di Udine alle 5.54 di martedì mattina. Ad accoglierla lo staff medico che dovrà attuare il protocollo del distacco dell’alimentazione forzata, che tiene in vita la donna in coma vegetativo da 17 anni. Al momento della partenza, fuori dalla clinica lecchese, alcune persone avevano inscenato una protesta. L’ambulanza che ha trasportato Eluana Englaro a Udine è entrata alla casa di assistenza ‘La Quiete’ per un ingresso secondario. Per evitare l”assalto’ delle decine di teleoperatori e reporter che da alcune ore sostavano davanti all’ingresso principale della struttura sanitaria, polizia e carabinieri hanno fatto entrare l’ambulanza da un altro accesso. L’unico mezzo ad entrare nella clinica è stata l’ambulanza: papà Beppino invece, che aveva seguito in macchina da Lecco la figlia, non è giunto a fino a Udine, ma si è fermato a Bergamo. L’uomo dovrebbe raggiungere la clinica nel pomeriggio di oggi o, più probabilmente, nella giornata di domani. Cosa succede ora?

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Il protocollo prevede il prosieguo dell’alimentazione forzata per tre giorni, poi l’avvio della procedura di distacco del sondino attraverso il quale la ragazza viene alimentata. Eluana in queste condizioni potrebbe sopravvivere per circa due settimane.

INNO ALLA VITA

La vita è bellezza, ammirala.

La vita è un’opportunità, coglila.

La vita è beatitudine, assaporala.

La vita è un sogno, fanne una realtà.

La vita è una sfida, affrontala.

La vita è un dovere, compilo.

La vita è un gioco, giocalo.

La vita è preziosa, abbine cura.

La vita è una ricchezza, conservala.

La vita è amore, donala.

La vita è un mistero, scoprilo.

La vita è promessa, adempila.

La vita è tristezza, superala.

La vita è un inno, cantalo.

La vita è una lotta, accettala.

La vita è un’avventura, rischiala.

La vita è felicità, meritala.

La vita è la vita, difendila.

Madre Teresa di Calcutta Grazie

per la Tua Attenzione PACE E GIOIA NEL CUORE Fabrizio Artale Uniti SI Vince… staff@missioneinweb.it

DI FRONTE AL DOLORE DEGLI UOMINI, ANCHE IL TEMPIO È SECONDARIO…..

DI FRONTE AL DOLORE DEGLI UOMINI, ANCHE IL TEMPIO È SECONDARIO….

Il tempio e il dolore degli uomini. Il tempio come elemento di fuga dalla realtà  e di mistificazione della stessa,oppure come possibilità di uscire da esso per incontrare il dolore umano. Quello della gente del Sud,del casertano, che un Vescovo,proveniente dal nord,ha imparato a condividere e ad amare. Il tempio,per Mons. Raffaele Nogaro, è divenuto “secondario”. Il tempio come trampolino di lancio per evangelizzare le tante povertà,materiali e morali,del sud. Il tempio a servizio degli uomini e delle donne di questo tempo che,spesso,fanno a meno del tempio. Il tempio come luogo del servizio e non di privilegi otonici. Il tempio come apertura per dare qualcosa,di materiale e di spirituale  a chi non ha,piuttosto che come luogo per ricevere regali e prebende. Il tempio come stimolo per un forte impegno nel sociale e non come sinonimo d’immobilismo e di non comprensione della realtà circostante. Il tempio a servizio dell’umanità sofferente,contro i tanti e organizzati mercanti del tempio. Il tempio come “topos” della profezia sul tempo e sugli uomini di questo tempo. Il tempio come annuncio della salvezza che si storia e solidarietà con gli ultimi. Il tempio che ha il coraggio di denunciare, con i criteri evangelici, le tante nefandezze del tempio stesso. “Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo riedificherò”.

Ha salutato la “sua gente” l’ultimo giorno del 2008 il vescovo di Caserta Raffaele Nogaro, che, proprio lo scorso 31 dicembre, ha compiuto 75 anni e ha quindi presentato, secondo la norma canonica introdotta da Paolo VI le sue dimissioni, dopo 26 anni di ministero episcopale, 18 dei quali trascorsi a Caserta, dove arrivò il 20 ottobre 1990.

Un commiato che, al di là delle tanto scontate quanto formali parole di circostanza, è stato salutato con grande sollievo dai politici locali e dai poteri forti – sia legali che illegali – della città, in questi anni più volte sferzati da un vescovo schierato sempre dalla parte degli ultimi e per nulla incline a compromessi buonisti dettati da ragioni di opportunità o di galateo istituzionale. Basti pensare, limitandosi solo agli ultimi anni, alle battaglie condotte da mons. Nogaro, insieme a molti casertani, per la restituzione ai cittadini del Macrico – una ex area militare di 33 ettari di proprietà dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero da anni al centro di tentativi di speculazioni edilizie architettate da palazzinari ed enti locali (v. Adista nn. 9/01; 9, 11, 13, 15, 43, 51, 63, 73/07 e 65/08 – e contro l’apertura della nuova discarica illegale di “Lo Uttaro” (v. Adista nn. 31, 33, 37/07; 5 e 13/08) o alle parole forti del vescovo contro la discriminazione (v. Adista n.70/08), la camorra (v. Adista nn. 35 e 71/08) e la corruzione politica (v. Adista n.19/08).

E da pastore che “ama la sua gente” ha appena dato alle stampe un volumetto – Ho amato la mia gente – che è contemporaneamente testamento spirituale e bilancio di oltre un quarto di secolo di episcopato. Pubblichiamo di seguito le pagine dedicate alla Chiesa, alla nonviolenza, alla carità e alle “responsabilità verso la camorra”.

 

HO AMATO LA MIA GENTE

di Raffaele Nogaro

La mia Chiesa

(…). 1) La comprensione incondizionata dell’uomo

Più che una “dittatura del relativismo”, che potrebbe compromettere ogni ricerca della verità, oggi si avverte uno “spaesamento dei valori” (diritto, doveri, giustizia, libertà, educazione, rispetto, sicurezza sociale, pace).

L’atteggiamento della Chiesa di fronte a queste realtà è molteplice. È la spettatrice critica di fronte ai processi della società, e magari diventa arcigna e violenta di fronte ai fenomeni giudicati degenerativi della società. Si pensi come il “magistero” ha inteso la “modernità”. Essa è stata pensata come una deformazione delle coscienze, quando poteva tradursi in una grande educazione di umanità. È comprensibile la diffidenza che la Chiesa ha verso la ricerca scientifica? Forse la Chiesa non ha mai voluto ammettere il “date (rendete) a Cesare quel che è di Cesare” e il “date a Dio quel che è di Dio” (Mt. 22, 21). (…). Attualmente la Chiesa sembra voler essere l’“autovelox” della morale. Sta nascosta dietro l’angolo e quando la cultura sfreccia e magari sembra violare, per eccesso di velocità, soprattutto i temi della morale, eleva sanzioni (…).

La Chiesa certamente deve condurre gli uomini alla vita vera. Ma come fa la madre. Ella non insegna, ma educa, costruisce, con infinita comprensione, con uno spirito di riconciliazione senza limite. La sua non è sterile constatazione, o peggio controllo (“inquisizione”), ma sempre lievito, fermento di vita, promozione.

L’umanità è comunque sofferente e bisognosa, al di là di ogni forma di peccato, e la Chiesa, con l’unica sua verità, che è la misericordia di Cristo, ripete: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò” (Mt. 11, 28). Il cap. 15 di Luca potrebbe essere il “manifesto” del comportamento della Chiesa. Narra le parabole della pecora smarrita, della dramma perduta e del figlio prodigo. Si capisce in questo manifesto cosa significhi comprendere e amare l’essere umano che è sempre così debole. I primi sette versetti del capitolo sono di una emotività eccelsa ed estrema. “Pantes oi telonai cai oi amartoloi – Tutti i pubblicani e i peccatori vanno da lui”. L’appuntamento di “tutte” le persone sregolate è da Gesù. È comprensibile lo scandalo delle persone rette, i farisei e gli scribi. E Gesù, “umile di cuore” anche con loro, dice: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?”. No, nessuno userebbe questo criterio pastorale. Ma Gesù insiste e sostiene di essere nella gioia solo quando ritrova la pecora. E a conferma della arditezza del suo amore, senza parametri umani: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.

 

2) La “Cattolicità”

Deus vult omnes homines salvos fieri – Dio vuole che tutti gli uomini vengano salvati” (1 Tm. 2,4). È evidente l’affermazione biblica, perché, con l’“incarnazione”, Dio si fa uomo in ogni uomo. “Non fa preferenze di persona” (At. 10, 34). Anzi “ogni uomo a qualsiasi popolo appartenga” è bene accetto a Dio” (At. 10, 34). La consegna agli Apostoli, dopo la risurrezione, è: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc. 16, 15). Probabilmente l’assicurazione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt. 28, 20) viene fatta per garantire che la sua Chiesa “avrà le porte sempre aperte” (Ap. 21, 25), per accogliere tutte le genti.

Riservare il cristianesimo alla civiltà occidentale è tradire il Vangelo. Rivendicare le “radici cristiane” dell’Europa rischia di compromettere l’universalità del Vangelo. Il Vangelo è incarnazione attiva presso tutte le genti. Le quali sono chiamate ad esprimere il loro volto cristiano (cf. Mt. 28, 19). Gli Apostoli non sono mandati per dare alle genti un cristianesimo occidentale, ma per affidare a tutti il Vangelo quale sorgente di originalità. Il messaggio del Vangelo rimane genuino e originale presso tutti i popoli: “Costoro che parlano sono tutti Galilei. E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto, e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio” (At. 2, 7-11). (…).

 

3) L’Unità

L’unità di tutto il genere umano ha per fondamento il Vangelo. Dio si è incarnato in ogni uomo, rendendo ognuno di noi uguale al fratello. Non c’è umanità, pertanto, senza l’amore del fratello. Il quale ha tutti i diritti al mio amore, perché “nessun uomo è profano o immondo” (At. 10, 28). L’unità, in realtà, non si fa con la dottrina, non si fa con i principi, non si fa con una religione codificata, ma soltanto con l’amore.

Amos Oz riferisce un aneddoto: “Avevo dato all’amico un appuntamento al bar. Assolsi ad un piccolo impegno d’urgenza e subito raggiunsi l’amico. Con mia sorpresa vidi già seduto accanto a lui un signore dal nobile aspetto. Con qualche gesto impercettibile chiesi all’amico chi fosse. Quegli, con fare circospetto, mi disse: mi pare tanto che sia Dio. Mi sedetti accanto e, parlando, anch’io ebbi l’impressione che fosse Dio. Volli allora togliermi una curiosità. Dissi: da noi qui ci sono tante religioni: la cristiana, l’ebraica, la musulmana. Qual è quella vera? Rispose: non lo so; io non sono religioso. Sono venuto sulla terra per amare gli uomini e per salvarli”.

Invece il confronto religioso diventa facilmente violenza, dalla lotta contro gli Albigesi alle “crociate”.

Francesco nella Regula non bullata (cap. 16) ha una pagina di grande significato: “I frati coraggiosi vadano presso gli infedeli e, presentandosi come cristiani, si mettano a servizio di tutti senza mai contrasti e dispute”. Incantato dalla sua figura, il delegato papale di Damietta Jaques De Gratry riferisce che Francesco si presentò al sultano “sine armis et sine argumentis philosophicis, ma solo con l’amore di Cristo”.

Giovanni XXIII, veramente ispirato, nel discorso di apertura del Concilio, chiedeva a Dio che questo evento portasse alla costituzione dell’unica famiglia umana, “all’unità dei cristiani tra loro, all’unità dei cristiani con gli uomini di altre religioni, all’unità dei credenti con i non credenti”. L’occasione attuale della miscelatura di tutti i popoli, occidentali e arabi, cinesi e indiani, cristiani e musulmani, offre ai discepoli di Cristo la possibilità di effondere tutto l’amore di Cristo, fino alla costruzione della “Pacem in terris”.

 

4) La Carità

La carità è la Chiesa: “charitas Christi urget nos”. I tre Vangeli sinottici sono il poema della carità di Gesù. Gesù è sempre in attività, per guarire tutti gli ammalati, per dare conforto a tutti i bisognosi. Sta volentieri con le persone anonime, con le “folle”, che non hanno qualificazioni sociali, che “sono come pecore senza pastore”, e prova pietà per loro: “misereor super turbam”. Le folle sono particolarmente bisognose, sono di solito affamate. E Gesù provvede loro con la “moltiplicazione dei pani”. (…). La Chiesa pensa oggi alle “masse affamate” del mondo? Oggi, il dramma dei popoli, Iraq, Sudan, ha riscontro nella Chiesa?

Gesù scombina anche i rigorosi precetti della legge mosaica, per andare incontro alle necessità dell’uomo: “Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. Con gli Apostoli Gesù percorre tutte le strade della Palestina, non per andare a formare cenacoli e gruppi di preghiera, né per andare a costruire chiese e sinagoghe, ma per “cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc. 19, 10). Sembra quasi trascurare il culto e anche la catechesi, quando raccomanda: “Se fai l’offerta all’altare e ti ricordi che il fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì l’offerta, corri a riconciliarti con il fratello, poi torni e fai l’offerta all’altare” (Mt. 5, 23-24). Di grande provocazione è il suo identificarsi con il “Buon Samaritano” e trascurare il sacerdote e il levita, ma anche il “dottore della legge”, al quale dice in pratica che non sono necessari né il tempio, né la Torah, quando invece indispensabile è agire come il Samaritano (Lc. 10, 25-37).

Incandescente per me è l’episodio del “battesimo”. Egli, l’innocenza di Dio, vuole purificarsi come gli altri, apparire un peccatore tra i peccatori. È chiaro allora che non c’è un reietto che non sia Lui, non c’è una vittima che non sia Lui, non c’è uno straniero che non sia Lui, non c’è un disperato che non sia Lui (cf. Mt. 25).

 

5) Oscuramento di Cristo

È certo che credere nel Dio annunciato da Gesù, un Dio umile e nascosto, dischiude problemi nella Chiesa, alla ricerca del suo compito e della sua autorità. Il rischio della Chiesa di cambiare l’originalità dell’istituzione è grandissimo e sempre incombente. Da discepola e testimone del Risorto, essa si fa interprete, vicaria e sostituta di Dio. Si pone come unica titolare e depositaria del divino sulla Terra.

Gesù aveva proclamato la “giustizia superiore” delle “beatitudini”, vincendo le tentazioni della ricchezza, del prestigio e del potere. La Chiesa invece preferisce tenere in disparte Gesù e sacralizzare questi beni (“La leggenda del Grande Inquisitore”).

L’irrilevanza di Gesù è caratterizzata da quasi tutta la modernità. E sembra esplicita nella Chiesa. Nelle recenti dispute con i legislatori italiani e spagnoli e con i costituenti europei, la Chiesa fa appello alla biologia, alla natura, alla storia, alle tradizioni culturali, alla precauzione politica, non al Vangelo. Anzi ci tiene ad affermare che la sua dottrina, la verità di cui è custode, corrispondono a una visione razionale e umana a tutti comune. La trascuranza di Cristo sembra così evidente. Ma “sine me nihil potestis facere” (Gv. 15, 5). E questo oscuramento del Cristo è la ragione di tutti i nostri smarrimenti.

Per fortuna e per grazia, anche se noi trascuriamo il Signore, egli viene a noi incontro. “Gesù in persona si accosta a me e con me cammina” (Lc. 24,15). E mi confida: “Ecco, io sto alla tua porta e busso. Se tu ascolti la mia voce e mi apri la porta, io vengo da te, ceno con te e tu con me” (Ap. 3, 20).

 

6) Il “principio speranza”

“Noi diamo ragione della speranza che palpita nel nostro cuore”, perché abbiamo il Vangelo. E il Vangelo è tutta la speranza. Il Vangelo è una proiezione infinita di luce, è l’apertura e la libertà della vita, è “pieno di immortalità”. “Gesù è colui che vive e più non muore” (Ap. 1, 18). È lui il destino dell’uomo e quindi è la sua speranza infinita. Anche la Chiesa non ha nessuna verità da dare. Ha unicamente l’“amore eterno” (Ger. 31, 3), da comunicare a tutti. (…).

 

Esercizi di nonviolenza

– L’evangelizzazione oggi sembra asfittica. Occorre annunziare di nuovo le Beatitudini e il Magnificat. Se Gesù ci chiede di superare le tentazioni della ricchezza, del potere, del prestigio, il Magnificat ci assicura che lui rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili.

– Recuperare la memoria del Concilio: non dimenticare le salutari avanguardie che hanno aperto nuovi percorsi; riconoscere, come papa Giovanni XXIII, che “Ecclesia sempre reformanda”; proclamare il valore dell’Ecumenismo ad ogni costo; credere nella scelta preferenziale dei poveri; la solidarietà della Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (n. 5.1).

– Superare la neutralità: un giovane non può rimanere neutrale tra dittatura e democrazia, tra libertà e fascismo, tra pace e guerra, tra obiezione di coscienza e militarismo, tra accoglienza degli stranieri e razzismo.

– Recuperare la memoria dei Profeti: don Mazzolari, don Milani, p. Balducci, p. Turoldo, p. Dossetti, La Pira, Lazzati, Bachelet, Moro, Dorothy Day, M.L. King, mons. Romero, mons. Camara… È necessario raccontarli per poterli rivivere.

– Resistere ai “vitelli d’oro”: consumismo, telecrazia…, non rifiuto acritico, ma ragionato. Reagire al neo-nazismo, al neo-liberismo, alla xenofobia, al nazionalismo. Combattere l’integralismo e difendere la laicità della politica.

– La libertà. È una parola difficile e non deve creare equivoci. A me hanno insegnato ad amare questa parola Gandhi, Martin Luther King, Oscar Romero e Madre Teresa di Calcutta. Libertà non è liberismo sfrenato, è liberazione dall’oppressione, dalla tirannia, difesa del pluralismo, della tolleranza, dell’ascolto, del dialogo. Libertà è difesa delle minoranze politiche, religiose, culturali, sociali, etniche.

– Educazione alla condivisione delle risorse, alla redistribuzione delle risorse, per ridurre il fossato Nord-Sud, per affrontare la questione dei flussi migratori inarrestabili.

– Impegno di lotta senza quartiere contro le mafie e le camorre. Rivoltarsi contro le sottoculture dell’illegalità. Studiare catechismi di solidarietà.

– Rifondare il sindacato di tutti, non solo dei “protetti”, ma anche degli “esclusi”.

– Lotta per la libertà dell’informazione. Impegno per la crescita delle voci non omologate, locali e nazionali. Sostenere l’informazione libera e la comunicazione conviviale.

– Scelta di campo per i poveri. Non solo interiore, teologica, emotiva, ma concreta sul territorio. (…).

– Accoglienza dell’altro. Dell’immigrato e del rom. Questi dovrebbero essere accolti non dalle polizie, ma dalle amministrazioni locali o da istituzioni a ciò preposte. (…).

 

Amo la mia gente con le opere di Misericordia

Gesù è l’uomo per gli altri. Anch’io, suo apostolo, devo essere l’uomo per gli altri.

Sono personalmente convinto che oggi la Chiesa sia fortemente ancorata alla liturgia e alla evangelizzazione e meno sensibile alla carità, all’amore verso tutti gli uomini. Sogno una Chiesa piena di vangelo, che rende Gesù visibile dovunque. Gesù parla poco di questioni morali, mentre la sua condotta sembra “eccessivamente” misericordiosa. Non insiste mai sui precetti e sulle ideologie giustificatrici. Presentandosi come “Figlio dell’uomo”, non appare certo come il Dio dei poteri, delle istituzioni e dei sistemi, che creano le vittime e gli sfiduciati. Ma sta con coloro che piangono e che “hanno fame e sete di giustizia”. Non cerca i grandi templi, con lo scopo di onorare Dio, ma gli bastano “lo spirito e la verità” (Gv. 4,23).

Oggi una Chiesa autoreferenziale confonde facilmente i suoi fini con i suoi interessi. Sembra si debba pensare che Dio è nella Chiesa e pertanto il mondo esista per servire la Chiesa e questa per difendere ad ogni costo se stessa. Invece Dio è nel mondo e la Chiesa esiste per servire il mondo, creato da Dio e amato, e redento e perdonato da Lui. Questo mondo è il nostro mondo, è quello che Dio ci ha dato da amare. Non siamo qui per giudicarlo, ma per annunciargli il Vangelo, cioè la salvezza e la felicità. Per Gesù i sabati, i templi, le filatterie, i precetti diventano totalmente secondari di fronte al dolore degli uomini. Gesù lascia le curie del potere e va nell’“orto”, dove egli suda il sangue dei poveri. L’opzione della Chiesa dovrebbe ancora essere il predicare un cristianesimo di sequela, piuttosto che un cristianesimo di consumo. Non si può pensare che con più praticanti si salvano più uomini.

Se non esagero, vorrei proporre oggi una Chiesa di frontiera. La frontiera è fuori dal tempio. La frontiera è un luogo esposto. È il luogo degli arrivi e delle partenze. È il luogo dell’imprevisto, dell’inedito. È il luogo dell’originale. È il luogo dell’uomo sempre nuovo e sempre in attesa di una patria. Ma è anche il luogo di Cristo. Non si può pensare qualcosa di più urgente e di più precario della Capanna della sua nascita.

La Chiesa è artigiana della pace, non solo della pace dei cuori, ma anche della pace che passa attraverso l’azione politica. Deve pregare per la pace, ma anche difendere l’uomo dal dominio incontrollato delle istituzioni e delle corporazioni, che rischiano di renderlo puro strumento della loro volontà di potenza. Deve intervenire per allargare gli ordinamenti democratici, che esprimono la sovranità popolare, per rendere attiva sempre la libertà personale. Deve difendere l’uguaglianza tra gli uomini, impedire lo sfruttamento di una sull’altra, di un popolo su un altro e combattere apertamente l’onnipotenza del capitale e del profitto, della mafia e della camorra. Deve denunciare quelle scelte politiche che procurano la corsa agli armamenti e deve sostenere il disarmo progressivo. Deve solidarizzare con coloro che pongono gesti di doverosa protesta: obiezione di coscienza, marce per la pace, giudizi di illegalità per le spese militari. Deve combattere l’autoritarismo, le forme molteplici di violenza, la chiusura ideologica. L’esaltazione dei condottieri, il disprezzo per i vinti, il culto della razza, la magnificenza della patria, l’eurocentrismo non sono certamente elementi che rendono maturo e idoneo l’uomo del villaggio globale.

La denuncia delle inadempienze radicali degli uomini e delle intollerabili povertà di certe categorie sociali non è sufficiente. È necessario che la Chiesa difenda i diritti e le attese dei poveri e dei bisognosi, intervenendo nelle forme più attente ed efficaci. Gesù con la “moltiplicazione dei pani” nutre le folle e le fa vivere nella speranza. La Chiesa o è carità o è falsità. La Chiesa è sempre e solo amare la gente. (…).

 

Responsabilità verso la Camorra

La camorra, in Campania, impedisce le riforme strutturali, indispensabili per organizzare la speranza del futuro. Procura le dimissioni di ogni imprenditoria intelligente e produttiva. Una politica che crea progetti, stabilisca obiettivi, dia la spinta alla soluzione dei problemi è impensabile. E le dirigenze di ogni tipo confondono facilmente il bene comune con l’interesse privato. Il degrado, il sottosviluppo e la disoccupazione fanno sì che l’emigrazione dei giovani volenterosi sia enorme. I talenti migliori salgono al Nord, privando le nostre terre di quella propulsività fatta di promozione e di progresso.

Ritengo che, in particolare nel meridione, la Chiesa deve esercitare la sua forza istitutrice di etica e di civiltà. Purtroppo, l’esempio fulgido di un don Peppino Diana, che viene ucciso dopo quel documento salutare,Per amore del mio popolo non tacerò, rimane ancora controllato e isolato. Le gerarchie ecclesiastiche sono molto preoccupate di difendersi dai nemici “ideologici”, massoni, comunisti, laicisti di ogni genere, e sottovalutano l’inquinamento morale e civile causato dai poteri illegali. I camorristi, che pure sradicano il Vangelo dal cuore della nostra gente, negando ogni forma di amore del prossimo, diventano facilmente promotori delle iniziative della ritualità religiosa e della collettività. Proteggono un certo ordine stabilito, e quindi vengono corteggiati dalle istituzioni. E, per un falso amore di pace, la Chiesa tace.

(…) La storia della Campania, come la sua cronaca contemporanea, non si spiega senza tenere nel debito conto l’influenza della Chiesa. Si osserva quindi che le espressioni religiose, soprattutto quelle enfatiche, e la camorra non sono due fenomeni indipendenti. Fortunatamente non si arriva mai alla complicità. Non si può tuttavia rimanere in disparte, scaricando la realtà criminale alla competenza dello Stato.

L’esercizio del potere nel mondo della camorra si prefigge l’infiltrazione nelle istituzioni per gestirle in maniera privatistica e clientelare. E se la camorra diventa mentalità di popolo, il messaggio d’amore di Cristo non può avere vita. Per cominciare, nelle parrocchie si devono superare supporti che possono configurarsi come camorristi: gli atteggiamenti autoritari, la violenza di un potere costituito, la precettistica morale imposta come inquisizione delle coscienze, la mancanza di democrazia nella gestione comunitaria, gli accordi unidirezionali che producono i gruppi fra loro conflittuali. La Chiesa è di tutti ed è essenziale che si mantenga libera dal potere politico e di casta, e lasci trasparire lo stile di un servizio incondizionato all’uomo, “senza preferenze di persone” o di categorie sociali. Insisto perché nelle parrocchie si faccia il catechismo della legalità.

http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=43748

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Messina 1908-2008 Un Terremoto Infinito….

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Prefazione
Con un racconto agile, denso di testimonianze, di cifre, di dettagli, Eleonora lannelli ricostruisce i cento anni dal grande terremoto di Messina. Un secolo di storia fluisce veloce in queste pagine. E nelle prime, ossessiva ritorna l’ora della catastrofe: quelle 5,21 di lunedì 28 dicembre che divisero la storia della città in un prima e in un dopo in cui nulla fu più uguale, segnando l’annientamento di quella che era stata per secoli una delle capitali più belle e vivaci della Sicilia.
Molte immagini s’imprimono nella memoria del lettore: i bambini rimasti orfani che il “Giornale di Sicilia” descrive mentre scendono smarriti dai treni alla stazione di Palermo, rischiando d’essere preda di «brutti ceffi»; la mano di donna che si sporge dalle macerie per chiedere aiuto e ha le dita troncate da uno sciacallo che le ruba gli anelli; il re Vittorio Emanuele, in visita alla città nell’aprile del 1909, che, turbato dalle lentezze della ricostruzione, ai cerimoniosi funzionari del Genio Civile intima rudemente «Andate a lavorare». Impressionante è il campionario di vergogne che segue al disastro, anticipo di altre vergogne che catastrofi più recenti ci hanno insegnato a conoscere: i ritardi e la confusione nei soccorsi, lo spreco delle donazioni internazionali, il losco frugare tra le macerie alla ricerca di tesori sepolti più che di vittime, le canaglierie e i soprusi di una burocrazia lenta, stupida e inetta.
Dalle lentezze, dagli imbrogli, dai pasticci della ricostruzione emerge la città delle baracche, che è il cuore di questo libro. La Messina che incantava i viaggiatori con la strepitosa invenzione urbanistica della Palazzata si trasforma nella miserabile città delle catapecchie. E come un malvagio incantesimo, quella forma degradata dell’abitare diventa una costante del paesaggio urbano, incancellabile, insuperabile.
Scrive l’autrice che un’unica baracca del dopo terremoto sopravvive ancora oggi, orribile cimelio di una provvisorietà che si ostina a durare, ma ben 3.016, costruite negli anni, costellano il territorio messinese, abitate da 15 mila persone. Come se il disastro, e l’estenuante dopo terremoto, col suo vischioso protrarsi, avessero fiaccato l’anima della città, sprofondandola in un attendismo rancoroso, sottraendole ogni desiderio di definitiva ricostruzione, oscurando ogni progetto di futuro.
Sulle ragioni di questo sprofondare Eleonora lannelli indaga interrogando storici, urbanisti, studiosi. Fino a evocare un’ipotesi di grande suggestione: un mutamento di codice genetico, innescato dall’azione invisibile di un gas, il radon. Liberato dalla potenza del sisma, quel gas avrebbe alterato per sempre il dna dei messinesi. Affascinante teoria, se non altro perché, come il terremoto, libera gli esseri umani dal dovere di costruirsi un destino, e di renderne conto.
                                                                                                  BIANCA STANCANELLI

Eleonora Iannelli,Messina 1908-2008 Un Terremoto Infinito. Storia di una città tornata alla vita ma rimasta incompiuta. Kalòs,2008.

Bariona o il figlio del tuono: Il natale di J.P. Sartre

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Racconto scritto e rappresentato da Sartre nel Natale del 1940 per i suoi compagni di prigionia nel campo di Treviri. La storia ruota intorno alla figura di Bariona, capo di un villaggio vicino a Betlemme, ed è ambientata nell’epoca in cui la Giudea era oppressa dai Romani e vessata da continue richieste di tributi. Il testo si offre al lettore come l’immagine di un’esperienza religiosa che raggiunge il suo apice nella descrizione del rapporto di intimità che lega la Madonna al Bambino, e nel contempo come esperienza politica che, nella chiara allusione alla Francia occupata dai nazisti, vuole creare aggregazione e solidarietà tra i prigionieri, credenti e non credenti, e sollecitarli alla resistenza contro gli invasori.
Bariona,dunque, è un originalissimo testo teatrale poiché Sartre ebbe modo allora di conversare a lungo con i preti detenuti, discutendo in fraterna sincerità di fede e teologia. E’ alla luce di questa esperienza che Sartre scrive un testo teatrale sul mistero del Natale. Lo compone in sei settimane, sceglie gli attori, assiste alle prove, crea la messa in scena ed i costumi lui stesso. Vi partecipa come attore nella parte del Re Magio Baldassarre.
Il racconto ruota intorno alla figura di Bariona (dal curioso soprannome di “figlio del tuono”), capo di un villaggio vicino a Betlemme. La storia è ambientata nell’epoca in cui la Giudea era oppressa dai Romani e vessata da continue richieste di tributi. All’annuncio della nascita di Gesù Bambino Bariona abbandona ogni diffidenza e si apre alla speranza. Il testo si offre allo spettatore come l’immagine di un’esperienza religiosa e raggiunge il suo apice nella descrizione poetica del rapporto di intimità che lega la Madonna al Bambino. Disse una volta Sartre: “Ho sempre avuto un rapporto difficile ed impossibile con Dio”. Oggi, la visione di quest’opera, offre l’occasione di ripensare l’ateismo di Sartre e la sua filosofia dell’esistenza.

Jean-Paul Sartre, Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per Cristiani e non credenti, Cristian Marinotti Editore, Milano 2003
di Cristina Ficorilli

Treviri, Notte di Natale 1940.

Si chiude il sipario.
«Madeleine Chapsal. — Non è uno “ strano” mestiere quello di scrittore ? Esso esige, certamente, dell’energia, ma non riposa anche su una sorta di debolezza?
Jean-Paul Sartre. — Personalmente, io, lo ho scelto contro la morte e perché non avevo la fede: ciò rappresenta effettivamente una sorta di debolezza …Il cristiano, in linea di massima non teme la morte poiché per lui è necessario morire per cominciare la vera vita. La vita terrestre rappresenta un periodo di prova per meritare la vita celeste. Questa implica degli obblighi precisi, dei riti da osservare ed include anche dei voti : obbedienza, castità, povertà. Io prendevo tutto questo e lo trasponevo in termini di letteratura : potrei non essere riconosciuto per la mia vita terrena, ma meriterei la vita eterna per la mia dedizione alla scrittura e per la mia integrità professionale…» [J.-P.Sartre, Sur moi-même. « Les écrivains en personne », in Situations,IX, Mélanges,1972, p.32. La traduzione è la mia]
Terra e cielo, reale e immaginario, uomo e donna, nascita e morte, passione e lotta, dolore e assenza, fine e inizio, amore e pietà, onore e disonore fuoriescono dal grido disperante di Bariona. E’ uno strepito, un tuono in cui riluce il bagliore dell’anelito ad un “non”, ad un “no” contro il mero “non esser nato che per esser nato” della realtà umana.
E’ un “non” che trova la sua massima espressione nella negazione e nell’interdizione, da parte del capo di un villaggio fantasma alle pendici del dramma dell’infertilità e dell’oppressione, a perseverare la vita.
Il comando di Bariona è l’ingiunzione al suicidio dell’avvenire, d’ogni futuro umano e dono di vita. E’ un appello al silenzio che si spegne pian piano per mancanza di voci, è la rivolta del nulla contro l’essere, contro l’obbedienza ad un “si” estorto di necessità all’uomo una volta che la vita ha preso possesso di lui. E’ la rinuncia ad “un oltre” che è solo prolungamento di sofferta ripetizione, è il rifiuto di ciò che Bariona sente inesorabilmente di essere, è il diniego della scintilla che l’uomo guarda nel fondo degli occhi di un uomo, di ciò che Bariona troverà negli occhi di Giuseppe dove il faro della vita illumina altra vita, dove futuro, presente e passato indicano ancora quel “poter essere” che l’uomo interpreta.
All’interno di quel “non” risuona al tempo stesso la complessità del “non” del non-essere di L’être et le néant che Sartre di lì a pochi anni scriverà, in cui il “non” viene a sciogliersi nel “per” di un “per-sé”, libero progetto di esistere. …Ed ecco… , infatti,…..appare… Re Baldassarre, personaggio che “nei panni di Sartre”, interpreta, in unicum, proprio quel “per” del “non essere” che Bariona in quanto uomo è.
In uno: speranza e disperazione, nascita e morte progetto e situazione, scacco e ripresa di sé, autenticità e malafede. E’ il valore della congiunzione “e” che sartrianamente unisce Bariona e Baldassarre, credenti e non credenti, a far sì che Bariona o il figlio del tuono possa essere, come sottotitola la Christian Marinotti Edizioni, un “Racconto di Natale per cristiani e non credenti”.
E’ l’e che rende il teatro, in quanto specchio dell’umano, la doppia faccia di una medaglia che, orientata in duplice prospettiva, lascia scorgere un “teatro in situazione” e un “teatro di libertà”.
“Se è vero che l’uomo è libero in una situazione data e che si sceglie libero in una situazione data e che sceglie se stesso in essa e attraverso essa, allora bisogna mettere sulla scena situazioni semplici e umane e libertà che si scelgono in queste situazioni…Un carattere del suo farsi è quanto di più commovente possa mostrare il teatro, ossia il momento della scelta, della libera decisione che impegna una morale e tutta una vita. E poiché non si fa teatro se non si attua l’unità di tutti gli spettatori, bisogna trovare situazioni tanto generali da poter essere comuni a tutti. Non sono pochi i nostri problemi: quello del fine e dei mezzi, della legittimità della violenza, il problema delle conseguenze dell’azione, quello dei rapporti tra l’individuo e la collettività, tra l’impresa individuale e le costanti storiche, e cento altri ancora. Ora a me sembra che il compito del drammaturgo sia quello di scegliere, tra queste situazioni-limite, quella che esprime meglio i suoi problemi e di presentarla al pubblico come l’istanza che si pone a determinate libertà”.
[J.P.Sartre, in F. Jeanson, Sartre, 1995; tr.it. Sartre. Teatro e filosofia,1996, pp.3-4; corsivo mio]
Credenti e non credenti, oltre ad essere un epiteto rappresentativo dell’umano appare qui emblematico della realtà del campo di detenzione per prigionieri di guerra in cui Sartre insieme a molti si trova rinchiuso sotto l’oppressione tedesca, ed i cui membri assistono uniti, nella notte di natale del 1940, allo spettacolo del mistero della vita e della nascita, arcano che al di là del bene e del male accomuna l’intera umanità.
“Se ho preso il mio soggetto nella mitologia del Cristianesimo, ciò non significa che la direzione del mio pensiero sia cambiata, fu un momento, durante la cattività. Si tentava semplicemente d’accordo con i preti prigionieri, di trovare un soggetto che potesse realizzare, in quella sera di Natale, l’unione più vasta di cristiani e non credenti.” [p.1.]

Ed il campo di prigionia si trova trasposto scenicamente nelle vicende dell’impervio villaggio di Béthaur, in Giudea, a 25 miglia da Betlemme al tempo della nascita di Gesù. Béthaur è un villaggio che sanguina, è una muraglia di terra abitata da uomini vecchi e da magri pascoli, corroso dalle imposte che la dominazione romana esige dall’alto del suo potere.
Di fronte ad un’ulteriore richiesta d’innalzamento delle tasse – cui “Roma si trova costretta”- da parte di un funzionario dell’impero, la cui venuta al villaggio rappresenta l’incipit dell’azione teatrale e l’inizio della catastrofe di Béthaur, già caduta in rovina, Sartre affronta con tenore emotivo alto e temperato di lucidità, il tema della filiazione. Tema che prende vita da diversi orizzonti di trattazione: la luce della pittura, dall’annunciazione alla natività, fa da strada al racconto; attraverso l’oscurità degli occhi privi di vista del narratore d’immagini, preposto a prologo della pièce, procede l’intreccio narrativo in sette quadri: la buona novella perduta in Maria, signora delle madri, “come un viaggiatore si perde nei boschi”, l’assenso materno al destino del proprio ventre e ad una nuova vita convivono con la religione del nulla professata da Bariona, colui che, contestualmente all’atto d’affermazione del proprio credo, pone un veto alla nascita ventura del proprio bambino, lottando per l’estinzione d’ogni figlio dell’avvenire e d’“ogni nuova edizione del mondo”. [p.1 e p.36]

“Più bambini. …Non vogliamo più perpetuare la vita, né prolungare le sofferenze della nostra razza…Il villaggio agonizza da quando i Romani sono entrati in Palestina e quello che tra noi procrea è colpevole poiché prolunga questa agonia…il mondo non è che una caduta interminabile e molle…Gente e cose appaiono improvvisi in un punto della caduta e appena apparsi, sono presi da questa caduta universale; si mettono a cadere, si disgregano e si disfano…tutto è capitato sempre molto male e la più grande follia della terra, è la speranza. …Osereste dunque creare giovani vite con il vostro sangue marcio? Volete rinnovare con uomini nuovi l’interminabile agonia del mondo? [pp. 27-30.]
Ragione sociale e lume più intimo della ragione individuale convergono nell’invettiva di Bariona; lo spettro di un futuro senza avvenire, di un aldilà che è giro di vite attorno ad una libertà oramai velata, conduce Bariona ad assumere su di sé, in “malafede”, direbbe L’etre et le néant, la responsabilità del non riconoscimento del proprio del volto umano.
La scelta di Bariona è un abdicare alla necessità, è un rendere necessario un possibile, è “essere” e subire piuttosto che “far essere”, è sfuggire quel “sé-come-essere-in-sé-mancato” che dà senso alla realtà umana. Il progetto di Bariona si colloca fra le note di una musica che l’uomo non può suonare, è il frutto dell’illusione che vuole l’uomo come un superamento continuo di sé volto al raggiungimento di una coincidenza con sé, che invece, seguendo Sartre, non è mai data.
E’ altro ciò che l’uomo può fare: contro l’illusoria speranza in un mito che non è popolato di gesta umane, la pièce teatrale di Sartre apre il sipario sulla speranza autentica nel radicale trascendere dell’esistere della realtà umana che procede cristallina, indissolubilmente ancorata all’accettazione d’ogni espressione di lutto che accompagna dal suo sorgere l’esistere, quell’ingiustificata presenza al mondo che la coscienza trasparente del per-sé deve elevare all’esistenza nella sua libera spontaneità.
In tal senso opera il dire di Re Baldassarre quando, nel narrare le parole della creazione, sottolinea la consustanzialità tra realtà umana e la sua condizione di “speranza e preoccupazione…poiché l’uomo è sempre molto di più di quel che è…ovunque sia un uomo…è sempre altrove ” [p.69]
L’uomo non è ciò che è, ed è ciò che non è: egli esiste e nel valore della negazione che egli stesso esprime si concentra il senso del suo far-esistere tutto ciò che egli è nel modo del non esserlo, vale a dire la responsabilità del progetto che estaticamente egli dà di se stesso per la costituzione protenzionale e progettuale di una coscienza, i cui momenti si rivelano come una incessante “invenzione” di un nuovo inizio.
Tale scissiparità della coscienza e desolidarizzazione da sé, tale idea di “una serie unitaria d’acquisizione-rifiuti” [ J.-P. Sartre, L’Être et le néant, Paris, 1943; tr.it. L’essere e il nulla, Milano, 1997;.p.189.” ] che rappresenta una coscienza concepita come “il suo superamento” [ibidem.] costituisce — per il configurarsi della temporalità estatica del per-sé come qualcosa in cui una nuova scelta è un nuovo inizio e un nuovo fine — il leit-motiv che attraversa l’evolversi del pensare sartriano e l’oggetto tematico di ciò che Sartre in L’Esistenzialismo è un Umanismo definisce il “rigore ottimista” del proprio filosofare. [J.-P. Sartre, L’Existentialisme est un humanisme, Paris, 1946 ; tr.it., L’Esistenzialismo è un Umanismo, Milano, p.57.]
” …l’idea che io non ho mai cessato di sviluppare è che, in fin dei conti, ciascuno è sempre responsabile di ciò che si è fatto di lui- anche se egli non potesse far niente di più che assumere questa responsabilità. Io credo che l’uomo può sempre fare qualcosa di ciò che si è fatto di lui. E’ questa la definizione che io darei oggi della libertà: quel piccolo movimento che rende un essere sociale totalmente condizionato una persona che non restituisce in toto ciò che ha ricevuto dal proprio condizionamento.” [J.-P. Sartre, Sur moi-même…,op.cit p.101. La traduzione è mia]

La stessa irruzione del magico, l’apparizione dell’angelo, l’epifania del divino e la mirabile descrizione che Sartre ne fa assumono i tratti di una aderenza del tutto incondizionata al carattere coerente del libero progetto d’esistere del trascendere della coscienza, la quale assume l’incantatorio incontro col magico come l’innesto per una nuova condotta umana che cambia i suoi rapporti col mondo in un mondo che cambia le sue qualità, il cui linguaggio ed i cui codici permettono alla coscienza di credere al mondo cui si riferisce esattamente così come essa lo sente. E’ questo il varco aperto dai gesti della speranza che accompagna lo “scacco” della condizione umana.
Benny Lévy — Ed è inevitabile questo scacco ?
Jean-Paul Sartre — io ho pensato sempre di più – ed attualmente lo penso in modo assoluto – che una caratteristica essenziale dell’agire umano…sia la speranza. E la speranza implica che io non possa intraprendere un’azione senza contare che la realizzerò. Io non ritengo… che questa speranza sia un’illusione lirica, essa è nella natura stessa dell’azione… e nella speranza vi è anche una sorta di necessità. L’idea dello scacco non trova in me, in questo momento, un fondamento profondo: al contrario è la speranza- in quanto rapporto dell’uomo al proprio fine, rapporto che esiste anche se il fine non è raggiunto- ciò che dimora nei miei pensieri. [J.-P. Sartre-Benny Lévy, L’espoir maintenant. Les entretiens de 1980, Verdier, 1991, p.25. .La traduzione è la mia]
Si apre il sipario…

I Diritti Umani dei Pigmei.

– Africa: Missione Cuore per la Vita –

CAMPAGNA DI RACCOLTA FONDI PER VACCINAZIONI E AIUTI UMANITARI

ALLA POPOLAZIONE DEI PIGMEI DELLA FORESTA EQUATORIALI

– INVITO –

Mercoledì 10 Dicembre 2008

60° Anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani 1948/2008

Evento di Sensibilizzazione organizzato

da Ali per Volare e Missione in Web

dalle ore 9:30 Musica, Filmati e Testimonianze

presso il Centro “Gesù Liberatore” in Via Margifaraci – Palermo

INTERVERRANNO:

Padre Matteo La Grua (Guida Spirituale del RnS)

Don Fortunato Di Noto (Fondatore dell’Ass. Antipedofilia “Meter”)

Rino Martinez (Cantautore e Messaggerio di Pace nel Mondo)

Prof. Salvatore Li Bassi (Insegnante e Scrittore)

Prof. Giovani D’Alessandro (Docente dell’Acc. di Belle Arti di Palermo)

Personalità Istituzionali – Religiose – Civili – Militari

Scolaresche e Scuole di Ballo

Artisti del mondo dello spettacolo

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– INVITO –

DAL 15 AL 21 DICEMBRE 2008

A PIAZZA POLITEAMA – PALERMO

“Il Gazebo della Solidarietà”

L’Associazione Missionaria Interculturale

“Ali per Volare” – ONLUS

SCENDE IN PIAZZA

per promuovere la Campagna di Raccolta Fondi

a sostegno della Missione Umanitaria

– Africa: Cuore pera la Vita –

INTRATTENIMENTO MUSICALE

DEL CANTAUTORE MISSIONARIO

Rino Martinez

VI ASPETTIAMO NUMEROSI

Uniti SI Vince

Rino Martinez e Fabrizio Artale

http://www.rinomartinez.com http://www.missioneinweb.it

Speciale Eluana Englaro….

Articoli, interviste, video e immagini sul caso della ragazza di Lecco che un tribunale ha condannato a morire di sete

specialeeluana

http://www.tempi.it/prima-linea/002258-speciale-eluana-englaro

 

“LIBERI DI VIVERE”
Appello al Presidente della Repubblica 
Giorgio Napolitano

http://www.liberidivivere.it/index.php

 

Il presidente del Css: è eutanasia

«Morirà per eutanasia Non della sua malattia»
Cuccurullo: siamo di fronte a una pericolosa deriva

http://www.tempi.it/cultura/003988-il-presidente-del-css-eutanasia

Eluana: non si uccidono così neanche i cavalli

http://www.tempi.it/evidenza/003881-eluana-non-si-uccidono-cos-neanche-i-cavalli