A Cruna…di Sara Favarò.

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Sara Favarò, nata a Vicari (Pa) , palermitana di adozione, è scrittrice, cantautrice, poetessa, ricercatrice di tradizioni popolari, giornalista e attrice.
Studiosa di tradizioni popolari, poetessa, scrittrice di saggistica e di narrativa, cantautrice, artista e interprete di quegli stessi componimenti da lei amorosamente studiati. Nel 2002 Sara Favarò pubblica un saggio dedicato ai canti popolari siciliani a tema religioso:Natale nei Canti polari siciliani,Poetica spontanea o vulgata catechesi?
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Grande “divulgatrice” di cultura, nel senso migliore del termine. Nel senso, cioè, della riproposizione e diffusione di un patrimonio etnomusicale che -tramandato attraverso i secoli – ora sembra incorrere nell’indifferenza e nell’oblio.
Eppure, si tratta di un patrimonio di musica e poesia estremamente ricco e complesso. Popolare, certamente, con riguardo alla sua diffusione e alle sue infinite varianti. Non già per l’origine. Lo chiarisce l’Autrice, con una bella metafora: “… Le preghiere e i canti popolari religiosi sono come fiumi che scendono a valle dividendosi o arricchendosi tra rivoli ed affluenti, ma che alla foce sono spesso originati da eruditi intelletti …”.
Come Antonio Di Liberto, il canonico di Monreale meglio conosciuto con lo pseudonimo di Binidittu Annuleru, autore del famoso U Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca San Giuseppi in Betlemmi. O Giacomo D’Orsa, colto poeta di Piana dei Greci, vissuto tra il Seicento e il Settecento e autore di un altro importante componi mento poetico natalizio, il Curteggiu di li Pastura a lu Santu Bambinu Gesù, qui pubblicato, come il precedente.
E cosi, tra ricostruzione filologica e disamina storico-critica si snoda l’excursus nel mondo dei canti devozionali della tradizione, con frequenti richiami all’interpretazione esoterica e numerologica – anch’essa, dunque, di matrice colta – delle strofe. Sullo sfondo, emerge l’importante azione di catechesi fra gli strati popolari condotta dalla Chiesa, ancor prima della Controriforma, grazie all’uso del dialetto in canti e drammatizzazioni. Riusciamo cosi a scoprire i canali di comunicazione attraverso i quali si da voce ad una fede semplice, che riflette modi di vita, sofferenze, sogni, delusioni e speranze di un piccolo mondo fatto di contadini, pastori, artigiani. Gli stessi che portano i loro modesti doni al Bambino appena nato, piangendo e scusandosi per la povertà dell’offerta (“… lagrimannu l’offeriu / nun aju autru, amatu Diu”), Gli stessi che si rivolgono a Dio, Gesù e alla Madonna come ad “entità profondamente umane e, come tali, soggette ad emozioni e sentimenti che in ogni caso i fedeli auspicano, cantano, supplicano attraverso la preghiera”,così come scrive l’autrice.
Adesso è la volta di un altro interessante volume denominato A Cruna.
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“Per anni l’autrice ha raccolto materiale sui Rosari siciliani. Ha ascoltato, registrato, consultato e studiato dal punto di vista della ricercatrice delle tradizioni popolari. Tutto il materiale raccolto è stato poi oggetto di comparazione e riportato – comprese le partiture musicali – in questo volume, indispensabile a chi vuole anche semplicemente comprendere quale cultura, quale tradizione si cela dietro una pratica oggi desueta, ma un tempo comune in tutte le famiglie siciliane, sia povere che patrizie: la recita del Santo Rosario.”

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Un’Antologia di rosari siciliani.

E’ forte in Sara Favarò l’esigenza di conservare la tradizione. Quella tradizione che un tempo si tramandava oralmente e che oggi, se non fosse per opere come la sua, finirebbe col cadere nell’oblio collettivo. Nel novero delle sue opere di raccolta e sistematizzazione di testimonianze del passato rientra ‘A Cruna (Città Aperta, pp. 300, euro 25), la prima antologia di rosari siciliani.

È molto raro ma non impossibile, imbattersi ancora oggi, in alcuni piccoli paesi della Sicilia, in gruppi di anziani radunati per calari la cruna (scorrere la coroncina). E sono stati questi anziani, insieme alle centinaia di altri anziani incontrati e intervistati dall’autrice nel corso di trent’anni di ricerche, che le hanno fornito il materiale utile alla stesura della raccolta. Il testo racchiude una ricca rassegna di rosari fedelmente trascritti così come venivano recitati un tempo, la traduzione in italiano e diverse piccole curiosità che gravitano intorno al rito di recitare insieme il rosario.

SANDRA VTALE

LA SICILIA del 22-1 1 —2008 p.32

«A Cruna», prima antologia di rosari siciliani.

PALERMO. (ala) Un ricordo infantile risvegliato da una litania recitata dai nonni materni. Un ritorno alle origini di quella lingua perduta usata per intonare i rosari. Una ricerca meticolosa, durata trent’ anni, ha registrato, trascritto, comparato e tradotto in italiano le preghiere siciliane degli anziani. 11 risultato è A Cruna, la prima antologia di rosari siciliani scritta da Sara Favarò e pubblicata da Città aperta edizioni e presentata all’archivio storico comunale di Palermo, «Una preziosissima indagine sul campo – sottolinea l’ assessore alla Cultura, Giampiero Cannella -,che coniuga aspetti scientifici ed esperienza vissuta, lavoro sulle fonti e contatti con le persone».

In alcuni casi le preghiere sono accompagnate da partiture musicali, «Per non far disperdere il suono delle litanie», spiega l‘autrice. A confluire nella raccolta anche parte del materiale del progetto «Un viaggio nella fantasia nella Valle del Torto e dei Feudi» raccolto dagli studenti di 13 Comuni della Provincia di Palermo che hanno intervistato genitori, zii e parenti per ricostruire preghiere, filastrocche e giochi in siciliano che altrimenti sarebbero andati perduti. Un’iniziativa che ha stimolato la curiosità dei giovani verso le proprie radici. Nei ricordi dell’autrice, andata via da Vicari (il paese

di provenienza) a  11 anni, la recitazione e i ritmi del rosario da parte della famiglia matriarcale al completo, riunita attorno al letto della bisnonna: «Era la Mamà granni, eredità linguistica di grand mère e della Magna Mater dei romani – sottolinea Favarò -, cioè la bisnonna, a dare l’intonazione e a declamare le preghiere, mentre gli altri le rispondevano in coro>. Un compito al quale nessun familiare si sottraeva, a parte il nonno paterno Ciccio «buon cristiano – aggiunge la scrittrice –

che però preferiva stare lontano dalle lunghe orazioni e che mi ripeteva spesso: Monaci e parrini, vinci a missa e stoccaci i rini! (Monaci e preti, assisti alla messa, ma stanne lontano)». Una tradizione linguistica che si è tramandata anche alla morte della bisnonna, ma che stava rischiando di essere smarrita. E così dalla ricerca, primo lavoro sistematico dopo le raccolte di Giuseppe Pitrè, sono emerse alcune scoperte, a partire dalla tipologia dei rosari dell’isola: «Sono diversi – specifica la scrittrice ’ come quello alla Madre Sant ‘Anna, che testimonia quanto l’elemento femminile sia preminente nelle preghiere popolari siciliane>’. E una smentita: che le orazioni siano il frutto di una fede spontanea. «Non furono create dal popolo, ma da chi aveva una profonda conoscenza dei testi sacri-spiega Favarò – ai popolo, in tempi di grande analfabetismo e di forte oralità, il compito di modificarli e diffonderli».

ANTONELLA LOMBARDI

GIORNALE Dl SICILIA 22-11 -2008 p.40

La scia dei tetraedri.Nel mare gastronomico delle egadi.Di Emilio Milana*

Introduzione

La Sicilia è una terra singolare, ricca di storia e di mito, di sereno e di sconvolgente, come i suoi vulcani. Una terra in cui il fascino della millenaria cultura scaturisce dalla perfetta sintesi dei suoi contrasti. Una terra in cui anche i quattro principali sapori legati alla sensorialità dell’uomo — il dolce, l’amaro, il salato e l’acido — giocano in un’altalena di contrapposizioni e apposizioni nel descrivere il mutevole sfaccettarsi del tetraedro del gusto dei Siciliani, fortemente legato al loro temperamento e alla loro antica diversità.

Diceva Thomas Stearns Eliot: “La cultura è ciò che rende degna la vita di essere vissuta e la cucina è una delle sue forme”. Ed è con questo spirito che si vuole vivere, in queste pagine, un’esperienza diversa, quella di ripercorrere, anche se velocemente, quattro millenni di storia osservando le trasformazioni del gusto e del cibo dei siciliani attraverso i cambiamenti della società, dell’economia e a volte della natura, nel segno di un continuum culturale proprio dei discendenti dei Sicani.

Parlare della cucina siciliana è come attraversare la storia dei popoli che si sono incontrati e scontrati nelle acque del Mediterraneo, vero liquido amniotico delle prime civiltà e delle grandi religioni monoteistiche che hanno caratterizzato lo spirito dell’uomo. In questo senso, l’arte culinaria si colloca accanto agli studi delle antichità per ricostruire il percorso dell’uomo fin dal tempo in cui questi iniziò a ridurre la natura alla soddisfazione dei suoi bisogni prima, dei suoi piaceri dopo. Rispetto al patrimonio di reperti e di documenti che si correlano a civiltà ormai storicamente concluse, la cucina continua a essere testimonianza vivente di una realtà che ci accompagna ogni giorno attraverso i sapori, gli odori e i colori.

L’arte culinaria è quanto i Greci definivano col termine gastronomia, vocabolo che secondo un dizionario italiano riporta al “complesso delle regole e delle usanze che sono relative alla preparazione dei cibi”. Tale definizione, tuttavia, appare incompleta se si considera il significato della parola come una funzione del tempo, delle condizioni di vita e della mutevole realtà socioeconomica. Per gastronomia, oggi, può intendersi, in accordo con Slow Food, non solo l’arte di cucinare i cibi, ma anche “l’arte di degustarli, di descriverli e di giudicarli”.

La gastronomia, come arte che prevede delle proprie regole, viene dopo l’alimentazione,che risponde a un’esigenza fisiologica; se questa è, infatti, legata al bisogno di procurarsi un alimento per combattere la fame, quella presuppone il piacere di consumare e gustare il cibo. Non è superfluo, comunque, sottolineare che il piacere non è legato alla condizione socio-economica dell’uomo. Il panino con le panelle1 è quanto di più democratico la cucina della nostra terra abbia inventato, utilizzando elementi semplici che, adeguatamente lavorati, fanno provare lo stesso piacere al palato del ricco e del povero. Il panino con le panelle ha assunto il rango di prodotto gastronomico in quanto, pur nella semplicità della sua preparazione, interessa fortemente la degustazione e il piacere di assaporarlo. La panella era un cibo per poveri, ora è un prodotto gastronomico servito nei ristoranti e nelle rosticcerie più apprezzate.

Bisogna ancora convenire con Slow Food che il fenomeno della globalizzazione ha omologato e impoverito i gusti, condizionati come siamo dall ‘immagine del cibo più che dall’ alimento che la pubblicità ci propone, a danno dell’educazione alimentare e della stessa conoscenza di ciò che mangiamo. Fortunatamente, in controtendenza, sta crescendo l’interesse per il recupero delle tradizioni culinarie, espressione di un tentativo comune di riappropriarci del patrimonio di valori, di intelligenza, di abilità, che distingueva le civiltà passate e ne segnava il grado di evoluzione. La scelta alimentare non è un fenomeno legato alla classe sociale, ma alla cultura: vi sono ricchi che mangiano malissimo, meno ricchi o poveri che riescono a gustare piatti sani e saporiti, tramandati da uno stile secolare di scelta, di abbinamento e di preparazione.

La ragione di circoscrivere l’interesse culinario a un’area così ristretta della Sicilia, che fu dei Sicani e degli Elimi, sta nel desiderio di ritrovare e conservare le essenzialità locali di quest’arte che, di fatto, non è mai stata unitaria su tutto il territorio siciliano, avendo assunto espressioni e stili profondamente legati alle diversità delle genti che l’hanno popolata. Ne è un esempio la pasta con le sarde, oggi servita con immagine e gusto differenti a seconda che ci si trovi a Trapani, a Palermo o a Messina.

Il motivo, poi, di considerare solo il pesce, come elemento conduttore centrale, è dovuto alla peculiarità geografica della zona considerata, alla netta predominanza dell’attività pescatoria su quelle praticate dalla popolazione locale, a partire già dall’età arcaica, e alla profonda sensibilità verso i prodotti del mare, mostrata dai cuochi e dai gastronomi siciliani dell’antichità greca e latina prima, del Medioevo e Rinascimento dopo. Il contenuto si articola in tre sezioni, separatamente sviluppate in tre volumi: la prima dà una “sintesi storico-culturale” dell’evoluzione culinaria siciliana con diretti collegamenti a tematiche fondamentali, come la pasta e il vino; la seconda è la vera e propria sezioneculinaria, costituita da una raccolta di ricette di primi piatti, secondi e contorni ripescati nell’uso e nella pratica comune, nei ricordi degli anziani e nei documenti rinvenuti un po’ ovunque, arricchite da note e riferimenti alle possibili lontane origini; la terza presenta un ricco insieme di profili di pesci commestibili, tipici del mare egadiano, con una breve descrizione delle caratteristiche morfologiche, biologiche e gastronomiche.

Si sono voluti, inoltre, esprimere in “siciliano”2 le espressioni e gli idiomi locali, nel rispetto della conservazione della cultura d’origine, in cui la lingua è l’amalgama, l’anima della cultura stessa e della gente che l’ha creata perché, come ha scritto Ignazio Buttitta,

 

Un populu diventa poviru e servu

quannu ci arrobbanu la lingua

addutata di patri:

é persu pi sempri.

 

(Un popolo diventa povero e servo

quando gli rubano la lingua che gli fu data dai padri:

è perso per sempre.)

 

1 Le panelle sono una sorta di frittelle, sottili e di forma triangolare, fatte con un impasto di farina di ceci e acqua. Spolverate con pepe nero e sale vengono tradizionalmente consumate all’interno di un morbido panino. Come antipasto vanno gustate da sole.

 

2 Il siciliano oggi si deve ritenere una Lingua Regionale o minoritaria ai sensi della Carta Europea delle Lingue Regionali o minoritarie, che all’Art.l afferma che per lingue regionali si intendono “le lingue che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Stato”. La Carta è stata approvata il 25 giugno 1992 ed è entrata in vigore il 10 marzo 1998. L’Italia l’ha firmata il 27giugno 2000. Inoltre, l’industrial Standard Organization (ISO), l’ente internazionale che si occupa di problemi di normalizzazione, nel 2005 ha nconosciuto il siciliano come “lingua’ codificandola come ISO 639-3: scn. Pur essendo parlato da circa dieci milioni di persone in tutto il mondo, il siciliano, oggi, non viene insegnato nelle scuole e non viene nemmeno praticato nella vita pubblica, dove viene soppiantato da una specie di versione dialettale dell’italiano, con vistose mutuazioni grammaticali e fonetiche dal siciliano. “Perché non parli siciliano a tuo figlio? — fu chiesto a una madre marettimara che si esibiva tronfia in questo nuovo linguaggio.— Perché non voglio che si trovi male a scuola come mi sono trovata io” — fu la risposta. E sulla base di queste “profonde convinzioni” un altro dialetto del siciliano, quello marettimaro, sicuramente si avvierà nel desolante e malinconico percorso dell’estinzione, verso lo sradicamento dalla propria identità culturale. Un popolo in fondo, come ha già detto qualcun altro, è soprattutto ciò che entra ed esce dalla sua bocca. Cibo e parole.

 

*Emilio Milana,egadiano,ingegnere optoelettronico.Velista,vive a Bologna.

Preghiera al SS.Crocifisso in lingua siciliana.

Statue lignee del SS.Crocifisso e di Maria SS.Addolorata presenti nella chiesa oratoriale del SS.Crocifisso di Vallelunga Pratameno (CL).

su segnalazione di Salvatore da Salemi.
Prighiera
Addinucchiatu ‘nterra
a li pedi di ’sta cruci,
pregu a tia Cristu
pi darimi un segnu di paci.
Ti pregu cu amuri,
dammi fidi comu all’atri,
pi cridiri a tia Signuri
e l’Onniputenti Patri.
‘Nchiuvatu,
cu la curuna di spini ‘n’testa
n’sanguliatu, fragellatu,
ti ficiru la festa.
Oh! Cristu nuddu
di tia appi pietà;
t’ammazzaru
nun canuscennu la virità.
La Matruzza
a lì tò pedi chianciva,
cu li lacrimi
li chiaghi ti vagnava.
Dispirata a mani giunti
gridava: nun muriri!
Sarva ’stu munnu,
nun t’inni jiri!
La luci di lu suli ‘ntra jornu,
tuttu ‘nsemmula s’astutà,
lu celu si vistì di niuru,
tuttu lu munnu trimà.
Lu poviru Crucifissu
sfinutu, senza sciatu,
isà l’occhi ‘ncelu
e lu Patri ha ‘mpluratu.
Lampi, trona,
acqua e ventu;
l’occhi chiudisti;
pi tutti fù un turmentu.
Mortu ti scinneru di la Cruci
c’un linzolu e dù scali a lu latu
‘mbrazza ti piglià la povera Matri
stringennuti a lu cori scunsulatu.
Sistimatu ‘nta lu sipolcru
l’Addulurata Matri la facci ti vasà,
facennusi la cruci dissi:
sia fatta la tua volontà.
Dopo tri jorna a Gerusalemmi
ci fù un gran scumpigliu
gridavanu tutti:
abbriviscì lu figliu!
“Gesù mortu ammazzatu
è risuscitatu”
Ora sedi a la destra
di lu Patri tantu amatu.
Ti ringraziu Cristu ca mi pinzasti
la fidi ca nun avia tu mi dasti.

Poesia del Poeta Giuseppe Cardella