Resistenza alla mafia….

Roma 5

TAVOLA ROTONDA SU SANTITA’ E LEGALITA’

 Roma

Il 15 maggio scorso,a Roma presso l’istituto “Luigi Sturzo”,si è svolta una tavola rotonda sul tema :”Resistenza alla mafia:corcevia di Santità e Legalità”,in memoria del compianto Arcivescovo di Monreale Mons.Cataldo Naro di venerata memoria.Mons.Naro volle,per la sua diocesi, il progetto denominato “Santità e Legalità”,ossia una resistenza cristiana alla mafia.L’idea di fondo del progetto era quella che la Mafia va combattuta anche con la logica evangelica e,soprattutto,con la santità della vita dei credenti.Mons.Naro era convinto che bisognava elaborare un discorso contro la mafia,ma a partire dalle categorie proprie del cristianesimo.Dire,dunque,parole cristiane contro la mafia,unitamente a quelle espresse dalla società civile attraverso il concetto di legalità.

Riportiamo di seguito una breve sintesi degli intervenuti al convegno.

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On.LEULUCA ORALNDO

 Dopo aver ricordato con affetto Mons.Naro dicendo quanto fosse legato a Lui,anche da alcune ricorrenze familiari che potrebbero sembrare delle pure coincidenze,ma che invece sono legate ad alcuni momenti della vita di Mons.Naro,ha affermato che non bisogna  perdere di vista l’aspetto etico-religioso-morale e che due sono gli aspetti con cui si può combattere la mafia:la LEGALITA’,ossia l’osservanza delle leggi per poter vivere ordinatamente e civilmente e,appunto, la SANTITA’  di vita dei credenti in Cristo,ossia l’incarnazione quotidiana ed esistenziale dei valori del Vangelo “sine glossa”. Orlando,ha ribadito,che,inizialmente, non riusciva a capire cosa c’entrasse la SANTITA’ contro il fenomeno mafioso.Grazie a Mons.Naro si è reso conto quanto fosse importante il cammino di santità attraverso lo specifico della missione della Chiesa:l’evangelizzazione. Roma 2

Sua Ecc.MONS. VINCENZO PAGLIA

 Ha ricordato come e quando la Chiesa ha iniziato a parlare apertamente di mafia.Prima con Ruffini,poi con Pappalardo,ma determinanti sono state le parole di Giovanni Paolo II ad Agrigento,perché per la prima volta si sono usate parole cristiane contro la mafia:pentimento,conversione,giudizio di Dio. Ha sottolineato come Mons.Naro sentiva la necessità,nell’esercizio del suo ministero episcopale,di creare un movimento di resistenza alla mafia,un intreccio tra legalità e santità. Talmente grande era la considerazione che Mons.Naro aveva delle figure di santità che ha sentito il bisogno di creare una litania per invocare quelle della diocesi monrealese e non solo,affinchè ciò potesse servire per passare dal DEVOZIONALISMO  ai santi alla VOCAZIONE ALLA SANTITA’.Grande commozione ha colpito i presenti quando Mons.Paglia ha letto il testamento spirituale di Mons.Naro,concludendo,con grande nostalgia, e tristezza:”TROPPO PRESTO CI HA LASCIATI”.

PROF.SALVATORE SCORDAMAGLIA.

E’ intervenuto dicendo che la mafia bisogna combatterla con ogni mezzo lecito e purtroppo i mezzi che la società civile ha a disposizione non bastano. Poi,come affermava spesso Cataldo Naro, ha citato alcuni scritti del pastore protestante D.BONHOEFFER, tra cui RESISTENZA E RESA. Questo titolo Mons.Naro voleva che fosse interpretato così:Resistenza al male e Resa a Dio.

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DOTT.SALVATORE TAORMINA

Ha ricordato mons.Naro,la sua passione per Cristo e per la storia;il suo linguaggio cristiano e la sua definizione di  legalità :”UN MEZZO PER ESERCITARE LA GIUSTIZIA PER IL BENE COMUNE”.

Roma 4

Al termine degli interventi,alcuni partecipanti hanno preso la parola ricordando Mons.Naro sotto l’aspetto storico e sociologico,definendo la vicenda di Mons.Naro ESEMPALRE DI UNA LOGICA CRISTIANA DI VITA. Infatti Egli,durante il suo breve episcopato,ha dovuto lottare. Ha lottato,come attesta il suo testamento,contro ogni voglia di cambiamento,contro i tanti problemi irrisolti che ha trovato,ma soprattutto contro le tante incomprensioni e ostilità di alcuni personaggi che gli remavano,sistematicamente,contro, finchè ogni giorno si sentiva sentire meno. Nonostante ciò,non si è arreso,ha resistito perché capiva che Dio voleva da Lui questa resa,questa sua consegna a Lui attraverso il suo episcopato. Ha continuato traendo forza da quel crocifisso che portava al collo. Adesso vive in Dio,nella Gioia piena,ma continua a pregare per la Chiesa. Sta a noi,adesso,dare una risposta al suo sacrificio d’amore,ricordandolo,facendo passare,cioè,nel nostro cuore la sua meravigliosa persona,ma soprattutto i suoi insegnamenti e la sua testimonianza evangelica. Solamente così il suo sacrificio non sarà inutile.

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HA MODERATO IL DIBATTITO IL DOTT.GIANNI RIOTTA

La Chiesa in Italia si sente forte e non vede lo scisma sommerso.

di Piero Stefani

Anticipiamo, con lievissime modifiche, la parte finale di un’ampia intervista a Piero Stefani, fatta dal triestino Giorgio Pilastro, di prossima pubblicazione in un volume collettaneo.

 

La tradizione viene sempre intesa in senso di mantenimento.

È giudicata assai più l’atto di “custodire il deposito” piuttosto che di svilupparlo. È il problema della parabola dei talenti: secondo il tradizionalismo, il più fedele sarebbe stato quello che li nasconde e non quello che li traffica. Il modello di fedeltà è statico. Se certe istanze non sono recepite all’interno della Chiesa, esse trovano risposte altrove. Questo atteggiamento mette in campo la questione della libertà. Il problema dell’obbedienza nella libertà. Nella Chiesa la libertà non è riconosciuta. Quindi si creano due situazioni estreme: da una parte abbiamo la rottura e dall’altra l’integralismo. Sono aspetti antitetici, ma sono anche le due facce della stessa medaglia.

 C’è qualche mediazione tra queste due posizioni?

C’è lo scisma sommerso. Attualmente non credo che ci possa essere mediazione. Almeno in Italia. In questa situazione cosa si può fare? Non lasciarsi espropriare della libertà del cristiano intesa in senso alto. Se vogliamo dirla, non con Borrelli, ma con il cardinal Martini, è il tempo di: resistere, resistere, resistere. Ciò significa non lasciarsi espropriare da altri. Si tratta di un lato difensivo, ma è fondamentale. Dall’altro la prospettiva non è poi così oscura; l’attuale posizione della Chiesa non reggerà. La storia a poco a poco la sgretola. Si può affermare fin che si vuole che bisogna appoggiarsi sulle radici cristiane dell’Italia, ma i fatti lo smentiscono sempre di più. Lo stesso vale sul fronte bioetico. Trentacinque anni fa la dirigenza cattolica si diede da fare per abolire il divorzio. Oggi nessun uomo di Chiesa pensa di impegnarsi a eliminare il divorzio dalla legislazione civile. Adesso si è costretti (o si dovrebbe esserlo) non solo a studiare i modi per testimoniare in maniera mite l’indissolubilità del matrimonio all’interno di una società pluralista e divorzista, ma anche a individuare una pastorale che vada a favore (e non contro) i divorziati risposati. Prima o poi qualche risposta la si dovrà trovare.

A tempi lunghi la stessa cosa avverrà per il testamento biologico. Su questo punto ora c’è una posizione apparentemente forte; ma, in realtà, essa è basata su un’illusione temporanea legata ad interessi politici specifici. Non durerà. Così come, per rivolgere lo sguardo all’interno della Chiesa, non durerà il pervicace rifiuto della Chiesa latina (e solo di essa) di consacrare al sacerdozio uomini sposati.

Naturalmente subire il cambiamento per la forza dei fatti, è ben altra cosa che governarlo in virtù della propria libertà spirituale; ma essendo quest’ultima ridotta al lumicino, occorre contare sul primo fattore.

 Cosa non dura?

Non dura la possibilità incarnata dalla Chiesa italiana di oggi di rappresentare il sentire profondo del paese. Non dura la sua illusione di rappresentare l’ethos collettivo. È una pretesa anacronistica e quindi inevitabilmente destinata a cadere.  Facciamo un paragone: per quale motivo l’antigiudaismo cattolico è tramontato? Non perché ci sia stata, in prima istanza, una elaborazione di dottrine interne. È caduto perché le condizioni esterne che lo tenevano in piedi sono mutate: non c’è più  ghetto, c’è stata la Shoah, il popolo ebraico non è più disperso perché è sorto  lo stato di Israele. Sono tre eventi del tutto incompatibili con l’antigiudaismo Il simulacro è rimasto per un po’, ma poi anch’esso è caduto e ci si è dovuti adeguare.

 Sarà così anche per la Chiesa italiana?

Secondo me sì. Non credo che la sua pretesa di rappresentare l’ethos nazionale abbia futuro. Il problema di vivere la fede in un mondo post moderno, relativistico, pluralistico, evitando di denunciare solo scristianizzazioni e perdite dei valori, non è eludibile all’infinito. Il fatto è che troppo spesso, in ambito ecclesiale, si crede che il proprio tramonto coincida con quello della fede.

 Perché la Chiesa ha tanta difficoltà?

Perché bisogna ammettere che il regime di cristianità è definitivamente finito. Se si va in Vaticano ci si rende conto che quella è tuttora una struttura di cristianità. Storicamente è così. Se uno vede il papa che, circondato da guardie svizzere, riceve in suntuosi saloni il corpo diplomatico, come fa a non ritenere che lì ci si accorga che è finito il regime di cristianità? Il problema è che la Chiesa cattolica è effettivamente anche un’istituzione e in quanto tale è dotata delle sue logiche. Non si può domandarle di essere molto diversa. È un abbaglio tipico di tanti progressisti i quali sbagliano nel momento in cui chiedono all’istituzione quanto essa non può dare. Posso esigere da un vescovo che svolga il suo ruolo in uno stile meno anacronistico. Qualcuno già lo fa. Ma non posso chiedergli di non avere rapporti con il prefetto o con il sindaco. Anch’egli è a capo di una struttura pubblica, c’è la diocesi, ci sono le parrocchie e così via. Solo che il vescovo dovrebbero essere semplicemente consapevole che questo non è Vangelo, così come non lo è il nostro mestiere che facciamo tutti i giorni. Lo stesso vale per un papa che riceve il corpo diplomatico. Se invece si vuole ammantare tutto questo con il Vangelo, allora l’imputazione di tradimento è inevitabile. Il Vangelo sine glossa è leggibile nella vita di Francesco di Assisi, non in quella di un politico, di un ingegnere, di un professore, di un vescovo o di un papa. Può essere che esistano ingegneri santi, come è stato Alberto Marvelli, o vescovi e papi santi, ma nessuno di essi lo è in ragione della carica che ricopre.

 Le maggiori difficoltà sorgono quando guardiamo all’istituzione e contemporaneamente pensiamo all’opzione per gli ultimi, per i poveri. Ci aspettiamo una Chiesa diversa?

Le istituzioni hanno delle logiche – come diceva Ivan Illich – che sono insuperabili. Per questo non ce se ne può liberare del tutto senza provocare conseguenze drastiche.

Si può, per esempio, ipotizzare che un papa cessi di stare in Vaticano? Il massimo che gli si può chiedere è di andare a risiedere a San Giovanni in Laterano, ribadendo così il fatto che è papa in quanto è vescovo di Roma. Ma perché un simile gesto sia coerente si dovrebbero smantellare tutti i rapporti tra la Santa sede e gli altri stati. Con quali conseguenze? In ogni caso, non avrebbe alcun senso che il vescovo di Roma ricevesse nella sua cattedrale il corpo diplomatico. In realtà, un’eventualità del genere può essere imposta solo da determinate vicende storiche (proprio come avvenne per la scomparsa dello Stato pontificio); non è pensabile che sia l’esito di un processo di autoriforma. Attualmente all’orizzonte non si vede nulla del genere; ma chi può prevedere il futuro?

 Questa Chiesa, però, che non si comprende bene dove stia traghettando, comporta molta più ansia e più inquietudine?

È vero, non è chiaro quale sia la strategia attuale della Chiesa. Noi vorremmo che il vertice si apra perché c’è troppo clericalismo. Vorremmo, come diceva Pio XII, che ci fosse più opinione pubblica nella Chiesa e soprattutto che fosse ascoltata. Bisogna operare in questa direzione. Facile a dirsi, arduo da mettere in pratica, mentre, allo stato attuale, è quasi utopistico ipotizzare un esito positivo.

In molti settori ecclesiastici si ha tuttora paura dell’opinione pubblica ecclesiale. Ai suoi vertici la Chiesa si pensa tuttora in modo clericale. Ciò avviene perché i laici cattolici non sono adulti, non solo nella fede, ma anche nella cultura. Tra i cattolici la crisi culturale è ancor più forte di quella della fede. Un confronto tra il livello culturale del laicato cattolico di oggi e quello di qualche decennio fa’ è impietoso.

 Nelle religioni c’è una sorta di deresponsabilizzazione. Quanta libertà c’è dentro la Chiesa cattolica di esprimere idee, dissenso, progetti, ecc.?

Lo ripeto, siamo soprattutto di fronte al cosiddetto scisma sommerso. In altre parole, non esiste un’opinione pubblica che venga ascoltata. All’interno della Chiesa vige un modello di laicato pensato in modo organico. Faccio un esempio. Una signora di Rovigo mi chiedeva: “Devo accettare di essere nominata nel sinodo diocesano? Sono andata lì per partecipare e mi hanno chiesto di fare un giuramento”. Si noti, esso riguardava non solo l’atto di condividere gli insegnamenti della Chiesa, ma anche il fatto di partecipare ai lavori stessi del sinodo. Lascio ad altri stabilire come si possa tenere assieme tutto ciò con il Discorso della Montagna (cfr. Mt 5,33-37).

Il laicato cattolico è ascoltato solo se è organizzato e organico. Se l’organizzazione, come nel caso di alcuni movimenti, è molto forte essa può ottenere i propri vescovi ed entrare a far parte, a pieno titolo, del sistema con un proprio ruolo e un proprio spazio. Ma un laico, che non aderisce a nessuna associazione o a nessun movimento e che si presenta come un credente puro e semplice, vale a dire colui che si affida a quanto è fondamentale, in sostanza non conta nulla. Ben s’intende: agli occhi della gerarchia, non a quelli di Dio. La mancanza di riflessione su questo punto è un segno preoccupante.

 Ci sono elementi di speranza?

La speranza, intesa nel suo senso più alto, è rivolta all’avvenire di Dio; essa non riguarda la riforma delle istituzioni, neppure quelle ecclesiali. Rispetto a queste ultime si può confidare che, a poco a poco, ci si accorga che il re è nudo e che l’attuale, apparente rigoglio della cristianità è solo un riflesso condizionato provocato dal pluralismo religioso. Molte radici cristiane sono state scoperte solo grazie alla crescente presenza musulmana. Certo, finché ci saranno musulmani che riempiono le piazze per svolgere una preghiera che è in realtà un atto politico, è ben difficile che la nostalgia di cristianità declini. Nel tempo breve non sono ottimista; mentre su tempi lunghi è ipotizzabile che la situazione non duri. Il che non vuol dire che dalle macerie nasca chissà cosa. È come la situazione economica: quando ci sono le crisi serie esse sono effettivamente tali, non crisi di crescita. Esistono fondati motivi di preoccupazione.

http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=45315

Manipolazione del corpo e mutilazioni genitali femminili.

Botti

Le mutilazioni genitali femminili costituiscono nei paesi d’origine una pratica identitaria di carattere culturale o rispondono a prescrizioni di carattere religioso? Hanno un’origine unica o non, piuttosto, un’origine policentrica? Esse vengono riscoperte in occidente nelle comunità migranti come una forma di rispetto delle tradizioni e riproposte come pratiche attraverso le quali mantenere l’identità? In che misura le mgf sono (o sono state) solo un fenomeno afro-asiatico e non piuttosto una pratica anche occidentale di controllo della sessualità della donna? Quale rapporto c’è tra la tendenza della componente maschile a stabilire delle forme di controllo del corpo femminile, della sua sessualità e queste pratiche? Qual è il rapporto tra le mgf e le moderne pratiche di manipolazione del corpo femminile? Quale efficacia ha avuto la lotta delle donne negli organismi internazionali e nei paesi africani? Di quale legislazione e di quali strumenti giuridici si sono dotati questi ultimi per contrastare la pratica delle mgf ? Quali sono l’efficacia e le caratteristiche della legge italiana sulle mgf e i rapporti con la legislazione generale relativa all’emigrazione?
A queste domande risponde in modo documentato e puntuale questo volume.

Indice:

Introduzione, di Francesco Onida p.7

Introduzione

Nell’affannosa ricerca di motivi razionali che valgano a spiegare, giustificare, rafforzare l’avversione nazionale nei confronti della forte incessante immigrazione, ora proveniente soprattutto da paesi africani, riuscendo tuttavia a salvaguardare l’autostima degli italiani come popolo generoso e non razzista, sono state individuate alcune caratteristiche di vita così profondamente lontane dalla cultura italiana da risultare al tempo stesso inaccettabili e irrecuperabili. Tra queste occupano una posizione di primissimo piano le mutilazioni genitali femminili, presto seguite dall’uso del velo: l’una e l’altro inoltre evidenzianti ai nostri occhi una posizione sociale di assoluta subordinazione della donna. Ma perché il contrasto con i valori della nostra civiltà appaia insuperabile è ancora necessario che quei comportamenti non siano sentiti come volontari e liberi, e dunque liberamente rinunciabili, bensì imposti da un’autorità suprema, o almeno superiore. Facile ed utile a questo punto individuare tale autorità nella religione islamica, facendo così intravedere altri temuti motivi di contrasto pronti a scendere in campo, forse fino a dar luogo a un compiuto scontro di civiltà: poligamia contro monogamia, libertà e uguaglianza contro inferiorità e subordinazione della donna, accettazione contro criminalizzazione dell’omosessualità, laicità dello stato contro fondamentalismo religioso sono soltanto alcuni tra i paventati punti di contrasto che fanno gridare allo scandalo di una possibile perdita di identità per un paese democratico, laico e cristiano.
Evidentemente è essenziale per potersi muovere con consapevolezza in tal materia – qualunque posizione politica e sociale si voglia assumere – sapere se e fino a che punto i comportamenti in questione siano davvero così comuni e quasi imprescindibili presso quelle popolazioni, nonché conoscere le tante differenze che sicuramente li caratterizzano al loro interno, e soprattutto comprenderne il reale rapporto con i pretesi fondamenti religiosi e culturali. Né basta. Rimane poi da sapere, e da capire, in qual modo, misura e direzione l’immersione in una cultura e in una realtà giuridica e sociale profondamente diversa possa provocare nelle comunità degl’immigrati modificazioni anche importanti del loro rapporto di dipendenza dalla tradizione originaria, e ciò sia nel senso di un suo affievolimento – specialmente per le seconde generazioni – sia, all’opposto, nel senso di un irrigidimento difensivo dei vincoli identitari.
Molti degli indicati aspetti problematici hanno già sollecitato l’attenzione dei media e degli studiosi in occasione di concreti episodi apparsi confliggenti con il diritto o almeno con i costumi italiani ed europei. Tra questi, specialmente le ripugnanti mutilazioni genitali femminili (la circoncisione maschile, presente in Europa da sempre tramite la religione ebraica, viene presa in considerazione soltanto per necessità di completezza delle argomentazioni), additate al grosso pubblico come volute o ispirate dalla religione islamica e pertanto riflettenti direttamente su quest’ultima il biasimo ch’esse suscitano. Mancava però – ed è il contributo che si propone di apportare lo studio della Botti – una ricostruzione completa e possibilmente organica di quel fenomeno; una ricostruzione che accantonando la problematica, vicina ma non strettamente connessa, del velo islamico, si concentrasse piuttosto sulle tante e diverse fonti che stanno a fondamento dei vari tipi di Mgf nonché sulle tante iniziative che in Africa e fuori combattono il fenomeno e in qualche misura lo modificano.
Il dato che subito e chiaramente emerge da questo studio è la natura non islamica e forse neanche religiosa ma di tradizione antichissima delle Mgf. O meglio, probabilmente, una loro origine policentrica, che non esclude oggi una certa corresponsabilità islamica nel mantenimento di quella pratica però la ridimensiona in misura rilevantissima e soprattutto la riorienta – per quanto riguarda la problematica dei mussulmani immigrati in Europa – in funzione di salvaguardia identitaria. Si tratta di una correzione/precisazione non nuovissima in sé, ma resa nuova e convincente in quanto inserita in un contesto organico aggiornato che sullo sfondo presenta l’impostazione della bioetica, mentre guarda il problema della sessualità femminile e del suo controllo da parte della componente maschile della comunità da una angolazione limpidamente femminile alla luce di un faro oggi indiscutibile qual è il principio di uguaglianza.
Questo primo risultato della netta attenuazione della natura religiosa islamica della pratica delle mutilazioni genitali femminili consente, anzi impone, di procedere con modalità nuove – meno condizionate e più efficaci – nel tentativo di ridurre e sconfiggere quella pratica nei paesi d’origine e al tempo stesso dare una risposta giuridica coerente, più consapevole ed utile, quando essa si verifica in Italia.
In quest’ottica è sicuramente apprezzabile la mancanza di qualsiasi sensazione di generale superiorità occidentale. Il problema delle Mgf è – a mio avviso giustamente – affrontato in maniera assolutamente specifica e puntuale, anche perché da un paese africano all’altro, da una particolare comunità all’altra muta di molto la frequenza, il tipo e la gravità delle Mgf e muta l’atteggiamento che nei loro confronti assume il diritto penale dello stato. Bisogna lasciarsi guidare ad osservare l’evoluzione di quei diritti, e quindi di quei costumi tradizionali, in vario modo spronati dai movimenti delle donne e dalle iniziative internazionali. Colpisce favorevolmente notare l’umiltà intelligente di iniziative concrete come quella consistente nell’assumere al lavoro quali propagatrici dell’idea anti-Mgf (dopo averle addestrate a tale scopo) le stesse donne che prima nei villaggi traevano il loro sostentamento proprio dal praticare le mutilazioni genitali.
Da tempo si sentiva il bisogno di una conoscenza meno generica e giornalistica della situazione normativa di quei paesi in tal materia. Poter contare su dati normativi affidabili relativamente ai paesi di provenienza è anche – o almeno lo sarebbe se si volesse attuare una politica silenziosa ma concretamente efficace piuttosto che una gridata ma di pura apparenza – utilissimo, se non indispensabile, al fine di riuscire ad impostare un’azione anti-Mgf nel nostro paese ed in Europa. Persino nei paesi d’origine vediamo che talvolta può avere successo la trasformazione di una pratica cruenta in una essenzialmente simbolica. Forse in una materia così individualmente pregnante bisognerebbe, all’inizio e per un po’ di tempo, abbandonare le questioni di principio che salvano l’anima e l’identità comunitaria a scapito delle persone concrete e cercare piuttosto la salvezza di quest’ultime. Del resto la problematica relativa ai reati c.d. culturalmente orientati, contrapposta alla semplicistica linea di politica criminale che confida che ad aumento di pena corrisponda diminuzione dei reati, mette bene a nudo la confusione del legislatore italiano al riguardo. È questa una valutazione che la Botti si astiene dall’esprimere ma che mi pare emerga dall’insieme dei dati ch’ella ci fornisce.
Firenze, 27 febbraio 2009 Francesco Onida

CAPITOLO I LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI TRA PLURALISMO CULTURALE E BIODIRITTO
1. Sviluppi normativi dell’eugenetica e della ricerca scientifica e medica, rielaborazione dei principi etici e nascita della bioetica p.11
2. Il diritto nelle società multiculturali: dall’etica condivisa alla sanzione giuridica dei comportamenti e delle pratiche di vita. Il caso delle mutilazioni genitali femminili p.29
3. Sessualità, mutilazioni genitali femminili, emancipazione femminile. implicazioni religiose del fenomeno p.43
4. Le mutilazioni genitali femminili: un fatto culturale?p.53

CAPITOLO II LE MGF IN AFRICA: PROFILI STORICI, ANTROPOLOGICI, CULTURALI E GIURIDICI
1. Alle origini delle mutilazioni genitali femminili in Africa. Elementi a favore di un’origine policentrica p.71
2. Le prime politiche contro le mutilazioni genitali femminili in Africa nel periodo della colonizzazione p.88
3. La lotta internazionale contro le Mgf e il ruolo delle donne p.104
4. La Conferenza di Pechino e le attuali iniziative internazionali contro le Mgf p.119

CAPITOLO III LA LEGISLAZIONE DEGLI STATI NAZIONALI AFRICANI SULLE MGF
1. La legislazione degli Stati dell’Africa occidentale sulle Mgf p.129
2. Le politiche dell’Egitto e dei Paesi del Corno d’Africa sulle Mgf p.142
3. Gli Stati dell’Africa centrale verso una nuova legislazione in materia di Mgf p.155
4. La tutela delle donne e dei bambini in Africa e le sanzioni penali delle Mgf p.172

CAPITOLO IV LA LEGISLAZIONE ITALIANA IN MATERIA DI MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI
1. Le Mgf: un reato culturalmente orientato? p.181
2. Dimensione individuale e collettiva dei riti simbolici e atti di disponibilità del proprio corpo p.191
Prevenzione e repressione delle mutilazioni genitali femminili: possibilità e limiti delle norme civili e penali p.203
4. La legge 9 gennaio 2006, n. 7. Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile p.217

BIBLIOGRAFIA p.231

F. Botti,Manipolazioni del corpo e mutilazioni genitali femminili
pp. 263, €25,00
88-7395-436-1
Bononia University press, Bologna, 2009.

Il potere dei simboli e i simboli del potere.

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I conflitti sui simboli religiosi nello spazio pubblico riflettono le angosce, le contraddizioni e le ambiguità in cui si dibattono le democrazie occidentali nella gestione della diversità culturale e nella ridefinizione del modello di cittadinanza nell’epoca della globalizzazione. L’analisi comparata delle risposte a questi conflitti nei più consolidati ordinamenti di democrazia liberale rivela un generale offuscamento della linea di demarcazione tra laicità e religione ed una tendenza all’uso strategico di entrambe come fattori di coesione sociale e come clausole di tutela dell’omogeneità culturale. A far le spese di questo fenomeno è soprattutto l’Islam, sempre più esplicitamente caratterizzato in termini di netto antagonismo rispetto ad una non meglio identificata “civiltà occidentale”, di cui la cristianità, seppure nella sua versione secolarizzata, costituirebbe un elemento strutturale. Ne risulta una gerarchizzazione delle culture e delle religioni, la discriminazione sistematica delle minoranze religiose, e la loro relegazione nella periferia democratica, e cioè un modello di cittadinanza-fortezza, incompatibile con la democrazia aperta, inclusiva e partecipativa che l’Europa teoricamente propugna. 


INDICE – SOMMARIO


Prefazione 1
Introduzione 3
I simboli religiosi tra globalizzazione, privatizzazione e fondamentalismo

Capitolo I – I simboli del potere: La preferenza per la cristianità nello spazio pubblico delle
democrazie occidentali

1. Il giudice teologo e la laicità confessionalista: il caso italiano 16
2. La preferenza per la cristianità in Germania e la lezione svizzera: la laicità tra esclusione ed inclusione 28
2.1. Le Christliche Gemeinschaftsschulen 29
2.2. La “soluzione bavarese” alla controversia sul crocifisso 31
2.3. La lezione svizzera: la laicità come garanzia di inclusione 38
3. Gli Stati Uniti: il “non preferenzialismo” preferenzialista 41
3.1. Il regime delle scuole private: il favore per l’istruzione cristiana 45
3.2. L’applicazione della Free Exercise Clause: lo sfavore per le pratiche religiose “non ortodosse” 49
3.3. La disciplina dei simboli religiosi nello spazio pubblico: il presepe, le renne e la slitta di Babbo Natale 54
4. Considerazioni conclusive 66

Capitolo II – Il potere dei simboli: il velo che svela le nostre paure 

1. I simboli di minoranza e il problema della definizione del loro significato 72
1.1. La giurisprudenza francese precedente la legge del 2004 72
1.2. Federalismo, velo islamico e intolleranza: il caso tedesco 78
1.3. La Gran Bretagna: Shabina Begum e i limiti del multiculturalismo inclusivo 84
1.4. Divieto e pregiudizio: la lezione canadese 94
2. L ’aménagement raisonable e la dottrina del margine di apprezzamento degli Stati: la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. 101
2.1. L’aménagement raisonable 101
2.2. Il misterioso margine di apprezzamento 106
2.3. La questione del velo davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 121
3. I l velo e l’eguaglianza di genere 138
3.1. Il multiculturalismo fa male alle donne? 138
3.2. Velo islamico ed eguaglianza di genere: una collisione necessaria? 143

Capitolo III – Laicità e religione come clausole di salvaguardia dell’omogeneità culturale

1. L ’islam nello spazio pubblico delle democrazie occidentali: la costruzione del “nemico” 153
1.1. Democrazia militante, stato di emergenza e stato di stress 153
1.2. Islam e Stato di stress: la costruzione del “nemico” 161
1.3. Laicità e religione come clausole di protezione della Costituzione: il ruolo dei simboli religiosi 166
2. Il dilemma turco: la laicità ultra-militante e lo spettro dello scontro di civiltà 174
2.1. Laicità e protezione della costituzione: il Refah Partisi e l’antisistemicità dei partiti religiosi 174
2.2. La Turchia e l’Europa: lo spettro dello scontro di civiltà 191
3. Costituzionalismo, pluralismo, laicità e religione: una convivenza possibile? 199

Conclusioni 
Noi e gli altri: l’eguaglianza, la partecipazione e il dialogo 209

Indice delle opere citate 223


Susanna Mancini è professore di diritto pubblico comparato a Bologna e insegna regolarmente
presso diverse università europee e nordamericane. Si occupa di multiculturalismo, eguaglianza di
genere, diritti delle minoranze, conflitti etnici, federalismo e secessione.

 

S.Mancini,Il potere dei simboli, i simboli del potere.
Laicità e religione alla prova del pluralismo

Cedam, 2008, p. XII-232 
Collana: CISR – Centro Italiano per lo Sviluppo della Ricerca, diretta dal prof. Giuseppe de Vergottini.

Perchè la Chiesa ha condannato il comunismo:1989-2009.

DI MASSIMO INTROVIGNE

I vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino offrono occasione di riflettere sul Magistero cattolico in tema di comunismo. La Chiesa – come ricorda Papa Pio XI (1857-1939) nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937 (n. 4) – ha condannato il comunismo già prima che fosse pubblicato, nel 1848, il Manifesto del Partito Comunista, precisamente nel 1846 con l’enciclica Qui pluribus del Beato Pio IX (1792-1878). La stessa Divini Redemptoris – pubblicata cinque giorni dopo l’enciclica sul nazional-socialismo Mit brennender Sorge per evitare l’uso propagandistico della condanna dell’avversario da parte dell’uno come dell’altro regime – costituisce la più articolata analisi del fenomeno comunista da parte della Chiesa. Ma i documenti sono letteralmente centinaia, e fra i più recenti spiccano l’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede (allora presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger) Libertatis nuntius su alcuni aspetti della “teologia della liberazione”, del 1984, e i riferimenti al marxismo nell’enciclica Spe salvi, del 2007, di Benedetto XVI.
Ma perché la Chiesa ha condannato il comunismo? Come ricorda la stessaDivini Redemptoris le risposte “perché insegna e diffonde l’ateismo” e “perché perseguita la Chiesa” non sono di per sé sbagliate, ma sono inadeguate e incomplete. Esaminando il Magistero sul comunismo, emergono sei punti che vale la pena di ricordare e di meditare.

(1) Il comunismo è un sistema intrinsecamente perverso, per sua natura anti-religioso e contro l’uomo.

Va sicuramente di moda oggi – a fronte, è vero, di un involgarimento delle dottrine politiche – riconoscere al comunismo almeno una certa coerenza interna ed eleganza di sistema. È un giudizio che si sente enunciare anche da cattolici e da uomini di Chiesa. Non tutto è falso in questo riconoscimento. Ma c’è il rischio che faccia dimenticare l’essenziale: il comunismo è “intrinsecamente perverso” (Divini Redemptoris, n. 58), e non lo è per caso, per circostanze storiche, per malvagità individuale di qualcuno. Le atrocità del comunismo non sono “un fenomeno transitorio solito ad accompagnarsi a qualunque grande rivoluzione, isolati eccessi di esasperazione comuni ad ogni guerra; no, sono frutti naturali del sistema” (ibid., n. 21).

Certo, il comunismo è ateo, anzi è la versione più radicale ed estrema dell’ateismo: “per la prima volta nella storia stiamo assistendo ad una lotta freddamente voluta, e accuratamente preparata dell’uomo contro tutto ciò che è divino. Il comunismo è per sua natura antireligioso, e considera la religione come l’oppio del popolo perché i princìpi religiosi, che parlano della vita d’oltre tomba, distolgono il proletario dal mirare al conseguimento del paradiso sovietico, che è di questa terra” (ibid., n. 22).

Ma, una volta instaurato l’ateismo assoluto, ne segue anche la negazione dei diritti fondamentali della persona umana. La dottrina fondata sui due presupposti “del materialismo dialettico e del materialismo storico (…) insegna che esiste una sola realtà, la materia, con le sue forze cieche, la quale evolvendosi diventa pianta, animale, uomo. Anche la società umana non ha altro che un’apparenza e una forma della materia che si evolve nel detto modo, e per ineluttabile necessità tende, in un perpetuo conflitto delle forze, verso la sintesi finale: una società senza classi. In tale dottrina, com’è evidente, non vi è posto per l’idea di Dio, non esiste differenza fra spirito e materia, né tra anima e corpo; non si dà sopravvivenza dell’anima dopo la morte, e quindi nessuna speranza in un’altra vita. Insistendo sull’aspetto dialettico del loro materialismo, i comunisti pretendono che il conflitto, che porta il mondo verso la sintesi finale, può essere accelerato dagli uomini. Quindi si sforzano di rendere più acuti gli antagonismi che sorgono fra le diverse classi della società; e la lotta di classe, con i suoi odi e le sue distruzioni, prende l’aspetto d’una crociata per il progresso dell’umanità. Invece, tutte le forze, quali che esse siano, che resistono a quelle violenze sistematiche, debbono essere annientate come nemiche del genere umano. Inoltre il comunismo spoglia l’uomo della sua libertà, principio spirituale della sua condotta morale; toglie ogni dignità alla persona umana e ogni ritegno morale contro l’assalto degli stimoli ciechi. All’uomo individuo non è riconosciuto, di fronte alla collettività, alcun diritto naturale della personalità umana, essendo essa, nel comunismo, semplice ruota e ingranaggio del sistema” (ibid., nn. 9-10).

 Tutti e due gli elementi, “l’ateismo e la negazione della persona umana, della sua libertà e dei suoi diritti, sono centrali nella concezione marxista” (Libertatis nuntius, n. 9); “il disconoscimento della natura spirituale della persona porta a subordinare totalmente quest’ultima alla collettività e a negare, così, i principi di una vita sociale e politica conforme alla dignità umana” (ibidem) Né varrebbe obiettare che esistono diversi marxismi, che il marxismo di questo o quel partito o pensatore è diverso dalla “più efferata barbarie” (Divini Redemptoris, n. 21) di cui il comunismo ha offerto il triste spettacolo dove e quando è andato al potere. “È vero che il pensiero marxista fin dai suoi inizi, ma in maniera più accentuata in questi ultimi anni, si è diversificato per dare vita a varie correnti che divergono considerevolmente le une dalle altre. Nella misura in cui restano realmente marxiste, queste correnti continuano a ricollegarsi ad un certo numero di tesi fondamentali incompatibili con la concezione cristiana dell’uomo e della società” (Libertatis nuntius, n. 8).

(2) Il comunismo è un blocco: non si può separare il materialismo storico dal materialismo dialettico

Benché uno dei fondatori della “teologia della liberazione” d’impronta marxista, padre Clodovis Boff O.S.M., in un articolo autocritico del 2007 che ha fatto molto rumore (“Teologia da Libertação e volta ao fundamento”, Revista Eclesiástica Brasileira, vol. 67, n. 268, ottobre 2007, pp. 1001-1022), abbia sostenuto che questa teologia ha portato lentamente ma inesorabilmente i suoi più conseguenti promotori verso l’ateismo, la maggioranza dei simpatizzanti cattolici del marxismo non si è dichiarata atea. Ha affermato di rifiutare nel marxismo il materialismo dialettico – cioè la filosofia atea – e di accettare il materialismo storico, cioè l’analisi economica e sociale. Ha sostenuto non solo che questa analisi è utile ma che, una volta separato dal materialismo dialettico, il materialismo storico potrebbe dare frutti positivi e sfuggire a quelle conseguenze negative che si sono manifestate nei regimi comunisti, le quali dipenderebbero dagli elementi filosofici e non dalla teoria economica e sociale. Ma in realtà, come insegna Papa Paolo VI (1897-1978) nella lettera apostolica del 1971 Octogesima adveniens (n. 34), non è possibile separare materialismo storico e materialismo dialettico, analisi e ideologia: “sarebbe illusorio e pericoloso giungere a dimenticare l’intimo legame che tali aspetti radicalmente unisce, accettare gli elementi dell’analisi marxista senza riconoscere i loro rapporti con l’ideologia”.

Spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede, nel linguaggio filosofico rigoroso che è tipico del cardinale Ratzinger: “il pensiero di [Karl] Marx [1818-1883] costituisce una concezione totalizzante del mondo nella quale numerosi dati di osservazione e di analisi descrittiva sono integrati in una struttura filosofico-ideologica, che predetermina il significato e l’importanza relativa che si riconosce loro. Gli a priori ideologici sono presupposti alla lettura della realtà sociale. Così la dissociazione degli elementi eterogenei che compongono questo amalgama epistemologicamente ibrido diventa impossibile, per cui mentre si crede di accettare solo ciò che si presenta come un’analisi, si è trascinati ad accettare la stessa filosofia o ideologia” (Libertatis nuntius, n. 6). Per Marx la critica della religione è il presupposto di ogni critica: “la critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della teologia nella critica della politica” (Spe salvi, n. 20).

(3) Anche il materialismo storico, ipoteticamente separato dal materialismo dialettico, è intrinsecamente perverso, è una ricetta non per la giustizia ma per l’oppressione e la vergogna

Ma vi è di più. La risposta alla domanda “è possibile separare il materialismo storico dal materialismo dialettico?” è negativa. Immaginiamo per un momento una realtà parallela in cui questa separazione fosse possibile. Il giudizio del Magistero sul materialismo storico – accompagnato da una filosofia non atea, anzi eventualmente favorevole alla religione o anche dichiaratamente cristiana – sarebbe per questo positivo? Niente affatto. La Chiesa Cattolica non difende solo la religione contro l’ateismo. Insegna pure una dottrina sociale, che è parte integrante del suo Magistero, in base alla quale il comunismo – anche se fosse possibile esaminarlo prescindendo dall’ateismo – è, nei suoi aspetti economici e sociali, una ricetta per l’oppressione e per la miseria.

Quello che è successo nei Paesi comunisti non è – insegna Benedetto XVI – il risultato di una cattiva interpretazione di Marx. Al contrario, rivela “l’errore fondamentale di Marx”, il quale “supponeva semplicemente che con l’espropriazione della classe dominante, con la caduta del potere politico e con la socializzazione dei mezzi di produzione si sarebbe realizzata la Nuova Gerusalemme. Allora, infatti, sarebbero state annullate tutte le contraddizioni, l’uomo e il mondo avrebbero visto finalmente chiaro in se stessi. Allora tutto avrebbe potuto procedere da sé sulla retta via, perché tutto sarebbe appartenuto a tutti e tutti avrebbero voluto il meglio l’uno per l’altro. Così, dopo la rivoluzione riuscita, [Vladimir Il’ic] Lenin [1870-1924] dovette accorgersi che negli scritti del maestro non si trovava nessun’indicazione sul come procedere. Sì, egli aveva parlato della fase intermedia della dittatura del proletariato come di una necessità che, però, in un secondo tempo da sé si sarebbe dimostrata caduca. Questa ‘fase intermedia’ la conosciamo benissimo e sappiamo anche come si sia poi sviluppata, non portando alla luce il mondo sano, ma lasciando dietro di sé una distruzione desolante” (Spe salvi, n. 21).

Distruzione, dunque, e vergogna. Scriveva nel 1984 la Congregazione per la Dottrina della Fede: “Milioni di nostri contemporanei aspirano legittimamente a ritrovare le libertà fondamentali di cui sono privati da parte dei regimi totalitari e atei che si sono impadroniti del potere per vie rivoluzionarie e violente, proprio in nome della liberazione del popolo. Non si può ignorare questa vergogna del nostro tempo: proprio con la pretesa di portare loro la libertà, si mantengono intere nazioni in condizioni di schiavitù indegne dell’uomo. Coloro che, forse per incoscienza, si rendono complici di simili asservimenti tradiscono i poveri che intendono servire” (Libertatis nuntius, n. 10).

Certo, Marx risponderebbe che la dittatura del proletariato è una necessità della “fase intermedia” detta società socialista, che segna la massima espansione dello Stato, ma che dopo verrà il mondo nuovo, la società comunista, dove lo Stato – “deperendo” – si ritirerà. Tuttavia, rileva ancora Benedetto XVI, “Marx non ha solo mancato di ideare gli ordinamenti necessari per il nuovo mondo – di questi, infatti, non doveva più esserci bisogno. Che egli di ciò non dica nulla, è logica conseguenza della sua impostazione. Il suo errore sta più in profondità. Egli ha dimenticato che l’uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l’uomo e ha dimenticato la sua libertà” (Spe salvi, n. 21). Dopo quasi cento anni di regimi comunisti, ormai davvero “questa ‘fase intermedia’ la conosciamo benissimo” (ibidem), e sappiamo che non è affatto intermedia: la società comunista senza Stato nessuno l’ha mai vista, è un traguardo spostato continuamente in avanti per illudere gli schiavi mentre li si mantiene nelle “condizioni di schiavitù indegne dell’uomo” (Libertatis nuntius, n. 10) della società socialista.

(4) Il comunismo non nasce da una nobile lotta contro l’ingiustizia, ma da un vizio morale e ideologico

Si sente spesso dire che almeno nel comunismo sarebbe positivo il momento esigenziale di lotta per la giustizia di fronte alla miseria e allo sfruttamento. Come si è visto, il Magistero fa notare che il comunismo ha provato storicamente di non risolvere il problema della miseria ma di aggravarlo. Il momento esigenziale esiste sicuramente in alcuni militanti e simpatizzanti ingenui. Non è però alle origini dell’ideologia, che nasce da un vizio di carattere morale: con le premesse del marxismo “viene messa radicalmente in causa la natura stessa dell’etica. Infatti, nell’ottica della lotta di classe viene implicitamente negato il carattere trascendente della distinzione tra il bene e il male, principio della moralità” (Libertatis nuntius, n. 9). Dove viene meno la moralità s’instaura il vizio. E il vizio non nasce dai problemi reali dei poveri, li sfrutta. Sul punto si era già espresso correttamente lo storico comunista, poi ex-comunista, Arthur Rosenberg (1889-1943): “Marx non si rifece […] dal proletariato, dai suoi bisogni e dalle sue sofferenze, dalla necessità di liberarnelo, per trovare poi, come unica via della salvezza del proletariato, la Rivoluzione. Al contrario, egli camminò proprio all’inverso […]. Nel cercare la possibilità della Rivoluzione, Marx trova il proletariato” (Storia del Bolscevismo, trad. it., Sansoni, Firenze 1969, p. 3).

Pio XI nota a proposito del comunismo che “uno pseudo-ideale di giustizia, di uguaglianza e di fraternità nel lavoro, pervade tutta la sua dottrina, e tutta la sua attività d’un certo falso misticismo, che alle folle adescate da fallaci promesse comunica uno slancio e un entusiasmo contagioso, specialmente in un tempo come il nostro, in cui da una distribuzione difettosa delle cose di questo mondo risulta una miseria non consueta” (Divini Redemptoris, n. 8). Ma si tratta appunto di un adescamento: “assai pochi hanno potuto penetrare la vera natura del comunismo; i più invece cedono alla tentazione abilmente presentata sotto le più abbaglianti promesse. Con il pretesto che si vuole soltanto migliorare la sorte delle classi lavoratrici, togliere abusi reali prodotti dall’economia liberale e ottenere una più equa distribuzione dei beni terreni (scopi senza dubbio pienamente legittimi), e approfittando della mondiale crisi economica, si riesce ad attirare nella sfera d’influenza del comunismo anche quei ceti della popolazione che per principio rigettano ogni materialismo e ogni terrorismo […] per coprire, quando conviene, la crudezza ributtante e inumana dei princìpi e dei metodi del comunismo” (ibid., n. 15).

(5) Il comunismo è una tappa di un itinerario rivoluzionario più ampio

Dopo gli eventi del 1989 la dichiarazione Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberato dell’Assemblea Straordinaria per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, del 1991 (in Enchiridion del Sinodo dei Vescovi, vol. II, 1989-1995, EDB Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2006, pp. 3472-3517), rileva che “il crollo del comunismo mette in questione l’intero itinerario culturale e socio-politico dell’umanesimo europeo, segnato dall’ateismo non solo nel suo esito marxista, e mostra coi fatti, oltre che in linea di principio, che non è possibile disgiungere la causa di Dio dalla causa dell’uomo”.

Il comunismo non può essere considerato isolatamente. È la tappa a suo modo finale di un itinerario. Non si riesce a capirlo, nota già la Divini Redemptoris (n. 16), senza la preparazione costituita dal liberalismo illuminista il quale, quando lo coglie l’assalto comunista, da decenni se non da secoli “continuava a promuovere positivamente il laicismo. Si raccoglie dunque ora l’eredità di errori dai Nostri Predecessori e da Noi stessi tante volte denunciati, e non è da meravigliarsi che in un mondo già largamente scristianizzato dilaghi l’errore comunista”.

In un modo più complesso e articolato, il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI del 12 settembre 2006 e l’enciclica Spe salvi del 2007 situano il comunismo nell’ambito di un processo di demolizione dell’edificio europeo e occidentale faticosamente costruito sull’armonia fra fede e ragione, fra Rivelazione ebraica e cristiana e filosofia greca. Si tratta, secondo il discorso di Ratisbona, di tre successive “deellenizzazioni”, manifestazioni non tanto di antipatia verso lo stile o il linguaggio greco ma verso l’equilibrio tra fede e ragione che il Medioevo cristiano aveva trovato grazie all’incontro con la Grecia, costituite rispettivamente dall’attacco contro la ragione di Martin Lutero (1483-1546) e dalla sostituzione di una ragione misurata dalla verità delle cose con una ragione strumentale misurata dal successo da parte dell’Illuminismo razionalista e scientista prima e del marxismo poi. Queste tappe sono ulteriormente scandite nell’enciclica Spe salvi con riferimento ancora a Lutero, a un itinerario scientista che va da Francesco Bacone (1561-1626) all’Illuminismo della Rivoluzione francese e infine al comunismo.

Il crollo del comunismo effettivamente rivela e “mette in questione” tutto questo processo, che la scuola contro-rivoluzionaria (di cui si può dire, senza forzare il quadro, che in questi testi di Magistero come del resto in altri precedenti c’è più di un’eco) chiama Prima, Seconda e Terza Rivoluzione. “La Rivoluzione è un blocco”, secondo l’espressione tante volte citata dell’uomo politico francese Georges Clemenceau (1841-1929), e non si può né capire né coprire il suo fronte rappresentato dal comunismo senza considerare il processo rivoluzionario nel suo insieme.

(6) Rispetto alle fasi precedenti del processo rivoluzionario, il comunismo rappresenta una fase più avanzata, dunque dal punto di vista della dottrina cattolica peggiore per ampiezza e violenza

Il processo rivoluzionario è a suo modo lineare: “nel corso dei secoli uno sconvolgimento è succeduto all’altro fino alla rivoluzione dei nostri giorni” (Divini Redemptoris, n. 2). Ogni Rivoluzione, ogni attacco alla sintesi di fede e ragione, ogni “deellenizzazione” è peggiore della precedente, e si spinge più oltre. Questo fatto non rende naturalmente buona né “rivaluta” ciascuna fase della Rivoluzione quando sulla scena della storia ne irrompe una peggiore. Tuttavia l’esistenza di gradi all’interno del processo rivoluzionario non è neppure irrilevante. Dire che il comunismo “supera in ampiezza e violenza quanto si ebbe a sperimentare nelle precedenti persecuzioni contro la Chiesa” (ibidem), che una “spaventevole distruzione viene eseguita con un odio, una barbarie e una efferatezza che non si sarebbero creduti possibili” (ibidem, n. 20), che si è di fronte alla “vergogna del nostro tempo” (Libertatis nuntius, n. 10) non toglie vigore alla critica del liberalismo laicista e relativista e delle sue conseguenze nella vita economica e sociale proposte dal Magistero (e neppure alla critica di quegli aspetti del pensiero protestante che mettono in crisi l’equilibrio fra fede e ragione).

E tuttavia vi è una diversità di accenti che non è solo questione di stile o di retorica. Il comunismo, in quanto terza tappa di un processo, porta in sé tutti i vizi delle prime due ma li esaspera e ne aggiunge di nuovi. Questo giudizio è di grandissima importanza quando si tratta di dottrina dell’azione, e aiuta a evitare molti errori ed equivoci. Il fideismo protestante, il laicismo illuminista con le sue conseguenze sociali e il comunismo sono ugualmente condannabili e condannati. La dottrina sociale invita sempre a richiamare l’ideale di una posizione integralmente cattolica, non compromessa con nessuna delle fasi del processo rivoluzionario – e la mancanza di questo richiamo ha gravi conseguenze pedagogiche. Tuttavia, in circostanze particolari, la differenza di grado fra le tre fasi spiega perché di fronte al pericolo socialista e comunista la Chiesa abbia favorito un’alleanza tattica di cattolici con protestanti e anche con liberali contro il socialismo – è questa la logica del cosiddetto “patto Gentiloni” del 1913, voluto dal Papa San Pio X (1835-1914) – mentre la condanna della “teologia della liberazione” d’impronta marxista nella Libertatis nuntiuscondanna precisamente, tra l’altro, l’alleanza di cattolici e comunisti contro i liberali. In queste indicazioni non vi è, naturalmente, nessuna impropria o assurda beatificazione del liberalismo, di cui anzi si continuano a denunciare gli aspetti inaccettabili, ma semplicemente la consapevolezza della natura di processo della Rivoluzione e del fatto che di questo processo che va sempre peggiorando il comunismo, rispetto al liberalismo, costituisca una fase ulteriore che appunto “supera in ampiezza e violenza” gli errori e gli orrori delle fasi precedenti.

 

 

 

Giuliana(Pa):nel paese dei centenari!

INCONTRI A.G.MARCHESE

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 NEL PAESE DEI CENTENARI, A GIULIANA ,UN MEDICO LETTERATO NE STUDIA LA VITA

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Di Ferdinando Russo

Antonino Giuseppe Marchese, il medico scrittore di storie e di uomini illustri del Corleonese e uno dei maggiori studiosi delle civiltà municipali della  Sicilia contemporanea, di cui ci siamo occupati anche recentemente,nella presentazione del volume  sui  Conti Civici del Comune di Giuliana dell’Ottocento,(1) e prima con “Peppe Russo”,l’eterno rivoluzionario, (3)torna puntualmente a sorprenderci  con un saggio dal titolo : “Una  vita da eroe”(4),nel paese dei centenari.

Giuliana, il paese (5) a pochi chilometri dai siti archeologici di Entella e di Adranone, che ha ospitato Federico II, Federico III, Eleonora D’Aragona, con il suo castello restaurato di epoca federiciana e il Monastero adiacente degli Olivetani e vicina a S. Maria del Bosco, vanta un primato invidiato e non del tutto noto, quello del numero dei centenari.

<Questo Comune>, scrive Marchese, <detiene il primato nazionale, tra i comuni d’Italia, per percentuale di longevi, ”over 85”sulla popolazione residente, seguito dai comuni (confinanti) di Bisacquino e di Sambuca di Sicilia, ricadenti nell’area occidentale dei monti Sicani, alle falde del monte Genuardo (m.1180), il “-Paradiso della terra “ (gen-nart al-ard) degli Arabi.>.

 E’ diventato così meta di studiosi delle Università e di naturalisti che affollano le sale del Castello alla scoperta dei segreti ambientali e genetici, per vivere cento e più anni.

Gli ultimi a tenere la loro Assemblea associativa ordinaria nelle sale del castello sono stati i soci della Syqillyàh di Catania, (6) che hanno popolato le strade del centro storico del paese, provenienti dall’intera Sicilia ed hanno svolto il loro congresso, in larga parte nelle assolate terrazze, che si proiettano nella valle del Sosio . (7)

E nel castello, che si offre alla riflessione e ai dibattiti sull’ambiente, sulla natura incontaminata, sui temi dell’economia del sud, della legalità e della globalizzazione sono risuonati i temi dell’attualita’ culturale e sociale, presentati da A. Cavadi, M.Pallante, T.Perna, P,Paletti, M.Angelini, S.Scuto ,Luzzi, e altri relatori.

Il nuovo saggio dello storico Marchese, tra microstoria e macrostoria, prende le mosse dal centenario di Nicolò Catalano, nato a Giuliana il 17-03-1909 e la cui vita ripercorre le avventurose tappe del Novecento italiano. –

Quella di Nicolò Catalano è <Una vita condotta con coerenza morale e lealtà di cittadino>, scrive l’autore nella premessa, <che ha visto il susseguirsi in Italia di tre modelli politici, quello liberale, quello fascista e quello democratico – repubblicano,credendo ciecamente nelle utopie e nei messianismi ,propagandati dal Duce>.

Eppure il nostro eroe umile del sud, nato a Giuliana e vissuto per larga parte della gioventù lungo i deserti africani inseguendo le avventure colonialiste di Mussolini, che fanno da cornice alle peripezie militari del protagonista tra le due guerre, alla ricerca disperata di un lavoro, <è una persona buona e cortese, di una cortesia sofisticata, che tradisce le sue origini contadine>.

La storia degli umili trova un altro cantore in A.G.Marchese, che allarga l’orizzonte dei suoi interlocutori,che costruiscono  la storia di Giuliana e di cui Marchese recupera valori e disvalori,con  scrupolosa fedeltà  alla verità-.

Questa volta il medico letterato si fa attento e minuzioso osservatore di Nicolò Catalano, lo relaziona agli uomini della terza e quarta età e ne scruta i segreti più reconditi, ne ordina le carte, i documenti, gli stili di vita,il pensiero ,la fine ironia critica sulla realtà locale

Catalano, è <u zzu Cola, mastru Cola, gni Cola, e talvolta don Cola >, come lo conoscono i compaesani giulianesi, quasi a indicare la sua popolare crescita nel lavoro e nella reputazione, è l’intellettuale povero, il lavoratore tutto dedito alla famiglia, anche quando da disoccupato gli si chiudono le strade dell’emigrazione tradizionale, che sarà possibile ai suoi figli ma non a lui, volontario in camicia nera per conquistare un pezzo di pane, che invierà alla mamma a Giuliana, ove vive il resto della famiglia.

Un altro tipo di emigrazione forzata e pericolosa ma accettata come da parte di tutti gli emigranti giulianesi, con spirito di sacrificio, di lealtà, di dovere verso il lavoro, la famiglia e la patria.

Oggi Catalano è la persona più anziana di Giuliana, seguito dal primato del sig. Pietro Musso, residente a New York sin dal 1926, più giovane di lui (si fa per dire) di 14 giorni, essendo nato il !° aprile, dopo che il 13 novembre 2008 è morta, all’età di anni 101 e giorni 96,la signora Anna Petralia.

E così Marchese s’imbatte nei centenari della quarta età, nei numerosi cittadini di Giuliana che raggiungono la felice età dei cento anni, senza neppure costare molto, come talvolta si pensa alle strutture sanitarie, alla spesa farmaceutica e smentendo la favola dell’alto costo sociale degli anziani.

L’autore del saggio è un attento osservatore dei centenari, li scopre negli archivi parrocchiali e del Comune, verifica i dati dell’Istat che fanno di Giuliana il paese con più centenari, collabora presentando e studiando tra le persone di Giuliana i centenari Anna Petralia, le figlie di Santo Ambulo, Gaetana Purrazzella e svela i primi dati della ricerca, che conduce l’Università di Palermo, attraverso l’iniziativa sulle cellule immunitarie del gruppo “linfociti b nativi”.

Tale studio ha impegnato un pool di ricercatori, diretti dal prof.Calogero Caruso, ordinario di patologia generale della facoltà di medicina e chirurgia-dell’Università di Palermo.

Alla ricerca ha collaborato, con l’autore, l’ufficiale sanitario dott. Salvatore Marchese e la prof.biologa molecolare Sonia Vasta, nominata (con R. Schifani, R. La Galla, M. Russo,)tra i dieci protagonisti palermitani dell’anno 2008 ed invitata con il suo gruppo di ricerca a Los Angelos,nel giugno del 2008,come unica studiosa,proveniente dall’Europa a presentare dei risultati relativi alla senescenza  giulianese.

Lo studio sulla immunosenescenza è stato ,quindi,presentato di recente negli Stati uniti  e pubblicato sulla rivista  britannica “New Scientist.

La lunga vita dei centenari siciliani studiati risiederebbe n elle cellule immunitarie del gruppo “linfociti b nativi”, <che rappresentano per il Prof. Caruso<una delle forme di protezione del nostro organismo nei confronti delle malattie di origine infettiva>.

Il medico dei centenari collabora intanto con l’università e attende i risultati degli altri studi intrapresi dalla prof.ssa Vasta e continua a scrutare nelle diete, nell’ambiente, nei geni familiari, nei lavori quotidiani, nella resistenza umana alle disavventure come quelle affrontate dal protagonista.-.

Gli amici anziani dei familiari di Catalano che vivono negli USA, dopo aver letto il saggio di Marchese cominciano a pensare di vivere da pensionati nel paese, che ha dato loro i natali, e i primi emigrati sognano il ritorno in Sicilia.

E il comune si appresta a ospitarli, -favorendo la ristrutturazione delle case terremotate, non ancora abitabili e proponendo una rivisitazione del centro storico e delle venti chiese cittadine visitate dal grande viaggiatore francese del Grand Tour Jean Houel.

Il Presidente dell’Opera pia Buttafuoco Tomasini, Prof.Giuseppe Scaturro, segretario diocesano delle confraternite laicali, ha progettato, intanto, la ristrutturazione del Monastero degli Olivetani, in stretto rapporto urbanistico con il castello di Federico, che potrà ospitare in estate circa settanta anziani per un turismo salutare per la terza e quarta età, ed ha presentato il progetto di restauro e conservazione dell’ampio edificio monumentale, per il quale si attende l’intervento dell’Assessorato ai beni Culturali e dell’Assessorato alla famiglia, per i primi urgenti interventi e per l’utilizzo di una parte dell’edificio in un progetto di Casa-Famiglia.

E così anche una riflessione su un centenario vivente, che ha studiato nella prigionia in Africa meridionale, recuperando gli studi elementari, non compiuti a Giuliana, può diventar e uno stimolo per cogliere i segreti dei centenari e per farne un dossier, così che gli abitanti di oggi e gli utilizzatori di domani possano vivere meglio e più a lungo.

Abitare a Giuliana può diventare una speranza di vita e non mancano le iniziative agrituristiche nel territorio e nei comuni viciniori, mentre numerose sono già le abitazioni, che si offrono a quanti, alla ricerca di un ambiente salubre, intendano trasferirsi nella residenza degli imperatori Federiciani e degli Aragonesi, alle porte dei siti archeologici di Adranone ed Entella ,già scelti dai Selinuntini e dagli Elimi e prima dai Sicani per la sicurezza,il clima,la salubrità dei luoghi,indenni anche dalla malaria, se ancora oggi i discendenti del terzo millennio  hanno  una costituzione genetica che rende loro la vita immune da alcune  malattie infettive. –

Ferdinando Russo

onnandorusso@libero.it

 

(1)A.G.Marchese . I conti civici di Giuliana (1784-1810) –Ila Palma Mazzone

2)F. Russo in http://www.maik7.wordpress.com/2008/11/20

3)F.Russo in Peppe Russo di Giuliana,Un servizio ai contadini di Sicilia in CNTN Anno VII N.40-Giugno 2007

3)A, G. Marchese, Una vita da eroe – Nicolò Catalano e il suo secolo (1909-2009-)Edizione fuori commercio-distribuita dai familiari.Plumelia-Palermo-2009

5)Vedi il sito www-comune.giuliana.pa.it

6) www, Google.it cliccando http://www.siqillyàh.it

7) M.Cristina Castellucci  Per scoprire Giuliana e il suo Castello  in  la Repubblica Palermo del 3-04-2009 pag.XIV