Vita, testamento biologico, eutanasia: quale responsabilità?

lunedì 9 Marzo 2009 – ore 20:30

Vita, testamento biologico, eutanasia: quale responsabilità?

San Giovanni in Persiceto (BO)
Sala dell’Affresco – Chiostro di San Francesco – p.zza Carducci, 9

Interverranno:

Sen. Laura Bianconi, Senatore della Repubblica, Popolo della Libertà

On. Paola Binetti, Deputato al Parlamento, Partito Democratico

Padre Giorgio Carbone O.P., Docente di bioetica e teologia morale, Facoltà di Teologia dell’Emilia-Romagna

In collaborazione con: Associazione Culturale il Mascellaro

 

Il grande sofisma sulla fine della vita. Ogni libertà anche nella morte non può svendere la sua identità

di  Francesco D’Agostino

«Perché vuoi impedirmi di decidere per la mia vita? Tu sei libero di scegliere quello che vuoi, e perché io non posso farlo?». Sembra­no domande ingenue, ma lo sono solo in appa­renza. È con domande di questo tipo che è stata attivata in Italia, ormai da mesi e mesi, un’aspra battaglia politica, giuridica e morale.

Si osservi: questa battaglia è abbastanza diversa da quelle che favorirono l’introduzione di leggi euta­nasiche, in Olanda prima, in Belgio e in Lussem­burgo poi. Nell’uno come negli altri casi a fonda­mento di tali leggi stava un antichissimo argo­mento: è giusto e umano dare una morte pietosa a pazienti terminali, colpiti da malattie tali da at­tivare terribili sofferenze. Se questa è la volontà del paziente, è giusto aiutarlo a morire serena­mente. Che si trattasse di un sofisma, lo dimostra la stessa esperienza olandese, che progressiva­mente ha allargato l’ambito di applicazione della normativa ai pazienti psichiatrici prima e ai mi­nori poi, a soggetti, cioè, palesemente incapaci di formulare un valido consenso. Ma, in linea di prin­cipio, resta il fatto che nel Benelux per accedere al­l’eutanasia legalizzata n on basta che essa sia ri­chiesta dal malato: è necessario che questa prati­ca venga obiettivamente riconosciuta come ‘pie­tosa’, come l’unico modo di fronteggiare situa­zioni atroci. E qui si pone il primo paradosso: se ci si attesta su questa linea, i fautori dell’eutanasia dovreb­bero, per onestà intellettuale, riconoscere che or­mai «l’eutanasia è sorpassata». Questo era il fa­moso titolo di un articolo, apparso qualche an­no fa su Le Monde, in cui si denunciava in modo freddamente impeccabile come i progressi straordinari della medicina palliativa avessero svuotato di senso il presupposto stesso delle leg­gi a favore dell’eutanasia: infatti, per fortuna di tutti noi, non esistono più situazioni di dolori ter­minali che la medicina non sia in grado di ren­dere sopportabili. Il contesto del dibattito è però ormai definitiva­mente mutato. I fautori dell’eutanasia non fan­no più appello alla pietà, ma alla libertà. Siamo gli unici padroni della nostra vita e dobbiamo ri­vendicare il pieno diritto di disporre di essa. «Per­ché vuoi impedirmi di decidere per la mia vita? Tu sei libero di scegliere quello che vuoi, e per­ché io non posso farlo?». Ecco il sofisma. Come smascherarlo?

Un tempo i giuristi avrebbero pazientemente spie­gato che esistono diritti e beni personalissimi e nello stesso tempo «indisponibili», quale appun­to la vita, ma non la vita soltanto: non posso di­sporre della mia libertà (vendendo, ad esempio, il mio voto) o dei miei ruoli familiari (non posso di­sporre dei miei «diritti coniugali» e della mia po­testà sui figli, trasferendola ad altri soggetti pur se consenzienti). Non posso disporre del mio corpo, vendendo il sangue o i miei organi al miglior offe­rente. Non posso disporre della mia cittadinanza, né posso usare la mia libertà per rinunciare a nes­suno dei miei diritti umani fondamentali. Agli oc­chi dei giuristi di un tempo, tutto questo sembra­va evidente. Oggi non più. Poter disporre insin­dacabilmente di sé: questo è lo slogan che emer­ge ormai con i ncredibile monotonia in tutti i di­battiti sull’eutanasia. È incredibile dover prende­re atto di come anche tanti giuristi si siano impa­droniti di tale slogan, nella più beata inconsape­volezza di cosa comporti accettarlo, e quasi esso possedesse una forza irresistibile.

Lo slogan nasconde dunque un sofisma, infinite volte denunciato e infine volte riproposto. È legitti­mo, anzi prezioso, ogni esercizio di libertà che con­fermi o potenzi la mia identità. È invece illegittimo e vituperabile ogni esercizio di libertà che porti al­la negazione o all’umiliazione, in tutto o in parte, del­la mia identità. Vendere il voto è biasimevole, non perché possa fruttarmi un indebito lucro, ma per­ché vendendo il voto dimostro di non dare credito ai miei diritti di cittadino libero, consapevole e re­sponsabile. Se dispongo lucidamente, razional­mente, freddamente della mia vita, quindi non per amore dell’altro (ad esempio, per salvare la vita di una persona che si trova in mortale pericolo), ma per chiusura egocentrica nella mia soggettività, di­mostro la mia povertà umana ed esiste nziale: in questo senso ogni suicidio (non indotto da malat­tia mentale) è prova di un tragico fallimento rela­zionale. Si dirà: ma non è questo il caso! Qui si par­la di autodeterminazione si parla di persone che soffrono e che per questo chiedono di morire. Ma allora, lasciamo cadere i sofismi: chi soffre va aiu­tato a sconfiggere la sua sofferenza, la sua dispera­zione, il senso di abbandono che lo pervade; va aiu­tato a vivere e non a morire. Nessuno, che non si tro­vi in stato di abbandono, sceglie liberamente la mor­te. L’eutanasia, l’uccisione pietosa, è sorpassata.

 

Appello alla ragione.
“Fine vita”, documento del Mpv per i senatori

di Carlo Casini

Il Movimento per la vita italiano ha annunciato il proposito di seguire passo passo i lavori sulla legge relativa al «fine-vita» con documenti, denominati «appello alla ragione», trasmessi a tutti i parlamentari ai quali già è stato inviato il volume «Eluana è tutti noi». Pubblichiamo il primo documento.

Una interpretazione non corretta dell’articolo 32 della Costituzione è continuamente proposta per sostenere la doverosità costituzionale del «Testamento Biologico» inteso come vincolante per il medico in qualsiasi caso, anche riguardo alla alimentazione e alla idratazione ed anche se il paziente risulti attualmente incapace di esprimere una libera decisione. Conseguentemente si sostiene che il «testo Calabrò» contrasterebbe nel suo impianto con la Costituzione.

Ma un sereno esame dell’articolo 32 della Costituzione mostra che tale interpretazione è forzata e del tutto inesatta.

L’art. 32 consta di tre parti: 1) il diritto alla salute; 2) la riserva di legge sull’obbligo di trattamenti terapeutici; 3) il rispetto della persona umana.

Ciascun punto deve essere esaminato separatamente.

Il diritto alla salute

Il primo comma dell’articolo 32 della Costituzione stabilisce che: la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo a interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti.

a) Occorre capire cosa si debba intendere per salute. La prima evidenza è che la morte è la condizione radicalmente contraria alla salute. Chi è morto non ha più salute. Chi lotta per la salute cerca di mantenersi in vita.

La seconda evidenza è che vi sono diversi gradi di salute. Vi può essere un completo stato di benessere fisico e psichico, ma vi possono essere anche vari gradi di malattia e quindi di diminuzione della salute. La totale perdita della salute è la morte. Ma tra questo limite estremo e la salute in senso pieno e totale vi sono livelli intermedi il cui mantenimento o miglioramento fa parte del diritto alla salute. È certo, invece, che il preteso diritto alla morte non è compreso nel diritto alla salute ed anzi è con esso in radicale antitesi.

Al contrario il diritto alla salute costituisce una conseguenza del diritto alla vita affermato dall’art. 2 con il richiamo ai diritti dell’uomo inviolabili a cui servizio si pongono gli  inderogabili doveri di solidarietà sociale.

 L’interesse della collettività

b) L’articolo 32 della Costituzione presenta il diritto alla salute come
fondamentale,
tanto da costituire un interesse della collettività. Ciò significa, evidentemente, che le Istituzioni devono, quanto meno, fare tutto il possibile affinché la salute di ogni singolo, nel senso sopra indicato, sia protetta. Ciò è tanto vero che la Costituzione impegna lo Stato a provvedere alla cura degli indigenti ponendone l’onere a carico della collettività. Ne derivano alcune ovvie conseguenze: salvo quanto diremo commentando gli altri due punti, deve riconoscersi l’esistenza di un principio di preferenza per la cura, piuttosto che per la non cura; l’esistenza di un dovere morale (o civico), anche se non coercibile, del singolo di curarsi; l’esistenza, nei casi dubbi, di una presunzione che il malato desideri curarsi piuttosto che non curarsi. Una prova della validità di questi tre corollari si ricava dal comune atteggiamento rispetto al malato che non si vuol curare, diverso da quello comunemente tenuto rispetto al paziente che chiede la cura. Nel primo caso tutti si fanno in quattro per consigliare la terapia, anzi, per spingere con ogni mezzo ad utilizzarla.

Quando nel 2004 Maria, una donna milanese rifiutò di farsi amputare il piede in cancrena, pur sapendo di rischiare la morte (poi avvenuta), non solo i privati, ma anche le istituzioni fecero di tutto per convincere la donna ad accettare l’intervento chirurgico. Immaginiamo una situazione opposta, che, cioè, la donna volesse l’amputazione: come giudicheremmo le pressioni pubbliche e private affinché ella si lasciasse piuttosto morire? Né si tratta soltanto di un dato di fatto: pressioni forti affinché venga rifiutata una cura salva vita, potrebbero probabilmente, dopo una concreta valutazione delle circostanze, configurare il delitto di istigazione al suicidio. (art. 580 c.p.)

Il trattamento terapeutico

La prima parte del 2° comma dell’articolo 32 della Costituzione stabilisce:
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento terapeutico se non per disposizione di
legge.

Anche a questo proposito occorre, prima di tutto, verificare il senso delle parole. Che cosa costituisce trattamento terapeutico? Che significa obbligo di legge? In che modo o forma la legge può rendere obbligatorioun determinato trattamento terapeutico?

a) Al primo quesito la risposta è già data dalla riflessione sul termine salute.

È terapia ogni pratica che serve a guadagnare o mantenere la salute, quale che sia il livello di essa. Non è terapia ciò che danneggia la salute o addirittura determina la morte.

La presenza di un medico non garantisce affatto la terapeuticità di un trattamento. Qualcuno potrebbe farsi togliere un dente o tagliare un dito per ottenere truffaldinamente un più elevato risarcimento del danno da una compagnia di assicurazione, oppure, essendo militare, per sottrarsi ad una missione ritenuta pericolosa. Nessuno potrebbe qualificare come terapeutico l’intervento del medico.

Queste generali considerazioni già consentono di prendere posizione sulla rimozione di ausili (ad esempio pacemaker, cristallino, denti impiantati o simili) già applicati ad un paziente e sulla sospensione del loro uso. Un conto è la rimozione e sospensione perché c’è un deterioramento della strumentazione che va rinnovata oppure perché le condizioni del malato sono tali da renderle inutili, (ad esempio la morte imminente e/o incapacità di assorbire cibo e acqua), un conto è che la rimozione – sospensione siano dirette a cagionare la morte. In questo ultimo caso non si può certo parlare di trattamento terapeutico.

L’idratazione e l’alimentazione

Questa osservazione generale comprende il tema della idratazione e della alimentazione, per le quali si pongono, giustamente, quesiti più specifici, sui quali, peraltro, non ci soffermiamo perché già ampiamente sviscerati nel dibattito in corso a livello parlamentare e di media. Ci limitiamo a chiedere: le particolari modalità di dare da bere e da mangiarepossono considerarsi terapie?
(Per una più ampia trattazione dell’argomento v. il volume di C. Casini , M. Casini , M.L. Di Pietro: Eluana è tutti noi, Società Editrice Fiorentina, 2008, pagg. 46 e seg; 176 3 seg).

b) La legge può obbligare in vario modo: prevedendo la coercibilità del comportamento dovuto,ovvero stabilendo sanzioni per il caso di mancato adempimento, ovvero, infine, limitandosi a stabilire un dovere giuridico con il precetto senza sanzioni (legge c.d. men che perfetta). Anche nell’ultimo caso non mancano conseguenze, ma sono solo indirette, perché operano o sul piano civilistico (validità o invalidità degli atti, risarcimento del danno), oppure perché riguardano i soggetti che possono favorire il comportamento che la legge valuta negativamente (esempi sono ricavabili dalla disciplina della prostituzione e dell’uso di sostanze stupefacenti).

L’indisponibilità della vita umana

A questo riguardo l’indagine sulla esistenza nel nostro ordinamento giuridico positivo del principio di indisponibilità della vita umana è rilevante. Se possiamo stabilire che la legge vieta la possibilità di disporre della propria vita, allora se ne può dedurre la doverosità, per legge, delle cure salva vita, esclusa la loro coercibilità e la sanzionabilità fatto sempre salvo il rispetto della dignità umana, come stabilito dalla 2° parte del 2° comma dell’art. 32 Cost.

Orbene: la indisponibilità della vita umana risulta chiaramente dalle norme penali che puniscono l’omicidio del consenziente (art. 589 c.p.) e l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.); dall’art. 5 del codice civile sulla invalidità degli atti di disposizione del proprio corpo che ne diminuiscono in modo permanente la integrità; da talune norme in materia di circolazione stradale (obbligo del casco per i motociclisti e della cintura di sicurezza per gli automo-bilisti), contro gli infortuni sul lavoro (che si applicano anche ai datori di lavoro, non solo ai dipendenti), sui trapianti di organo (che non consentano la donazione da vivo che comporti la morte del donatore).

Chi sostiene il diritto di rifiutare la cura salva vita, come aspetto di un diritto di autodeterminazione che dovrebbe prevalere sul principio di indisponibilità della vita è in difficoltà quando si chiede di ragionare sul suicidio. Nessuna dichiarazione di volontà è più chiara e forte di quella di chi si butta dalla finestra, si getta nel fiume, inserisce il collo in un cappio, si punta alla tempia una pistola, ingurgita veleno. Talora il suicidio è la conseguenza di un disordine mentale, ma a volte è la conclusione di un lucido e maturo ragionamento sul senso della propria vita. Ma, in ogni caso, chi interviene e salva l’aspirante suicida contrastandone la volontà, non commette alcuna violazione della altrui libertà, tanto meno il reato di violenza privata e – se nel caso – di sequestro di persona. Anzi: spesso riceve le lodi ed ono rificenze civili.
(per una più ampia riflessione v. Eluana è tutti noi cit. pagg. 54, 55.
  138, 139).

Nella legge c’è l’obbligo di non distruggere la vita umana

La conclusione è che nella nostra legge è già scritto l’obbligo (si ripete: non coercibile, né sanzionato) di non distruggere la propria vita e quindi di compiere tutto ciò che è ragionevolmente possibile per preservarla.

La seconda parte del 2° comma dell’articolo 32 della Costituzione stabilisce che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Per comprendere bene il senso di questa disposizione, scritta in verità, per contrastare l’esperienza storica, allora recentissima, degli esperimenti scientifici effettuati sui prigionieri nei campi nazisti (per una documentazione su questo v. Eluana è tutti noi art. pag. 148 e seg.), si può riflettere sulla differenza tra il condurre a forza in ospedale un paziente che lo rifiuta e legarlo al letto, e lo sciogliere una sostanza salva vita rifiutata dal paziente (magari la moglie, il marito) nei liquidi da lui bevuti. Nel primo caso l’uso della violenza implica una violazione del rispetto dovuto alla dignità umana, vietata sicuramente dall’articolo 32 della Costituzione; nel secondo caso, in presenza di una improcrastinabile urgenza di salvare la vita, la illiceità del comportamento salvavita è quantomeno dubbio. Questa considerazione diviene particola rmente stringente nel caso di paziente incapace di intendere e di volere, specialmente se in stato di coma.

L’attualità del consenso

Alla distanza cronologica tra il momento delle eventuali dichiarazioni anticipate e il momento della decisione sulla scelta terapeutica si aggiunge una più grave discontinuità.

Il paziente in coma non è in grado di cambiare la sua eventuale precedente manifestazione di desiderio, come invece può fare il paziente competente. Ciò non può non avere un effetto specialmente riguardo a cure salva vita non particolarmente invasive, in presenza di un contesto interpretativo dell’articolo 32 della Costituzione che riconosce la presunzione di voler vivere come condizione normale del malato, che solo una dichiarata volontà attuale ragionevolmente vince. Questa interpretazione è stata fatta proprio dalla Cassazione, riguardo ai Testimoni di Geova, nella Sentenza 4211 del 23 febbraio 2007 e più recentemente (in contrasto con la sentenza 21748 del 17 ottobre 2007 sul caso Englaro), nella Sentenza n. 23676 del 15 settembre 2008 dove si legge che il dissenso deve essere oggetto di una manifestazione espressa, attuale, informata, de ve cioè esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto «ideologica », ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una «precomprensione»: in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l’informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute. (…) Altra è l’espressione di un generico dissenso ad un trattamento in condizioni di piena salute, altra è riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita. (Sul punto vedere anche Eluana è tutt i noi, cit. pag. 160 e segg.).

In definitiva appare irrazionale ritenere che l’articolo 32 della Costituzione contrasti con una disciplina sul fine vita ispirata al principio di indisponibilità della vita umana e, quindi uguale o simile nel suo impianto fondamentale, al testo unificato in esame attualmente al Senato.

Occorre interpretare correttamente l’art. 32 della Costituzione sul diritto alla salute.
 
Il diritto alla morte è la sua negazione


Cordiali saluti

Massimo Zambelli

 

Caso Englaro:tre opinioni a confronto.

IL CASO ENGLARO
 

 

La natura e il suo corso

di Ernesto Galli Della Loggia

 

 

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E così alla fine il governo è intervenuto in prima persona con un provvedimento d’urgenza nella vicenda di Eluana Englaro. È giusto comprenderne le indubbie motivazioni di carattere umanitario, ma non per questo si può passare sotto silenzio il vulnus che il governo stesso, se questa sua decisione avesse avuto corso, avrebbe inferto alle regole dello Stato costituzionale di diritto. Un cui principio fondamentale, come fin dall’inizio ha giustamente ricordato il presidente Napolitano, è che l’esecutivo non può emanare decreti con lo scopo di modificare o rendere nullo quanto deciso in via definitiva da un tribunale.

E se Napolitano ha mantenuto questa sua opposizione fino al punto di rifiutarsi di controfirmare il decreto uscito dal Consiglio dei ministri, non si può che apprezzare la coerenza e la fermezza del capo dello Stato. Il che non vuole affatto dire però, si badi bene, che ciò che in questo caso i giudici hanno stabilito non lasci nell’opinione pubblica (e certamente, e fortunatamente, non solo in quella cattolica) profonde e giustificatissime perplessità. Le quali, data la materia di cui si tratta, possono arrivare talvolta a prendere perfino la forma di un vero sentimento di rivolta morale. A suscitare forti dubbi è proprio il fondamento stesso della decisione finale presa dalla magistratura e cioè l’asserita volontà (ricostruita ex post su base totalmente indiziaria; ripeto: totalmente indiziaria) di Eluana; la quale, si sostiene, piuttosto che vivere nelle condizioni in cui da diciotto anni le è toccato di vivere, avrebbe certamente preferito morire.

L’altissima opinabilità di questa ricostruzione è dimostrata dal semplice fatto che in precedenza per ben due volte (Tribunale di Lecco nel 2005, Corte d’appello di Milano nel 2006) le conclusioni dei giudici erano andate in direzione opposta a quella successiva: allora, infatti, essi sostennero che non esistevano prove vere e affidabili per stabilire la reale volontà della ragazza, intesa come «personale, consapevole e attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa». Poi la sentenza terremoto della Corte di cassazione; prove simili non furono più ritenute necessarie: per decidere della vita e della morte di Eluana, stabiliscono i giudici, basta adesso tener conto «della sua personalità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche» (si sta parlando, lo si ricordi sempre, di una persona che all’età dell’incidente aveva diciotto anni).

Ed è precisamente sulla base di questa direttiva emanata dai giudici supremi che la Corte d’appello di Milano cambia nel 2008 il proprio orientamento e quelli che prima erano indizi generici si tramutano in prove della personalità di Eluana «caratterizzata da un forte senso d’indipendenza, intolleranza delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni ». Dunque si proceda pure alla sua eliminazione. Mi sembra appropriato il commento di un giurista di vaglia, Lorenzo D’Avack, sull’Avvenire di giovedì: «Giovani liberi, tendenzialmente anticonformisti, un poco anarchici, dinamici, attivi, con qualche entusiasmo per lo sport, diventano così per la Corte i soggetti ideali per un presunto dissenso, ora per allora, verso terapie di sostegno vitale ». C’è o non c’è, mi chiedo, motivo di qualche perplessità? Tanto più che contemporaneamente, come fa notare sempre d’Avack, la stessa Cassazione, in un caso di rifiuto delle cure da parte di un Testimone di Geova, stabilisce, invece, che a tale rifiuto i medici devono sì ottemperare, ma solo se esso è contenuto «in una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà».

Ma guarda un po’! Torno a chiedermi: c’è o non c’è motivo di qualche perplessità, forse anzi più d’una? Detto ciò della ricostruzione della volontà di Eluana — che pure, non lo si dimentichi, allo stato attuale è premessa assolutamente dirimente per qualunque decisione da prendere—resta un’ultima questione, quella del «lasciar fare alla natura il suo corso», come si dice da parte di chi pensa che si possa tranquillamente far morire la giovane. Un’ultima questione, cioè un’ultima domanda: davvero l’espressione «lasciar fare alla natura il suo corso» può arrivare a significare il divieto di idratazione e di alimentazione di un corpo umano? Davvero «far fare alla natura il suo corso» può voler dire far spegnere una persona per mancanza d’acqua? La coscienza di ognuno di noi risponda come può e come sa. Ma per tutto questo tempo, in realtà, il corpo di Eluana Englaro non ha ricevuto solo liquidi e alimenti; esso è stato anche costantemente sottoposto ad una penetrante protezione farmacologica senza la quale assai probabilmente non avrebbe mai potuto sopravvivere così a lungo.

È proprio da qui si potrebbe forse partire per immaginare quale soluzione dare in futuro ad altri casi analoghi. Una soluzione, questa volta legislativa, che proprio il decreto di ieri del governo mette in modo ultimativo all’ordine del giorno dei lavori parlamentari, e che potrebbe fondarsi sul concetto di divieto di accanimento terapeutico, ormai pacificamente accolto nelle nostre leggi. Tale divieto, com’ è noto, si sostanzia in un obbligo di non fare, di non procedere alla somministrazioni di cure allorché è ragionevole pensare che esse non possano in alcun modo servire alla guarigione o a qualche miglioramento significativo delle condizioni del paziente; limitando in questi casi l’opera del medico solo al sollievo dal dolore. Si tratta peraltro—ed è questo un aspetto decisivo—di un obbligo/ divieto che per valere non ha bisogno di essere convalidato da alcuna decisione particolare del malato, dal momento che fa parte del codice deontologico di tutti coloro che esercitano la professione medica.

Ebbene, non riesco a vedere una ragione valida per cui nel divieto di accanimento ora detto non possa essere fatto rientrare la non somministrazione di farmaci a chi, come è il caso di Eluana Englaro, si trova da tempo in condizioni di stato vegetativo persistente al quale quelle medicine stesse non possono arrecare alcun giovamento ma al massimo assicurarne l’indefinita prosecuzione. Non produrre la morte di alcuno negandogli l’idratazione e l’alimentazione. Togliere invece ogni medicamento. Questo sì mi sembrerebbe un vero «lasciar fare alla natura il suo corso»: rimettendosi al caso o ai disegni imperscrutabili da cui dipendono le nostre vite.

Corriere della Sera 07 febbraio 2009

 

«E’ un omicidio, quel decreto è un dovere»   
«Lo Stato ha il diritto di proteggere la vita di ogni suo cittadino» 
Intervista al cardinale Camillo Ruini

di Aldo Cazzullo

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 Cardinal Ruini, quali sono i suoi sentimenti in queste ore decisive per la sorte di Eluana Englaro?
«Sofferenza. Non ho mai conosciuto Eluana, ma prego per lei ogni giorno. Preoccupazione. Speranza. E impegno a fare tutto il possibile. Innanzitutto, per far sapere quali sono le sue reali condizioni: chi è informato bene, di solito non ha più dubbi. È stato importante che la suora che l’ha assistita sia andata in tv a raccontare la sua esperienza con Eluana. Non ha senso attribuire all’Eluana di oggi, dopo quel tragico incidente, le aspirazioni e i desideri di prima. Eluana è stata sfortunata. Ha perduto molto. Ora ha bisogno di poco, è protesa verso quel poco, con poco può vivere senza soffrire. Non colpiamola una seconda volta. Non togliamole anche questo poco».
Lasciarla morire equivale a un omicidio?
«Lasciarla morire, o più esattamente — per chiamare le cose con il loro nome — farla morire di fame e di sete, è oggettivamente, al di là delle intenzioni di chi vuole questo, l’uccisione di un essere umano. Un omicidio. Purtroppo inferto in maniera terribile, senza che nessuno possa essere certo che Eluana non soffrirà».

È giusto che il governo sia intervenuto con un decreto? E il capo dello Stato avrebbe dovuto firmarlo?
«Non ho ancora avuto modo di conoscere il testo del decreto del governo e della lettera del capo dello Stato, ma conosco le obiezioni secondo le quali questo decreto sarebbe una prevaricazione nei rapporti tra i poteri dello Stato. Di prevaricazioni però in questa vicenda se ne sono già fatte molte. A cominciare dai giudici che hanno applicato una legge che non esiste e che, soprattutto, non hanno tenuto conto della situazione reale di Eluana. Ad ogni modo, ritengo che lo Stato abbia il diritto, e aggiungerei il dovere, di proteggere la vita di ogni suo cittadino».

Una legge sul testamento biologico ora è necessaria? E come andrebbe impostata?
«Preferisco parlare di legge sulla fine della vita. La parola testamento implica infatti che si disponga di un oggetto, ma la vita non è un oggetto, non è un appartamento o una somma di denaro. La legge dovrebbe evitare sia l’eutanasia sia l’accanimento terapeutico. Ma è ovvio che la nutrizione e l’idratazione non possono essere lasciate alla decisione dei singoli, perché toglierle significa provocare la morte. Se eutanasia significa morte “dolce”, “buona”, la fine di Eluana sarebbe peggio dell’eutanasia: Eluana morirebbe di fame e di sete. La sua sarebbe una morte pessima».

Il padre, Beppino Englaro, ha avuto parole dure su quella che considera un’ingerenza della Chiesa. Ha torto?
«Il rispetto è dovuto a tutti, ma il rispetto massimo è dovuto al signor Englaro, che vive questa terribile esperienza di persona. Nessuno di noi può sindacare su come reagiscono i genitori toccati così profondamente dal dolore. Ho conosciuto genitori che si ribellavano di fronte a quella che ritenevano un’ingiustizia divina, e altri che la accettavano. Ricorderò sempre il giorno in cui fui testimone di un incidente stradale a Regnano, sulle colline di Reggio Emilia. Stavo guidando. Davanti a me, un giovane cadde dalla moto. Non andava forte, ma c’era ghiaia sulla strada e perse il controllo, la moto gli cadde addosso. Mi fermai, gli diedi l’estrema unzione, ma era già morto. Gli abitanti del paese mi dissero: la madre è malata di cuore, vada lei a darle la notizia. Mi feci carico del duro compito. Quella donna, una contadina, rimase a lungo in silenzio. Poi mi guardò e disse: “La Madonna ha sofferto di più”…». (Il cardinale si interrompe, commosso).

Parlavamo dell’ingerenza.
«Non ingerenza, ma adempimento della missione della Chiesa. Come ha detto con una formula molto efficace Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptor hominis, “sulla via che conduce da Cristo all’uomo la Chiesa non può essere fermata da nessuno”. Ogni essere umano è degno di rispetto e amore; tanto più gli innocenti, gli inconsapevoli, i colpiti dal destino».

L’ha colpita il gesto delle suore che erano pronte ad accogliere Eluana e occuparsi di lei negli anni a venire?
«Mi ha toccato profondamente, ma non mi ha sorpreso. Ho avuto molte esperienze in merito. Penso alle suore delle case di carità di Reggio Emilia, che ora sono anche qui a Roma. Donne che accolgono persone in condizioni gravissime e le accudiscono con dedizione totale e con gioia. E molti sono i volontari che le affiancano».

Quali casi ha conosciuto di persona?
«Ad esempio, famiglie che hanno figli cerebrolesi dalla nascita, incoscienti eppure non indifferenti, perché in modo istintivo percepiscono le correnti di affetto. Ci sono genitori che rifiutano figli così, ma ci sono altri che li accettano. La vita di quei ragazzi, che talora ho visto diventare adulti, non è meno preziosa. Non posso accettare l’idea che la loro vita valga meno della mia o di qualsiasi altra».

Quali sensibilità ha colto sulla vicenda nell’opinione pubblica, credente o non credente? I sondaggi indicano che in molti sostengono le ragioni di Beppino Englaro.
«Io non ho fatto sondaggi, ma ho discusso in varie occasioni con la gente comune. All’inizio l’interesse era minore, e in tanti consideravano giusto che fosse il padre a decidere. Ma non appena vengono informati sulle reali condizioni di Eluana, in pochissimi restano favorevoli a lasciarla morire. Uno dei miei interlocutori si è proprio arrabbiato: “Ma perché i giornali non scrivono queste cose?”».

E lei come ha trovato i giornali?
«In buona parte schierati. Mentre le tv lo sono state meno, hanno dato spazio anche alle nostre ragioni, come già accadde per il referendum sulla procreazione assistita».

Diceva delle sue discussioni con la gente comune.
«Il fattore che la orienta non è tanto quello religioso. Non ci sono i credenti di qua e i non credenti di là. L’impressione è che ci siano piuttosto gli informati e i non informati. L’esperienza mi ha insegnato inoltre che i malati, per quanto gravi, sperano sempre di continuare a vivere».

In un’intervista a Giacomo Galeazzi della «Stampa», l’arcivescovo Casale, schierandosi con papà Englaro, dice: «Anche Giovanni Paolo II ha richiesto di non insistere con interventi terapeutici inutili».
«Penso di aver conosciuto bene Giovanni Paolo II, e ho vissuto quei giorni in stretto contatto con il suo segretario Don Stanislao Dziwisz, mio carissimo amico. So bene dunque il senso delle ultime parole del Papa, “lasciatemi andare”. Quando non c’è più niente da fare, il credente sa che, con la morte, per lui la vita non finisce, ma in un certo senso comincia. Sia credenti sia non credenti possono dire “lasciatemi andare” in modo eticamente legittimo, ma per un credente queste parole indicano anche una speranza, significano “lasciatemi tornare alla casa del Padre”. Chi ha un’esperienza anche piccola del modo in cui Giovanni Paolo II viveva il suo rapporto con Dio non ha dubbi al riguardo».

Lei era capo dei vescovi quando si visse il dramma di Piergiorgio Welby. Diverso da quello di Eluana perché il malato era cosciente e aveva chiesto di morire. Ripensandoci oggi, non era possibile un atteggiamento diverso da parte della Chiesa? Ad esempio concedere i funerali?
«È vero, quel caso era molto diverso. Non solo Welby era cosciente; era molto più dipendente dalla tecnologia per continuare a vivere. Nel mezzo della prova, lui scelse di porre fine alla sua vita. Una scelta che Eluana non ha mai fatto. Quanto alla mia decisione, la Chiesa non può consentire — tanto più quando un caso ha rilevanza pubblica — che si rivendichi nello stesso tempo l’appartenenza al cattolicesimo e l’autonomia nel decidere sulla propria vita. Non si può dire: “Io sono cattolico, e decido io”».

Può un cattolico, tanto più un vescovo, negare la Shoah? È una semplice opinione personale in contrasto con quanto sostiene la Chiesa, o è un dato incompatibile con la presenza della Chiesa stessa?
«A questa domanda ha già risposto la Santa Sede, con la nota della Segreteria di Stato pubblicata sull’Osservatore Romano secondo la quale, per essere ammesso alle funzioni episcopali, Williamson deve “prendere in modo inequivocabile e pubblico le distanze dalla sua posizione sulla Shoah”. Se non lo fa, non può fare il vescovo».

Come giudica l’invito del cancelliere Angela Merkel al Papa a fare chiarezza sul negazionismo dei lefebvriani?
«Quanto meno superfluo. Basta ricordare o rileggere quanto disse Benedetto XVI ad Auschwitz, domenica 28 maggio 2006, con parole che toccarono profondamente tutti i presenti, me compreso».

La vicenda Englaro le pare collegata alla denuncia del vuoto di valori e del relativismo etico, temi-chiave del pontificato di Ratzinger?
«Uno dei caratteri del magistero di Benedetto XVI e della teologia di Joseph Ratzinger è la denuncia del relativismo etico o, per usare la formula da lui coniata, della dittatura del relativismo. In Italia, e ancor più in altri Paesi dell’Occidente, esiste un’emergenza educativa, che rappresenta un’ipoteca sul nostro futuro e ha le sue radici nella mentalità diffusa, secondo la quale non esistono più punti di riferimento che precedano e possano illuminare le nostre scelte. Quando non siamo più d’accordo su cos’è l’uomo, quando l’uomo viene ricondotto totalmente ed esclusivamente alla natura, salta ogni differenza qualitativa, viene meno lo specifico umano, cadono o cambiano radicalmente i parametri educativi. Si aprono così le porte al nichilismo, che nasce, come ha spiegato bene il suo primo sostenitore, Federico Nietzsche, con la “morte di Dio”. La Chiesa italiana è pronta a un grande sforzo sull’educazione, collaborando con altri soggetti per il futuro del Paese, e pubblicherà in merito un “rapporto-proposta”. Stiamo lavorando inoltre ad un grande evento internazionale per il dicembre prossimo a Roma, dove arriveranno alcuni tra i più importanti studiosi del mondo a confrontarsi sul tema di Dio e del suo significato per la nostra vita, anche in rapporto con la scienza». 

Corriere della sera 07 febbraio 2009

 

 Giovanni Reale: «Farla sopravvivere è andare contro natura»

Il filosofo cattolico: la Chiesa e il governo politicizzano una cosa metapolitica

di Daniela Monti

 

gr

«Ma ancora non c’è nulla di deciso, vero?», chiede Giovanni Reale. «Il decreto del governo è un errore, si oppone all’idea di libertà su cui è radicato il concetto occidentale dell’uomo. E lo dico da cattolico». «Napolitano ha fatto il suo dovere di Presidente, ha richiamato l’attenzione sulla sostanza della Costituzione. Un uomo saggio. Almeno uno».

«Sopravvivenza a prezzo di vita». Quando entra nel merito della vicenda di Eluana Englaro, cita il francese Jean Baudrillard. Da 17 anni, per Reale, Eluana Englaro sopravvive a prezzo della vita. «La tesi portata avanti da molti uomini della Chiesa, e ora anche del governo, è sbagliata e va corretta — dice il filosofo —. Nel caso di Eluana vedo un abuso da parte di una civiltà tecnologica totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi da volersi sostituire alla natura. Si è perduta la saggezza della giusta misura. La Chiesa, e il governo insieme a lei, sono vittime di questo paradigma culturale dominante». Racconta di sua madre. «Era all’ospedale con il cancro, i medici volevano riempirla di tubi. “Potremmo prolungarle la vita di qualche mese”, dicevano. Io ero frastornato. È stata lei a decidere: lasciatemi morire a casa, nel mio letto. In quel periodo stavo traducendo il Fedone di Platone e anche lì, con parole diverse, ho ritrovato il senso di quel desiderio di mia madre. Quando Socrate deve bere la cicuta, qualcuno gli suggerisce: “C’è ancora qualche ora, attendi finché il sole non sia tramontato”. Ma non ha senso aggrapparsi alla vita quando ormai non ce n’è più». Se mi trovassi nella condizione di non aver più speranze di guarigione, aggiunge Reale, «non avrei dubbi su cosa scegliere».

Anche la Chiesa condanna l’accanimento terapeutico. Ma un sondino per l’alimentazione è accanimento terapeutico? Su questo ci si divide. «La Chiesa dice molte cose sagge. Per esempio: si può rinunciare all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo. Ed è proprio questo il caso di Eluana: qui non c’è stata proporzione e non c’è nessuna ragionevole speranza di esito positivo. E allora? Perché questo accanirsi contro di lei?». Reale, da credente, rivendica la libertà di coscienza dei cattolici sul caso di Eluana. Di più: dice che la libertà di coscienza «è un preciso dovere morale» e si affida a un’altra citazione, questa volta un aforisma di Gomez Davila: «Ciò che si pensa contro la Chiesa, se non lo si pensa da dentro la Chiesa, è privo di interesse». «Ecco — riprende — molte critiche che vengono dall’interno sono costruttive. Io critico il paradigma culturale che vorrebbe tenere in vita Eluana contro la natura, e la fede con questo non ha nulla a che fare, la fede è al di sopra della cultura, il suo compito è fecondare la cultura stessa».

Se il diritto alla vita perde la precedenza su tutti gli altri valori, sa anche lei quale potrebbe essere il prossimo passo: parlare in termini meno ideologici di eutanasia. «Errore. Io non lascio aperto nessuno spiraglio all’eutanasia. Non dico: fammi morire. Ma: lasciami morire come ha stabilito la natura. Né io, né tu. La natura. Prendiamo il caso di Piergiorgio Welby, che ho seguito da vicino. Welby sostanzialmente non disse: staccate la spina. Ma: lasciate che la natura faccia il suo corso, non fatemi restare vittima di una tecnologia che costruisce qualcosa di sostitutivo e artificiale rispetto alla natura. È un’affermazione identica a quella che si dice abbia fatto Giovanni Paolo II: lasciatemi tornare alla casa del padre. Il secondo aveva fede, il primo no. Per Welby era andare nella notte assoluta, per il Papa nella vita. Ma dal punto di vista umano è la stessa condivisibile richiesta». A complicare il caso di Eluana c’è la questione della ricostruzione della sua volontà presunta. «Chi più del padre e della madre ama quella ragazza? Mi sembra che nessuno più di loro abbia il diritto di dire che cosa avrebbe voluto fare la figlia, ora che lei non è più in grado di esprimersi».

Giovanni Reale in più occasioni, durante questa intervista, usa il «noi»: «Noi pensiamo che la vita di Eluana sia artificiale». «Secondo noi questo sistema che si è sostituito alla natura per un tempo così spaventosamente lungo è aberrante». Reale parla per sé, ma la sua non è una voce isolata. Attorno al diritto all’autodeterminazione e all’idea di libertà di coscienza dei cattolici si è costituito un gruppo di filosofi: da Vito Mancuso a Roberta De Monticelli, da Vittorio Possenti a, appunto, Giovanni Reale, le «intelligenze più acute del cattolicesimo italiano», come li ha definiti Luigi Manconi su L’Unità. Che succede ora: nella Chiesa si arriverà a una sintesi? «Gettiamo semi, non tocca a noi raccogliere frutti. Speriamo li diano. Ma l’errore che con Eluana stanno facendo religiosi e uomini di governo è di cadere nella politicizzazione di qualcosa che con la politica non c’entra niente, che è metapolitico».

Corriere della Sera 07 febbraio 2009

 

 

 

http://www.rivistadireligione.it/rivista/articolo.aspx?search=TG4evq3eYMJQs48v8bQuHbd4YAm0utNQ

 

 

Speciale Eluana Englaro….

Articoli, interviste, video e immagini sul caso della ragazza di Lecco che un tribunale ha condannato a morire di sete

specialeeluana

http://www.tempi.it/prima-linea/002258-speciale-eluana-englaro

 

“LIBERI DI VIVERE”
Appello al Presidente della Repubblica 
Giorgio Napolitano

http://www.liberidivivere.it/index.php

 

Il presidente del Css: è eutanasia

«Morirà per eutanasia Non della sua malattia»
Cuccurullo: siamo di fronte a una pericolosa deriva

http://www.tempi.it/cultura/003988-il-presidente-del-css-eutanasia

Eluana: non si uccidono così neanche i cavalli

http://www.tempi.it/evidenza/003881-eluana-non-si-uccidono-cos-neanche-i-cavalli

 

Ciao Eluana….

terry-schiavo

 

Il caso di Eluana,comune a circa 2000 soggetti in Italia, interpella fortemente la coscienza di tutti gli uomini di “ buona volontà”,siano essi credenti o non credenti. La vita umana,bene supremo ed inalienabile,dovrebbe essere un valore per tutti,anzi il valore numero uno! La cosa davvero grave è dettata dal fatto che un organo giudiziario,anzicchè verificare l’applicazione della legge, ne crea,sostanzialmente,una nuova. E non una legge qualsiasi, ma determina la possibilità di fermare una vita umana seppur sofferente. In uno Stato di Diritto è normale tutto ciò? In tanti hanno esultato,considerando tutto ciò una conquista civile: ma lo è davvero? Non voglio esprimere un giudizio sul caso Eluana ,capisco il dolore e la sofferenza del padre ( e il ruolo della madre?).Che triste libertà,però, è quella che dà la morte ai propri cari! Mi permetto, però, di fare una piccola considerazione:perché i telegiornali fanno vedere sempre le foto di Eluana come era prima e non come è oggi? Voi come ve la immaginate adesso? Scommetto che ognuno di voi se la immagina con gli occhi sempre chiusi e “super-intubata”. Bene, invece – se fate una ricerca su internet –potrete verificare che Eluana certo ha bisogno di un sondino per alimentarsi, ma

1) non è in coma

2) il suo cuore batte e lei respira senza aiuto di macchine

3) dorme e si sveglia,

4) e soprattutto APRE E CHIUDE GLI OCCHI  !!!

 Per avere conferma provate a fare una ricerca su Google con le parole

“Eluana occhi aperti”

Cosa significa questo, che il suo caso è simile a quello dell’americana Terry Schiavo (vedi foto sopra), che è morta di fame e di sete dopo un’agonia di 14 giorni.

Ora, io vi chiedo solo una cosa: visto che chissà perché le foto di Eluana com’è oggi non ci sono (?),guardate bene la foto di Terry Schiavo  ed immaginate Eluana così, che magari non sorride ma comunque HA GLI OCCHI APERTI.

Secondo voi può qualcuno decidere di far morire una persona, solo perché è così gravemente ammalata?

Bioetica. Il “diritto di morire” e i doveri della politica. Di Mario Picozzi.

 

 

LA BIOETICA COME SPAZIO PER IL DONO, CONTRO LA LOGICA

SPERSONALIZZANTE DEL MERCATO: LA GRATITUDINE INVECE DEL

PRINCIPIO D’EQUIVALENZA. ANCHE LE SITUAZIONI TRAGICHE, IN CUI LA

VITA VIENE POSTA IN DISCUSSIONE FINO AL PUNTO D’ESSERE NEGATA,

POSSONO INDURCI A RAGIONARE SULLA RICCHEZZA DELLE RELAZIONI

TRA LE PERSONE. Su QUESTO FRONTE CRUCIALE IL RUOLO DELLA

POLITICA, CHIAMATAA GESTIRE L’INCERTEZZA E LA PLURALITÀ DI DIRITTI

TRA LORO IN CONTRASTO.

 

Bioetica. Il “diritto di morire”

e i doveri della politica

di

Mario Picozzi*

 

La prima definizione sistemica di bioetica ha ormai compiuto 30 anni Wilhelm Reich cosi la definì nel 1978 quando venne pubblicata la prima Enciclopedia di Bioetica «Lo studio sistematico della condotta umana nell’ area delle scienze della vita e della cura della salute in quanto tale condotta viene esaminata alla luce di principi e valori morali»’. Oggi la disciplina ha acquisito un suo spazio riconosciuto sia a livello accademico, in diverse facoltà, sia in ambito istituzionale (si pensi al ruolo dei Comitati di Etica nella sperimentazione clinica). Allo stesso tempo i dibattiti bioetici hanno avuto grande rilevanza anche nella discussione pubblica, comportando talvolta fratture nella società civile, soprattutto rispetto alla non procrastinabile necessità di tradurre in legge questioni riguardanti temi di inizio e fine vita.

Il presente contributo non si propone di fare un bilancio di questi primi 30 anni, né di ripercorrere le tappe più significative che hanno segnato la storia, ancorché breve, di questa

disciplina. Ci limiteremo a indicare quali sono, a nostro parere, i temi che, emersi nella riflessione di questi decenni, costituiscono aspetti cruciali su cui la bioetica sarà chiamata a interrogarsi nel prossimo futuro. Più precisamente riteniamo vi sia una questione centrale, che in modo più o meno esplicito è presente in tutti i dibattiti, e che determina le differenti posizioni e le conseguenti risposte date ai quesiti bioetici. Un’impostazione non pertinente di tale questione rischia di pregiudicare le successive riflessioni. Pur volendo mantenere uno sguardo ampio, che tenga conto della

riflessione condotta a livello internazionale, inevitabilmente avremo come sfondo di riferimento la situazione italiana, che indubbiamente ha sue specifiche peculiarità.

 

IL PUNTO CENTRALE: LA QUESTIONE DELL’AUTONOMIA DEL SOGGETTO

 

La riflessione bioetica, pur con accentuazioni diverse, è attraversata dalla questione dell’autonomia del soggetto: quale il peso da attribuire alla libera scelta degli individui? A quali condizioni il soggetto può dirsi realmente autonomo?

Basti per esemplificare riferirsi ai temi di fine vita: chi può decidere se la propria vita sia degna di essere vissuta se non il soggetto stesso? È lecito sottrargli tale possibilità? Ma un soggetto affetto da una malattia grave è in grado di decidere? Quali i possibili condizionamenti, anche di ordine economico, che possono spingerlo a richiedere di porre fine alla sua vita, passando dal diritto a morire al dovere di morire?

Detto in altri termini, è la diatriba, sorta inizialmente sul tema dell’interruzione della gravidanza e riproposta sulla questione della fecondazione medicalmente assistita, tra i “fautori della scelta” e i “sostenitori della vita”.

Siamo continuamente, soprattutto in Italia ma non solo, rinviati a due posizioni, al tempo stesso nette e inconciliabili, tra i difensori della qualità della vita da una parte e i protettori della sacralità della vita dall’altra. Inevitabilmente ciò si traduce anche nei dibattiti politici e nella conseguente difficile se non impossibile impresa di giungere a soluzioni condivise su questioni, quali il nascere e il morire, che riguardano la possibilità stessa di sussistenza del vivere insieme.

Ma realmente le due posizioni sono alternative?

«La vita apprezzata come istanza sacra e sottratta ad ogni disponibilità ad opera dei soggetti implicati, diventa criterio materiale; la qualità della vita, d’altra parte, quando sia apprezzata rimovendo l’originario suo riferimento ad un’istanza che supera la vita stessa e che è norma per la libertà del soggetto, diventa criterio solo psicologico, assegnato all’insindacabile modo di sentire del singolo. La vita sacra, nel suo profilo dunque di istanza morale, non può essere definita ignorando la coscienza che l’accompagna; e d’altra parte la qualità della vita non può essere valutata senza far riferimento ai criteri oggettivamente iscritti nelle forme dell’alleanza umana in genere, e rispettivamente nelle forme di quella che è stata chiamata alleanza terapeutica» 2.

Come dire che «il giudizio su un’azione sarebbe meno oggettivo se non considerasse il soggetto che pone o subisce tale azione; una norma morale intesa e applicata a prescindere dall’intenzione degli agenti dal contesto storico condurrebbe ad esiti materialistici e violentemente astratti. Ciò significa che la soggettività valutativa non può essere espunta, ma va istruita e preparata attraverso una metodologia decisionale prudente»3. In ogni storia un soggetto è sempre oggettivamente coinvolto.

La decisione, per esser la propria decisione, esige una scelta, dove l’identità stessa del soggetto è chiamata in causa; questa scelta non è nota al soggetto a monte di ogni relazione, ma esattamente grazie alla relazione, dentro cui emergono le buone ragioni a favore di una determinata opzione.

Il contrario di autonomia è eteronomia: ossia abdicare alla propria responsabilità. Mentre invece non vi è contrasto tra autonomia e dipendenza: anzi è solo consentendo al riconoscimento del mio debito verso l’altro e conseguentemente verso il mondo intero (la cultura, le tradizioni) che il soggetto può decidere di sé. L’autonomia non può essere punto di partenza: è approdo finale reso possibile dalla presenza dell’altro. Non si tratta quindi di rinnegare l’autonomia, ma di ripensarla a partire dalla storia e dal vissuto delle persone.

Questo percorso relazionale per un discernimento rifugge da formule predeterminate e allo stesso tempo ammette soluzioni diverse, pur partendo da condizioni e contesti simili. Analogamente non si accontenta di prendere atto della decisione altrui; nessuna decisione è buona per il semplice fatto di essere presa in autonomia: quante decisioni sono esattamente frutto di atteggiamenti di omologazione, in cui il soggetto non sceglie, ma è eterodiretto.

L’odierna riflessione bioetica, soprattutto quella che trova spazio nei mass media, tende a semplificare e banalizzare, a volere il giudizio immediato e gridato, a costruire fazioni e cercare supporter dell’una o dell’altra tesi. È una trappola da cui rifuggire.

Ma il non poter fare a meno del soggetto, che per decidere non può fare a meno dei soggetti che lo circondano, cosa comporta per le questioni bioetiche?

Con alcune esemplificazioni cerchiamo di rendere conto delle conseguenze della nostra impostazione.

 

IL BIODIRITTO O LA BIOPOLITICA

 

Oggi si tende sempre più a parlare di biodiritto, inteso come l’esigenza di tradurre le problematiche bioetiche in norme che disciplinino i comportamenti collettivi all’interno della società 4. Ma forse sarebbe più preciso parlare di biopolitica: «Oggi vita e morte non sono più propriamente concetti scientifici, ma concetti politici, che, in quanto tali, acquistano un significato preciso solo attraverso una decisione» 5.

Per legge, almeno in Italia, viene definito quando un soggetto è morto; sempre più norme di legge vengono invocate per dirimere questioni bioetiche. Il potere che la tecnologia ha obiettivamente sulla nuda vita (si pensi all’ingegneria genetica) si trasferisce nelle mani della politica.

L’esercizio del potere passa attraverso il controllo dei fenomeni biologici, in primo luogo quelli riguardanti la vita umana. Stiamo riferendoci alla nuda vita, non alla vita biografica e quindi sociale che, se può essere controllata, al tempo stesso ha sempre risorse per sfuggire a tale controllo.

E questo fenomeno appare pacificamente accolto; la cosa invece avrebbe di che preoccuparci.

Se da un lato occorre governare determinati ambiti, poiché il rischio è quello dell’arbitrio e dell’anarchia, dall’altro occorre essere avvertiti delle conseguenze in cui si può incorrere assegnando ad uno strumento, la norma di legge, l’ultima parola, definitoria, su un bene fondamentale, quale la vita umana. Né si può misconoscere il ruolo che la legge ha sulla formazione delle coscienze, comunitaria e singola.

Ma l’enfasi con cui da più parti si invocano leggi sui temi di inizio vita e fine vita appare sospetta sotto un altro versante. La norma di legge viene percepita quale strumento per definire ogni specifico caso, esautorando i soggetti dalle proprie responsabilità. Si pensi ai medici: essi diventano fedeli esecutori, meri tecnici, professionalmente preparati, ma esenti dal chiedersi il significato di quanto da loro eseguito.

Può realmente la legge dirimere senza il cimento della libertà dei soggetti, le diverse questioni bioetiche? Le infinite variabili soggettive e oggettive che di fatto intervengono nelle azioni umane comportano necessariamente l’impossibilità del diritto di contemplare tutti i singoli casi. Per cui «la singolare contingenza di taluni casi, eccedendo la possibilità della legge civile di regolarli, limita quest’ultima a valere ut in pluribus, cioè nella maggior parte dei casi» 6. Certo «il riconoscimento della competenza della coscienza nei singoli casi non esclude, ma anzi rimanda alla generale validità della legge. Singola eccezione e regola generale sono, infatti, reciproche: «Non c’è eccezione senza regola per l’eccezione alla regola» 7.

Quindi «la considerazione dei limiti strutturali di ogni legge civile invita a riconoscere la competenza della coscienza personale nelle decisioni relative ai casi-limite. Il rinvio alla coscienza non è la delega in bianco concessa all’arbitrio soggettivo perché faccia ciò che vuole, ma il riconoscimento che, nei singoli casi, la percezione sintetica delle variabili in gioco da parte della coscienza vede meglio della previsione legislativa» 8.

Riferiamoci esemplificativamente alla distinzione tra accanimento ed eutanasia: «L’inevitabile approssimazione con cui la legge generale può definire i casi di eutanasia e di accanimento terapeutico lascia sussistere tra i due divieti uno spazio intermedio in cui solo il miglior giudizio della coscienza personale può dirimere la fattispecie» 9. Uno spazio cioè dove la legge non entra (fatta salva la possibilità di verificare la sussistenza dei criteri stabiliti) in cui la relazione medico-paziente diventa il “luogo decisionale.

Ciò comporta l’ammettere giustamente che si possano dare scelte diverse a partire dalla medesima situazione clinica; ciò disegna un legittimo pluralismo delle scelte, senza che si cada nel relativismo etico. Un siffatto pluralismo non deroga al duplice divieto di eutanasia e di accanimento terapeutico; esso, piuttosto, attesta che. in talune circostanze, la rinuncia alle cure non necessariamente coincide con l’eutanasia. e nemmeno il loro mantenimento necessariamente coincide con l’accanimento terapeutico»10. È vero che il pluralismo delle scelte “non assicura certo che la vita umana sia sempre adeguatamente difesa. Non è però questo il solo pericolo. Lo è altrettanto quello di pensare che la vita umana sia sempre adeguatamente difesa anche a prescindere dal giudizio di chi. in prima persona, si trova in situazione di grave sofferenza “11.

Lo spazio da lasciare alla competenza relazionale. dove non appare subito chiaro cosa occorra fare, traduce la prospettiva da noi enunciata in cui l’autonomia è punto di arrivo di un rapporto fiduciale.

 

IL TEMA DEL DONO

 

Il dono è argomento molto presente nel dibattito bioetico. [appello al dono viene invocato su più temi: dall’atto generativo alla disponibilità ad offrire i propri organi. Ma talvolta si rischia di farne una caricatura, o di trasformarlo in atto eroico, oltre le stesse possibilità umane o di mostrarlo come unico e ultimo antidoto all’imperialismo del mercato. Diventa quindi indispensabile una più accurata analisi.

Dal punto di vista del mercato, il legame sociale ha un senso se e nella misura in cui è funzionale rispetto a ciò che circola. “ Il mercato è il complesso delle regole che permettono a degli estranei di Lare transazioni pur restando il più possibile degli estranei. È un modo di comunicare con l’estraneo quando si vuole che resti un estraneo dopo lo scambio: quando non ci si interessa a lui ma ai suoi beni, e lui ai nostri”12. Tra compratore e acquirente non si mette in gioco la propria identità: in Quella comunicazione ciascuno rimane se stesso, senza contaminazione Addirittura «l’archetipo del mercato è l’assenza completa di legame. Il mercato permette a due estranei di comunicare a proposito delle cose senza rivolgersi la parola» 13. Il prezzo è l’esempio eclatante di questa modalità: viene fissato in anticipo, al di fuori delle considerazioni personali. al di fuori anche dei soggetti, tra due estranei che non si seducono. Il mercato è regolato dal principio «dell’equivalenza tra le cose, indipendentemente dal legame tra le persone»14. Nel dono invece «ciò che circola è al servizio del legame sociale, o almeno è condizionato dal legame sociale. Il legame e il bene sono spesso indissociabili»15.

Vediamo alcuni esempi. Vi sono dei doni in cui ciò che si dona ha un’utilità relativa o nulla: ad esempio un mazzo di fiori; la loro finalità tende ad esprimere e nutrire il legame. Talvolta il valore di legame e l’utilità sono strettamente legati, quasi condizionati l’uno all’altro. Si pensi al dono di un organo da parte della madre alla propria figlia.

Infine abbiamo il dono unilaterale fatto agli sconosciuti: la donazione di sangue, il dono di un organo dopo la morte. In questi casi i legami sociali sembrerebbero completamenti assenti. Invece tali gesti acquistano senso poiché fatti in nome della solidarietà, per cui «la loro ragion d’essere è quel legame simbolico che unisce il donatore e il donatario nell’ambito di uno stesso insieme»16. Essi rappresentano l’espressione di una gratitudine verso una comunità da cui si è stati accolti, condotti sulle strade della vita, gratuitamente. «Si amano persone che in ogni caso fanno parte della nostra stessa specie umana, perciò si ama l’umanità e, in essa, anche se stessi, ben ricordando che nessuno nasce da se stesso e che ognuno è quello che è solo grazie alla civiltà dalla quale ha ricevuto le condizioni per poter essere quello che è»17.

Da ciò ne consegue che «il circolo del dono non è solo dare e ricevere, ma è altresì ricambiare o restituire. Il rapporto di scambio è attivo-passivo sui due fronti: di chi dona e di chi riceve e a sua volta ricambia»18.

Il dono ammette il debito, anzi la cifra del dono è il riconoscimento del debito verso l’altro. Non vi è gratuità senza gratitudine. Non la restituzione, ma le forme che essa assume differenziano il dono dal mercato. Nel dono la restituzione spesso è più grande del dono: non risponde al principio di equivalenza. Ammette che l’identità del donatore, insieme a quella del ricevente, possa modificarsi. Infine, ed è l’aspetto decisivo, la restituzione è fatta liberamente. Certo è desiderata, auspicata, non esigita, richiesta obbligatoriamente, come in un contratto o nella scambio mercantile. Dunque c’è sempre un rischio di non restituzione, accettato o assunto dal donatore. Di modo che «è l’assenza di garanzia di restituzione, piuttosto che l’assenza di restituzione che caratterizza il dono»19. La restituzione è sempre implicita nel dono.

Più sono convinto che l’altro non è obbligato a restituire, più lo libero da questo obbligo, più il suo gesto sarà libero, sarà fatto in forza del nostro rapporto, nutrirà il legame, custodirà la relazione, sarà fatto per me. Ed è proprio su questo scambio libero che si fonda e costituisce la coesione sociale. Il paradosso è esattamente che una società vive e muore, si rafforza o indebolisce grazie a questi milioni di gesti quotidiani, in funzione di dar fiducia o no ad un altro membro della società, di correre il rischio che il dono non sia ricambiato. Di conseguenza «lo Stato e il mercato devono fermarsi sulla soglia in cui quel che circola (beni ma soprattutto servizi) è il legame, in cui il servizio è il legame»20. Si pensi qui al tema della giusti zia in sanità e del ruolo degli aspetti economici nelle scelte cliniche.

Ma vogliamo esemplificare quanto da noi detto su un altro versante, quello della donazione di organi.

Purtroppo ancora oggi molte persone muoiono in attesa di ricevere un organo. Per rispondere a questo dramma, almeno a livello di riflessione teorica nel mondo anglosassone, si ipotizza l’utilizzo del mercato per incrementare la disponibilità di organi. Ma se il prezzo da pagare è l’esclusione di qualsiasi forma di legame, l’operazione appare rischiosa e destinata al fallimento. Al di là della difficoltà di stabilire l’equivalenza

(quanto vale un organo?), si andrà sempre più verso un’escalation delle richieste, in cui l’unico elemento di controllo sarà il rapporto tra domanda e offerta. Ma tali fluttuazioni sono compatibili con la tutela della salute e della vita dei cittadini e con la sostenibilità anche economica di una società? In più ciò concorrerà a quello sfaldamento sociale, che ha come conseguenza la solitudine di ogni cittadino, sempre più senza legami vitali, con conseguente ulteriore difficoltà a porre gesti solidali.

Poniamoci invece nella logica del dono da noi prospettata. Punto di partenza – sia per la donazione da vivente che da cadavere – è il riconoscimento della logica del dono definito nella sua circolarità di dare, ricevere, restituire. Quindi forme di restituzione sono eticamente ammissibili, stabilite alcune condizioni.

Sono accettabili quelle forme di restituzione — nel nostro caso al donatore di organi — che non si basino sul principio di equivalenza, ma in cui sia conservato il valore di legame, con il singolo e con la comunità, che moriva la donazione. Si devono perciò escludere forme di automatismo, conservando anche simbolicamente il rischio di non restituzione, ammettendo al tempo stesso forme differenziate di restituzione.

La libertà del ricevente va custodita e tutelata, consentendo al tempo stesso espressioni di gratitudine, in grado di rafforzare il legame sociale.

Nella determinazione del soggetto/dei soggetti in grado di governare e garantire l’intero processo, occorrerà prevedere la presenza — se non affidare l’intera gestione — dei rappresentati dei mondi vitali presenti in una società, in forza di quel legame sociale che permea l’intera proposta.

Tutto ciò è possibile abbandonando un’impostazione culturale che rappresenta il dono quale scelta eroica, unidirezionale, chiusa in sé stessa:

una sorta di altruismo esasperato, che rende appunto il dono impossibile 21, irreale, e quindi non promettente, non fecondo. Gratuità e gratitudine sono invece iscritte nella relazione umana, dove l’autonomia del soggetto riconosce il debito verso l’altro per potersi esprimere e realizzare.

 

GESTIRE L’INCERTEZZA

 

A fronte di quanto abbiamo fin qui sostenuto, appare chiaro che la bioetica e i suoi quesiti si proporranno sempre più dentro una scala di grigi, difficilmente inquadrabili in formule predefinite. Questo certo non rassicura, e chiama in causa la maturità e la responsabilità delle persone.

L’incertezza appare la nuova frontiera dell’agire in campo biomedico 22. Ma davvero è una nuova questione?

Fino a qualche decennio fa un ethos condiviso, l’autorità del medico, la sudditanza del cittadino, la concentrazione del sapere scientifico, hanno permesso di controllare e gestire l’incertezza: essa era implicitamente presente, accettata, mai tematizzata. L’accresciuta consapevolezza del cittadino dei suoi diritti, segnatamente nel campo medico, il vorticoso e oggettivamente poco controllabile sviluppo tecnico-scientifico, il pluralismo morale in una società multietnica, e la conseguente difficoltà a gestire situazioni sempre nuove e sempre più complesse, hanno fatto emergere quell’indeterminatezza da sempre caratterizzante la pratica biomedica.

Accettare l’incertezza significa affrontarla, se non si vuole rimanerne schiacciati. Ma allora diventa spontaneo chiedersi quale sia il grado di incertezza che può essere tollerato. È evidente la già segnalata possibile deriva, che spazia dall’anarchia dei cittadini e dei pazienti all’arbitrio dei medici e dei ricercatori. Ma questo non è un destino segnato ed inevitabile, o almeno potrebbe non esserlo. La norma è una garanzia imprescindibile, anche se non sufficiente, perché si conservi e sviluppi il dialogo sia tra coloro che esercitano la stessa professione, sia tra questi e l’intera cittadinanza. Un dialogo che presuppone chiarezza reciproca, affermazione dei diversi punti di vista, ragioni che motivino le differenti posizioni.

Cosa dunque è necessario fare? Dipende. Il fatto che non si possa decidere una volta per tutte, sulla base di una norma generale, non significa che non ci sia nulla che davvero convenga. Vuoi dire che nella possibile diversità di scelte, va tutelato e garantito quel bene che da sempre è inscritto nella relazione umana e, nella fattispecie, nella relazione terapeutica, e che grazie appunto a questa relazione può essere riconosciuto e scelto.

 

*Mario Picozzi è docente d Medicina Legale presso

L’Università degli Studi dell’ Insubria, Tra i suoi scritti, ricordiamo:

Manuale di deontologia medica (con M. Tavani e G Salvati), Giuffrè, Milano 2007.

 

Note

1W. T. Reich (a cura di), Encyclopedia of Bioethics, The Free Press, New York 1978, vol.I, XIX.

2G. Angelini, “La questione radicale: quale idea di vita”, in Aa.Vv, La bioetica. Questione civile e problemi teorici sottesi, Glossa, Milano 1998, pp. 185-186.

3P. Cattorini, “La dimensione etica nelle terapie intensive”, in L. Chiandetti, P. Drago, G. Verlato, C. Viafora, Interventi al limite. Bioetica delle terapie intensive, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 4 1-46.

4L. Palazzani, “Personalismo e biodiritto”, in Medicina e Morale, 2005, LV(1), pp.

13 1-163.

5G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Eìnaudi, Torino 2005, p. 183.

6A. Fumagalli, “Legge civile e coscienza personale”, in C. Casalone, M. Chiodi, P Fontana, A. Fumagalli, M. Picozzi, M. Reichlin, “Il caso Welby. Una rilettura a più voci”, Aggiornamenti Sociali, 2007, 5, pp. 346-357.

7lbid.

8lbid.

9lbid.

10 Ibid., p. 355.

11 Ibid.

12. J. T. Godbout, “La circolazione mediante il dono”, in Aa.Vv., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma 1994, p. 27.

13 ibid.

14 Ibid., p. 28.

15 lbid.

16 lbid.

17 F. Buzzi, Sul significato del dono, lezione tenuta la Master Internazionale in Medical Humanities, Varese, 5luglio 2003 (copia dattiloscritta).

18 Ibid.

19 J. T. Godbout, “La circolazione mediante il dono”, in Aa.Vv., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma 1994, p. 34.

20 Ibid., p. 40.

2I Cfr. J. Derrida, Donare il tempo, Cortina, Milano 1996; Id., Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.

22 Cfr. M. Tavani, M. Picozzi, G. Salvati, Manuale di deontologia medica, Giuffrè, Milano 2007, pp. 555-559.

Tratto da:Dialoghi,Anno VIII,Luglio-Settembre 2008. Numero 3, pp.6-15.