di
Vito Mancuso
“Il libro incontrerà opposizioni e critiche, ma sarà difficile parlare di questi argomenti senza tenerne conto”, scrive nella prefazione al volume il cardinale Martini. Gli argomenti sono i più classici, l’esistenza e l’immortalità dell’anima, il suo destino di salvezza o perdizione. Del tutto nuova è invece la trattazione, in cui scienza e filosofia assumono il ruolo di interlocutori privilegiati della teologia, configurando una fondazione del concetto di anima immortale di fronte alla coscienza laica. Criticando alcuni dogmi consolidati, il libro affronta l’interrogativo fondamentale che da sempre inquieta la mente degli uomini: se esiste e come sarà la vita dopo la morte.
Commento
a cura di
Giuseppe
Artino Innaria
La Chiesa Cattolica ormai ha da tempo perso quel primato culturale detenuto nella nostra civiltà per secoli. Eppure, per nostra fortuna, nella comunità ecclesiale contemporanea non mancano voci affascinanti, capaci di incantare anche i non credenti, soprattutto quegli “atei devoti” sensibili al richiamo delle sirene dello Spirito ed inquieti nella inesausta ricerca di una sfuggente Verità.
Nel panorama culturale cattolico italiano una attenzione di rilievo merita Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. “L’anima e il suo destino”, un tema avvincente quanto impervio, è il titolo del suo ultimo libro.
Già, l’anima – questa dimensione impalpabile ancorché viva ed essenziale, oggi sempre più smarrita e confusa, dell’esistenza di ogni uomo -, alla ricerca della quale si era cimentato già, in un viaggio di straordinaria ricchezza di riferimenti culturali e di entusiasmante stimolo intellettuale, Monsignor Gianfranco Ravasi, biblista e oggi Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, nel suo “Breve storia dell’anima” (2003, Arnoldo Mondadori Editore, pagine 341).
E, sopra ogni altra cosa, il suo destino finale, intorno al quale si gioca l’intera posta della fede.
L’opera di Mancuso è una coraggiosa avventura teologica, in cui egli chiama a compagna ed interlocutrice la coscienza laica (“quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per se stessa e non per appartenere a un’istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perché ne è profondamente convinta, e non perché l’abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanti numerosi antipapi della cultura laicista”: “L’anima e il suo destino”, pag. 1), per fondare una teologia che non arretri di fronte ai risultati della scienza e al metodo critico della filosofia, e che sappia unificare i contenuti dell’una e dell’altra in un sapere unitario costruito con un discorso razionale e teso alla conquista della verità. Compito non facile, specie se impone addirittura la rivisitazione e la messa in discussione di non pochi profili dogmatici e cardinali della dottrina della Chiesa e a farne le spese è, innanzitutto, una impalcatura concettuale eretta sulle fondamenta della pesante eredità del pensiero di Sant’Agostino.
Per Mancuso il cosmo è un trattato su Dio al pari delle Sacre Scritture. Grazie ai contributi della scienza, l’uomo è in grado di rintracciare il Principio Ordinatore, il Logos che regge la natura secondo una logica di incremento della complessità e dell’informazione, l’ordine che dà forma all’energia alla base dell’essere, in una linea di evoluzione che dalla materia inerte porta alla vita e man mano alla comparsa degli esseri intelligenti e allo sviluppo della morale e della spiritualità. Questa saggezza basata sull’osservazione della natura ci dà conferma del messaggio cristiano, perché il principio fondamentale dell’essere come energia non è altro che la relazione, che produce armonia e contrasta la deriva entropica dell’universo. Il Logos, quindi, è relazione, che, attraverso i legami, crea sostanza nuova, in un incessante riprodursi di energia su livelli qualitativi sempre superiori. Ma se il Logos è relazione, allora è l’amore l’attuazione perfetta del Logos, in quanto relazione perfetta tra gli esseri.
L’immortalità dell’anima non è una chimera, ma non è nemmeno la graziosa elargizione di una divinità imperscrutabile che dispensa la Grazia secondo disegni oscuri. Essa è il frutto del lavoro spirituale, della capacità dell’individuo di realizzare dentro e fuori di sé l’ordine relazionale in cui si sostanzia il Logos, permettendo a quel sovrappiù di energia che è l’anima di sopravvivere al corpo nel dare vita ad una ulteriore rottura ontologica, in cui l’energia si incrementa al punto da farsi puro spirito a prescindere da un supporto materiale.
Dio, il Principio Primo, su cui si fonda il Principio Ordinatore, per l’autore del libro, rimane personale, per quanto trascendente rispetto al Mondo, che governa per mezzo della legge impersonale del Logos. La trascendenza di Dio rispetto al Mondo spiega la distanza che può porsi tra i due termini, il cuneo di libertà che Mancuso chiama “il peccato del mondo” nel tentativo di rileggere il dogma del peccato originale.
Il rapporto tra libertà e Dio è delicato, tanto più che esso coinvolge anche l’opposizione tra una concezione personale della divinità e quella teologia negativa, per la quale di Dio si può solo dire, con Meister Eckhart, che è “negazione della negazione”.
Se la libertà fa parte dello statuto ontologico della divinità, forse, non è la libertà il vero “peccato del mondo”, come ritiene Mancuso, perché la libertà del mondo rispecchia quella di Dio tanto quanto il Logos. Forse il vero peccato del mondo è la distanza ontologica da Dio.
Se il mondo viene da Dio, viene come emanazione di una energia traboccante, che, tuttavia, nel manifestarsi si allontana dall’origine, ed è in questo distacco che risiede il rischio di perdizione. Nell’ottica del ritorno a Dio, l’amore dell’uomo per Dio è essenziale tanto quanto l’amore di Dio per l’uomo e per tutto il creato. Ma il rischio di perdizione probabilmente è solo apparente, perché nella logica dell’essere tutto non può che reintegrarsi nell’origine ed è questo il vero significato della redenzione (il pensiero corre a quelle teorie sull’universo che ipotizzano una fase di espansione ed una di concentrazione dell’energia e della materia).
Mancuso, in maniera condivisibile, ha il merito, dal nostro punto di vista, di recuperare la dottrina dell’apocatastasi, della reintegrazione di tutte le cose in Dio, rifacendosi ad uno dei padri della Chiesa, Origene, osteggiato da Agostino, per il quale, invece, la massa umana, segnata dal marchio del peccato originale, è dannata, predestinata alla perdizione eterna, tranne nei pochi eletti dalla Grazia.
L’opera di Mancuso contiene enormi aperture non solo verso la laicità, ma soprattutto verso il pluralismo religioso in nome del carattere universale della verità. Nell’ammettere che è possibile salvarsi anche senza aver conosciuto il messaggio evangelico, la Chiesa ha superato l’antico principio “extra ecclesiam nulla salus”. Nondimeno, il grande interrogativo che giriamo all’autore del libro, è: si può costruire una teologia universale rimanendo cristiani? È la medesima domanda che si pone il sociologo francese Frederic Lenoir in “Le Metamorfosi di Dio. La nuova spiritualità occidentale” (Garzanti, 2005, pagg. 326 ss.). Gesù costituisce il fulcro centrale del Cristianesimo principalmente perché la sua venuta, la sua opera di redenzione, il suo sacrificio sulla croce rappresentano eventi unici, irripetibili nella storia dell’umanità. Lenoir segnala il pericolo di come questa posizione possa finire per emarginare il cristianesimo nella modernità: “Il quesito cruciale che la modernità pone alla teologia cristiana è quello di una possibilità di mantenere la propria unità, coerenza e identità, facendo nel contempo evolvere la propria teologia cristologica ed ecclesiologica in una direzione che gli permetta di prendere in considerazione il pluralismo religioso. In altri termini, il cristianesimo può rimanere sé stesso, rinunciando a dichiararsi depositario della verità ultima, nonché a ritenere che tutte le religioni dell’umanità sono solo vie imperfette di salvezza?”.
Infine, una rimeditazione del senso della teologia cristiana non può non passare attraverso la consapevolezza che la verità può essere attinta per diverse vie e in diversi gradi. Uno dei limiti del cattolicesimo è quello di non distinguere una dimensione esoterica da quella essoterica. Certi dogmi che la razionalità teologica smonta, per contro, hanno conservato per secoli una utilità dimostrativa essenziale per gli spiriti semplici. Quegli stessi dogmi, ciononostante, non possono risultare appaganti per gli intelletti bramosi di possedere la verità per mezzo di una fede, non concepita come credenza senza spiegazioni, come fiducia cieca nel magistero dell’autorità ecclesiale o come pragmatica scommessa alla Pascal, bensì come convincimento conquistato con la conoscenza. Il riconoscimento di stadi e modalità diverse della rivelazione potrebbe portare ad una nuova maturità del pensiero teologico.
L’ANIMA E IL SUO DESTINO Autore: Vito Mancuso. Pagine: 323. Anno: 2007. Editore: Raffaello Cortina Editore.
Controrepliche all’opera del Prof.Vito Mancuso
a cura del
Dott.
FEDERICO LENCHI
(Prima parte)
Esaminando “L’Anima e il suo Destino” nel capitolo che tratta dell’inferno l’A. arriva ai seguenti risultati:
1-il diavolo non esiste concretamente come persona oppure se esiste sarà obbligato da Dio a una conversione forzata che lo costringerà a vedere le sue tenebre sbaragliate dall’irrompere della forza della luce divina ;
2-la punizione degli uomini abitati totalmente dal male, sarà o temporanea , e quindi non eterna , oppure vi sarà una distruzione della personalità del peccatore in cui non si è trovato altro che odio.
Devo subito precisare che si tratta di antiche concezioni, elaborate fin dai primi tempi della Chiesa, come vedremo, atte a mettere in dubbio fino a rifiutarla l’inquietante rivelazione sull’inferno relativa alla sua eternità.
L’A. pertanto non dice nulla di nuovo ma ripropone quanto già detto a partire dal III secolo da Origene e dagli Origenisti. (cfr.pp. 275-76)
Vediamo da subito come queste teorie siano in netto contrasto con quanto insegnato dal Magistero Cattolico che indica l’inferno, dal latino “luogo che sta sotto”, come uno stato o situazione di infinita sofferenza determinata dal rifiuto totale e definitivo di Dio, degli altri, di se stessi e del mondo, in contrasto con la vocazione di vivere in comunione.
La Bibbia, al fine di indurci ad opporci con tutte le forze al male, ci presenta la possibilità di dannazione con immagini di morte e di disperazione, immagini che vanno indubbiamente interpretate ma non sminuite (cfr. Mt. 10,28; I Cor. 3,17; Gal. 6,7; Fil. 3,19; Ap. 2,11; 20,6.14;21,8).
La Bibbia altresì evidenzia con assoluta chiarezza i diversi aspetti della realtà del peccato:
-IDOLATRIA Adamo ed Eva volevano essere come dei
-RIVENDICAZIONE DI ASSOLUTA AUTONOMIA MORALE, cioè decidere in modo autosufficiente ciò che è bene e ciò che è male;
-RIFIUTO DELLA CONDIZIONE CREATURALE, ovvero perdita della relazione vitale con
Dio. In altre parole la radice del peccato va rintracciata nel libero arbitrio dell’uomo, nella sua
libertà di opporsi al suo progetto.
Per tali ragioni il peccato è descritto nell’Antico Testamento e confermato nel nuovo, come, infedeltà, adulterio, fornicazione ossia come rinnegamento del patto di amore che Dio ha stipulato con l’uomo.
L’aspetto più inquietante della rivelazione sull’inferno è, come abbiamo visto, quello della sua irreversibilità ed eternità. Per tale ragione già nei primi secoli presero corpo alcune teorie di cui le principali sono quelle relative all’Apocatastasi e all’Annichilazione.
Fu Origene, soprannominato Adamanzio “uomo d’acciaio”(185?-250) che per primo, in ambito cristiano, sviluppò la teoria dell’Apocatastasi.
Per valutare correttamente il suo pensiero teologico bisogna innanzi tutto tenere ben presente l’epoca in cui scrisse le sue opere.
Egli nella ricerca della conoscenza esatta dei divini misteri si incammina in territori sconosciuti ed inesplorati formulando ipotesi che non avevano la pretesa di soluzioni definitive e non potendo contare quindi, su quella grande auctoritas, strumento preziosissimo per il teologo, che è il Magistero della Chiesa che, con i grandi Concili del IV e V secolo, fisseranno con la Regula fidei argini invalicabili per la ricerca teologica.
L’opera di Origene, tesa a rafforzare la fede con il ragionamento ma non in modo frammentario chiarendo quel particolare punto o mistero, ma cercando globalmente tutta l’economia della salvezza , inserendo tutte le vicende e tutti gli attori, oltre che per l’Apocatastasi fu condannata più in generale per il pensiero ellenico che vi compariva anche se scriveva, ben consapevole che la filosofia è un’arma a doppio taglio:” approfittano di questa conoscenza che hanno dell’ellenismo per generare dottrine eretiche e fabbricare, per così dire, vitelli d’oro a Betel” ( I Principi).
Era però del parere che i barbari ( i cristiani) sono capaci di scoprire le dottrine ma che i greci sono più abili a giudicare, fondare e adattare alla pratica delle virtù le scoperte dei barbari per cui conclude che “chiunque arriva all’insegnamento cristiano delle dottrine dalle dottrine e dalle discipline dei greci, è in grado di giudicare della sua verità” stabilendo in tal modo una certa affinità almeno propedeutica tra le due verità: quella ellenica e quella cristiana.
Senza addentrarmi nel pensiero di questo autentico genio creativo, grandissimo precursore della ricerca teologica, ricordo che la condanna formale di Origene avvenne con il V Concilio di Costantinopoli nel 553, voluto dall’imperatore “teologo” Giustiniano in cui furono pronunciati 15 anatematismi che lo riguardavano. La controversia sull’ortodossia del suo pensiero, fu iniziata nel 394 dal vescovo Epifanio di Salamina e portata a termine da Girolamo che in un primo momento ne era stato un convinto ammiratore.
Questo portò a una delle più aspre e meno edificanti polemiche tra Girolamo e il suo vecchio amico Rufino di cui parlò anche Agostino nei seguenti e sconsolati termini:” magnum et triste miraculum”.
Ma per tutto il secolo precedente i grandi Padri greci e latini, da Gregorio taumaturgo fino ad Ambrogio di Milano avevano avuto parole di grande elogio ed apprezzamento.
Ma gli anatematismi con cui fu condannato a posteriori, riportano passi presi dalle opere di Evagrio e non da quelle di Origene.
In tutto il pensiero di Origene è sempre presente un vero spirito ecclesiale, tanto che volle sempre servire esclusivamente la sua Chiesa e fu sempre pronto a sottomettersi al suo giudizio: “ Se io che porto il nome di presbitero e che ho annunciato la parola di Dio, tradissi mai la dottrina sella Chiesa e la regola del Vangelo, cosicché a te, Chiesa, fossi motivo di scandalo, possa l’intera Chiesa con unanime decisione, mozzare e gettare via me, sua destra”.
Tali parole avrebbero dovuto impedire che Origene fosse annoverato tra gli eretici e l’intera sua opera proscritta:
Ben diverse quelle del modernista Loisy che riporto a memoria:” non è in me la facoltà di cancellare il frutto delle mie ricerche”.
RITENGO AUSPICABILE CHE LA CHIESA, CHE TANTO DEVE AD ORIGENE; RIVEDA LA CONDANNA, A SUO TEMPO TROPPO AFFRETTATAMENTE ESPRESSA.
Continuando il discorso sull’Inferno vediamo come Mancuso, oltre all’apocatàstasi, prenda in considerazione l’annichilazione ovvero la riduzione al niente del dannato.
Ma né l’apocatàstasi,né tanto meno l’annichilazione trovano alcun fondamento nella Scrittura.
D’altro canto, Le due lettere cui si fa riferimento per giustificare tali teorie e cioè, la lettera ai Corinzi (I, 15-18) che afferma che alla fine del mondo, Dio sarà tutto in tutti, e quella ai Colossesi (I,20) secondo cui Dio in Cristo ha voluto riconciliare a sé tutte le cose, vanno lette ed interpretate nella loro interezza, non limitandosi a queste due affermazioni.
L’ ipotesi dell’apocatàstasi, va contro ogni logica, perché non rispetta la serietà e l’impegno della vita terrena che in tal modo assumerebbe le fattezze di una colossale commedia giocata sulla pelle degli uomini, negherebbe la gravità del peccato, per cui nulla farebbe più la differenza tra un agire retto e un agire all’insegna del male, toglierebbe poi significato al libero arbitrio umano e degli angeli decaduti e svuoterebbe di ogni significato di redenzione l’altissimo prezzo pagato da Cristo in croce.
Parimenti l’annichilazione non rispetterebbe la scelta dei perduti che ostinatamente hanno rifiutato Dio e renderebbe lo stesso Dio artefice di un progetto di distruzione delle creature da Lui create.
Fermo restando che io ritengo come assoluta verità, quella insegnata dalla “mia” Chiesa mi sembrerebbe più logico pensare che:
Dio nella sua infinita misericordia abbia stabilito che chi, con assoluta ostinazione libera volontà e piena coscienza, abbia rotto il suo rapporto con Lui trasgredendo le sue leggi per perseguire pervicacemente il male, verrà posto, per l’eternità, in una terra d’oblio, di tenebre e di silenzio come si legge in Dt (32, 22) e in Gb (26,5; 36, 16-17) ovvero una terra di ombre.
Questa visione non sarebbe in contrasto con l’A.T. e concilierebbe la Giustizia con la Misericordia.
Continuando l’analisi teologica dell’Anima e il suo destino, ti invio una breve riflessione prendendo spunto da quanto affermato dal Prof. Mancuso a pag. 165 e più precisamente al paragrafo 59 con il sottotitolo: Due dogmi che fanno a pugni tra loro: origine dell’anima e peccato originale.
Mancuso scrive:” La fede cattolica ci obbliga (???) a ritenere che le anime vengono create direttamente da Dio, e nello stesso tempo assoggettarla alla corruzione e alla concupiscenza ponendola in uno stato di inimicizia con lui (scritto minuscolo, scusa la pignoleria) al punto che si deve parlare di “morte dell’anima”, come stabilito sempre dal Magistero nel Concilio di Trento (vedi DH 1512). E prosegue più oltre: “Se l’anima è partecipe della natura divina, non può essere corrotta; se invece è corrotta, non può essere partecipe della natura divina”.
Ora dato che -continua Mancuso- “neppure Agostino sapeva risolvere il problema di questo conflitto dogmatico…per risolverlo ci sono tre possibilità:
-si tiene il dato della creazione diretta dell’anima spirituale da parte di Dio;
-si tiene il dato dell’anima che nasce spiritualmente morta perchè soggetta al peccato originale;
-non si tiene nessuno dei due.
Mancuso afferma che le prime due ipotesi siano insostenibili per cui aderisce alla terza via e a conclusione del paragrafo ribadisce:” …è sulla base di Dio come Logos che si vede che il dogma del peccato originale, così com’è non tiene” (cfr.pp.165-167).
Riassumendo, secondo l’Autore:
1-l’anima non può essere creata da Dio in quanto corrotta;
2-e neppure nascere spiritualmente morta;
3- per i motivi suddetti le prime due ipotesi sono razionalmente insostenibili.
A mio giudizio, sempre razionalmente, la prima ipotesi è, contrariamente a quanto creduto da Mancuso, sostenibilissima alla luce della Rivelazione.
Infatti il peccato originale fu commesso non dal solo corpo o dalla sola anima dei progenitori ma dal concorso di entrambe secondo la concezione biblica, riaffermata dal Catechismo della Chiesa Cattolica (1992, par.365) che considera l’uomo come unità di anima e corpo in maniera così profonda che si deve considerare l’anima come forma del corpo. Da cui ne deriva che lo spirito e la materia, nell’uomo, non sono due nature congiunte ma un’unica natura.
In altre parole, è Adamo inteso come “unica natura” che ha peccato e noi, suoi discendenti , ereditiamo questa colpa solo all’atto del concepimento quando a nostra volta diventiamo un’ unità e acquisiamo la nostra identità di uomini, ovvero quando avviene la fusione tra il corpo materiale datoci dai genitori e l’anima creata da Dio.
Ma l’anima creata da Dio e da Lui donataci quale soffio vitale, è da ritenersi indenne da colpa fino a quando non diviene una sola sostanza col corpo dando origine ad una realtà unitaria, l’uomo.
Prima che ciò avvenga l’anima non ha colpe, esce pura, viva non morta dalle mani di Dio, in quanto non è ancora partecipe della creaturalità umana.
Mi sento quindi di rifiutare con decisione, l’affermazione di Mancuso secondo cui ” …il dogma del peccato originale, così com’è non tiene”.
Ma capitolo dopo capitolo analizzeremo tutto il lavoro.
Su una cosa concordo pienamente con Mancuso quando dice che nei tempi andati le menti migliori si dedicavano alla teologia mentre oggi quelle stesse menti, si dedicano alla scienza o ad altre attività più remunerative.
Ps.Questo non significa che l’anima sia preesistente al corpo ma solo che all’atto della sua creazione, nel momento in cui viene creata, questa è sola con Dio e quindi pura.
Questo in virtù del fatto che il concetto di tempo non si applica all’Essere Supremo.
Ma il Dio ipotizzato da Mancuso è vicino all’uomo, capisce la sua fragilità, partecipa ai suoi dolori?
Io ritengo di no. Mi sembra un Dio frutto di una eccessiva razionalità, non sua, ma di Mancuso.
Cercherò di spiegare più avanti perchè.
Riconosco nel prof. Mancuso un anelito sincero, uno sforzo intellettuale non da poco nella ricerca dell’Assoluto,il grande merito di sollevare problemi e stimolare risposte ma pur riconoscendoli questi meriti non posso condividerne il pensiero.
A pag. 30 leggo:”Publico il libro con la speranza di venir confutato.” e più oltre ” il mio obietTivo non è la vittoria personale.Contro chi poi? Contro la Chiesa, la madre e la maestra alla quale devo la fede?”.
La Fede! questo è il problema a cui tutto va ricondotto!
Mancuso, sa che le fonti della teologia sono necessariamente due: la fides e la ratio.
La prima è la fonte dei suoi contenuti, la seconda è la fonte della loro comprensione. Ora come non rilevare una certa sua Mancanza nell’interpretarne i contenuti? Infatti leggo a pag. 29 del suo libro:” …ma come è possibile pensare che lo Spirito Santo non abbia sempre assistito la Chiesa quando era in gioco la formulazione del patrimonio dogmatico, il depositum fidei?
Per rispondere è sufficiente dare un’occhiata alla Bibbia. La riteniamo giustamente ispirata dallo Spirito Santo, ma alcune sue pagine, sia dell’Antico Testamento sia del Nuovo, contengono un grado di violenza e di odio difficilmente ascrivibili allo Spirito Santo. Vi è un salmo, molto noto per il suo lirismo spirituale, che si conclude invitando a prendere i neonati dei nemici e a massacrarli sfracellando il loro tenero cranio contro le pietre”.E dopo aver riportato altri passi ugualmente cruenti conclude:” Ora, siccome di pagine di questo genere nella Bibbia ve ne sono in certa quantità, traggo la conclusione che la Bibbia non abbia goduto di una ispirazione tale da parte dello Spirito Santo da essere concepibile come garanzia di ogni parola in essa contenuta (cfr. pp.29-30).Fin qui Mancuso.
D’accordo che lui è un teologo e non un esegeta ma neppure io sono un esegeta e tanto meno un teologo ma un semplice credente che di professione fa il medico dentista. Eppure so che già, Clemente Alessandrino, maestro di Origene e padre della teologia scientifica insegnava che” quasi tutta la Scrittura espone i suoi oracoli mediante espressioni enigmatiche”.
Clemente ripartisce gli insegnamenti scritturistici a due livelli, uno di immediata comprensione e uno invece espresso in forma oscura e coperta, che reca profitto solo a chi sa interpretarla(Pedagogo III, 12,27), ossia lo gnostico (il teologo). “…Infatti nè i profeti nè il Signore stesso hanno enunciato i misteri divini in forma semplice che fosse accessibile a tutti , ma hanno parlato per parabole come gli stessi apostoli hanno constatato”.
Sarebbe molto lungo continuare ad esporre per intero il suo pensiero. Quello che ho citato è solo per ricordare a Mancuso quello che già conosce e cioè che la Sacra Scrittura parla per allegorie e in questo senso va interpretata.
Ma questa è una difficoltà che già Sant’Agostino aveva incontrato prima della sua conversione dal manicheismo:” Il mio orgoglio rifuggiva da quella maniera di esprimersi e il mio acume non penetrava nel suo intimo (la Bibbia). Essa era tale da crescere insieme ai piccoli ma io, gonfio di superbia, mi volevo credere grande, sdegnando essere ancora bambino”.
Vorrei arrivare subito alla conclusione ed esporre quelli che secondo me sono gli errori del pensiero teologico di Mancuso ma troppi sono i rimandi che trovo lungo il percorso per cui mi fermo qui e rimando alla prossima volta l’addentrarmi nel cuore della sua teologia.
Egr. Signor Pandiani. la ringrazio per le spiegazioni sull’A.T. relative ai versetti che sono stati motivo di inciampo per il Prof. Mancuso. Evidentemente lei è uno specialista di cui in questo dibattito si sentiva la mancanza e della cui presenza pertanto mi rallegro. Ero rimasto solo nella difesa dell’ortodossia. Oltre a quello che lei così autorevolmente ha spiegato aggiungerò qualcosa sulla Parusia.
Credo di aver capito che tutto l’impianto speculativo del prof. Mancuso sia partito dal tentativo di giustificare il male e la sofferenza nel mondo, problema che già aveva angustiato Sant’Agostino.
Per farlo ha teorizzato un Dio per così dire lontano, che agisce per interposto Principio Ordinatore Impersonale cui ha demandato il governo del mondo, non privilegiando l’uomo ma agendo indifferentemente in favore di tutte le cose.
Nel suo ragionamento si avventura in conclusioni aberranti da un punto di vista cattolico:
1)l’ anima come surplus di un’energia non meglio definita ma comunque di tipo fisico e come tale non creata da Dio ma mutuata dai genitori;
2) uomo che si salva indipendentemente dalla Grazia ma per esclusivo merito personale raggiunto con la “capacità di riprodurre in sè e fuori di sè la logica generale della natura physis”(già sentito da Pelagio anche se questi non parlava di natura physis) (cfr. pp. 306-307);
3)negazione dell’opera redentrice di Cristo al punto che”… l’immortalità non viene legata a un singolo evento del passato quale la risurrezione di Cristo, nè ricondotta a un atto divino unilaterale …” (cfr. pp. 307-308)e ancora:” Non è la risurrezione di Cristo, che per prima, vince la morte, ogni volta che è morto un uomo giusto, è già stata possibile mediante le leggi divine che governano il processo cosmico”:
4) rifiuto dei dogmi (già teorizzato dalla New-age e dalla Massoneria:
5) Negazione del diavolo e dell’inferno (dopo aver banalizzato il peccato si nega che il commetterlo coscentemente e pervicacemente, rifiutando fino all’ultimo il pentimento e la conversione a Dio possa comportare una pena.
Mi fermo qui reputando che ce n’è abbastanza per provare disagio nei confronti di uno studioso che si definisce cattolico e che definisce formali e non sostanziali le differenze tra il suo pensiero e quello della dottrina cattolica!!!
Ma anche il Peccato originale e la risurrezione della carne sono per lui dottrine senza fondamento.
Ripeto ce n’è abbastanza per provare sofferenza nei confronti di un fratello in grave crisi di fede.
Vediamo ora quali alibi invoca a sostegno delle sue tesi.
Quello della Sacra Scrittura e più precisamente quei passi dell’A.T. che l’amico Pandiani ha così magistralmente spiegato nel loro corretto significato e in quelli della Parusia predicata da San Paolo che a mia volta cercherò di spiegare come meglio potrò;poi l’alibi degli antichi Padri incorsi in errori che avevano una spiegazione nell’ essere loro i primi esploratori di una teologia cristiana ancora agli albori, inesplorata e pertanto privi di quell’aiuto fondamentale che è l’auctoritas della Chiesa che verrà solo successivamente con i vari Concili. Infine altro alibi il primato della sua ragione impossibilitata ad accettare le dottrine suddette.
Come possa un cattolico, che si dice grato alle suore e ai sacerdoti dell’oratorio per avergli fatto apprendere la fondamentale consuetudine alla preghiera, essere attore di tali e tante eresie da lui definite eufemisticamente “libertà di pensiero teologico” mi risulta non solo doloroso ma anche del tutto incomprensibile.
Vista l’ora devo rimandare la discussione sulla Parusia a domani sperando che il signor Pandiani continui a seguirci.
Egr.. Signor Pandiani,
solo ora leggo le precisazioni da lei fornite riguardo il battesimo. Nel ringraziarla, ancora mi complimento per la grande cultura che dimostra di possedere e che mi è di stimolo ed insegnamento.
In attesa di riprendere l’argomento devo però fornire qualche spiegazione sulla Parusia che lei è già fin d’ora è pregato di ampliare.
Il capitolo 15 della 1 Corinzi è estremamente denso e complesso.
L’occasione viene posta a Paolo dall’obiezione sollevata da alcuni, presenti nella comunità, tesa a negare la risurrezione dei morti. Problema molto grave che poteva minare dalle fondamenta l’essenza stessa della fede.
Paolo infatti aveva portato l’annuncio della risurrezione a tutte le comunità che aveva fondato.
Si trattava di un annuncio sconvolgente che meritava, prestandosi a fraintendimenti, un ulteriore approfondimento teologico.
Iniziamo confrontando il suo pensiero sulla risurrezione quale emerge nella 1 Tess. 4, 13-18 per giungere poi alla posizione assunta in 1 Cor. 15.
Tra questi due scritti intercorrono circa 5 anni essendo la 1 Tessalonicesi del 50-51 e la 1 Cor. del 54-55.
La risurrezione è trattata in maniera molto diversa nelle due lettere poichè era premura di Paolo rispondere ai bisogni concreti delle comunità cui erano indirizzati.
Quella dei Tessalonicesi era una comunità formata da non pochi cristiani provenienti dal giudaismo, e il giudaismo concepiva la salvezza in chiave esclusivamente escatologica per cui l’attesa della fine dei tempi e della storia era il tema teologico dominante.
Ne consegue che una volta convertiti al cristianesimo, la loro attesa si concentrò tutta sul ritorno di Cristo che avrebbe segnato l’inizio di un mondo nuovo.
Ma nel frattempo alcuni cristiani erano morti per cui la domanda che sorgeva era se questi sarebbero stati esclusi dalla partecipazione dell’incontro con il Signore.
Quindi:
1) nessuno a Tessalonica aveva messo in dubbio la predicazione Paolina circa la seconda venuta del Signore;
2) ma ci si chiedeva quale sorte sarebbe toccata a quanti erano o sarebbero morti prima della realizzazione di tale evento.
In risposta a questo dubbio, Paolo scrive preoccupandosi di confortare la giovane comunità cristiana:” Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perchè non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato:; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con Lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti…Confortatevi dunque a vicenda con queste parole”.
Il ritorno di Cristo è descritto con due schemi diversi: quello giudaico con l’immagine della tromba, dell’arcangelo, delle nubi ovvero con quello tipico degli scritti apocalittici sulla fine, e quello ellenistico rappresentato dal corteo, dell’arrivo del Signore e l’ascesa con Lui verso il cielo.
Da notare che in questo capitolo Paolo non affronta il problema dei non credenti o dei nemici della fede, non parla di Giudizio e non affronta il problema dei peccati, è convinto dell’imminente ritorno del Signore verso cui con una visione cristocentrica tutto converge.
In questa fase della riflessione paolina resta in ombra il valore proprio della risurrezione finalizzata esclusivamente alla Parusia: Cristo deve tornare per prendere con se tutti i credenti.
A sua volta la risurrezione non è molto importante per i Tessalonicesi che serve solo per coloro che al ritorno di Cristo sono già morti.
Il proseguimento di questa analisi lo completerò appena mi sarà possibile e cioè compatibilmente con le mie disponibilità di tempo.
Mi scuso se per ragioni di fretta posso aver commesso qualche errore. A volte, come in questo caso, invio senza neanche rileggere quello che ho scritto.
Invito il signor Pandiani ad aggiungere qualcosa che posso aver dimenticato o ignorato.
Continua…
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