IL MAGICO GIARDINO.

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Il romanzo «Il magico giardino» di Rosolino Jim Tatano è avvolto da un’atmosfera quasi surreale, come a ricercare un incanto dietro l’altro, in un susseguirsi di suggestioni, di profonde riflessioni sul significato della vita, sull’inevitabile ricerca del proprio essere, dell’autentica essenza che ogni essere umano ha dentro di sé.

La trama è decisamente raffinata e, pagina dopo pagina, alimenta un continuo fascino quasi a condurre il lettore nelle pieghe più nascoste d’una acuta osservazione del reale che sempre è contaminato dall’elemento magico e misterioso della dimensione che possiamo definire “invisibile”.

L’inizio è già avvolto da un’atmosfera irreale ed evanescente. Il protagonista, Arthur Goretti, in una notte tremenda, sotto un diluvio, un violento vento, tuoni e fulmini, si ritrova sul prato d’un giardino, quasi privo di coscienza e pervaso da un misterioso torpore.

Il maggiordomo di Elena Gadi, una donna dolce e compassionevole, lo trova in quello stato, lo aiuta a svegliarsi e lo porta in casa. Lei lo ospita, lo accudisce e poi il risveglio di Arthur che si rende conto di essere in un luogo sconosciuto anche se, dalla finestra della sua stanza, può vedere il fantastico giardino, teatro di quella fatidica notte terribile, che ora è pervaso da colorati e profumati fiori.

Tutto pare avere una nuova dimensione, una nuova luce. Ora, davanti a se stesso, si rende conto di essere un uomo caduto nell’abisso della solitudine, tra alcol e vizi, allontanatosi “dalla bellezza della vita” ed ormai ridotto ad uno spettro di se stesso. Nella sua mente il rimpianto “per ciò che era” e adesso un’infinita amarezza lo assale dopo tre notti d’agonia e vaneggiamenti.

Arthur è un artista, un pittore, che crea passando attraverso la sofferenza e sentendo sulla pelle ogni emozione, ogni lacerazione e dissidio della vita.

L’esistenza come una sfida continua che deve essere ingaggiata con coraggio, cercando di recuperare la capacità di sognare per rimanere veramente “vivi”.

E lo stesso autore de «Il magico giardino» che, ad un certo punto, scrive: “Tutto ciò che ci circonda, influenza le nostre emozioni, amplifica le sensazioni, le indirizza verso direzioni remote dell’essere”.

Ecco allora che ritrovarsi in un luogo fantastico dove si è desiderato stare può diventare una gioia e, allo stesso modo, se siamo limitati in un luogo desolante, una minima preoccupazione o un banale guaio possono diventare un atroce abisso.

L’arte curerà Arthur che ritornerà a dipingere ed Elena, la sua salvatrice, diventerà la sua modella, la sua Musa.

Rosolino Jim Tatano, ne «Il magico giardino», offre una serie continua di visioni affascinanti, sempre ponendo l’accento sul ruolo dominante dell’immaginazione, della fertile visione artistica, che diventano un rifugio, un’oasi mentale, unendosi e miscelandosi fino a rappresentare la salvezza per l’Uomo che si trova a vagare in un mondo instabile ed insicuro.

Nel gioco evanescente d’una narrazione che racconta la storia d’un uomo che è il simbolo del “viaggiatore” nell’anima, d’un uomo che ha camminato per molto tempo e in luoghi sconosciuti, l’autore recupera la concezione del sogno, dell’arte e della magia.

Tra un mondo metafisico dechirichiano e la “foresta incantata” pollockiana, quasi in preda ad una visione, ad una immane vertigine, le superfici si colorano delle manifestazioni della vita e di profonde riflessioni esistenziali: la coscienza e l’inconscio, la costante visione mistica, la concezione del tempo come l’arte del sogno.

La necessità vitale di una nuova luce che illumini il cammino, riproponendo nuovi colori della vita, mai dimenticando che è fondamentale “mettersi a lottare” per conquistare la magia della creazione.

 Massimiliano Del Duca

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Vallelunga e dintorni…:Sapori,Odori,Colori!!

Luigi Lumia,VILLALBA Storia e Memoria.

Villalba è, oggi, un tranquillo paese di circa 2.000 abitanti, in costante contrazione demografica imputabile sia alla crisi dell’agricoltura, su cui fondamentalmente si basa l’economia locale, sia all’assenza di altre risorse occupazionali.

Nei primi decenni del secolo scorso era «una macchina di duemila braccia che si muovevano con rigorosa sincronia per seminare, zappare, mietere, raccogliere il grano e portarlo nei granai di casa Palmeri». La sua storia inizia nel 1751 quando Niccolò Palmeri acquista il feudo di Miccichè, nel principato di Villanuova, per un ‘estensione di 873 salme e vi insedia i primi coloni e, col feudo, ottiene anche il titolo di barone entrando, a pieno diritto, nei ranghi della nobiltà isolana. Del resto la sua famiglia, seppure non blasonata, possedeva tutti i requisiti per questa ulteriore ascesa nella scala sociale. L ‘operazione, ideata e gestita dal potente zio don Michelangelo Palmeri, decano della seconda collegiata di Caltanissetta e commissario del Sant’Uffizio, mentre consolida il potere dei Palmeri, dà l’avvio a un sorta di regime di monopolio nella commercializzazione del grano essendo essi a un tempo produttori ed esportatori.

Nel 1785 Villalba — così verrà denominato il paese a ricordo dell’illustre casato spagnolo dal quale, in linea materna, discendeva il bisnonno di Niccolò — è abitata da 800 persone, destinate ad aumentare considerevolmente nel tempo. Sono già oltre 2.000 sotto Niccolò, terzo signore di Mìccichè, aristocratico moderno, colto, illuminato, artefice della trasformazione del paesaggio agrario del feudo nel quale introduce nuove colture e la curva demografica salirà ancora nonostante le epidemie ricorrenti, le carestie e gli stenti di una popolazione stracciona e malnutrita.

Attraverso alterne vicende speculari della storia della nobiltà siciliana, i Palmeri rimangono in piedi sino al 1893 quando l’ultimo discendente, Salvatore, gravato dai debiti, è costretto ad alienare il feudo ai Trabia. Per la gente di Vi//alba non cambierà niente: all’antico padrone se ne sostituisce uno nuovo mentre più incalzanti si fanno le lotte contadine per i patti agrari fino allo smantellamento de/feudo, al rafforzamento de/potere del/a mafia e, infine, a/l’avvento del/a democrazia.

È, come si vede, un ampio arco di tempo, denso di passaggi cruciali della storia contemporanea, quel/o che Luigi Lumia prende in esame con straordinaria perizia, lucidità, capacità di lavoro e di analisi storica. Il taglio impresso a questo approfondito studio supera i limiti del municipalismo, del/a cronaca locale e del/a rassegna spicciola per assumere i connotati di una vasta e severa ricostruzione, esemplarmente rispettosa del metodo e degli strumenti di indagine propri del lavoro storiografico: sono le fonti, i documenti, le testimonianze, indagati con intelligenza e amore, a ricostruire il quadro di una comunità che rivive sullo sfondo de/feudo. Storia di padroni e di servi, di aristocratici e di miserabili, di prepotenti e di oppressi, talora riproposta in chiave epica, come nelle belle pagine dedicate alle lotte per l’occupazione delle terre o in chiave sociologica come nella ricostruzione di protagonisti e personaggi della storia di Villa/ba: è il caso dell’icastico «ritratto di mafioso» che fissa i tratti della personalità di don Calogero Vizzini o dell’attentato a Li Causi che ebbe una larga eco nella nazione.

Protagonista è sempre il popolo, l’epopea del quarto stato villalbese il quale, contro ogni evidenza, rivendica testardamente il proprio diritto a esistere, a uscire dalla condizione di schiavitù, a farsi riconoscere la propria dignità umana, stretto nella morsa dello sfruttamento fissata, con immediata e vigorosa efficacia, da Ignazio Buttitta nei versi in morte di Salvatore Carnevale:

Nta li grutti,

nta li tani durmiti e nta li staddi,

siti comu li surci nte cunnutti,

vi cuntintati di fasoli e taddi,

Ottoviru vi lassa a labbra asciutti

e Giugnu cu li debiti e li caddi,

di l’alivi n’aviti la ramagghia

e di la spica la ristuccia e pagghia.

Un popolo eternamente soggiogato dai padroni che si presentano sotto le sembianze dei feudatari signori di Micciché, dei prefetti del Regno, degli agrari, della mafia; vinto, mai domato, al centro di durissime e memorabili lotte, con le sue straordinarie donne e i suoi ragazzi pronti a scendere per strada a gridare il proprio diritto a vivere. Sotto questo profilo Villalba non è solo cassa di risonanza dei disagi e dei fermenti sociali, ma anticipatrice degli scioperi che hanno accompagnato nel tempo il tormentato cammino verso meno iniqui patti agrari e verso il riscatto dei contadini e dei braccianti.

Anche se al centro dell’interesse di Lumia c’è i/suo paese, l’autore non perde mai di vista i problemi de/la più vasta storia nazionale dando così a/la sua opera un respiro non riduttivo e un solido impianto scientifico che gli consentono di muoversi con singolare padronanza, per un non addetto ai lavori, nel terreno minato della ricerca storica.

Accade, seppure raramente, che la storia locale sia rivisitata da storici non professionisti, come Lumia, con un’acribia e un rigore che non hanno niente di dilettantistico. Il motivo va ricercato non soltanto nel/a serietà dell’approccio, nella passione per l’indagine e nelle forti motivazioni, ma nel proposito di creare un ‘opera originale, utile alla conoscenza della propria realtà di cui si vuole fissare il ricordo in vista del/a comprensione dei caratteri originali di una comunità che costituiscono la chiave di lettura della propria identità personale e sociale. Nel nostro caso, lo studio di Lumia si presenta di grande utilità, o/tre che di pregevole qualità, mancando un ‘opera storica che, con eccezionale ampiezza e puntualità, fissasse lo svolgersi delle vicende dì questo Comune sin quasi ai nostri giorni.

Con il suo « Villalba, storia e memoria», Lumia ci consegna un ‘imponente massa di informazioni e di documenti che fanno rivivere, nelle pieghe recondite, la vita quotidiana del piccolo centro nisseno, i personaggi grandi e umili, le istituzioni, i ritmi della vita quotidiana colti nei tanti momenti di strazio e nei rari sprazzi di gioia. Veniamo così a conoscenza di taluni primati inimmaginabili, come la presenza della scuola pubblica prima che fosse istituzionalizzata altrove, l’organizzazione sempre attiva di associazioni operaie e contadine attorno alle quali si coagula l’opposizione al potere dominante, ‘ione e l’influenza del clero da cui emergeranno alcune figure non secondarie nella storia del movimento cattolico. E poi una serie molteplice di riferimenti cronachistici, gli scorci delle antiche strade, delle chiese, gli usi, i costumi, le feste religiose su cui Lumia si sofferma sempre guidato dal criterio della sobrietà e della misura, preoccupato di non appesantire l’andamento espositivo e di non squilibrare la solida e coerente impostazione del suo ,progetto. È proprio questa costruzione viva, da cronaca in presa diretta, che rende avvincente il libro e gli conferisce la caratteristica di verità senza cedimenti alla retorica, al sentimentalismo, alle digressioni che non siano funzionali alla rappresentazione tragica di un ‘esistenza in cui la lotta per la vita e per l’affrancamento dei contadini dalla condizione dì servi della gleba procede di pari passo.

Il lavoro offre, poi, un importante contributo anche sul piano giuridico- economico dal momento che è dato grande spazio alle norme che, nel tempo, hanno regolato i contratti agrari, gli affitti, la mezzadria.

Ma a me pare che il significato di questo lavoro sia condensato nel titolo: Villalba è oggetto dell’indagine e della memoria collettiva, metafora e insieme storia paradigmatica della nostra Isola. È un viaggio nella memoria, prima ancora che tra gli archivi, uno scavo nelle vicende di tre secoli, in cui la storia consegna alla memoria i/suo patrimonio e la memoria si fa essa storia. Questa dimensione conferisce al libro senza sottrarre nulla al valore di eccellente opera storiografica — la connotazione di un testo per così dire «narrativo» dove l’autore, «costretto», per esigenze di genere letterario a svolgere la narrazione impersonalmente, racconta in effetti in prima persona una vicenda della quale avverte di essere protagonista. Non vi è un solo attimo nel quale l’io narrante si estranea dal «racconto» che lo coinvolge, anzi, con foga e passione risentite e al tempo trattenute, pur nel rigoroso rispetto del canone dell’oggettività della ricostruzione storica, fondata sul riscontro delle fonti e dei documenti.

Sin dall’incipit, lo scritto ha un tono affabulatorio, rivelatore di una nativa disposizione a raccontare, di strumenti espressivi mai piatti o monocordi, anzi straordinariamente duttili, capaci di adattarsi alle diverse situazioni, sia che Lumia si soffermi su storie di gendarmi o di briganti, ritragga scene di vita quotidiana del borgo, indugi sulla descrizione delle lotte per il primato nell’amministrazione del Comune, sia che si provi nell’ardua impresa di leggere e decodificare l’imponente materiale documentario esaminato con certosina pazienza, sia che affronti, infine, i grandi problemi di politica nazionale attraverso il microcosmo villalbese.

Lo studio di Luigi Lumia si segnala per completezza e organicità: esso non ha soltanto il merito di averci consegnato un patrimonio dì conoscenze altrimenti destinate all’oblio, ma ha tutti i requisiti per costituire un esemplare riferimento per la ricerca storica della Sicilia interna nell’età contemporanea.

Sergio Mangiavillano

Un sentito ringraziamento al Dott.Salvatore Granata,editore della Lussografica di Caltanissetta,per avermi donato i due volumi.

LA SETTIMANA SANTA IN SICILIA…

LA SETTIMANA SANTA NELLA SICILIA

(CENTRO-OCCIDENTALE)

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di Michele Vilardo

In Sicilia,come scrive G.Cammareri, di simani santi ce ne sono davvero tante. “Se ne possono incontrare di meste,chiassose,nevrotiche,follemente amate e disprezzate,profumate dal vino che lava le notti e dall’acre odore dei ceri che le sporca dolcemente,profumate da tanti fiori e illuminate da tantissime luci. Simani gonfiate con l’elio dei palloncini,fatte di mille macchine fotografiche al collo ,di bambini vestiti da angioletti e di mamme che li accompagnano,di vecchietti piangenti ai balconi al passaggio di Cristi e Madonne….Croci,pennacchi,spade attaccate alla vita da centurioni più o meno baffuti e ancora il gesto per un altro e un altro ancora “clic” di quelle mille macchine fotografiche il cui piccolo rumore annega,miseramente,in un mare di note scandite da suonatori infiocchettati nella divisa di questa o quella banda”.

Vi propongo,di seguito,un excursus di alcuni riti extraliturgici che si realizzano,in alcuni comuni siciliani a partire dal mercoledì santo.

IL MERCOLEDI’ SANTO

I riti extraliturgici della Settimana Santa,in Sicilia,iniziano,sostanzialmente,il Mercoledì santo.

Di particolare importanza è la processione della “Real Maestranza” che si snoda per le vie principali della città di Caltanissetta. La celebrazione della processione della Real Maestranza è legata alle antiche corporazioni. L’imponente e commovente corteo è costituito dai rappresentanti locali delle più antiche corporazioni artigiane.

C’è un periodo dell’anno,scrive Enzo Falzone, a Caltanissetta in cui la città si abbandona con mistica ebrez­za e fervore al ricordo tragico della Passione di Cristo con rievocazioni che hanno fatto del­la SETTIMANA SANTA in questa città una « Sagra religiosa » unica e impareggiabile nel suo genere in tutto il mondo cristiano.

Dal « Mercoledì Santo » giornata di grande parata della «Reale Maestranza» al «Gio­vedì Santo» consacrato al trionfo dei secolari « Misteri » attraverso le vie principali della città, alla processione, il « Venerdì Santo », del « Signore della Città » o « Cristo Nero », in un’aura di misticissimo compianto, la città vive le sue giornate più belle, i suoi momenti più dolci e accorati. Il ciclo di tali manifestazioni — a cui va aggiunta la popolare proces­sione del simulacro di « Gesù Nazareno », la Domenica delle Palme, sul tradizionale carro interamente rivestito di fiori, artisticamente disposti — inizia con la Processione della Mae­stranza a mezzogiorno di mercoledì.

Come vogliono alcuni studiosi l’origine della « Maestranza » risale — a tacere di quan­ti hanno pensato a una derivazione di essa dalle « Caste Indiane » o dai « Collegia opificum et artificum » dei Romani — alle Corporazioni Cristiane delle Arti e Mestieri, le quali ebbero pieno sviluppo e rigoglio nel Medio Evo ed importanza storica nella formazione dei Co­muni italiani.

In questo momento esse costituirono stru­menti politici nella lotta contro il Feudalesimo, che decadde col sorgere della borghesia e del « popolo grasso », organizzato in ARTI MAGGIO­RI, a cui appartenevano i pellicciai, i lanaioli, i mercanti di seta, e quelli di panni di lusso, i ban­chieri, i medici, gli speziali, i giudici e i notai; e in ARTI MINORI, a cui appartenevano i murato­ri, i falegnami, i fabbri, i calzolai ecc, che si av­vicendarono nel governo del Comune tenuto da un proprio capo detto « Capitano del Popolo ». Queste corporazioni avevano un proprio statuto, un patrono effigiato nel proprio gonfalone, chie­se con propri altari.Il periodo aureo delle Corporazioni si chiu­de con la fine del Medio Evo, a causa delle lotte tra « quei che un muro ed una fossa serra ».Decadute politicamente, le troviamo in epo­che prossime riorganizzate nella nostra isola do­ve non si spense la bramosia di un loro riordina­mento con finalità prettamente assistenziali e di difesa di classi.E’ solo verso il 1700 che queste Corporazioni di Maestri — da ciò il nome di Maestranza — in Sicilia ricompaiono in piena efficienza.La nobiltà intanto di allora che partecipava in numero maggiore al governo della cosa pub­blica, costituiva un corpo a sé, regolarmente ar­mato, forte di mezzi e di servi, a mezzo dei quali imponeva l’osservanza delle leggi e dei balzelli.Fu proprio per difendersi dalle ingerenze di essa che le ricostituite Corporazioni di Arti e Me­stieri poterono ottenere la costituzione di corpi ugualmente armati, di fornirsi di mezzi di difesa, di baluardi e di mura di cinta e formare così un organismo dotato di personalità giuridica, che godeva di guarentigie e di particolari privilegi. Tra i privilegi concessi alle corporazioni vi fu quello di eleggersi un proprio magistrato, il qua­le aveva piena giurisdizione tanto in materia ci­vile quanto penale e le cui sentenze non erano impugnabili: egli giudicava « sic et simpliciter, summarie, et de plano, sine strepitu ac figura ]udici et sola facti veritatis in specie ».

Un altro privilegio fu quello della « grazia pasquale », privilegio concesso, sotto il regno dei Borboni, al capitano del popolo, in base al quale, veniva a questi dato il potere, il mercoledì santo, di liberare al carcere un condannato a pena non superiore a un anno, forse in ricordo di identica usanza nella pasqua ebraica, come nel caso molto noto della liberazione di Barabba. Abusando purtroppo le Maestranze di tanti privilegi e guarentigie, fino a degenerare i loro abusi in aper­ti conflitti contro i poteri dello Stato, ecco il Viceré Caracciolo, in Palermo, con breve del­l’agosto 1782, sopprimere alcune corporazioni (macinatori, cocchieri, ecc), eliminando così le cause dei disordini che numerosi erano avvenuti in vari centri dell’isola.

Svuotate di ogni importanza politica, le superstiti Corporazioni nel 1794 decisero di riorganizzarsi sotto forma di associazioni religiose, con l’unico privilegio della « grazia pa­squale », concesso al « Capitano », e ciò fino al 1822, epoca nella quale anche questo po­tere venne annullato definitivamente.

Tra le Corporazioni o Maestranze di cui s’è discusso, fiorente era quella di Caltanissetta, che per la sua organizzazione ed efficienza, nel 1806, per rescritto di Federico IV — figlio di Carlo III di Spagna, divenuto nel 1759 re di Napoli e poi re delle Due Sicilie — fu elevata al titolo di « Reale » per avere sfilato superbamente in corpo in occasione dell’in­gresso dello stesso Sovrano in Caltanissetta.

Queste le origini storiche della Real Maestranza, che, in Caltanissetta rievoca, nel giorno del Mercoledì Santo, le antichissime tradizioni.

LE CORPORAZIONI NELLE ATTUALI ASSOCIAZIONI DARTI E MESTIERI A CALTANISSETTA

Le associazioni o congreghe delle arti e mestieri, che costituiscono la Real Maestran­za di Caltanissetta sono dieci: Muratori — Scalpellini e Marmisti — Cretai — Falegnami ed Ebanisti — Ferrai e Stagnai — Sarti — Stovigliai — Barbieri — Calzolai — Pastai.

Ogni associazione ha la propria bandiera bianca, sormontata da una lancia, a testi­monianza della potenza della passata organizzazione armata, fregiantesi dal 1860 di un na­stro tricolore.

Confiscate dopo i moti del ’48, forse perché ritenute rivoluzionarie, dal R. Commis­sario Gemelli, esse vennero restituite alle arti nel 1850.

Il « Capitano » viene eletto in prossimità delle feste della Settimana Santa, sceglien­dolo tra i più anziani degli artigiani, e per tutti i giorni che precedono il mercoledì santo viene festeggiato dagli iscritti della propria corporazione che ogni sera, accompagnati dal­la musica, si recano nella sua abitazione a rendergli omaggio.

«IL GRANDE CORTEO DELLA REAL MAESTRANZA»

II mercoledì santo verso le ore 11 tutti i componenti della « Real Maestranza » si ra­dunano nell’atrio del Collegio dei Gesuiti (ora Liceo-Ginnasio « Ruggero Settimo ») e di là muovono verso la cattedrale per compiere l’atto di venerazione al Santissimo che sarà por­tato in processione.

Il corteo è aperto dallo « Scudiere » che con la sinistra imbraccia lo scudo su cui è dipinto lo stemma della città, un castello con tre torri, mentre con la destra impugna la alabarda, segni della potestà del « Capitano ».

Questi veste la marsina a coda di rondine, sparato bianco, calze di seta nera, guanti e cravatta nera, scarpe di pelle lucida, feluca con piuma nera e coccarda tricolore, con fran­gia di oro alla cintola e spadino, dall’elsa dorata.

Egli porta il Crocifisso, coperto da un velo nero. Dietro a lui, in due ali compostis­sime sfilano gli artigiani delle varie corporazioni, a capo scoperto e con un cero in mano, preceduti dalle bandiere della propria corporazione, con l’effigie del Santo protettore, ab­brunate e abbassate. Così composto il corteo si avvia, al suono di marce funebri, al Duomo, dove, avvenuto l’atto di venerazione al Santissimo, il Capitano toglie le calze e i guanti neri e li sostituisce con altri candidi, per partecipare alla grande processione del Santissimo.

Questa è di un’imponenza straordinaria. Il Santissimo è portato dal Vescovo in uno splendido ostensorio d’oro ; dietro a lui — rifacendo la stessa strada fatta precedentemente dal Capitano — in ali fitte e composte sfilano il Capitolo della Cattedrale, i sacerdoti della città, i seminaristi, i « maestri delle arti » con le bandiere spiegate in segno di giubilo, le as­sociazioni dell’Azione Cattolica, le Congregazioni della città.

Per tutto il percorso migliaia e migliaia di persone fanno ala al passaggio della Pro­cessione, mentre tutte le campane delle chiese rintoccano a festa, suonano le musiche ed echeggiano nell’aria gli spari dei mortaretti.

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Nel 1806 Federico di Borbone, impressionato dall’imponenza di questo corteo, concesse alla Maestranza il titolo di reale.
Il personaggio più in vista della manifestazione è il Capitano che viene eletto ogni anno tra i vari rappresentanti delle categorie artigiane, il quale ha l’onore di portare il Cristo in Croce, in segno penitenziale, nella prima parte della processione per poi guidare la Real Maestranza quale scorta d’onore alla processione del Santissimo Sacramento,cui partecipa il clero della città e il Vescovo.

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(Mons.Mario Russotto Vescovo di CL)

Nella strada i “maestri d’arte”,svestono gli abiti del quotidiano per indossare quelli della cerimonia consistenti in un vestito nero,camicia bianca e papillon nero. Categoria per categoria (pittori,muratori,marmisti, falegnami, carpentieri, ferraioli, calzolai, fabbri, panificatori, idraulici, barbieri) sfilano dietro il loro Capitano, cioè l’artigiano che, per un giorno, li rappresenta tutti, e contende al Sindaco il potere di Comando della Comunità.

Dietro di lui è il reggimento dei suoi rappresentanti in un ordine quasi militaresco, a ricordo anche della funzione di ordine pubblico una volta demandato all’importante gerarchia. Nel pomeriggio si dà luogo alla Processione delle cosiddette varicedde”, piccoli gruppi di gesso e cartapesta che sfilano all’imbrunire sul percorso delle Vare”, cioè sul tragitto che il giorno dopo seguiranno i sedici imponenti gruppi statuari della processione maggiore.

Tali gruppi, ognuno affidato ad una maestranza, sono dovuti a due valenti scultori napoletani, Francesco e Vincenzo Biancardi, padre e figlio che su commissione dei minatori della «Gessolungo» – la “antica” Caltanissetta basava la sua economia sulla estrazione dello zolfo -, cominciarono ad attendere a tale opera fin dal 1780. Essi ripropongono i più importanti momenti della Via Crucis.

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La Festa dei Giudei a San Fratello,

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festa popolare religiosa risale forse ai tempi medievali, quando venivano rappresentati quei misteri che sono passati successivamente dalle chiese alle piazze. Quella della Pasqua è sicuramente la Settimana più ricca di manifestazioni che cominciano con il momento più drammatico della passione del Cristo e si concludono con l’esplosione della gioia della Resurrezione. Gesù entra a Gerusalemme la Domenica delle Palme.
A San Fratello, dove le tradizioni sono ancora rispettate, si sente un forte impeto ed una massiccia partecipazione che vede coinvolti tutti gli abitanti. Non c’è interruzione di sorta perché anche nelle giornate del Lunedì e Martedì Santo ognuno si prepara per essere di grande aiuto alla realizzazione scenografica.All’alba del Mercoledì Santo inizia la Festa dei Giudei e vengono preparati i sepolcri in tutte le chiese parrocchiali. Anche le donne con religioso silenzio e luttuoso dolore cingono con manto nero il capo della Madonna della Pietà, espongono la Santa Croce, portano in segno votivo i piatti dove germogliano grano, lenticchie e ceci cresciuti per qualche settimana al buio.

Una tradizione, quella del Mercoledì Santo, vuole che ogni fidanzata mandi a casa del suo sposo un agnello di pasta di mandorle; qualche giorno dopo questi lo restituisce per mangiarlo insieme, al pranzo di Pasqua. Ma quella che maggiormente attira l’ interesse è la Festa dei Giudei che si svolge nei giorni di Mercoledì, Giovedì e Venerdì Santo, unica in tutta la Sicilia. Come dicevamo, di origini medievali, la rappresentazione è estremamente suggestiva e ricorda i Giudei che percossero e condussero Cristo al Calvario.

Un gran numero di persone conservano accuratamente e gelosamente il costume che, secondo la tradizione, da secoli è formato da una giubba e da calzoni di mussola rossa e da strisce di stoffa d’altro colore, solitamente gialle o bianche.

La testa coperta da maschera sbirrijan (lingua gallo-italica), un “cappuccio” che si slancia con un lungo cordoncino sino ad assottigliarsi come coda. Ricorda la Confraternita dei Flagellanti o dei Fratelli della Misericordia. Altri elementi rendono l’aspetto piuttosto singolare: pelle lucida con lingua, sopracciglia lunghe e arcuate, scarpe di cuoio grezzo e di stoffa, schierpi d’piau (in lingua locale).

Catene a maglie larghe nella mano sinistra, d’scplina, (in vernacolo locale), trombe militari con vari ornamenti finemente intarsiati e ricamati specialmente nella giubba che ricordano le antiche tradizioni della cultura araba.

I Giudei vestono quindi panni appariscenti, un singolare elmetto, con qualche pennacchio o croce, e così vestiti gli uomini sanfratellani percorrono le strade del paese.
Suonano soffiando trombe militari e annunciano in maniera stridula la singolare celebrazione che è considerata a pieno titolo la festa più antica del dramma sacro popolare d’Italia.

Viene spontaneo chiedersi: ma che cosa rappresentano i Giudei visto che mentre la chiesa universale commemora la passione e morte di Gesù Cristo, a San Fratello si festeggia. Forse il contraltare del triste transitorio periodo in cui la chiesa ricorda il sacrificio del Cristo?
Infatti un tempo comparivano molti personaggi tratti dalle pagine del Vangelo, ma su questi, il Giudeo ha preso il sopravvento. Quindi il Giudeo di San Fratello non è semplicemente un personaggio folkloristico, come molti pensano, non è colui che con il suono della sua tromba dà un aspetto del tutto insolito alle celebrazioni.

Egli piuttosto rappresenta il crocifissore, il flagellatore e il soldato che affondò la sua lancia nel costato di Gesù e quindi bisogna vedere in tale personaggio il volto dell’uomo con l’estro che coprendosi, interpreta un personaggio animato da una carica emotiva folle e ad un tempo grottesca. Tant’è vero che il Pitrè scriveva: “(…) Nuova del tutto, nel ciclo delle rappresentazioni mute, è la festa dei Giudei di San Fratello dove i giovani mandriani camuffati intenzionalmente da Giudei, corrono all’impazzata per le strade facendo un vero pandemonio ed assordando la gente. A codesto ciclo son da riportare le scene dei disciplinanti, ora non più riconoscibili nelle processioni che sono tutte di raccoglimento e di pietà dei fedeli, per quanto poi in apparenza lontana, è molto vicina in sostanza a siffatto gruppo di spettacoli…”
I
l Giudeo non sa di pagano, come qualcuno ebbe a dire, è invece l’espressione di un popolo religioso, è un atto di fede, un tripudio di amore al Cristo. Basti considerare le scene di commozione che si verificano durante ogni manifestazione; ne fa fede il fervore religioso con cui il popolo di San Fratello in un rapporto diretto con la propria intima convinzione religiosa partecipa a tutte le celebrazioni liturgiche.
R
icordandoci sempre del massimo folklorista siciliano Giuseppe Pitrè, sembra inverosimile che abbia potuto definire tale manifestazione una ridda infernale, pazzesca costumanza, mascierata fuori tempo, vera e propria profanazione. Egli aggiunge concludendo: disgraziatamente, questo costume non è cessato ancora! Smentendosi rispetto al suo modo di interpretare la tradizione delle rappresentazioni mute, o perché avrà assistito magari frettolosamente a qualche rito o per la mistificazione di qualche suo corrispondente.
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ant’è vero che di muto c‘è molto, dal momento che i Giudei rispettano un silenzio personale assoluto, utilizzando solo le trombe per annunciare la loro presenza. La singolare tradizione che è certamente curiosa, spettacolare e anche discussa fra le tante che si svolgono in terra siciliana, attira su di sé molta attenzione. Molti valenti studiosi di tradizioni popolari se ne sono occupati, spinti ed attratti dall’enorme suggestione e dall’interesse che da essa proviene e sono state formulate diverse interpretazioni che sempre hanno colto gli aspetti più emergenti del fenomeno, sociologicamente spiegabile con una specifica identificazione dell’essere sanfratellani con l’essere Giudei.Molti hanno scandagliato in profondità i motivi dei curiosi comportamenti, ma è mancato lo sforzo di operare una sintesi di tali studi.
Forti di una tradizione che ci appassiona sempre più, tenteremo adesso di arricchire con considerazioni e spunti la conoscenza di questo fenomeno. Benedetto Rubino nella sua pubblicazione Folklore di San Fratello ha descritto minuziosamente i costumi ed i movimenti, lasciando l’impressione che il tutto fosse semplice rumore, frastuono e marce e che alla fine del tre giorni si tornasse alla calma, senza dare una personale interpretazione.N
ella Corda pazza, Leonardo Sciascia scrive: “…ma una festa religiosa, che cos’è una festa religiosa in Sicilia? Sarebbe facile rispondere che è tutto… E anzi tutto una esplosione esistenziale… esplosione dell’es collettivo di un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es… I Giudei (di San Fratello) sono gli uccisori di Cristo, perciò nella rappresentazione della passione di Cristo che viene condannato e crocifisso, essi demonicamente si scatenano… e ci chiediamo se alla formazione di una tale tradizione non abbiano concorso più delle ragioni calentariali e liturgiche, ragioni psicologiche, sociali e storiche”.
Quindi, secondo lo scrittore, il punto di vista si allarga al di là del dramma, per una interpretazione del fenomeno in termini più attuali ed in un certo senso più realistici. Ed allora occorre necessariamente fare un tuffo nel passato ricordando che San Fratello è una colonia lombarda, che ha lingua e tradizioni proprie, consuetudini e costumi della patria d’origine. Infatti la filosofia che ha assimilato la parlata e la cultura per oltre novecento anni, è stata salvata per quanto possibile in maniera del tutto originaria.

Il Giovedì Santo

LA PROCESSIONE DEL GIOVEDÌ SANTO A CALTANISSETTA E GLI ARTISTICI «MISTERI»

La processione dei « Misteri » il Giovedì Santo, è la manifestazione centrale e più im­portante di tutta la Settimana Santa.

« II giovedì la città, ha scritto Leonardo Sciascia, si sveglia al suono delle bande : ban­de musicali arrivano da ogni parte, i più valenti complessi bandistici non solo della Sicilia, ma del Meridione ; da quattordici a sedici complessi, e ciascuno arrivando percorre le vie prin­cipali, suonando sgargianti marce. La città è festosa, vibra di gioia nel vibrare degli ottoni e dei tamburi, una vibrazione dentro cui ci si trova presi come in un afflato viscerale. E’ la festa siciliana ; anzi, la « fiesta », quella sorta di esplosione esistenziale che sono le feste nei paesi della Sicilia e della Spagna ».

In termini pittorici si penserebbe a Goya, a qualcuno di quei suoi dipinti come « La pradera di S. Isidro » o il « Funerale della Sardina » affollati, frenetici, dove le folle nel gran sole spagnolo « scintillano come piccole macchie di colore », colori che « battono » nel vario tumulto e fanatismo « a squilli limpidi, freschi come note di gioia ».

ORIGINE DELLA MANIFESTAZIONE E STORIA DEI GRUPPI

L’origine della processione del Giovedì Santo risale a un’iniziativa della Congregazio­ne di S. Filippo Neri o dei Preti che, dopo avere accolto nel proprio seno, nella sacrestia del­la Cattedrale, dove avevano la loro sede, in seguito alla soppressione nel 1767 dei Gesuiti, la Congregazione dei Civili o Galantuomini, dai medesimi istituita nella chiesa del Collegio, prese a portare in giro la sera del Giovedì Santo, cinque piccole barette, rappresentanti cin­que episodi della Passione di Gesù. Nei primi anni le barette, dopo una breve processione si fermavano in Piazza Ferdimandea, oggi Piazza Garibaldi, ed un quaresimalista illustrava il concetto delle cinque bare.

In seguito la processione decadde (1801-1839) e a richiamarla in vigore furono il far­macista nisseno Giuseppe Alesso e il figliolo Michele, dilettanti di plastica, che nel 1840, otte­nuto dal re Ferdinando II un decreto di ripristino della manifestazione, con encomiabile en­tusiasmo si misero a modellare in cartapesta i personaggi della Passione, addirittura a gran­dezza naturale.Nel giro di sei anni i gruppi salirono a quattordici, ma, cresciute le spese per lo svol­gimento della manifestazione, questa stava di nuovo per decadere quando dopo il 1865 si pen­sò di affidare i singoli gruppi ai diversi ceti artigiani che con più facilità, anche per lo spi­rito di emulazione che si venne a creare in essi, avrebbero potuto procurare i mezzi necessari.

GLI ARTISTI NAPOLETANI, FRANCESCO E VINCENZO BIANCARDI

E I NUOVI GRUPPI STATUARI

Eliminata questa non lieve difficoltà, gli organizzatori pensarono di dare forma più ar­tistica ai simulacri ; fu così che, dopo l’esecuzione a Napoli del gruppo « Condotta al sepol­cro » (la cui diversità tecnica e d’esecuzione con tutti gli altri gruppi attuali è facilmente ri­scontrabile) e del gruppo « La Veronica » del palermitano Giovanni Scimone (in seguito sop­presso perché troppo pesante) furono invitati nel 1883, i due artisti napoletani Francesco Biancardi (Napoli 1832 – Caltanissetta 1911) e il figlio Vincenzo che morì nel settembre 1890, i quali, lavorando fino al 1902, costruirono a nuovo gli attuali simulacri, trasfondendo nella cartapesta un vero delirio di fede e di bravura specialmente nel gruppo della « Deposizione », un vero affresco smagliante, spontaneo, efficacissimo nell’espressione dolorosa dei volti, mi­rabile nel morbido abbandono del corpo inanimato di Cristo, un vero splendore di giovinezza le opulenti figure addolorate delle Marie.

Ispirati a Michelangelo e Rubens, Raffaello e Van Dick, essi rappresentano : LA CENA; L’ORAZIONE NELL’ORTO; LA CATTURA; IL SINEDRIO; LA FLAGELLAZIONE; L’ECCE HOMO; LA CONDANNA DI PILATO; LA PRIMA CADUTA; IL CIRENEO; LA VERONICA; IL CROCIFISSO; LA DEPOSIZIONE; LA PIETÀ’; LA TRASLAZIONE AL SEPOLCRO; LA SACRA URNA; L’ADDOLORATA.

LA PROCESSIONE

Le « bare » convenute in Piazza Garibal­di, fin dalle prime ore dopo mezzogiorno, vi restano, prima di sfilare, fino al tramonto, in un tumulto assordante, di musiche, di « figliamara » che ladano con ritmo appassiona­to e triste di nenia la passione del Signore; un tumulto però insolitamente composto al quale partecipano, in una fantasmagoria di luci e di fuochi di bengala, di guizzi di mor­taretti, migliaia e migliaia di persone, di gen­te appositamente venuta dai più lontani pae­si, desiderosa di assistere alla grande sfilata dei sacri misteri, mai paga, muovendosi da un Mistero all’altro, di ammirarne la tragica bellezza. La sfilata incomincia soltanto ad ora di Ave Maria, con la « Cena ». Ogni grup­po è preceduto da un corteo formato dal proprio ceto artigiano e precisamente : « La cena » con i panificatori ; « L’orazione nello Orto » con i pastai e i mugnai ; « La cattura » con gli ortolani e i verdumai ; « II Sinedrio » con gli zolfatai della Miniera Testasecca; « La Flagellazione », con gli zolfatai della compagnie di S. Domenico, S. Michele e Sudario; « II Crocifisso » con i macellai; « La Depo­sizione » con gli zolfatai della Miniera Tumminelli ; « La Pietà » con i borgesi e gli agricol­tori; « La traslazione al sepolcro » con la Cassa Rurale S. Michele e la Congregazione S. Vin­cenzo; « La Sacra Urna » con il Clero e i civili; « L’Addolorata » con i vinai e i carrettieri. Alla « Cena » che apre la processione seguono le altre «bare », sempre precedute dalla propria musica e dalle confraternite con torce accese e bandiere abbrunate e abbassate.

Miniera Gessolungo; « L’Ecce Homo » con gli scaristi, i fruttivendoli e i pescivendoli; «La condanna di Pilato » con gli zolfatai della Miniera Trabonella ; « La Prima caduta » con la Società Cooperativa Agricola S. Lucia; «II Cireneo» con i gessai; «La Veronica» con le compagnie di S. Domenico, S. Michele e Sudario; « II Crocifisso » con i macellai; « La Deposizione» con gli zolfatai della Miniera Tumminelli; « La Pietà» con i borgesi e gli agricoltori; « La traslazione al sepolcro » con la Cassa Rurale S. Michele e la Congregazione S. Vincenzo; « La Sacra Urna » con il Clero e i civili; « L’Addolorata » con i vinai e i carrettieri. Alla « Cena » che apre la processione seguono le altre «bare », sempre precedute dalla propria musica e dalle confraternite con torce accese e bandiere abbrunate e abbassate.
La processione si snoda per un lungo percorso (Corso Umberto, Via Re d’Italia, Cor­so Vittorio Emanuele, di nuovo Corso Umberto, Via Maddalena Calafato, Viale Testasecca, Via XX Settembre) e si conclude, dopo mezzanotte, nella piazza Garibaldi, da dove è partita. Qui i simulacri sostano ancora per circa mezz’ora.La piazza intanto si è di nuovo trasformata in qualcosa di fantastico e di indescrivi­bile con tutte le musiche che suonano contemporaneamente, i « laudanti » che gridano an­ch’essi insieme, le luci dei riflettori, i fuochi di bengala, i guizzi dei mortaretti, il vario, co­rale vocìo della folla, mai scemata nonostante l’ora tardissima.Poi improvvisamente è come un correre dei gruppi — è il momento della attesa « spar­tenza » — in ogni direzione; un correre, alti tra guizzi di colori e nuvole d’incensi, che la­scia negli occhi tanta violenza di luci e di volti, e un mistico languore nell’animo traboccante di sconfinata dolcezza.

Il Giovedì Santo a Marsala (Tp)

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si ha un’imponente processione dedicata alla passione e morte del Cristo effettuata da 9 gruppi di figuranti, ognuno dei quali rappresenta eventi legati alla Passione del Cristo, partendo dall’ ultima cena fino all’ascesa al Calvario.

I gruppi hanno un loro posto nel corteo e sono preceduti da un uomo incappucciato che porta la croce, da un giudeo che suona la tromba ed un altro giudeo che suona il tamburo; il corteo prevede la partecipazione delle statue del Cristo morto e dell’Addolorata posti alla fine della processione e portati dalle consorelle e dai confratelli della Chiesa di S. Anna e di altri due gruppi, posti davanti al tutto e costituiti da ragazze che portano palme e rametti di ulivo e di bambini e bambine che portano dei preziosi copricapi di propietà della Chiesa e che sono impreziositi dai monili d’oro della famiglia d’appartenenza della famiglia dei appartenenza. In genere la processione dei misteri si conclude la sera con la rappresentazione teatrale dei momenti più significativi della Passione.
La teatralità dell’evento, i costumi adoperati dai figuranti (ad esempio il secondo gruppo è costituito da ragazze vestite di bianco per simboleggiare la purezza), non devono far dimenticare che parte della fede isolana è formata dal carattere popolare che avvicina i valori cristiani ai sentimenti della popolazione che così diventa più partecipe dell’evento
.

Il Giovedì Santo,a Vallelunga Pratameno, vede la creazione,ad opera dei confrati delle tre Confraternite esistenti in paese,(quella del SS.Sacramento,della Madonna del Rosario e di Maria SS. Addolorata) ,nei rispettivi oratori,delle cosiddette CENE. Una creazione che si ripete da decenni e che ha ereditato la tradizione dei “pupi di zucchero” tipica del palermitano.

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Cena Pasquale allestita presso gli oratori del SS.Sacramento,di Maria SS.del Rosario e del SS.Crocifisso.(Foto Michele Vilardo)

Vengono create,da ogni confraternita, delle mense su cui vengono deposti 13 agnelli di zucchero di media grandezza,raffiguranti Cristo e i dodici apostoli che celebrano l’ultima cena

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(Pani da cena:foto Michele Vilardo)

accompagnate da 13 pani da cena(dolce tipico pasquale Vallelunghese) insieme a 13 lattughe , cedri, arance e finocchi.Al centro della tavola,troneggia una statua,sempre di zucchero opera di artigiani palermitani cui le confraternite si rivolgono ogni anno, raffigurante il Cristo Risorto,insieme al pane e al vino,simboli dell’Eucarestia. Ogni anno,per ogni confraternita, vengono sorteggiati 12 confrati tra quelli che hanno pagato l’annualità,ossia la quota associativa.Quattro dei dodici sorteggiati,per ogni confraternita,vanno a svolgere il ruolo che fù dei 12 apostoli nella messa vespertina “In Cena Domini”,nella quale si ricorda l’istituzione dell’Eucarestia e la carità fraterna. Saranno i protagonisti della lavanda dei piedi. Alla fine della Messa, i dodici confrati sorteggiati da ogni confraternita,unitamente agli altri confrati e alle loro famiglie ,si riuniscono presso la loro chiesa di riferimento e dopo aver contemplato la bellezza della Cena,ricevono in dono l’ Agnello di zucchero,un pane da cena,un cedro,una lattuga,un finocchio e un arancio che portano a casa. Ai confrati non sorteggiati viene dato un piccolo agnello di zucchero. La sera del giovedì santo si conclude con la visita all’unico “Sepolcro”creato nella cappella del SS.Sacramento della Chiesa madre .L’adorazione eucaristica si protrae sino alla mezzanotte.Chiusa la chiesa avviene,notte tempo,la spogliazione del sepolcro e la preparazione del simulacro de Cristo morto.

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(Foto M.Vilardo)

Il Venerdì Santo

Nella pietà popolare siciliana emerge il culto della passione e morte di Gesù nella quale la nostra gente si immedesima in partecipazione comunitaria. Ha scritto a tal proposito il Padre Basilio Randazzo che «la vera pietà di una volta all’anno, raccolta in tutto un anno, si comunica nel dolore della settimana santa, e in particolar modo il venerdì santo si celebra il «Tutto di Tutti», cioè il mistero della Passione, come «prototipo teologicamente unitario con uno stile culturalmente conforme ma con un atteggiamento che varia da comunità a comunità».

Nella pietà popolare, scrive Angelo Plumari, l’uomo di Sicilia vive ed esprime la partecipazione alla passione, morte e resurrezione di Cristo con la totalità della sua struttura antropologica, cosicché un popolo esce dalla solitudine, vive la comunione dando spazio ai suoi sentimenti alle sue emozioni con la totalità del linguaggio corporeo, con la gestualità, con il canto, i colori, il pianto, il grido.Al venerdì santo è emblematico e paradigmatico come i siciliani si ritrovino e si identifichino nel dolore del Cristo morto, stando muti davanti alla bara, e in quello dell’Addolorata, dinnanzi ai quali sentono che il dolore umano, il loro dolore è stato assunto da Dio.Durante le processioni del Venerdì santo,il popolo che partecipa “esplode con il linguaggio dei segni:piedi scalzi,canti lancinanti,incensi che bruciano,fiaccole accese,silenzio pieno di mistero,intensa commozione,profonda meditazione. Si ricompongono celebrazione,gestualità,simbolismo,sensorialità. E’il trionfo dell’opera mistagogica”.

Inoltre la mistagogia dei simboli del Venerdì Santo è estremamente interessante oltre che variegata:la presenza delle confraternite incappucciate o a volto coperto,indicano,secondo B.Randazzo,la perdita di personalità o la comunione nel dolore; Il passo professionale a due passi avanti e uno indietro,ansia di sofferenza,i cilii o candele accese,l’umanità;la fiamma,la purificazione e la luce della Resurrezione; le marce funebri,l’accentuazione sensibilizzata di stati d’animo in pianto del peccato di Deicidio.Tutto ciò comunica il fatto che “l’uomo siciliano è celebrante simbolista”. Il Venerdì santo inizia con la visita ai sepolcri, poco conosciuti come altari della reposizione, poiché si continua ad identificare, così come sostiene il Plumari, l’altare della reposizione con il sepolcro del Signore creando, nella coscienza popolare, una identificazione di significati tra l’adorazione della presenza reale-ostia e il corpo-ostia, per cui il tabernacolo è, allo stesso tempo, sepolcro.

In molti comuni il Venerdì Santo, per tutta la mattinata, continua la visita ai sepolcri con una duplice modalità: in alcune chiese permane la centralità dell’adorazione eucaristica senza nessun segno della passione, in altre, invece, all’adorazione eucaristica si affiancano le statue del Cristo morto e dell’Addolorata poste accanto ai sepolcri.

I riti extraliturgici del venerdì santo si svolgono secondo quattro tipologie presenti nell’Isola:

  1. le processioni funebri del Cristo morto accompagnato dalla Madre addolorata;
  2. la processione dei misteri;
  3. le processioni in cui si compie la mimesi cronologica degli eventi della passione;
  4. la processione del solo Crocifisso

A CALTANISSETTA:LA PROCESSIONE DEL SIGNORE DELLA CITTÀ, IL CRISTO NERO.

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Un’altra processione tutt’ affatto diversa per straordinaria compostezza ed espressione di grande pietà è la processione, il Venerdì Santo, del «Cristo Nero» o «Signore della Città».

Si tratta di un antico crocifisso di legno, sistemato sotto un trofeo dorato, in forma di regia corona, che secondo un’ingenua leggenda fu trovato molto tempo fa dentro, una grotta, fra due candele accese.

Secondo altri il « Cristo Nero » sarebbe un crocifisso trovato tempo fa nel muro di una casa del Largo Scribani, in fondo all’attuale Via Roma, nascostovi dal tempo della per­secuzione iconoclasta, e trasportato nella chiesa di S. Nicola, che da allora mutò il nome in quello di chiesa del « Signore della Città ».

« A noi, dice il Pulci, sembra accostarsi meglio alla verità storica il fatto che tale im­magine veneravasi, da tempo immemorabile, nella chiesa di S. Leonardo, filiale di S. Spirito, esistente in detto Largo Scribani, e distrutta la chiesa, il Crocifisso anzidetto fu traslato in quella di S. Nicola, a cui fu cambiato il titolo, stante la viva devozione popolare verso la san­ta effigie ». Quella del Venerdì Santo è una manifestazione più d’ogni altra toccante e accorata.

Tutto in questo giorno è composto e solenne : la « Real Maestranza » che vi partecipa in tutta la sua pompa triste e misurata, con tutte le sue bandiere velate e abbassate ; i Ca­nonici con l’ermellino rovesciato in capo, ognuno con un cero incartocciato per riparo; il po­polo gremito dappertutto, sui terrazzi, sui marciapiedi, su tutto il lungo percorso della pro­cessione ; gli stessi « laudanti » che seguono la bara, stretti in cerchio e scalzi come i porta­tori del Simulacro, il cui lamento è oggi il grande protagonista della sacra manifestazione e su cui non pochi scrittori hanno scritto pagine di grande bellezza estetica e religiosa. « So­no gruppi di zolfatai o di contadini, scrive il Bonavia, che cantano…

« Nella fissità della pietra o nella grazia di un fiore, o nella stessa trasparenza dell’aria, qualche cosa s’incontra in Sicilia, a tutte le volte. E Balilla Pratella non dovette faticare ad avvertire, in questi canti, melismi e passaggi cromatici d’influenza orientale. Il “caltanissettese” vi riconosce la voce più profonda della sua anima e della sua città. Né occorre essere nato in Sicilia, per sentirsi afferrato da questa musica primitiva e angosciosa… Due voci, l’una calda e grave che pesa sulla terra, l’altra alata e violenta che schianta di colpo l’ultima nota cui giunge la prima voce, e sale con essa verso gli astri ».

« Da toni bassi e profondi, scrive Leonardo Sciascia, le voci improvvisamente passa­no a toni acuti strappati violenti:

DIU PI LA NOSTRA MORTI DISCINNIU, / CALA’ DI ‘N CELU ‘NTERRA E S’INCARNAU / COMU ‘NA RAJA DI SULI CUMPARIU, / SENZA NISSUNA MACULU NIMICU RIU, /CRISTU DI ‘N LA RISTAU; / PI DISCACCIARI CELU PI L’ARMA CALAU; / TRENTATRIANNI CAMMINANNU JIU, / MENTRI CA LU MUNNU RISCATTAU.

« E’ un lamento, ha scritto in un’altra bellissima pagina il Baldini, che rompe acuto da un fondo immemoriale di colore e di spasimo e che, via via che scema la luce e che la fiamma dei ceri incartocciati incomincia a tingere i volti, diventa sempre più ossessionante…

Ci senti dentro il mitico compianto per la morte di Adone, l’approssimarsi dei terrori notturni, l’informe sgomento del poi, l’immotivato sconforto degli adolescenti, il vuoto dei monti sopraffatto dalla notte, la solitudine dei mari, la tristezza delle campagne, la somma di vita che se ne va senza più ritorno… Era come se la città fosse tutta presa da una sacra epidemia di mistica insonnia, sul tipo forse di quella che infierì ad Abdera di Tracia quando il popolo non rifiniva più d’invocare Amore per le strade con le parole d’Euripide ascoltate a teatro. Ed ebbi tutto vivo e presente il senso delle grandi parole di Pascal: « Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo. Fino allora non bisognerà più dormire ».

Un epilogo nel quale si compendia tutta questa settimana nissena di sacra frenesia, di splendido e castigato folklore, d’insonne partecipazione al dolore e pianto di Cristo.

A Pietraperzia,in provincia di Enna,il venerdì Santo da secoli viene celebrata la processione di Lu signori di li fasci”.

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Il pietrino porta nel suo DNA il Venerdì Santo e lo trasmette alle generazioni future.La vita della città scorre seguendo il ciclo delle stagioni ed esse sono intervallate dalle manifestazioni religiose e culturali che rinnovano negli anni tradizioni secolari,contribuendo così a mantenere unita la comunità che nel rito ritrova la sua identità.Nella Settimana Santa,in particolare il Venerdì,il tempo sembra fermarsi e il petrino entra in un’atmosfera particolare e compie per istinto gesti e riti tramandati da secoli che preludono alla manifestazione di “lu Signori di li fasci”.

Nel silenzio della notte si odono i lamenti dei cori che narrano,con una nenia funebre impregnata di dolore,la passione di Gesù e che preparano la tragedia del Venerdì Santo. In questo giorno sin dalle prime ore è un susseguirsi di fedeli che si recano nella chiesa del Carmine per rendere omaggio al Cristo che da secoli protegge i petrini.Nel pomeriggio,alle 15,in una chiesa gremita di fedeli e in un silenzio surreale,avviene la deposizione del Cristo dalla cappella nella quale e rimasto conservato per un anno. Dal petto di tutti improvvisamente esplode l’invocazione:”Pietà e misericordia”.Inizia così il momento tanto atteso dai petrini sparsi nel mondo per lavoro che,in quell’ora,si uniscono spiritualmente al loro paese d’origine. Il fercolo del Cristo delle Fasce è un’asta di legno di cipresso,alta 8 metri e mezzo e che termina con una croce. L’asta viene innestata in una base cubitale di legno di rovere nella quale vengono inseriti due manici lunghi 10 metri per il trasporto a spalla.La fascia,intessuta in lino e lunga circa 30 metri,è un atto di devozione e di fede ed è di proprietà dei fedeli che la tramandano di padre in figlio affinché venga legata ogni anno,fino alla sua consumazione. Alle 18 il percolo viene montato nella piazza antistante la chiesa del Carmine e ha inizio la legatura delle fasce. Alle 20 e 30,dopo aver ultimato i preparativi,il Cristo con un antico rito detto del “passamano”,viene portato fuori della chiesa dai confrati per essere agganciato alla croce.

Al terzo colpo dato sulla base dal confrate guida,il Cristo,viene alzato in una frazione di secondo in tutta la sua grandiosità,producendo sugli spettatori un momento di emozione che rimane fortemente impresso nell’animo.Inizia la processione. Apre la confraternita col fercolo del Cristo morto e,infine,l’addolorata portata dalle donne. Sfila per le vie del paese seguendo un itinerario immutato da secoli.L’imponente fercolo,per muovere il quale occorrono 500 persone tra portatori e possessori di fasce,avanza con maestosità e leggerezza. Il legame che unisce il petrino alla manifestazione è così forte che alcuni emigrati telefonano ai parenti per udire i suoni della festa.Lungo il percorso il fercolo esegue la “girata”,cioè gira sull’asse,in contrada Santa Croce e di fronte alla Chiesa Madre dove altri fercoli,passando sotto le fasce,ritornano in chiesa.All’arrivo la croce viene abbassata lentamente e una marea di mani alzate si protendono verso di essa. I fedeli, dopo aver riportato Cristo in Chiesa e avere sciolto le fasce,ritornano nelle loro case con l’animo pieno di speranza, stanchi ma consci di avere adempiuto a un obbligo tramandato da generazioni.
Delle predette quattro modalità,evidenziate,dal Plumari, la seconda, quella della processione dei Misteri, si svolge solamente a Montelepre(il Venerdì Santo)

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e a Marsala(il Giovedì Santo) secondo la tradizione della cosiddetta Casazza, ossia la processione attraverso la creazione di quadri viventi, piuttosto che con gruppi statuari così come avviene, invece ,a Trapani e a Caltanissetta.

I misteri di Montelepre sono la riproposizione del testo del farmacista carinese Luigi Sarmiento,vissuto nel 1700,:ossia la riproposizione dei momenti fondamentali della storia della salvezza,dalla creazione del mondo alla Pasqua storica di Cristo,attraverso quadri viventi. Alla fine dei Misteri si svolge la processione del Cristo morto e dell’Addolorata.

Nella quasi totalità dei comuni i riti si svolgono secondo la prima e la terza tipologia: a mezzogiorno si porta il Cristo al calvario lo si crocifigge, la sera lo si va a riprendere e lo si porta in processione seguito dalla Madre addolorata.

A Corleone, Balestrate e Borgetto,in provincia di Palermo, il Cristo viene accompagnato al calvario,a mezzogiorno, deposto in un lenzuolo.

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(Processione a Borgetto)

In alcuni comuni dell’isola (Corleone,Vallelunga,Villalba,) nella mattina del Venerdì Santo, si ripete uno dei riti più antichi e suggestivi della Settimana Santa in Sicilia. Il Cristo morto viene deposto su un tavolo coperto di drappi rossi,

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(Foto Michele Vilardo.Cristo Morto a Vallelunga,Oratorio del SS.Crocifisso)

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(Foto di Giuseppe Guarino ,Cristo Morto presso la Chiesa di San Giuseppe a Villalba)

A Corleone nella cappella dell’ex ospedale dei bianchi, e i fedeli vi si recano toccando e baciando la statua.

Il Cristo crocifisso a Corleone è rimasto il Cristo “del pane e della fertilità dei campi”:

Cu l’acqua o senz’acqua lu pani vulemu

e ni l’aviti a dari vi vostra bontà.

La richiesta del pane non era mai disgiunta da un’altra richiesta:

Pietà e misericordia Signuri.

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A Prizzi, il Cristo viene accompagnato al calvario deposto su una lettiga e ricoperto con un lenzuolo bianco. La sera, il Cristo morto, viene portato in processione sempre sulla lettiga. A Corleone, così come a Prizzi, il Cristo viene portato al calvario e lì crocifisso dal clero locale.

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Le più note processioni dei Misteri,con gruppi statuari, sono quelle di Caltanissetta e Trapani, e costituiscono,per il valore artistico di alcuni gruppi statuari e per la complessa rete di presenze sociali che comportano,un capitolo a parte della Pasqua siciliane.

La processione dei Misteri di Trapani si svolge dal primo pomeriggio del Venerdì Santo alla stessa ora del Sabato Santo.

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La sfilata dei gruppi,annunziata da squilli di tromba e rullo di tamburi,è aperta dalla confraternita di San Michele,in tunica rossa e cappuccio bianco. Seguono venti vare:diciotto Misteri veri e propri,l’urna del Cristo morto e la statua dell’Addolorata.

Accompagnati dai rappresentanti di ceto, cui appartengono,,in abito nero,e portati a spalla,i Misteri si succedono secondo un ordine che rispetta la sequenza narrativa della Passione,dalla separazione,la prima vara,al trasporto al sepolcro,l’ultima vara. Chiudono il lungo corteo l’urna col Cristo morto e la statua dell’Addolorata.I gruppi,scolpiti in legno,con panneggi in tela e colla,sono opera in gran parte di continuatori di una scuola artigiana che ebbe in Giovanni Matera il suo fondatore e il suo rappresentante più illustre.

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L’Evento della processione dei Misteri di Trapani prevede un lavoro particolare delle varie maestranze coinvolte già durante i venerdì di Quaresima, quando si attua “a scinnuta dei misteri“, cioè quando il gruppo statuario che rappresenta il “mistero” di turno viene posto in evidenza rispetto agli altri. Ogni mistero è affidato ad una particolare confraternita di artigiani e lavoratori.

Durante questi venerdì di Quaresima i ragazzi trasportano a spalla dei fercoli con delle immagini sacre e poi andranno in giro per la città a raccogliere le offerte dei fedeli.
Già dai primi giorni della Settimana Santa si hanno delle processioni; il Martedì Santo si ha la processione della Madonna dei massari, organizzata dai discendenti dei portatori delle masserizie, che in passato erano pagati dai contadini più agiati per trasportare i misteri e che poi furono esclusi dalla processione ufficiale del Venerdì; il Mercoledì Santo è il turno dei fruttivendoli che organizzano la processione in onore della Madonna della Pietà per le vie cittadine fino alla rituale visita alla Madonna dei massari.
Il tutto si conclude Il Venerdì Santo con la processione più imponente di questi misteri composti da 18 gruppi lignei appartenenti alle maestranze più l’urna del Cristo morto e dell’Addolorata.

A Erice, nel XVIII secolo,grazie anche all’influsso dei “gruppi” della vicina Trapani, si sostituirono ai personaggi viventi,i gruppi statuari,per cui da quel momento,Addolorata e Cristo morto furono preceduti da Gesù nell’orto,dalla flagellazione,la coronazione di spine e da Gesù verso il calvario.

Anche se di numero di molto inferiore rispetto a quelli trapanasi e sempre rispetto ad essi più piccoli,traspare la vicinanza del capoluogo. Analoga la lavorazione e i materiali usati per la lavorazione,ma l’influenza risulta ancora più evidente osservando i singoli “Misteri”ericini fra i quali si distingue per una sua originalità il solo Gesù verso il calvario. Gli altri gruppi,lasciano trasparire la matrice trapanese.Analoga fu anche l’organizzazione della processione,con l’affidamento dei gruppi alle maestranze ericine.

Uno dei momenti più suggestivi per visitare Enna è proprio la Settimana Santa, i cui riti risalgono al tempo della dominazione spagnola (XV-XVII secolo), quando le Confraternite che già esistevano come corporazioni di arti e mestieri, vennero autorizzate a costituirsi liberamente come organizzazioni religiose per promuovere il culto, ricevendo dai sovrani norme precise e privilegi.
Delle 34 confraternite che esistevano fino al 1740 ne sopravvivono, oggi, solo 15 che animano la Settimana Santa. I confrati odierni non sono più i minatori e gli agricoltori di una volta: l’unica preclusione che è rimasta riguarda il sesso, sono ammessi solo gli uomini.

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Il momento culminante delle celebrazioni pasquali si svolge il Venerdì Santo quando, nel primo pomeriggio, tutte le confraternite giungono al Duomo e lì cominciano a comporsi per la solenne processione. Sono oltre duemila i confrati incappucciati che, in ordine e in assoluto silenzio, precedono le Vare del Cristo Morto e dell’Addolorata, dando inizio al lungo corteo funebre che percorrerà tutta la città. Ad aprire la sfilata è la Compagnia della Passione, i cui confrati portano sui vassoi i 24 simboli del Martirio di Cristo detti i Misteri: la croce, la borsa con i trenta denari, la corona, la lanterna, il gallo, i chiodi e gli arnesi per la flagellazione. La processione raggiunge solennemente la chiesa del cimitero, ex Convento dei Cappuccini, dove viene impartita ai fedeli la benedizione con la Croce reliquario contenente la spina della Corona di Cristo. La processione ritorna dunque verso il Duomo.

Un’altra interessante processione, proprio sul modello “ennese”,avviene anche a Villarosa.

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Anche a Vallelunga

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(Foto Elia Chimera,processione del Venerdì Santo a Vallelunga)

venerdi-santo-di-pippo-nicoletti.jpg (foto Pippo Nicoletti)

e a Villalba,si svolgono due suggestive processioni,seguendo la mimesi cronologica degli eventi storici della passione e morte di Cristo.

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foto Giuseppe Guarino,processione del Venerdì Santo a Villalba)

La Domenica di Pasqua

La domenica di Pasqua a Prizzi,comune dell’entroterra palermitano,si svolge “l’abballu di li diavuli”,in cui si fondono elementi desunti dalla fede e dal folclore.

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Alle 15 del pomeriggio, del giorno di Pasqua, le maschere dei diavoli e della morte si dividono in 5 gruppi ,quanti sono i quartieri del paese,per rappresentare la loro pantomima durante l’incontro tra la Madonna e il Cristo risorto.

I figuranti ,con il volto coperto da una caratteristica maschera,seguono i simulacri della madonna e del Cristo che vengono portati per le vie del quartiere. I diavoli cominciano a muoversi tra di esse a passo di danza ed è a questo punto che inizia il ballo vero e proprio.

Ma il momento di maggiore suggestione, folcloristica,si verifica quando i diavoli e la morte smettono di seguire i due simulacri:in quel preciso istante arrivano due angeli, che rappresentano il bene, e, con le spade sguainate, mimano la lotta contro il male,rappresentato dai diavoli e dalla morte,che viene così sconfitto.

La domenica di Pasqua nella cittadina montana di Prizzi , prevede l’abbellimento della via principale e l’incontro delle statue del Cristo risorto e di Maria Addolorata, scortata da due angeli che portano in mano una lancia. Ai piedi delle due statue si trovano due figuranti che, con tute rosse ed una maschera in viso, impersonano i diavoli che devono baciare i piedi delle due statue prima del loro incontro. Essi hanno una catena in mano e sono accompagnati da un altro figurante in tuta gialla e con una balaustra in mano e che rappresenta la morte. I tre hanno il compito di disturbare e di ritardare l’incontro tra Madre e Figlio muovendo le loro armi e ballando ai loro piedi, finchè, dopo 3 tentativi d’incontro, la Madre riconosce il Figlio e si libera del manto nero del lutto per rivelare il vestito della gioia, in colori più tenui.

In questo momento intervengono i due angeli per colpire i diavoli con le loro lance. Ma i due si devono subito separare per poi arrivare ad un successivo incontro, preceduto da un momento più profano che prevede la presenza musicale, altri movimenti dei tre figuranti già citati che disturbano i fedeli per raccogliere le offerte che andranno a coprire le spese dell’affitto dei costumi.
Il terzo incontro prevede un ulteriore intervento dei due angeli che colpiscono i due diavoli, il simbolo del male, mentre la morte non è toccata perchè è gia stata sconfitta dal Cristo. Anche in questo caso la Madonna si libera del manto nero.

La lotta tra bene e male ha un’ulteriore rappresentazione, sempre a Prizzi, ma stavolta dal sapore piu’ profano rispetto alla precedente.
Alcuni cittadini si travestono da “diavoli” grazie all’ausilio di grandi maschere torve e costumi rossi ed attraversano la citta’ con l’intento di prendere dei prigionieri da condurre all’inferno. Tale luogo altro non e’ che una comune osteria dove i “dannati” sono obbligati a bere vino e ad offrirlo ai presenti.
Solo a tarda sera, quando oramai le botti saranno svuotate, interverra’ la Vergine, accompagnata da uno stuolo di angeli, a liberare i malcapitati, nonostante un ulteriore intervento dei maligni che cercheranno ancora di corrompere i malcapitati offrendo dei dolci.

A Piana dei Greci,ufficialmente degli Albanesi,insieme alle altre comunità di origine albanese presenti in Sicilia occidentale,durante la Settimana Santa vengono celebrati I riti della Java e Madhe ,la “Grande Settimana” che hanno particolare evidenza nella cittadina della provincia di Palermo- sede della diocesi denominata Eparchia- che i siciliani,con scelta linguistica significativa,identificano, ancora oggi, come Piana dei Greci,ufficialmente degli Albanesi

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Nel rito bizantino,proprio dell’Eparchia di Piana,la sequenza delle celebrazioni liturgiche coincide,in larga misura,con quella del rito romano,o latino, che è ad oggi in vigore presso alcune chiese dei 5 comuni dell’Eparchia.I Greci,ossia gli abitanti di Piana identificano i siciliani proprio con l’aggettivo di “Latini”.

Momento culminante delle celebrazioni è la notte del “ grande Sabato” poichè alla fine della Veglia pasquale si intona il celebre “Christòs Anèsti” (Cristo è Risorto).Ed è proprio con questo dire che a Piana i “Greci” si rivolgono l’un l’altro, dall’alba al tramonto del giorno di Pasqua, gli auguri pasquali.

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(foto Sara Cusenza)

La mattina di Pasqua,durante la recita del mattutino,a Piana,ha luogo la cerimonia dell’apertura delle porte della Cattedrale di San Demetrio ad opera del Vescovo(chiamato anche Eparca) con la cui apertura si simboleggia la vittoria del Cristo risorto sulla resistenza del demonio intenzionato a impedirgli l’ingresso. Alle 10 del mattino del giorno di Pasqua si celebra il solenne pontificale della resurrezione di Cristo dai morti. Dal punto di vista identitario-folcloristico,l’attenzione è incentrata ai costumi tipici di Piana che le donne indossano al mattino di Pasqua. La gonna ricamata in oro,ntisilona,il copricapo,keza, unitamente ad alcuni gioielli particolari e le classiche cinture con il San Giorgio,ostentati da centinaia di donne giovani e meno giovani per affermare,unitamente alla fede nel Cristo Risorto,le ragioni della loro identità da parte di una minoranza che ha saputo conservare la propria lingua,le proprie caratteristiche etniche. Alla fine della Messa di Pasqua,a Piana,vengono distribuite ai presenti migliaia di uova colorate di rosso.

A San Biagio Platani, paese dell’entroterra agrigentino, per Pasqua decidono di “esagerare”. E lo fanno da secoli! Le due congregazioni rivali dei “Signurara” (i devoti del Signore) e dei “Madunnara” (i devoti della Madonna),si sfidano nella realizzazione di spettacolari quinte sceniche di dimensioni imponenti: gli “Archi di Pasqua”.

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I lavori durano almeno un paio di mesi; trattandosi di attività devozionale sono eseguiti dagli abitanti stessi del paese e quindi di notte, essendo il giorno dedicato alle usuali attività lavorative. Numerosi magazzini vengono adibiti ad officine collettive dove si preparano in alcuni le strutture portanti di stampo architettonico, in altri si realizzano le decorazioni pittoriche, altri ancora realizzano gli addobbi in pasta di pane e “le ninfe”, grossi lampadari realizzati con mais e pasta colorata. Buon umore, vino e dolci sono di complemento alle ore di lavoro e sono spontaneamente offerti agli occasionali visitatori.

Tra tutte le manifestazioni che celebrano la Santa Pasqua, quella che si svolge a San Biagio Platani è sicuramente una delle più suggestive. Questo rito che nasce dal culto della Madonna e di Cristo, pone le sue radici nel ‘700, quando ancora il paese non contava mille abitanti. A questa tradizione si deve la nascita delle due confraternite, Madunnara e Signurara, che con tanta passione rinnovano, di anno in anno, questa meravigliosa manifestazione.

Questa divisione del paese nelle due confraternite non da origine ad un antagonismo violento, ma ad una competizione vivacissima ed appassionante, che si conclude la notte del Sabato Santo, quando ciascuna confraternita allestisce la parte del corso che le compete. La preparazione richiede una grande quantità di materiale, tutto rigorosamente concesso dalla natura. Quelli più largamente usati sono le canne, il salice, l’asparago, l’alloro, il rosmarino, i cereali, i datteri, e il pane, ognuno dei quali è ricco di un alto significato simbolico.

La parte più importante è costituita dagli archi centrali, origine storica della manifestazione, sotto i quali nella mattina della Domenica di Pasqua avviene “U ncontru” (l’incontro) tra Gesù risorto e la Madonna. Di anno in anno, viene cambiata l’estetica del corso, mentre resta invariata la struttura architettonica, costituita dall’entrata, dal viale e dall’arco. L’entrata rappresenta la facciata di una chiesa, il viale la navata e l’arco, opposto all’entrata, l’abside della chiesa stessa.

Il significato religioso degli Archi di Pasqua è molto evidente, volendo rappresentare il trionfo di Cristo sulla morte.

Ma gli archi affondano le loro radici,anche, nella condizione di povertà e nella miseria in cui versava la popolazione nel ‘700, il cui allestimento serviva appunto a far dimenticare la povertà. Oggi sono cambiate molte cose, e pur continuando ad avere un significato religioso, hanno lo scopo di attirare una grande folla di cittadini e forestieri per assistere a questo spettacolo religioso, culturale ed artistico.