SICILIA SCONOSCIUTA,Itinerari Insoliti e Curiosi.Di Matteo Collura.

Foto di Melo Minnella.

Itinerario:Corleone-Tagliavia.

Nell’antico feudo Corleone

Corleone. cittadina scenograficamente circondata da torrioni rocciosi, è cuore (della vecchia ‘zona del feudo” quella compresa tra Corleone, Piana degli Albanesi e Godrano, in provincia di Palermo . Evidenti sono i segni lasciati in queste terre dalle lotte contadine e dal proliferare della mafia quando essa, prima di diventare holding internazionale, allungava i suoi minacciosi artigli sulle campagne e sugli allevamenti.

Corleone, tuttavia, fino a tempi recentissimi è rimasta una delle roccaforti mafiose più importanti dell’isola. Qui. in una masseria appena fuori paese, nella primavera del 2006 fu sorpreso e arrestato il capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano.

Una visita nella “zona del feudo” può servire a conoscere la Sicilia più interna e nierio turistica, quella il cui fascino è dovuto alla rude bellezza della natura e al perdurare delle più significati e tradizioni contadine.

Corleone e Tagliavia. con il suo santuario sperso nell’arida campagna del palermitano, sono le due tappe di questo itinerario, sessanta chilometri in tutto. Si parte da Palermo, imboccando la scorrimento-veloce per Agrigento; allo svincolo per Bolognetta ci si immette sulla statale per Marineo, superata la quale s’incontra il bivio Lupotto a sinistra si va a Godrano , quindi si costeggia il bosco della Ficuzza dominato dalla Rocca Busambra, dopo pochi chilometri, sulla destra appare il bivio per il Santuario di Tagliaia: una decina di chilometri oltre, ecco Corleone.

TAGLIAVIA.

Il territorio ci ricorda il giornalista e scrittore corleonese Nonuccio Anselrno corrisponde all’antico feudo di Rahalmia. che si trova descritto già in un decreto di Guglielmo II del 1182. Il santuario nacque molto più tardi, sul finire del XVIII secolo. Il feudo, che apparteneva alla Mensa arcivescovile di Monreale, fu dato in affitto a due fratelli, pastori mistrettesi di nome Lo Jacono. Racconta la leggenda che un giorno i garzoni (dei due pastori, nel rimuovere un cumulo di sassi, furono attratti da un masso squadrato rimasto sepolto per chissà quanto tempo. Con sorpresa, rivoltato il blocco di pietra. scoprirono che esso era servito a un ignoto pittore per dipingere un’immagine della Vergine del Rosario. Ci si avvide in seguito che quell’immagine era stata ispirata dal dipinto del pittore fiammingo Anton Van Dyck. conservato nell’oratorio dei Cavalieri di Malta a Palermo, dove ebbe sede la prima Compagnia del Rosario.

Il dipinto Van Dyck è del XVlI secolo e alla stessa epoca fa notare Anselmo risale la diffusione del culto mariano nel corleonese: per induzione, dunque, si arriva alla conclusione che anche l’opera pittorica di Tagliaia sia dello stesso periodo.

Dopo la scoperta del “sacro” dipinto, a Tagliavia si gridò al miracolo, tanto più che nello stesso posto fu trovato un pozzo d’acqua ritenuta miracolosa: quest’acqua. data da bere agli armenti colpiti da un grave male, straordinariamente ne favorì l’immediata guarigione. Anche re Ferdinando II di Borbone, che dalla sua residenza di caccia iella Ficuzza di tanto in tanto si recava nella vicina Tagliavia, avrebbe sperimentato la miracolosità di quell’acqua: colpito da un oscuro male a un ginocchio. devotamente rivolgendosi alla Madonna bagnò la parte inferma con l’acqua del pozzo e guarì. Il re, per riconoscenza alla Madre santa, donò ai romiti raccoltisi attorno al santuario che nel frattempo si stava costruendo, oltre venti ettari di terreno concedendo anche un assegno annuo, il diritto a cento carri di legna da ardere ogni anno e numerose altre regalie.

I romiti si radunarono a Taglìavìa spontaneamente. Dapprima non ebbero regola ne abito e vissero in un paio di stanzette. Fu opera loro la prima chiesetta, oggi adibita a sacrestia del santuario. La foggia dei loro abito iniziale fu suggerita dallo stesso re Ferdinando II ma risultò essere troppo simile a quella dei cappuccini; per questo l’arcivescovo la sostituì con una tunica bianca stretta alla vita con una cinghia di cuoio, uno scapolare marrone, un mantello anch’esso marrone e un paio di scarponi indubbiamente più adatti dei francescani sandali alla dura vita (li quei religiosi, e ai lavori nei campi. Il nuovo edificio fu inaugurato il 1° maggio 1845. Ha facciata neoclassica, realizzata con la pietra della vicina rocca di Bavaria.

i romiti ormai se ne sono andati. Per un certo periodo, dopo la morte dell’ultimo frate-contadino, vi abitarono i benedettini.

Ora non ci sono più neanche loro.

Ogni anno per l’Ascensione, probabilmente in ricordo dell’inaugurazione della chiesa, Tagliavia è meta di scampagnate festìve per gli abitanti dei paesi vicini. La festa non è più sentita come negli anni passati. quando era tutto un accorrere di uomini, donne e bambini vestiti a festa e dei carretti. Tuttavia, ancor oggi, bandierine di cartone con l’immagine della Madonna, palloncini colorati e fumi di improvvisati barbecue ravvivano i dintorni del santuario, dopo la messa nella nuova chiesetta.

CORLEONE.

E un antico centro siculo e punico. Il primitivo insediamento probabilmente sorgeva sull’altipiano chiamato “la Vecchia”, che domina l’odierno abitato. Fu fortezza bizantina, poi cadde in mano agli arabi, cui si deve il nome di Kurliyun, dal quale deriva Corleone. Ruggero II ne fece un suo importane centro strategico; Federico II lo ripopolò ne! 1237 con una colonia lombarda. Di quest’innesto si ha ancor oggi traccia nella parlata dei corleonesi.

Il vecchio paese è dominato da due imponenti rocce, fortezze naturali sulle quali furono costruite una torre saracena e un

castello chiamato Sottano. Dai ruderi del castello e dalla torre saracena si gode uno splendido panorama. Da vedere: la chiesa di Sant’ Andrea, con la sua nuda facciata in pietra e gli indizi architettonici che ne rivelano il primitivo uso a moschea araba. prima che diventasse tempio cristiano nel XIII secolo purtroppo si possono ammirare soltanto gli esterni, essendo la chiesa chiusa ormai da tempo in attesa di restauri ; la settecentesca Chiesa Madre dedicata a san Martino nell’interno una statua della Madonna del Soccorso di scuola gaginesca e un rilievo marmoreo cinquecentesco raffigurante il battesimo di Gesù’; la chiesa di Sant’ Agostino nell’interno la veneratissima Madonna della Mazza ; la settecentesca chiesa dell’Addolorata.

Nel Museo Civico, di recente restaurato e ampliato, è esposta una pietra miliare romana recuperata quasi intatta.

Se avrete farne, oltre alle note specialità siciliane, i locali vi consiglieremo il pane cotto nei vecchi forni a legna, la ricotta e il pecorino prodotti dai pastori corleonesi.

Onde di Alex Baroni

Eh si, che cosa vuoi,
tu nei pensieri miei
lo so ma come fai ancora un po’
vorrei che fossi sempre qui
qui con me
non posso farti a meno mai
e sta salendo su il sentimento qui
e poi pericolo, aspettami
sei tu che come sabbia sei qui con me
io sono il mare su di te.
Onde, sulle sponde dei tuoi fianchi
abbronzati vicino a me
onde piu’ profonde, se ti guardo
davvero, che cosa non farei
onde, piu’ rotonde, di quell’onda
che arriva e non torna mai
onde, sulle sponde.
Eh si, adesso si, diventa piu’ facile
lo so, che tu lo sai, come fa
sei tu che non ti fermi mai, qui con me,
io sono il mare su di te.
Onde, sulle sponde dei tuoi fianchi
abbronzati attaccati a me
onde, piu’ profonde, se ti guardo
davvero, che cosa non farei
onde, piu’ rotonde, di quell’onda
che arriva e non torna mai
onde, sulle sponde
sei tu che come sabbia sei qui con me
io sono il mare su di te, dentro te.
Onde, sulle sponde dei tuoi fianchi
abbronzati attaccati a me
onde, piu’ profonde, se ti guardo
davvero, che cosa non farei
onde, piu’ rotonde.
Onde, sulle sponde dei tuoi fianchi
abbronzati attaccati a me
onde, piu’ profonde, se ti guardo
davvero, che cosa non farei
onde, piu’ rotonde, di quell’onda
che arriva e non torna mai
onde, sulle sponde
come fai, come fai

Gianni Arcidiacono:L’OPERA DEI PUPI IN SICILIA.

A CELICO,SEMPRE PIU’ PUPO E SEMPRE MENO PUPARO!!!(IL WEBMASTER)

Prefazione

Quando nel 1881 Giuseppe Pitrè riceve l’incarico di selezionare per La II Esposizione Nazionale Italiana da tenersi a Milano, oggetti atti a rappresentare la Sicilia, si trova a dover operare una scelta tutt’altro che facile. L’unità d’Italia, infatti, aveva solo da due decenni riunito regioni tra loro di cultura eterogenee, che mal si conoscevano l’un l’altra e soprattutto con storia spesso davvero diversa. La Sicilia, in particolar modo dagli stessi connazionali era conosciuta poco e male eforse di questa terra ne sapevano di più i viaggiatori stranieri che nel Settecento erano arrivati nell’isola per completare la loro formazione classica, per conoscere le scoperte archeologiche che, dopo quelle di Ercolano e Pompei, grazie all’opera del Principe di Biscari e del Principe di Torremuzza, cominciavano a venire alla luce. La riflessione di Salvatore Salomone Marino volta a chiedersi cosa avessero in comune un contadino siciliano e un contadino piemontese per essere uniti sotto una stessa bandiera, quale lingua li accomunasse, quale tradizione li assimilasse, era una realtà davvero cogente.

Il medico Pitrè, dunque, si trova a dover operare una scelta non facile, che attua volgendo l’attenzione a quel patrimonio che giudicava più idoneo a raccontare il retaggio culturale isolano: gli attrezzi del mondo contadino e un carretto (“curioso strumento d’uso” che si trasformerà in seguito in souvenir dalle piccole dimensioni), con i laterali dipinti. Oggetti demandati a comunicare per un verso la comune matrice mediterranea, strettamente correlata all’economia del territorio (ciclo del grano, della vite e dell’ulivo), per altro oggetti/referenti che raccontavano l’universo sociale di riferimento di una comunità che, nell’attraversare una storia fatta di invasioni, sofferenze e silenzi, si era arricchita non solo di monumenti e di grandi testimonianze archeologiche, ma di testimonianze nascoste, più difficili da leggere.

Gli oggetti, infatti, che rimandano alla concezione di chi li ha pensati, realizzati,fruiti, sono segni di un universo culturale dove gli stessi sono espressione della maniera di intendere e vivere la quotidianità.

Il folklorista aveva scelto, nella sedimentazione culturale di cui era pregno il patrimonio tradizionale, quelle peculiarità che, viste spesso come curiosità, esprimevano i sa- peri di un retaggio storico custodito e racchiuso in oggetti, in capacità del fare, nell’oralità di cui la lingua vernacolare talvolta ne impediva la complessa struttura. Tra gli oggetti che Giuseppe Pitrè porta a Milano, però, non ci sono i pupi, che il medico scopre nel 1878 quando incontra l’insigne filologo Pio Raina autore de I Rinaldo o contastorie di Napoli, ma ne comprenderà il valore solo più tardi.

Pitrè, attento alla tradizione orale, non si era accorto di un tratto importante della cultura tradizionale siciliana, espresso dal teatro dell’opera. Dopo quell’ incontro, maturato in occasione del Simposio di studi tenuto a Palermo, Pitrè guarda questo patrimonio con occhi diversi. Ra/no — che gli aveva ventilato la possibilità dell’assegnazione di una cattedra nel concorso di Letterature neo latine comparate — nell’avvicinare Pitrè al mondo dei pupi napoletani gli aveva fatto scoprire la tradizione dell’opera dei pupi siciliani, dove la lingua della tradizione epica si prestava al raffronto con le letterature neo latine. Anche se lo studioso non otterrà quella cattedra — il raffronto è ritenuto troppo esile — la scoperta sarà determinante per la IV Esposizione Nazionale Italiana tenuta a Palermo nel 1891-92 dove i pupi, il teatro dell’opera e tutto il corredo segnico allo stesso legato vengono portati in mostra. Curiosi nella foggia e dalle manovre scattanti, intorno al teatro delle marionette con bastoni e fili si raccoglie una folla di visitatori che nulla sapeva della complessità di quella forma d’arte. Pitrè porta i paladini in mostra perché nel comprenderne il valore di documento, li ritiene veicolo comunicativo di una storia che, nata altrove, aveva trovato in Sicilia non solo un proprio alveo di diffusione, ma una propria facies espressiva.

I modelli culti di una tradizione, quando la società che li ha prodotti li considera obsoleti, vengono ripresi dagli strati più umili e adeguati al proprio universo di rimando, per caricare personaggi e azioni di segni e di significato che trascendono il vecchio per ricoprirne di nuovi. Valori da leggere come riscatto sociale, forza, coraggio, lealtà, vittoria insperata, giustizia, onore difeso, virtù salvata dall’oltraggio. In questo percorso un ruolo fondamentale ricoprono gli operanti (con il termine pupari si intende piuttosto coloro che realizzano i pupi) e i pittori di carro che hanno assorbito e plasmato temi narrativi e soggetti figurativi per veicolarli nell’orizzonte ideologico e semantico della cultura di fruizione. Scriveva Antonio Pasqualino: “I pupi esprimono le speranze, le lotte, le vittorie e le sconfitte dell’esistenza, in un arco che si muove dalla rassegnazione alla rivolta”.

Operanti, cantastorie, pupari, pittori di carro, di cartelloni e di scene condividevano ideologie e valori dei destinatari dei loro prodotti e dei committenti di carro, di tavolette votive, di icone su vetro, attuando così una comunicazione attraverso trasposizioni iconografiche che solo in tempi recenti sono stati ritenuti espressioni d’Arte.

La cultura è un fenomeno dinamico al cui interno, si è detto, le classi sociali continuamente si scambiano l’un altra i propri retaggi. Così è accaduto che i temi della letteratura cavalleresca francese del Medioevo siano stati ripresi tra il XV e il XVI secolo da autori come Luigi Pulci che scrive Morgante, da Matteo Boiardo Orlando innamorato e da Ludovico Ariosto Orlando furioso. Temi e personaggi sono rispolverati per una nascente borghesia che cerca di affermare il proprio status attraverso un mondo assunto a modello di nobiltà e di eroismo. Quando nell’Ottocento si ha l’irruzione di ceti popolari nella storia “assistiamo, come già nel Rinascimento all’appropriazione da parte di ceti subalterni alla cultura della classe egemone”( Buttitta.) Ma come giungono in Sicilia temi epici nati secoli prima in Francia?

Soggetti e temi cavallereschi, adottati tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo in Sicilia, vanno ricercati nella diffusione di pubblicazioni a dispense, libretti, periodici,fogli volanti, stampe popolari provenienti dalla Francia (Images d’Epinal) e la cosiddetta letteratura muricciolaia dove si fondono i due generi letterari francesi medievali: il genere epico (Chanson de geste) e il romanzo arturiano. Nel privilegiare il primo con le gesta e le imprese dell’imperatore Carlo Magno, i testi degli operanti narrano le guerre tra cristiani e saraceni, le ribellioni dei baroni contro le vessazioni del sovrano, ma del secondo sottolineano gli ideali cortesi che caratterizzano i comportamenti degli eroi verso la propria dama.

La felice stagione conosciuta dai poemi cavallereschi, grazie alla diffusione di edizioni economiche, rende possibile la conoscenza, l’adeguamento e la rielaborazione di materiali e testi che vanno a costituire il repertorio di cantastorie (testo e musiche), conta- storie (cunto) e di opranti, oltre che di pincisanti e di pittori di carro e cartelloni. Questi li trasformano, con revisioni e traduzioni, in canovaccio atto a esprimere l’orizzonte ideologico di quella cultura popolare che nel XIX secolo conosce un risveglio europeo sotto la spinta delle affermazioni delle identità nazionali. Un unico filo, d’altronde, legava i pittori di masciddara (gli scacchi dei carretti) agli opranti e ai cantastorie sia per la derivazione della materia narrativa, sia per la forte vis espressiva dei tratti, delle parole, dei messaggi di rimando. Materia narrativa trasformata in comunicazione che, nel mettere in campo tutte le tecniche di una operosità e di un patrimonio tradizionale si trasformava in strumento di informazione e ricomposizione sociale su temi e valori della propria appartenenza.

Mentre i cartelloni e i fondali di teatro richiamano l’attenzione del pubblico su i luoghi dell’azione — foreste, campi di battaglia, accampamenti, corti — sono i personaggi dell’opera con le gesta eroiche, gli scontri furibondi a esplicitare i gusti e gli orientamenti del gusto popolare. Eroi mitici riportati a una quotidianità che faceva conservare loro la magica luce del mito. “Ciascuno di essi era fl, sulla sponda, sulla scena, sui cartelloni — scrive Giuseppe Cucchiara — perché ha compiuto o deve compiere qualcosa d’eroico, di soprannaturale”.

Una rappresentazione della realtà in chiave narrativa in cui verità e leggenda fondono, in un unico valore, storie all’interno della dimensione del mito. Nella cultura popolare, infatti i pupi appartengono e si proiettano nell’espressione comunicativa simbolica, dove trovano soluzione le contraddizioni del presente.

L’opera dei pupi rimarrebbe incomprensibile senza la forza espressiva della tradizione orale che nel coniugare un testo culto con le ideologie e di valori del fruitore esita in una comunicazione che si esplicita attraverso il segno grafico (i cartelloni), la gestualità (le movenze dei paladini), l’oralità (i testi rielaborati e recitati), j suoni (il rumore delle armi, il tumulto delle battaglie realizzato con la martellante cadenza dei tacchi delle scarpe dell’operante sulle tavole dj legno del teatro).

Un’operazione davvero difficile, dove episodi salienti e drammatici di racconti dovevano dialogare con modelli di comportamento, valori, apparati simbolici di riferimento.

Chi ancora oggi si trova a guardare uno spettacolo è preso dall’azione dei personaggi, dal succedersi delle scene. Non vengono colte invece, quelle strutture portanti dell’impalcatura teatrale di genere che per la sua resa segue regole precise e una grammatica propria. I caratteri della semplicità, che connotano ogni manifestazione artistica della cultura popolare, infatti, nascondono un ben più complesso sistema strutturato in tempi, azioni e verbalità mai lasciati al. caso. Il teatro dell’opera non può sfuggire a queste regole, altrimenti il costrutto non potrebbe esitare nell’unicità dell’insieme.

L’operante, dopo aver fatto una selezione tra i differenti repertori traduce in quadri incisivi scene ed episodi che, accompagnati da un repertorio orale, affiancano azioni e movenze in un unico universo interpretativo, volto a comunicare quelle emozioni care al pubblico, quei valori propri della cultura popolare. Sentimenti forti e semplici che rendono i confini tra realtà e finzione un filo esile,fragile e sottile.

L’apparente improvvisazione del dialogo non è mai tale, perchè un patrimonio di frasi fatte, precostituite, consente agli operanti di mettere in scena episodi del repertorio senza dovere provare l’intera impalcatura scenica.

Perché si attui un processo comunicativo tra operante e spettatore è necessario che vi siano dei codici che nel caso dell’opera, da Antonio Pasqualino sono stati identificati in: codice linguistico con frase stereotipe, tipologie di personaggi, tipologia di luoghi,

rumori, musica, luci, movimenti e gestualità. Codici senza i quali il teatro non costituirebbe quell’unicum culturale in cui esita. Spettacolo e messaggio possono essere decodificati perché emittente e ricevente possiedono la stessa weltanschaung (maniera di intendere il mondo e la vita).

Indispensabile per la costituzione di un teatro delle marionette è ciò che in gergo viene chiamato dotazione. La dotazione di un teatro, per poter procedere ai diversi spettacoli, deve contemplare un centinaio di pupi, marionette manovrate dell’alto con bacchette rigide e fili. Di questi la metà devono essere paladini armati e l’altra metà deve essere costituita da re, regine, notabili (spesso di dimensioni più grandi degli altri) dame, animali fantastici, draghi, cavalli alati, angeli, giganti,fate. Un numero considerevole, inoltre, dj teste necessita di poter sostituire i personaggi che muoiono durante i combattimenti.

I personaggi sono facilmente identificabili non solo per gli abiti, come ad esempio il re che indossa il mantello, la corona e la ghirlanda d’oro sulla lucente armatura, ma per quelle che sono definite teste di carattere. Le teste di carattere sono quelle che dai tratti somatici lasciano leggere immediatamente i personaggi che raffigurano. Così Carlo Magno, re Manfrmno, Orlando, il saraceno hanno tratti propri che il pubblico riconosce immediatamente. La testa di carattere comporta che sia uno scultore a realizzarla passando dalla sbozzatura del pezzo di legno, alla definizione marcata della sagoma degli occhi, delle labbra, del naso. A lavoro ultimato alla testa viene applicato il ferro principale di manovra e all’estremità di questo posto un manico di legno che serve da impugnatura.

La costruzione di un pupo necessita di differenti professionalità, ognuna delle quali imprime un ‘impronta fondamentale alla resa finale.

Una volta ultimata, la testa è pronta per essere dipinta. Al principio del secolo scorso la pittura della testa era meticolosa e si conformava allo stile delle statue dei santi. Oggi si presenta più rapida e orientata a espressioni più forti. I colori adoperati a tempera sono in seguito ricoperti da una vernice ad olio.

Nella costruzione di un pupo particolare attenzione è riservata all’armatura, Colui che la realizza ha spesso un lungo apprendistato nella bottega del battiloro, l’argentiere, la più nobile tra le maestranze e la più potente della città. I pezzi di lamiera, segnati facendo uso dei modelli, sbalzati e rifiniti si trasformano in simboli di prestigio e di potere. Segni caratteristici vengono impressi sulle armature così da consentire allo spettatore di riconoscere i personaggi principali: il leone per Rinaldo, la croce e l’aquila per Orlando, il giglio per Carlo Magno e la M per Gano di Magonza.

La luccicante bellezza delle armature, la ricca decorazione fatta a sbalzo con l’applicazione di ornamenti di metallo di colore differente, il fragore che accompagna ogni movimento sono elementi fondamentali del fascino esercitato del teatro siciliano delle marionette. Ogni artista contraddistingue ciò che realizza in maniera tale da poter attribuire ogni manufatto a questa o a quella bottega. Orgoglio di maestria esecutiva caratterizzava gli artigiani più bravi e più attenti.

Completata l’ossatura (gambe e braccia realizzate dal falegname) , si passa e eseguire la faroncina, la gonnellina decorata con galioni, la cui fattura può diventare molto elaborata con inserimenti di stoffe di diverso colore. Alcune parti vengono cucite direttamente sull’ossatura in modo tale da ricoprire il ginocchio e la coscia. L’imbottitura, che ingrandisce generosamente i fianchi, serve da supporto alla corazza. I gambali,fissati attraverso le trafitte in appositi anelli, la corazza, lo scudo e il ferro della spada rendono i paladini pronti ai combattimenti che li aspettano. Alla fine dell’Ottocento il teatro culto avvia la moda di annunciare le rappresentazioni attraverso un cartellone pubblicitario esposto giorni prima dell’evento, dove è raffigurata la diva del momento e il titolo di ciò che sarà rappresentato. Si tratta spesso di cartelloni acquerellati, che segnano la nascita della réclame. Non diversamente avviene nel teatro dell’opera dei pupi, dove lo spettacolo è annunciato con l’esposizione,fuori dal teatro dove si terrà la rappresentazione, di cartelloni dipinti con le scene più salienti, antenate delle più tarde affiches cinematografiche esposte, in genere, in corredo di sei. I “supporti figurativi dell’opera”, i cartelloni, presentano una differenza tipologica tra le due aree di diffusione: orientati verticalmente e suddivisi in più riquadri (scacchi), caratterizzano il palermitano e la Sicilia occidentale, disposti orizzontalmente, e sostanziati da una sola scena o quadro si offrono nel catanese e nella Sicilia orientale (Rigoli).

Il successo immediato è dato dal fatto che il messaggio veicolato attraverso immagini raggiunge anche un pubblico di analfabeti. Inoltre, più delle parole scritte, le illustrazioni penetrano nella vita del mondo popolare e attraverso le vicende quotidiane ne accompagnano ansie e speranze.

L’eloquenza del linguaggio visivo e l’immediata decodifica con cui può essere colta fanno della reclame uno strumento comunicativo di grande efficacia. Molti di questi cartelloni, arrivati sino ai nostri giorni, hanno consentito di cogliere il pregio artistico e di taluni la raffinata fattura.

Se nello spettacolo dell’opera, caratterizzato dall’apparente semplicità ed elementarità, nulla è lasciato al caso, anche sala e palcoscenico,fondali di scena, siparietto e fondino — su cui si staglierà la figura del pupo annunziante (il perdomani) — contribuiscono a creare quell’ atmosfera irreale dove un quotidiano di fatica si dissolve nel presente carico di emozioni positive.

Gesti, suoni, musicalità del dialogo, ritmicità del racconto sono tutti elementi essenziali alla coreografia dell’insieme nel teatro delle marionette. Sequenze, posture, oscillazioni del corpo, alzate di scudo, combattimenti, scontri nel caratterizzarsi in modi differenti esprimono le diversità delle botteghe dove la varietà del movimento finisce per denunciare anche l’appartenenza areale della tradizione (Sicilia orientale o occidentale). Costanti, invece, sono la conversazione prima del combattimento, la presentazione per il riconoscimento, l’epilogo glorioso.

Nel teatro dell’opera, l’armonia dell’unicità delle diverse competenze costruttive confluiscono nell’animazione del paladino. Dell’operante il pubblico non sentirà che la voce, perché la sua figura rimarrà sempre nascosta durante lo spettacolo.

La magia del teatro popolare dell’opera dei pupi è racchiusa nell’evento che si compie davanti agli spettatori senza che se ne scorga colui che opera la manovra, la cui maestria consente di trasformare in armonia le diverse competenze.

Ieri, nel teatro dell’opera,figure mitiche si trasformavano in modelli ideali, dove ansie e aspirazioni di un’intera collettività si placavano nel riscatto finale dato dalla giustizia e dalla liberazione. Nei pupi dalle rigide movenze, dalle esasperate caratterizzazioni dei tratti somatici, nelle ingenue e insperate risoluzioni i ceti meno abbienti trovavano non il teatro d’evasione, ma quella umanità che spesso la vita quotidiana, le differenze di status, la differenza ideologica impediva di trovare.

Oggi, abituati al disincanto con cui ogni cosa viene vissuta, i fruitori di quella cultura popolare sembrano essersi allontanati da ciò che ieri costituiva polo d’attrazione, luogo di incontro e di ritrovata composizione sociale, per rivelarsi nella coscienza collettiva, non solo per coloro che ne sono stati i detentori, testimonianza di un retaggio culturale pregno di storie lontane, apprezzato da studiosi e non solo da folkloristi. La cultura colta ha guardato con distacco il teatro dell’opera che aveva saputo inventare un linguaggio proprio: non siciliano, non italiano ma un insieme dai tono saccente, dal “gergo eroicomico” per dirla con Antonio Pasqualino, con l’altisonanza del detto proprio di colui che è nobile di rango. Le guide della seconda metà dell’Ottocento tacciono su questa “curiosità locale”, ad eccezione di Enrico Onofrio che nella sua dedica una pagina a tratteggiare l’aspetto sociale della fruizione.

Oggi il teatro dell’opera dei pupi vive una nuova stagione: sembra rinnovata l’attenzione verso la smagliante patina del passato, attenzione volta a restituire dignità a un sapere antico, dove l’operante era un mestiere assimilato in anni di apprendistato, che esigeva un dialogo continuo tra diverse professionalità, che impegnava un piccolo capitale per la dotazione del teatro, che comportava una programmazione lavorativa scandita in giorni e settimane di rappresentazioni. Il teatro dell’opera sappiamo che ha consegnato un prodotto d’Arte, capace di veicolare emozioni e come tale carico di valore, di segno, di unicità di tecnica, di capacità esecutiva. In altri termini di ciò che viene racchiuso nel termine e nel concetto di cultura tout court, senza altri aggettivi.

Lavori come L’Opera dei pupi di Sicilia di Gianni Arcidiacono favoriscono la conoscenza di un tratto culturale capace di comunicare lo spessore di una storia e di una tecnica a torto considerate minori. L’attenta e minuziosa compulsazione di fonti storiografiche e iconografiche, nel consentire all’autore di ricostruire scientificamente generi letterari e tipologie areali, non impediscono di fare di questo lavoro non solo strumento di facile lettura per un più vasto pubblico, ma anche strumento per accedere al mondo dell’epica, filtrata dalla tradizione cavalleresca dell’opera. La capacità di Gianni Arcidiacono di raccontare — come nella fabulazione del teatro popolare — vicende, azioni e retaggi con immediatezza e semplicità, invita il lettore a volerne sapere di più e a proseguire nel ritmo serrato delle notizie arricchite dalla fitta raccolta di immagini d’archivio.

Spesso, e questo ne è proprio il caso, l’amore di uno studioso verso il tema che egli privilegia si trasforma in tassello che va ad aggiungersi al più vasto mosaico delle conoscenze delle manifestazioni umane, dove — come accade nell’opera dei pupi — nella trasposizione scenica, nelle vicende dei personaggi, nella caratterizzazione della storia si proiettano tutti i valori di una società, i suoi sogni, le suoi illusioni, ma anche tutta la forza per continuare a combattere inesorabilmente le battaglie del suo quotidiano.

RITA CEDRINI

Antropologa

Università degli studi di Palermo

VALLELUNGA OLE’!!

La Madrice in restauro:

La Madrice restaurata:

U pumadoru siccagnu:

L’astrattu:

I Fichi secchi e le mandorle ad asciugare:

Il Pergolato sotto casa:

U Signuri di Bilici:

Dedico queste foto a tutti gli amici e compaesani emigrati che hanno visitato e visitano il mio blog:dalla Germania,Francia,Belgio,Nord Italia (Piemonte-Liguria-Lombardia-Veneto),dalla Toscana e dal Lazio,nonchè dalla Sicilia( Sciacca-Palma di Montechiaro-Ribera-Montevago-Menfi-da alcune località delle provincie di CT e SR…).A tutti voi il mio cordiale e sincero saluto.Lasciate,se volete,un segno del vostro passaggio nel libro d’oro.Grazie!!

Alta marea di Antonello Venditti

Autostrada deserta
al confine del mare
sento il cuore più forte di questo motore
Sigarette mai spente
sulla radio che parla
io che guido seguendo le luci dell’alba
Lo so lo sai
la mente vola
fuori dal tempo
e si ritrova sola
senza più corpo
nà© prigioniera
nasce l’aurora
Tu sei dentro di me
come l’alta marea
che scompare riappare portandoti via
Sei il mistero profondo
la passione l’idea
sei l’immensa paura che tu non sia mia
Lo so lo sai
il tempo vola
ma quanta strada
per rivederti ancora
per uno sguardo
per il mio orgoglio
quanto ti voglio
Tu sei dentro di me
come l’alta marea
che riappare scompare portandomi via
Sei il mistero profondo
la passione l’idea
sei l’immensa paura che tu non sia mia ,,,
Lo so lo sai
il tempo vola
ma quanta strada
per rivederti ancora
per uno sguardo
per il mio orgoglio
quanto ti voglio ,,,,,,,,
quanto ti voglio ,,,,,,,,

Ad Eugenio:er meglio,er piu’….!!!


Storie silenziose e quasi dimenticate di Sicilia,di Giuseppe Oddo.

Prefazione

“Cultura in frantumi” è l’espressione che Pippo Oddo usa per definire ciò che rimane, nel ricordo almeno, di quella che una volta era la cultura siciliana, vissuta e interpretata in tutta la sua compattezza e complessità. Basata su strati sociali diversificati, ma non in apparente conflitto (dalla nobiltà assenteista delle campagne ai braccianti, dai gabelloti ai burgisi, per limitarci alla sola agricoltura latifondista), in essa confluivano molteplici componenti storico-culturali, tutte regolarmente assorbite nel corso dei secoli (da quella greca alla latina, dalla bizantina all’araba, per non dire di quella europea,francese e spagnola nella fattispecie); sul piano delle tecnologie produttive il quadro era definito da realtà, solitamente definite dai moderni “arcaiche e primitive” che, pure, avevano assicurato nel tempo continuità di crescita all’economia isolana.

Il contesto delineato ha resistito molto più a lungo di altre regioni dell’Occidente europeo: la prima e la seconda rivoluzione industriale non hanno avuto occasioni di svolgersi, né prodotto effetti socio-economici di sorta nei Mezzogiorno d’Italia, al di quà di Eboli: ben a ragione Carlo Levi poteva ribadire perciò che Cristo si era fermato a quella latitudine. Ha resistito, però, non per una forza endogena che sosteneva l’economia o la società meridionale, o per condizioni oggettive che intervenivano a vivificarla, ma solo per una sorta di forza inerziale.

Bisognerà aspettare gli anni Cinquanta del secolo appena trascorso perché il verificarsi di determinati fenomeni mettesse in crisi quella forza: prima con la grande illusione suscitata dalle lotte contadine contro il latifondo ancora imperante (nonostante fosse stato abolito, ufficialmente, nel 1812, ovvero centotrenta anni prima);poi per la veloce ripresa di una massiccia emigrazione verso il Belgio, la Francia, la Germania; poi ancora per il diffondersi di quella che i demo grafi chiamano metaforicamente “mobilità interna” ma che non ha nulla di diverso dall’emigrazione senza ritorno verso le Americhe. Scorrendo i dati dei Censimenti successivi al secondo dopoguerra, non è difficile scoprire come tra il 1951 e l’8], almeno, i paesi si dissanguano, perdendo chi il 15, chi il 35 e chi il 50% della popolazione residente. I quartieri urbani, a loro volta, si spopolano dei residenti autoctoni e si ripopolano periodicamente di soggetti, strati sociali e gruppi etnici via via diversi nel trascorrere dei decenni: quelli che una volta erano contadini divengono operai in Germania o a Torino, minatori in Belgio e magazzinieri a Milano, per non dire degli uscieri negli enti pubblici e dei portinai nei palazzi di città; i pastori, a loro volta, divengono operai forestali o vedette antincendio, smarrendo gli uni e gli altri i loro antichi saperi per adattarsi a lavori subalterni e alienanti.

Quando viene meno la materia prima (l’uomo, appunto) la cultura siciliana, pur resistendo la sua grande complessità storica e sociale, perde la sua ragion d’essere, la sua funzione primaria (assicurare sopravvivenza rispondendo a bisogni che sono insieme biologici, sociali e spirituali): pare destinata così a scomparire senza lasciare iraccia alcuna. A guardar bene, trent’anni dopo, scopriamo un fenomeno di cui solo ora cominciamo a comprendere il profondo significato. quella cultura resiste, e anzi si rafforza, nella sua dimensione memoriale. La cultura perde il suo valore d’uso e ne acquista uno che possiamo dire simbolico: saldata nella sua dimensione originaria, si ripropone sotto forma di memoria. I contadini tornano nei loro paesi e scoprono di essere depositari di saperi, ricordi, informazioni di prima mano: attività che loro avevano a lungo praticato e che, negli anni dello sviluppo economico (ma non del progresso, per dirla con Pasolini) avevano messo da parte, nella speranza di facilitare la loro integrazione nel Nord del mondo. Una identità rinnegata che si avvia ad essere ritrovata dunque e questo il complesso fenomeno,che stiamo registrando da qualche anno a questa parte e che sta producendo effetti di richiamo in settori prima impensabili, come quello del turismo culturale.

A questo punto si fa forte l’esigenza di rintracciare le componenti ormai disperse o in via di smarrimento delle culture locali della nostra Isola: l’esigenza dunque della ricerca, soprattutto di quella condotta da appassionati cultori delle memorie patrie, come si diceva una volta, e che oggi è più corretto porre su una dimensione regionale. Sono loro, prima e forse meglio dei ricercatori professionali che possono svolgere un’opera del genere con ricchezza di auspicabili risultati. Non è possibile richiamare alla memoria saperi e conoscenze, se informazioni di prima mano non vengono ricercate, documentate e interpretate. La memoria va con gli uomini che ne sono depositari, ma vien meno quando quegli uomini scompaiono se non hanno avuto tempo e modo di trasmetterla a chi viene dopo di loro: oralmente, come avveniva in passato o per iscritto A cinquant’ anni dal verificarsi della “mutazione antropologica” del dopoguerra molti uomini di allora sono scomparsi o stanno scomparendo: e con loro scompaiono i saperi e la conoscenze, a meno che quelle memorie non si trasformino in storia scritta sui libri o registrata sui sempre più moderni supporti informatici.

Il lavoro di scavo che Pippo Oddo conduce ormai da anni si colloca in questa direzione. È quanto egli sta meritoriamente facendo, ricco dell’esperienza accumulata negli anni del suo operare sindacale nelle più diverse piaghe dell’isola:

ora ne fa tesoro per il grande lavoro di raccolta e documentazione dei materiali relativi ad una storia che gli storici di mestiere hanno misconosciuto per un tempo troppo lungo. In una ormai lunga serie di saggi e volumi, l’autore di queste Storie silenziose interroga, ricorda, ricostruisce e annoda i fili della memoria della cultura siciliana nelle sue più diverse componenti. Basta scorrere l’indice del volume che qui presentiamo, per farsene un’idea, e per chi scrive è un onore poter rilevare tutto questo e darne atto all’autore e ai suoi estimatori, che sono tanti.

Viene in primo luogo la ricostruzione di tratti della cultura materiale dell’isola che non sono noti ai più e sempre meno lo saranno, man mano che scompaiono i protagonisti di quella cultura: l’estrazione dello zolfò e la coltura del baco da seta, tra le altre, indagate nei loro aspetti sociali più minuscoli e quasi invisibili. Vengono poi tratti del paesaggio dell’Isola: dalle grotte, in cui intere famiglie passavano calde estati e rigidi inverni, alle capanne di paglia, costruite al centro dei latifondi e annualmente riattate, dai carrubi delle colline iblee alle estese piantagioni di fichidindia.

L’autore chiama “strategie di sopravvivenza”, e a ragione, la serie infinita di azioni tese in qualsiasi modo a rispondere a quelli che l’antropologo Bronislaw Malinowski chiamava i “bisogni primari” cui la cultura era chiamata a rispondere, in essa identificando la sua funzione più profonda. Pippo Oddo, con il suo occhio attento e addestrato da una lunga esperienza di lavoro, sa indagare quelle strategie e sa farne emergere le componenti più preziose, perché poco o per nulla note, anche quando si occupa di “vie dell’olio” (modo moderno di promuovere questo prodotto tipicamente mediterraneo,facendone conoscere le modalità di lavorazione).

Ma tutto questo non basta: la cultura è anche risposta a bisogni integrativi (come usava denominarli l’antropologo polacco richiamato) e da qui deriva l’attenzione riservata ai momenti cerimoniali e festivi. L’autore, anche in questo caso, raccoglie e offre al lettore ricche e articolate documentazioni di rituali festivi o poco conosciuti nella letteratura etnografica o noti, ma dai dettagli difficilmente identificabili nelle molteplici variazioni sociali e geografiche: le tavole di San Giuseppe, i cerimoniali della Settimana Santa e la festa autunnale di San Martino, ma vista in una sua particolare declinazione.

È la dimensione sociale dei fenomeni culturali a richiamare più di tutte le altre l’attenzione dell’autore: con le sue concrezioni nel paesaggio isolano (in primo luogo le dimore aristocratiche), le raffinatezze culinarie (il gelato) fino a giungere alla grande varietà dei dolci con cui si conclude quest’insieme di “storie silenziose” di Sicilia. Quasi dimenticate, è vero, ma destinate a vivere nella memoria e a essere recuperate per svolgere nuove funzioni: non più di tipo primario (dirette cioè ad assicurare la sopravvivenza di strati sociali di varia collocazione), ma di tipo simbolico. Sono le funzioni massimamente valorizzate nelle nuove forme di turismo culturale che si muovono tra opere d’arte minore diffuse nei paesaggi rurali, da una parte, e prodotti gastronomici delle più diverse specie, dall’altra.

Il successo riscosso dalle aziende agrituristiche negli ultimi anni, e di cui l’autore ha avuto modo di occuparsi con risultati lusinghieri, può costituire una risposta ai nuovi bisogni: l’offèrta di risposte adeguate, e non improvvisate, ha avuto e potrà ancora avere in futuro ricadute su un piano che solo in apparenza sembra estraneo alla cultura: il piano economico e produttivo. Fare cultura è, da questo punto di vista, creare le condizioni per produrre economia e assicurare una migliore qualità della vita a coloro che continuano a dedicarsi alle attività rurali secondo diverse modalità.

Se un merito ancora possiamo riconoscere al lavoro di Pippo Oddo è proprio questo: possedere le competenze necessarie perché il richiamo alla cultura popolare non si risolva in un richiamo nostalgico al “come eravamo “, ma divenga uno sprone a recuperare quel mondo in maniera sapiente, facendone strumento di promozione umana e sociale.

Mario Gandolfo Giacomarra

Divinamente Erice!!!

Erice, l’Iruka dei Sicano-elimi, l’Erech dei Punici, l’Eryx dei Greci e dei Romani, il Monte San Giuliano dei Normanni, volgarmente chiamata «u’ Munti», è capoluogo di comune già fra i più estesi di Sicilia ma ora, quanto ad ampiezza territoriale, notevolmente ridotto in conseguenza della costituzione in comuni autonomi di alcune delle più grosse ex-frazioni: San Vito Lo Capo, Custonaci, Buseto-Palizzolo, Paparella-San Marco (Valderice). La cittadina è situata sulla vetta del monte omonimo che presenta, da occidente (Porta Trapani) e da tramontana (Porta Spada) ad oriente (Balio), un vasto altopiano triangolare, che raggiunge la massima altezza di 751 metri sul livello del mare nel picco cilindrico su cui si aggrappa il Castello Normanno. Fino allo scorso secolo l’errata interpretazione di un passo di Polibio — accettata, fra tanti, da Leandro Alberti e, in epoca più recente, dallo Smith — aveva indotto in molti studiosi la convinzione che l’attuale centro abitato sorgesse sull’area già appartenente al «thémenos» del santuario della dea ericina (che si presumeva racchiuso dalle mura dette «ciclopiche»). La nuova città sarebbe stata fondata — in epoca imprecisabile- dagli Elimi che, per stanziarsi sulla vetta, avrebbero abbandonato l’antica loro sede, ubicata sul colle di sant’Anna secondo l’Alberti e lo Smith, nella valle dei «Cappuccini» secondo l’Holm.

L’erroneità di tale ipotesi — a lungo prevalsa — deriva dall’assoluto difetto di concordanza fra le fonti letterarie ed i risultati di una anche sommaria indagine archeologica: nelle località indicate manca, poi, ed è sempre mancata, finanche la memoria di tracce di abitazioni, che pur si sarebbero dovute trovare in abbondanza.

Il Freeman ed il Pais, per tali ragioni, posero l’antica Erice esattamente nel sito attuale ed il Pagoto, insigne epigono di una lunghissima e nobile tradizione di studio e di ricerca, dimostrò questa ultima tesi con chiarissimi e definitivi argomenti e con la retta interpretazione del passo polibiano che aveva dato origine ad un vero e

proprio equivoco. La gita ad Erice è una delle tappe più motivate tra i vari siti e città d’arte della Sicilia.

Il classico monte si erge maestoso e solitario a nord-est, di Trapani ed è formato da regolari e caratteristiche stratificazioni giurassiche.

Nitida e silenziosa, la cittadina conserva tuttora il suo aspetto medievale, nonostante qualche deplorevole manomissione che ha deturpato alcune zone in maniera pressoché irrimediabile.

Gli edifici che danno sulle strade, selciate a tipici riquadri, presentano spesso avanzi di architettura quattrocentesca e, più frequentemente, cinque e seicentesca.

Quasi ogni casa ha poi un cortile, secondo una millenaria usanza, viva ancora in moltissimi paesi mediterranei.

Nel cortile si espande la vita intima della famiglia, vita la cui eco assai di rado giunge sulla strada.

Chiuso da un muro privo di aperture che dona alla viuzza ericina una inconfondibile fisionomia di austero raccoglimento, il cortile, oltre a dare vita a singolari consuetudini giuridiche vigenti nel caso di comproprietà, assicura la più completa intimità ad ogni manifestazione di vita familiare. In Erice ben difficilmente si vedono ragazzi intenti al gioco per le strade, mai biancheria distesa su corde tirate fra i muri esterni, né persone sedute fuori l’uscio di casa, a conversare o a lavorare.

È proprio il cortile la ragione prima dell’aspetto austero e dignitoso della cittadina che, ripetiamo, consente alla famiglia di conservare la sua intimità, senza darsi in pasto alla curiosità dei passanti.

C’è sempre una donna, sul far dell’alba, che lo scopa con meticoloso senso di pulizia: quello stesso che la sospinge, anche, a pulire il tratto di selciato della strada antistante alla soglia.

Mentre nella via domina il grigio e il verde nerastro del muschio, dentro il cortile regna prepotente la policromia dei garofani, delle rose, delle ortensie e delle campanule che si sviluppano rigogliosamente all’ombra di un pergolato o fra i viticci di una rampicante. Né, quasi mai, vi manca un albero, amareno o nespolo, melograno o spino. Alberi, fiori ed aiuole, insieme con il massiccio lavatoio di pietra («pila»), con il collo della cisterna del pozzo sorgivo (talvolta recante, in bassorilievo, un’arme gentilizia), con la scaletta che conduce al piano di sopra protetta dal muretto in conci di tufo disposti a pieno e vuoto, sono gli elementi essenziali del tradizionale cortile ericino. L’inverno ericino è nebbioso ed umido, ma non eccessivamente rigido per il prevalere dei venti del sud.

Nei mesi estivi si gode un clima eccellente, che attira assai notevole pubblico di villeggianti e di turisti.

Camminando per le sue stradine,odi l’imperante silenzio,rotto solamente dal vocio dei turisti intenti ad ammirare vetrine pieni di dolci di mandorle,frutta di martorana,tappeti lavorati a mano,ceramica e vasellame.

Dall’alto di Erice è possibile ammirare un panorama mozzafiato:Trapani e le sue saline,le isole Egadi, Valderice e tutto il golfo di Castellammare.In giornate splendide è possibile persino ammirare l’Etna.

Erice possiede un grandissimo patrimonio artistico-monumentale di notevole spessore,costituito da 10 chiese principali tra cui spicca il Real Duomo

parecchie chiese chiuse,ex-chiese o private.

Forte è la devozione degli ericini alla Madonna di Custonaci,loro celeste patrona,la cui festa viene celebrata annualmente il 27 di Agosto.

Absorbeart, Preghiera di San Francesco

Absorbeat

Rapisca, ti prego, o Signore,
l’ardente e dolce forza del tuo amore
la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo,
perché io muoia per amore dell’amor tuo,
come tu ti sei degnato morire
per amore dell’amor mio.

Mafia:dalla Mattanza a Provenzano di Costantino Margiotta.

in http://terradinessuno.wordpress.com

http://terradinessuno.wordpress.com/2008/08/26/mafiadalla-mattanza-a-provenzano-di-costantino-margiotta/

Luce gentile del Card. John Henry Newman

Luce gentile

(Lead, Kindly Light)

Conducimi tu, luce gentile
conducimi nel buio che mi stringe;
la notte è scura la casa è lontana,
conducimi tu, luce gentile.

Tu guida i miei passi, luce gentile
non chiedo di vedere assai lontano
mi basta un passo solo il primo passo
conducimi avanti luce gentile.

Non sempre fu così, te ne pregai
perché tu mi guidassi e conducessi
da me la mia strada io volli vedere
adesso tu mi guidi luce gentile.

Io volli certezze dimentica quei giorni,
purché l’amore tuo non m’abbandoni
finché la notte passi, tu mi guiderai,
sicuramente a te luce gentile.

Conducimi tu, luce gentile
conducimi nel buio che mi stringe;
la notte è scura la casa è lontana,
conducimi tu, luce gentile.

(Cardinale John Henry Newman, Sicilia 1832)

 

L’aurora di Eros Ramazzotti

Io non so se mai si avvererà
uno di quei sogni che uno fa
come questo che
non riesco a togliere dal cuore
da quando c’è…
forse anche questo resterà
uno di quei sogni che uno fa
anche questo che
sto mettendo dentro a una canzone
ma già che c’è-intanto che c’è
continuerò-a sognare ancora un po’…
Sarà sarà l’aurora
per me sarà così-come uscire fuori
come respirare un’aria nuova
sempre di più-e tu e tu amore
vedrai che presto tornerai
dove adesso non ci sei.
Forse un giorno tutto cambierà
più sereno intorno si vedra
voglio dire che
forse andranno a posto tante cose
ecco perché
ecco perché-continuerò
a sognare ancora un po’
uno dei sogni miei…
quello che c’è in fondo al
cuore non muore mai
se ci hai creduto una volta
lo rifarai
se ci hai creduto davvero
come ci ho creduto io…
sarà sarà l’aurora
per me sarà cosi
sarà sarà di più ancora
tutto il chiaro che farà…

Non ti scordar mai di me di Giusy Ferreri

Se fossi qui come questa sera
sarei felice e tu lo sai
Sarebbe meglio anche la luna
ora più piccola che mai
Farei anche a meno della nostalgia
che da lontano torna per portarmi via
Del nostro amore solo una scia
che il tempo poi cancellerà
e nulla sopravviverà.Non ti scordar mai di me
di ogni mia abitudine
in fondo siamo stati insieme,
e non è un piccolo particolare.
Non ti scordar mai di me
della più incantevole
fiaba che abbia mai scritto.
Un lieto fine era previsto e sai gradito.

Forse è stata un po colpa mia
vedere forse per l’eternità
A volte tutto un po si consuma
senza preavviso se ne và.

Non ti scordar mai di me
di ogni mia abitudine
in fondo siamo stati insieme,
e non è un piccolo particolare.

Antonio Paolucci:Il Duomo di Monreale nelle tavole di D.B.Gravina.

Intervento del Prof.Paolucci

alla presentazione del volume

“I Mosaici del Duomo di Monreale nelle tavole di Domenico Gravina”

dedicato alla memoria di Mons. Cataldo Naro

nella ricorrenza del 75 dell’editrice Lussografica di CL

Caltanissetta, 23 maggio 2008

Eminenza,Eccellenze,Sig.Sindaco,Signore e Signori,

il mio compito è quello di parlare di un libro e del monumento che quel libro illustra e dell’uomo,Cataldo Naro, che quel libro ha voluto e quel monumento ha servito,amato ed abitato nella qualità di Vescovo di Monreale:il Duomo di Monreale.

Del Duomo di Monreale io parlerò,questa sera,e di questo grande libro monumentale,esposto nell’ingresso e che avete visto tutti entrando in questo teatro nisseno.

Un libro di cui ormai esistono poche edizioni,rarissimo ormai e con un valore commerciale molto alto,parlo del libro originale, cioè la descrizione del Duomo di Monreale realizzata dall’abate Domenico Benedetto Gravina tra il 1859 e il 1869 con un corredo cromolitografico che era, per l’epoca, qualcosa di assolutamente sperimentale all’avanguardia.

Un capolavoro di tecnologia editoriale che oggi viene anche contestualmente presentato nell’edizione fac-similare prodotta da Salvatore Granata dell’editrice Lussografica:orgoglio imprenditoriale,editoriale di questa città,della Sicilia,ma anche della editoria nazionale.

Raramente ho visto una esecuzione di questa qualità.

Questo è il libro. La ristampa di questo testo fondante tutta la bibliografia sul duomo di Monreale.

Domenico Benedetto Gravina era un monaco benedettino,appartenente ad una delle più nobili famiglie siciliane,i Gravina,e produce il suo capolavoro in un tempo,tra il 1859 e il 1869,grandioso,bellissimo per certi aspetti,ma drammatico per certi altri:la fine dell’antico regime,della dinastia dei Borboni,dell’unità d’Italia,di Garibaldi in Sicilia,ma anche il tempo della demanializzazione dei beni della Chiesa,la soppressione degli ordini religiosi ecc.ecc. Quindi quest’uomo,vive in questo tempo,grandioso e drammatico,della storia nazionale.

Era un intellettuale poliedrico,curioso di tutto un po’ enciclopedista illuminista del ‘700 e un po’ già dentro lo spirito positivista dell’1800. Infatti si occupò,anche,di archeologia,scienze naturali,filosofia,storia,teologia,ma la sua passione,il suo capolavoro è il libro sul duomo di Monreale.Una testimonianza su questo capolavoro assoluto del medioevo siciliano e italiano.

Dicevo Cataldo Naro è il suo amore per il duomo di Monreale. E’ importante toccare la personalità di questo altro intellettuale del ‘900,dei nostri giorni,morto,purtroppo,troppo giovane. Io non l’ho conosciuto,ma l’ho conosciuto,indirettamente,tramite la lettura un libro prezioso-ecco a cosa servono i libri- di cui mi ha fatto omaggio il fratello,don Massimo,La speranza è paziente.

Un libro che raccoglie,discorsi occasionale,interviste,articoli di giornale,conferenze che Mons.Naro fece dal 2002 al 2006. In questo libro tra i tanti argomenti riportati, si parla delle grandi cattedrali delle chiese d’Italia e d’Europa ormai abitati più dai turisti che dai fedeli. Ormai più oggetto dei flash e delle spiegazioni turistiche che di preghiere e di liturgie. Proprio così scriveva Cataldo Naro. Parla anche del dramma,perché di dramma si tratta,dell’arte sacra oggi.

Il Cristianesimo,scrive Cataldo Naro,si è trasmesso,attraverso i secoli, per mezzo dell’arte. Se questo non funziona come farà il cristianesimo a trasmettersi oggi? Ebbene quest’uomo, ama la sua chiesa e il duomo di Monreale, aveva capito,con la sua acuta intelligenza,che la caratteristica del duomo di Monreale è,innanzitutto, la sua internazionalità. E ciò è assolutamente vero perché se c’è qualcosa che distingue,tra le regioni d’Italia,la Sicilia per la sua vocazione,in qualche modo,universale, e proprio l’internazionalità. Non ha caso la montagna in cui si identificano i siciliani,L’Etna,viene chiamata Mongibello,ossia la sintesi del latino mons e dall’arabo ghebel che significano entrambi monte. Perchè lo dico? Perché se nel nostro tempo c’è una regione che può far capire a tutti come è importante la contaminazione,il meticciato questa è proprio la Sicilia per averlo dimostrato in tutta la sua storia.

Così come avvenne per Agostino,un romano d’Africa, con sangue magrebino nelle vene,che arriva in Italia, a Milano,e incontra un romano di sangue tedesco,Ambrogio,che faceva il funzionario imperiale a Trevi, in Renania.

Questi due meticci si incontrano e Ambrogio battezza Agostino nell’anno di Cristo 393 della nostra era: e nasce l’Europa.

Cataldo Naro aveva capito che un altro tratto distintivo del duomo di Monreale è la sua pluralità culturale. Infatti chi lo conosce e lo ha visitato sa che quella è una chiesa latina con uno stile proprio del romanico d’occidente- come potrebbe essere il duomo di Modena- suddivisa in tre navate con colonne imperiali romane spoglie e questo è l’aspetto tipicamente occidentale,romanzo.

Un impianto così potrebbe essere in val padania o in Borgogna. Però se uno entra nel presbiterio e va verso l’abside entra in una dimensione liturgica e architettonica di tipo greco,ortodosso. Perché la parte absidale è molto ampia e separata dal resto dell’architettura e porta entro i suoi confini il diaconicon e la protesis :sono tipiche costruzioni architettoniche dell’aspetto ecclesiale ortodosso.

Il diaconicon che ospitava i diaconi per il servizio liturgico e la protesis che era una sorta di sagrestia di pronto impiego.

Però se uno si guarda intorno,guarda, ad es.,il soffitto,la sua iperbole decorativa unitamente alla sua decorazione cromatica ci si sente in un luogo dal gusto morisco,arabo.

Infatti furono arabo-musulmane le maestranze che negli ultimi 30-40 anni del XII secolo,lavoravano all’ordine di maestranze,capomastri,ingegneri,architetti in parte bizantini in parte italiani o francesi-ancora la questione non ci è chiara del tutto-lavorarono nel duomo. Questo è l’aspetto sapiente della decorazione musiva straordinariamente ricca,ma tutta centrata sul tema della salvezza. La storia della salvezza che occupa questa la natura dei mosaici.

Un ettaro di mosaici,circa 10 mila metri quadri,una spesa immensa ha sostenuto il re,Guglielmo II,che volle questa chiesa come cappella palatina,come sua chiesa. Tra i mosaici ce n’è uno che non saprei come definire tra il divertente e l’imbarazzante.

Ad un certo momento si vede il re,l’autocrate Guglielmo II,in ginocchio di fronte alla Vergine con una scritta latina-lo stile dei mosaici è greco ma le scritte sono latine-rivolgendosi alla Madonna che le dice:pro cunctis ora,sed pro rege labora.Prega pure per tutti,ma ricordati di me che sono il Re!!

Una forma di fede ingenua e confidenziale. Crede veramente alla madonna e sa che è la sua madre.

La cattedrale di Monreale prende forma in pochissimo tempo,in una mangiata di decenni,30-40 anni non di più,in questo periodo straordinario della storia della Sicilia. Quando la Sicilia era,veramente,il cuore del mediterraneo. Nella Palermo di quegli anni si parlavano,indifferentemente, tre lingue:latino,greco e arabo. Una città straordinariamente internazionale. Era una specie di mito,di sogno per i mercanti d’oriente,per gli intellettuali arabi,per i latini che arrivavano nella bellissima Palermo. Vi arrivavano per nave,nella coca d’oro di allora,questo mare di verde lucente di smeraldo. Come è rimasta sino agli anni ’50 del secolo scorso. Dobbiamo andare a vedere i quadri di Antonello da Messina per capire com’era il lago verde smeraldo,lucente nel sole,della conca d’oro.

Una città internazionale,la Palermo del tempo,dove tutti gli intellettuali del mediterraneo avevano udienza perché i re normanni,Guglielmo II tra gli altri,ma dopo di lui anche Federico Hohenstaufen erano straordinariamente tolleranti. Tutti potevano venire in Sicilia ed avere occasioni di lavoro e di successo.

Chi sono gli artigiani,i maestri mosaicisti che lavorarono a Monreale? Certo sono stati molti e su questo non c’è dubbio. Per decenni hanno lavorato,decine,centinaia di specialisti. Debbo dire che il del dibattito sull’argomento è molto complesso. Ma posso assicurarvi che nella storia dell’arte moderna,dai tempi di Gravina in poi, tutti (Salvini,Moresca ecc ecc.) si sono confrontati con l’affascinante problema di Monreale. E tutti accettano il fattore della Koinè,cioè la lingua condivisa da tutte le varie botteghe che lavorano a Monreale era il greco. Lo stile è quello bizantino.

E’ probabile che Guglielmo II abbia chiamato degli iconografi e dei capi-bottega,progettisti provenienti,direttamente,da Costantinopoli.Poi hanno assunto maestranze locali con la procedura del lavoro di sub-appalto,come si usa ancora,a ditte locali. Forse,in parte,ancora musulmane e parzialmente cristianizzate. Tutte lavorano insieme,evidentemente con una disciplina molto severa, e con una efficienza invidiabile per costruire l’iconografia del duomo di Monreale che è,secondo me,l’esempio più perfetto,più didatticamente efficace tra tutti i sistemi iconografici che il medio-evo abbia prodotto.

Infatti se uno entra nel duomo di Monreale capisce tutto,è tutto spiegato. Come inizia la storia (la creazione dell’universo),la creazione dell’uomo,il peccato d’origine poi il diluvio ecc.ecc.

E’ la historia salutis,la storia della salvezza. Come siamo nati,chi siamo,verso dove andiamo.

E andando nel presbiterio,cuore del duomo poichè luogo della consacrazione e eucaristica,troviamo nell’abside le storie di Cristo,le storie principali della vita di Cristo. Il presbiterio e l’abside sono il luogo cristologico per eccellenza.

Secondo la tradizione ortodossa,nel diaconicon sono raffigurate le storie mosaicali dell’apostolo Pietro

e nella protesis quelle dell’apostolo Paolo.

I due proto apostoli su cui si regge la gerarchia e la dottrina della Chiesa sono raffigurati in questi due luoghi del presbiterio. Tutto questo,storia sacra,tempo dell’attesa,profezie dagli abissi dei secoli,testimonianze dell’Antico Testamento,dottrina,gerarchia, il tutto sarebbe nulla se non si concludesse in quella idea,genialmente fuori scala,che è il Cristo.

Questo Cristo che domina l’abside,volutamente e genialmente fuori scala,al di la di ogni proporzione poiché tutta la historia salutis si conclude con Lui,l’alfa e l’omega, colui che era che è e che viene e che ritornerà e giudicare i vivi e i morti.

Dunque una catechesi attraverso le immagini sacre. Tutto ciò affascinava Mons.Naro e che anch’io condivido naturalmente.

Come storico dell’arte,però,sono particolarmente affascinato dall’aspetto stilistico dei mosaici con delle tensioni di naturalismo,d’espressionismo tipicamente romanze,occidentali. Poi ci sono delle scritte in latino che fanno capire come la lingua latina stia sfarinandosi,stia,in qualche modo,declinando in una lingua nuova. Nella scena del sacrificio di Isacco c’è una bella scritta in latino che dice:estendas manum tuam a puero ,togli la mano da quel ragazzo. E’ già italiano.

Oppure alla fine del diluvio,si vede l’arca che si arena,il patriarca che è uscito e le bestie che escono una ad una e con la scritta:cessato diluvio che dice che la mutazione della lingua latina è già in atto e che la lingua della Chiesa stava sciogliendosi per diventare idioma romanzo.

E’ affascinante la storia musiva del duomo di Monreale perché ci fa capire cos’è l’arte ossia la storia che si fa figura. E la storia è contaminazione,mutazione è compromesso ed è accordo tra culture diverse. Il duomo di Monreale lo testimonia benissimo. Cataldo Naro lo aveva capito. Aveva capito anche,perché non c’è solo la chiesa,c’è quella parte straordinaria che è il chiostro di Monreale.

Nei capitelli del chiostro è presente lo stile romanico classico che viene dalla Francia,da Arles, e il chiostro in quest’epoca non è solo un posto dove si passeggia si sta all’ombra, è molto di più. E’ una specie d’enciclopedia,è speculum mundi è repertorio classico. Vi si possono trovare Ercole,i ciclopi; si possono trovare gli animali,il lupo, la volpe,l’aquila, il leone. Sono tutti animali simbolici,ognuno di loro significa qualcosa. Un grande mistico irlandese scrive:omnis mundi creatura sicut liber aut figura nobis set in simbulo. Ogni cosa di questo mondo,sia un libro o come una pittura ci viene data sotto forma di simbolo. E’,cioè,immagine di se stessa e figura di altre cose. Il leone,ad esempio-lo troviamo anche a Monreale nel chiostro-è figura del diavolo,liberaci dalla bocca del leone recita un inno medievale,ma contestualmente è anche figura di Cristo. Perchè? Perché c’era una leggenda scritta da Plinio il vecchio, nella Naturalis Historia,che poi il medio-evo credette come vera,secondo cui quando i leoncini nascono sono morti. Però,dice Plinio,arriva il leone papà e soffia su di loro e ritornano in vita. Così il leone diventa simbolo di Cristo che porta la salvezza e fa risuscitare. L’allodola che si alza verso il sole dal campo di grano e,quindi,diventa simbolo di Cristo poiché il campo di grano è segno eucaristico.La potenza della simbologia medievale!

Tutto questo per dirvi come una chiesa sia un libro che può parlare,affascinare,insegnare. E questo Mons. Naro l’aveva capito bene. Dunque è questo il motivo della ristampa di questo prezioso volume. Il meticciato ci salverà,lo pensava anche Mons. Cataldo Naro.

Il Prof. Antonio Paolucci è nato a Rimini (1939),residente a Firenze è allievo di uno dei massimi storici dell’arte del ‘900 Roberto Longhi e con lui si laurea in storia dell’arte nel 1964 all’università di Firenze.Nel 1969 entra nella carriera direttiva dei beni culturali e ricopre,successivamente, l’incarico di sovraintendente a Venezia e a Roma,quindi a Firenze quella di direttore dell’opificio delle pietre dure e di direttore generale per i beni culturali della Toscana. Dal gennaio del 1995 al maggio del 1996,Paolucci ricopre la carica di Ministro dei beni Culturali italiani del governo presieduto da Lamberto Dini.Il sisma del 1997,segna per Paolucci gli anni più difficili e più impegnativi della sua carriera a causa dei gravi danni subiti dalla basilica di San Francesco ad Assisi che costituiscono una perdita sofferta ad un così grande tesoro. Lo vedo impegnato a dirigere il cantiere di restauro ,nella qualità di commissario governativo, e vive l’esperienza come una realtà della quale si è sempre detto orgoglioso. Paolucci è vice presidente del consiglio superiore dei beni culturali e presidente del comitato scientifico per le mostre d’arte delle scuderie del Quirinale.Consulente del Sindaco di Firenze per i musei civici e accademico dei Lincei. Studioso,con molte pubblicazioni a riguardo, di parecchi artisti del ‘400 e del rinascimento,Piero della Francesca,Michelangelo,Antoniazzo Romano,Luca Signorelli,Benvenuto Cellini.E’ l’attuale direttore dei Musei Vaticani.

Timothy Verdon:ATTRAVERSO IL VELO,Come leggere un’immagine sacra.

L’immagine sacra come incontro. Chi legge un’immagine sacra può penetrare “oltre il velo” costituito dallo stile o dal contenuto dell’opera per arrivare alla Persona che l’immagine rivela.

Da trent’anni l’autore scrive e pubblica testi d’interpretazione di complessi religiosi monumentali e di lettura d’immagini sacre:un campo piuttosto nuovo in Italia……Il presente volume si offre come saggio metodologico nell’esegesi dell’iconografia sacra.L’immagine sacra come incontro.

Duomo di Monreale:Cristo Pantocratore

“Sicilia,la Bellezza ti salverà”:lo splendore del Duomo di Monreale.

IL DUOMO:la storia.

All’ingresso nel Duomo di Monreale un’estasi di meraviglia e di stupore rapisce il visitatore che rimane senza fiato e quasi sopraffatto dal senso della grandiosità e della bellezza. La mole del Tempio, l’armonica disposizione delle linee architettoniche, la profusione del mosaico, il disegno iconografico, la ricca simbologia fanno di questo monumento uno degli edifici sacri più interessanti d’Italia.

La prima esclamazione di meravigliata ammirazione la troviamo sulla bocca di papa Lucio III, esperto e lungimirante uomo politico e discepolo di Bernardo di Chiaravalle. Il re Guglielmo – egli dice in un suo documento del 1183, quando i lavori erano ancora in corso – con la sua costruzione ha tanto esaltato questo luogo che simile opera non è stata fatta da nessun Re, dai tempi antichi, da indurre alla meraviglia rutti coloro che ne vengono a conoscenza.

E la mirabile bellezza del Duomo è stata percepita fortemente lungo tutti gli Otto secoli di vita di questo monumento. Così si esprimeva Bartolo Sirilli, ad apertura della Historia della Chiesa di Monreale, pubblicata nel 1596 sotto il nome di Gian Luigi Lello, dal card. Ludovico li Torres, uomo tra i più colti del suo tempo, Bibliotecario di Santa Romana Chiesa ed Arcivescovo di Monreale:Il vago monte a cui real corona fa su bei marmi assiso un tempio d’oro che meraviglia ai riguardanti dona dell’opera non men che del tesoro…Qui infatti, alle pendici del monte Caputo, su una terrazza dominante la Conca d’Oro, che si iscrive tra una corona di monti ed il golfo di Palermo, si innalzano le armoniose strutture del Duomo di Monreale, che non si può esitare a definire uno dei più belli del mondo.

La sua costruzione ci porta al momento dell’apogeo della potenza del Regno normanno di Sicilia, cioè al regno di Guglielmo II(1172-1189). E comune giudizio degli storici che l’avvento dei Normanni in Sicilia e la conseguente formazione del Regno costituiscono il momento di inizio della storia moderna dell’isola, intesa come quel processo di avvenimenti che fecero del popolo siciliano una nazione con le sue peculiari caratteristiche.Uno dei frutti più significativi di questo momento è la fondazione del Duomo, dell’Abbazia dei benedettini ed il sorgere stesso della città di Monreale.

All’inizio del sec. XI i Normanni, ansiosi di conquiste, dirigono la loro attenzione verso l’Italia meridionale, che diviene ben presto oggetto dell’ultima invasione germanica, attuata però non con l’arrivo improvviso di una massa travolgente, ma con l’apparizione di piccoli gruppi di pellegrini o di soldati di ventura.

L’Italia meridionale, frazionata e discorde, presenta allora condizioni ideali per a loro penetrazione, né l’impero d’Oriente, debole e lontano, è in grado di difendere i suoi possedimenti.L’impero d’Occidente nell’affermarsi del nuovo Stato normanno nella Puglia e nella Calabria ad opera dei figli di Tancredi d’Altavilla, tra cui emerge Roberto il Guiscardo prima e Ruggero i poi, vede delinearsi una temibile potenza, alleata col Papato, che, avendo subito sconfitte dai Normanni, ne accetta l’alleanza per fronteggiare lo stesso impero.L’occupazione della Sicilia, durata circa 30 anni, ha inizio nel 1060 ad opera di Ruggero i, il Gran Conte, che mira alla creazione di uno Stato forte e solido. La sua politica viene proseguita dal figlio, Ruggero li, che, unificati i possedimenti normanni dell’Italia meridionale con la Sicilia, si fa coronare Re a Palermo nel 1130.Il nuovo Stato unitario, che sarà poi detto delle Due Sicilie, non sarà una creazione debole e passeggera, ma resisterà per secoli, dando a questa parte dell’Italia ed alla Sicilia in particolare un’impronta che ancor oggi non è cancellata.

Gli effetti della nuova sistemazione determinata dalla occupazione normanna sono immensi sotto tutti gli aspetti. La Sicilia viene recuperata all’area cristiano- occidentale ed ha così inizio una svolta nella vita civile e politica del mondo moderno europeo. La riscossa dell’Occidente cristiano contro i musulmani ha inizio qui. Mentre prima il Mediterraneo era sotto il pieno controllo degli Arabi, adesso la Cristianità occidentale dispone di una testa di ponte sul Mediterraneo dove comincia a riaffermare il proprio influsso. L’Occidente si rafforza anche contro l’impero d’Oriente che vede rapidamente diminuire il suo influsso sul piano religioso, nonché su quello economico, poiché gli operatori orientali perdono rapidamente l’accesso facile ad un mercato di approvvigionamento e di consumo che va invece orientandosi inevitabilmente verso i nuovi mercati dell’occidente.Questa trasformazione così profonda della Sicilia, cessato il duro trentennio della conquista, non si opera con l’urto e la violenza, tranne sporadici casi, ma in modo equilibrato ed armonico, per la sagacia politica e la mirabile capacità di assimilazione dimostrata dai Normanni. Scrive lo Smith L’arrivo dei Normanni trasformò l’isola in modo fondamentale. D’ora in poi essa sarebbe stata per la maggior parte romana nella religione, essenzialmente latina nel gruppo linguistico ed europeo occidentale nella cultura. Infatti le tre grandi forze che dominano il mondo di allora, cioè:

la civiltà occidentale latino germanica, quella orientale bizantina e quella arabo islamica si ritrovano qui. La politica dei normanni mira indubbiamente a favorire l’elemento latino germanico, ma non soffoca gli altri due, anzi, con un ammirevole spirito di tolleranza, utilizza ogni elemento, riuscendo a creare uno stabile equilibrio nel diritto, nell’amministrazione, nelle manifestazioni della vita e soprattutto nell’arte.In Sicilia la Monarchia riesce a polarizzare attorno a sé, come attorno ad un interesse comune, genti, leggi, costumi di tanto diversa origine.Uno degli aspetti più interessanti della politica interna dei Sovrani normanni è lo sforzo che essi fanno per consolidare la loro conquista. Mezzo principale è la restaurazione del cristianesimo. L’assoggettamento militare dell’isola era costato 30 anni di lotte, ma molto più lunga è l’opera di penetrazione civile, politica e religiosa, che non si esaurisce anzi sotto la dinastia normanna. Per attuare questa penetrazione, i Normanni favoriscono il prevalere dell’elemento latino e si servono della Chiesa come del migliore strumento. Nel campo ecclesiastico essi agiscono senza dipendenze vincolanti nei confronti del Papa, che nel 1098 aveva concesso a Ruggero la funzione di Legato Apostolico nei territori dipendenti dai Normanni. Al termine delle imprese Ruggero si dedica a fondare Chiese ed arricchire Vescovati, come fa per Troina e Patti. Ruggero li predilige Cefalù.

Guglielmo Il accorda le sue preferenze a Monreale e ne fa la più grande signoria ecclesiastica del Regno. Ma mentre le due altre località sono dai Sovrani normanni potenziate e popolate allo scopo di giustificare l’istituzione del Vescovato, a Monreale il sorgere dell’Abbazia-Vescovato precede la formazione di un agglomerato urbano, anzi è il Vescovato con le sue particolari prerogative che dà origine al centro abitato.

AI tempo di Guglielmo Il la conversione e la sottomissione dei musulmani in Sicilia è ben lungi dall’essere compiuta. Per avviare a soluzione la questione musulmana, Guglielmo il Buono non ricorre ad una soluzione di forza, ma alla forza unificante della cultura, secondo un metodo tanto caro ai Sovrani normanni:

la fondazione di un’Abbazia ricca e potente, costituita da un monastero con un meraviglioso chiostro, con annessa una chiesa di eccezionale valore e ricchezza che superi ogni precedente costruzione e tale da lasciare attoniti i contemporanei ed i posteri; cinge infine l’insieme di mura e torri sì da costituire una fortezza inespugnabile in una posizione di grande importanza strategica alle spalle della capitale. Subito quindi il Re, profittando delle buone relazioni con la s. Sede, fa erigere l’Abbazia in Arcivescovato metropolitano e, con una serie di successivi privilegi, quali erano soliti accordare i Re normanni quando avevano una precisa finalità da raggiungere, pone le premesse per la formazione di un nuovo nucleo abitato. Non poca popolazione infatti affluirà subito sotto la signoria dell’Abate al quale spettava il governo religioso e civile della vasta zona concessa da Guglielmo II.

La creazione di Guglielmo li rappresenta il momento culminante e l’ultimo splendido atto di quella felice sintesi, attuata dai Normanni in Sicilia, fra le tre componenti latino-occidentale, bizantino-orientale e arabo- islamica. Scrive il Kroenig: tali componenti dovranno necessariamente essere esaminate e valutate in quest’ordine, stabilendo così nello stesso tempo anche un ordine d’importanza non fortuito e che non poteva essere diverso. Dal punto di vista politico come da quello ecclesiastico, lo Stato normanno apparteneva all’Occidente latino. Nella pianta e nella disposizione generale della chiesa e del convento tale appartenenza all’Occidente si manifesta chiaramente. Ed anche per l’architettura in generale vi è una predominanza di forme di base chiaramente occidentali, che acquistavano un ‘importanza così determinante da poter facilmente tollerare la vicinanza di singoli elementi di ispirazione diversa. Solo in tal modo si spiega la presenza di un elemento dell’importanza dell’arredo bizantino, che si fonde con il carattere latino della chiesa, nonché il fatto che nella disposizione architettonica vengono adottati elementi rilevanti, caratteristici dello schema cristiano orientale, senza che per questo si indebolisca il carattere tradizionale latino, storicamente fondato, ditale disposizione. La presenza di artigiani islamici nel complesso architettonico si manifesta sia nell’interno sia nell’esterno indubbiamente in molti dettagli. Ma il carattere della loro opera, la maniera con cui questi motivi is/amici vengono inseriti nel grande quadro d’insieme architettonico differiscono nettamente da quanto possiamo osservare nei castelli reali, di ispirazione completamente islamica in ogni particolare. Vorremmo servirci di una metafora per definire con maggiore chiarezza le varie componenti e il carattere della composizione stessa. Si potrebbe dire che nella composizione di Monreale grammatica e sintassi sono occidentali, mentre il vocabolario contiene numerosi singoli elementi islamici.

La costruzione di Guglielmo II si sviluppa accanto al palazzo reale normanno, al centro di un parco di caccia, creato dal grande Ruggero Il, in un contesto naturale che ne esaltava la maestosa imponenza.

Sorge per prima l’abbazia benedettina, dotata del favoloso chiostro, e poi il meraviglioso Duomo, grandiosi simboli del potere assoluto e della magnificenza della monarchia normanna.

Secondo una gentile leggenda, la Vergine avrebbe rivelato in sogno al giovane Sovrano, assopitosi ai piedi di un maestoso carrubo, l’esistenza in quel sito di un ricco tesoro, con l’impiego del quale, proprio in quel punto, egli avrebbe dovuto innalzare un tempio da dedicare a Lei.

Il legame col paesaggio è adesso meno leggibile che all’origine: del palazzo reale trasformato in Casa comunale ed in Seminario dei chierici, non rimangono che poche vestigia; dell’abbazia, completamente rifatta nel ‘700, non ci rimane che un muro del dormitono; della cinta muraria che proteggeva tutto il complesso non è rimasto quasi nulla; solo il Duomo ed il Chiostro si sono conservati quasi integralmente e ci offrono l’esempio della più alta sintesi visiva delle correnti culturali dell’epoca e, insieme con a coeva Cattedrale di Palermo, sono le ultime creazioni dei ciclo delle grandi costruzioni religiose del sec. XII in Sicilia.

Pur ispirandosi a modelli diversi, nordico-cluniacese quella di Palermo, latino-cassinese quella di Monreale, ambedue le costruzioni sono considerate il prodotto più maturo di quel sincretismo stilistico che si manifestò in architettura come effetto di quell’armonia politica che governava le diverse culture etniche della società del Regno normanno di Sicilia.

Questa nuova architettura di epoca normanna, che poi sarà detta arabo-normanna o siculo-normanna, ha la sua più profonda ispirazione nella volontà politica dei conquistatori normanni di far rientrare la Sicilia nell’area culturale latino occidentale, sottraendola non solo all’islam, ma anche all’influenza greco-bizantina, ancora notevole pur dopo tre secoli di dominazione araba. Questa architettura avrà dunque caratteristiche romaniche che però si inseriranno nell’asse portante islamico e bizantino della cultura siciliana.

Sono queste le premesse storico-politiche e culturali sulle quali si innesta il progetto assai ambizioso ed articolato del giovane re Guglielmo Il: egli vuole anzitutto superare, per splendore artistico, ogni altra opera della Sicilia normanna, come la Cappella palatina di Palermo o il Duomo di Cefalù, creare un centro di diffusione della cultura latina nella Sicilia occidentale (e per questo fa venire un folto stuolo di benedettini) e competere, per grandiosità e imponenza, con le più famose e importanti fondazioni imperiali a lui note, quali San Giovanni in Laterano di Roma e 5. Sofia di Costantinopoli. Infatti lo schema che guida la costruzione di Monreale è identico a quello delle due grandi capitali, dove la chiesa cattedrale era collegata con la reggia, sede del potere. Così San Giovanni in Laterano ed il palazzo lateranese, entrambi costruiti da Costantino nel IV secolo erano collegati fra di loro, come pure S. Sofia, eretta da Giustiniano nel VI secolo, era contigua al palazzo imperiale. Qui, a Monreale, questo concetto viene enfatizzato e potenziato: il Duomo non solo è collegato col Palazzo, ma ha una struttura talmente monumentale da potersi imporre, pur in un momento di particolare delicatezza per la situazione politica e religiosa dell’epoca, quale espressione di equilibrio fra i due poli di potenza, quella spirituale e quella secolare, unica in tutto l’Occidente, come si esprime W. Kroenig. Non potrebbe avere diversa spiegazione il fatto che proprio mentre le opere di decorazione erano ancora in corso, la chiesa viene elevata al rango arcivescovile, malgrado proprio in quegli anni l’Arcivescovo di Palermo, Gualtiero Offamilio, avesse fondato la sua Cattedrale, in opposizione aperta, a quel che sembra, con l’opera di Guglielmo. Ma in favore di questi pesava il ruolo che il Regno normanno si era assunto di difensore del Papato e, pertanto, poteva osare di glorificare sé stesso con imponenti opere architettoniche di grande significato religioso, attribuendosi privilegi che spettavano all’imperatore di Costantinopoli. Per questo, sia nella Martorana di Palermo, sia nel Duomo di Monreale, troviamo ancora la raffigurazione del Re coronato direttamente dal Cristo, che non compare più in altre chiese occidentali.

Il progetto polivalente di Guglielmo comprendeva anche la risposta ad esigenze strategiche di difesa della capitale Palermo dalle spalle, lungo la direttrice di collegamento con il Val di Mazara, popolato in massima parte da saraceni irrequieti. Inoltre, quale Cattedrale del Regno, il Duomo doveva costituire un imponente mausoleo per sé e per la dinastia.

L’esecuzione dell’opera ebbe tempi assai rapidi che vanno, almeno per la parte strutturale, dal 1172 al 1176, con l’impiego di manodopera numerosa e specializzata, di diversa estrazione, come può rilevarsi dalle molteplici componenti stilistiche, che caratterizzano l’insieme. Ma questa pluralità dovette essere guidata con abilità da una mente unica, straordinariamente vigile, fornita di eccezionali capacità di sintesi e in possesso di vaste conoscenze artistiche. Non conosciamo il nome di questo architetto, che doveva però essere un latino capace d’interpretare le ambiziose, e lungimiranti direttive dal Sovrano nonché i principi della teologia e che sapeva avvalersi armonicamente delle maestranze greche, arabe, romane, venete, provenzali, pugliesi e pisane. Ne è risultato un frutto unitario pur nella diversità degli elementi e degli stili.

Viste dall’esterno, le singole parti della struttura edilizia sembrano sovrapporsi l’una all’altra in un continuo crescendo: la navata centrale sovrasta quelle laterali, il tiburio sovrasta l’incrocio della navata centrale con il transetto. Il corpo delle absidi con il suo potente aggetto semicircolare e la sua ricchissima decorazione esalta la parte più nobile del tempio, cioè il Santuario, dove è situato l’altare.

Ma, a ben osservare, le masse esterne dell’edificio, le absidi, il presbiterio, le navate, le torri presentano, ognuna con grande chiarezza, individualità e compiutezza formale: sì da mostrare una evidente diversità derivante proprio dallo stile e dal metodo costruttivo seguiti dalle maestranze.

Le maestranze arabe realizzarono le absidi a oriente, verso cui è orientato il tempio, e proseguirono verso occidente con gli archi del presbiterio e poi con le murature sovrastanti gli archi della navata centrale eseguite in pietra di concia perfettamente tagliata. Maestranze latine intanto realizzavano le torri e, in continuazione, le murature esterne delle navate laterali e del presbiterio eseguite, come il primo ordine delle torri, in pietrame informe. Alle maestranze arabe si deve pure l’innalzamento degli ordini superiori della torre sud ed altre opere di ornamento degli stipiti delle finestre delle navate laterali.

La costatazione della differenza di esecuzione indusse l’abate Domenico Benedetto Gravina (1807-1886), il più grande studioso del Duomo del secolo scorso, a ritenere che la costruzione appartenesse a due epoche, la prima al sec. VII quale costruzione benedettina risalente a Gregorio Magno, e l’altra al sec.XII trovando una illusoria conferma alla sua tesi circa a preminenza dei benedettini sul clero secolare Poca- a dovuta per la priorità del tempo.

Malgrado queste diversità, l’insieme rivela una sua unità semplice e possente nell’articolazione delle sue masse volumetriche, nella sua solenne e avvincente spazialità, da far sentire l’edificio come un corpo via’-te unitario. Gli artisti che nel corso dei secoli vi hanno lavorato, hanno rispettato questa solenne armonia senza spezzarla, limitandosi ad aggiungere corpi all’ esterno, ma adeguandosi a quella grandiosità. Così a stato per Biagio Timpanella, il progettista del portico settentrionale, realizzato dai Gagini nel 1547; per il progettista della cappella di san Castrense, realizzata a alla fine del ‘500 con fine gusto rinascimentale; per i grandi artisti della cappella barocca del Crocifisso costruita alla fine del ‘600 e per l’architetto Antonio Romano, cui si deve il settecentesco portico della porta maggiore, ricostruito nel 1770.

Questo ritmo architettonico caratterizza anche l’iterno che, con i suoi 102 metri di lunghezza, appare grandioso. La navata centrale, immensa, tre volte più ampia delle navate laterali, si prolunga nel transetto, largo quanto le campate che precedono le absidi. Nel rispetto di rigorose regole di simmetria e di proporzioni vi è un crescendo che culmina nel grande arco trionfale trasverso, che precede il presbiterio e sembra far da cornice al vasto catino dell’abside principale, il quale così acquista un maggiore risalto.

Quattro archi ogivali, due trasversi e due longitudinali delimitano il transetto. L’abside maggiore è coperta da una breve volta ogivale, le altre da una semi cupola ed una volta a botte e due a crociera.

Nel resto della chiesa soffitti lignei policromi poggiano sulle alte mura. La varietà dei tipi di copertura usati nella stessa chiesa (a capriata, a crociera, a cupola a volta) nell’architettura medievale era voluta apposta per mettere in risalto le parti più nobili dell’edificio e qui a Monreale la copertura mostra una ricchezza di forme, che va aumentando quando si passa dalla navaata centrale verso l’abside.

Tutta la copertura della chiesa è stata rifatta pochi anni dopo il 1811 quando un disastroso incendio devastò la copertura del presbiterio. Ma si ebbe cura di

rispettare il precedente disegno, pur se in epoche precedenti il tetto aveva subito vari rifacimenti. I soffitti della navata centrale del transetto sono i più sontuosi con piccoli motivi a stalattite assai elaborati e con splendide dorature a rialzo. Troviamo le stalattiti, elemento di chiara ispirazione islamica, nella Cappella Palatina, alla Zisa alla Cuba, perché facevano parte del linguaggio dell’ architettura siculo-normanna.

La zona orientale della chiesa è in diretto rapporto da n lato, a nord, col palazzo reale e dall’altro, a sud, col convento e la residenza arcivescovile. A questi collegamenti corrispondono i due troni, quello regale e quello arcivescovile, addossati ai due pilastroni orientali del transetto.

Il trono regale è più riccamente ornato, in posizione rialzata, sovrastato dagli stemmi di Guglielmo II e dal mosaico dove è raffigurato il Re, in piedi, coronato da Cristo.

Il crescendo architettonico e decorativo doveva servire a dare la sensazione di elevarsi con lo sguardo verso l’Altissimo. Infatti lo sguardo è attratto con prepotenza verso la maestosa immagine musiva del Cristo Pantocratore (= onnipotente) benedicente, che domina onnipresente dal catino dell’abside maggiore e sembra porre il sigillo definitivo dell’unità dell’insieme.

Ma, sotto il profilo architettonico, l’unità è risultata assai sofferta. Già fin dal primo momento della concezione dell’opera l’unità di tempo è infranta quando si decide di utilizzare colonne e capitelli di templi dell’antichità classica. Non si trattava qui di impiegare resti di antiche rovine trovate sul posto, ma di farvi arrivare elementi da posti lontani, più probabilmente dalla Campania e non dall’Africa, come alcuni hanno detto. E forse neanche si trattava di servirsi di rovine, ma di smontare altri edifici, come sembrano attestare le differenze delle colonne e dei capitelli ed il perfetto stato di conservazione, pur dopo un trasporto lungo e pieno di rischi.

L’uso di questi elementi pagani, oltre ad esprimere un apprezzamento del valore storico artistico dei prodotti dell’architettura classica, sembra denotare l’intento di assoggettare al cristianesimo quella cultura e di superare così ogni barriera divisoria nel nome dell’arte.

I capitelli vennero rimontati a coppie e le colonne di maggiore diametro vennero poste nella parte centrale della navata per creare un piacevole effetto prospettico.

Tutte le colonne sono di granito, tranne una che è di marmo verde cipollino, come a Cefalù. Forse questa colonna stava a significare la fede, sostegno della Chiesa. Essa era collocata al secondo posto a destra entrando fino al 1837 quando, con immenso sforzo tecnico, venne trasferita al primo posto per ragioni di stabilità.

La morte prematura di Guglielmo II, avvenuta quando egli aveva appena 36 anni, lascia incompleta la torre nord, la decorazione esterna della navata centrale ed il pavimento.

La tentazione del completamento affiora di tanto in tanto lungo il corso dei secoli, fin quasi ai nostri giorni, ma gli artisti che lavorano al Duomo non si sottraggono al criterio dell’adeguamento, come quelli che alla metà del ‘500 realizzarono il pavimento della navata centrale, sotto il card. Alessandro Farnese junior e quello delle navate laterali sotto il card. Ludovico Il Torres.

Le più vistose trasformazioni della Cattedrale furono quelle eseguite nel 1658 dal card. Alfonso Los Cameros, che eliminò il muro che separava la navata dal presbiterio, secondo la liturgia bizantina; mise i vetri alle finestre, eliminando i piombi traforati che tenevano l’interno nella penombra, intonacò tutto l’esterno, eccetto le absidi.

Il tempio venne spoetizzato, come dice il Gravina, e, certo, si perdette anche il vero senso di quell’impostazione liturgica che aveva guidato il progettista. L’operazione fu avvolta da arroventate polemiche, ma essa rispondeva certamente alle nuove esigenze liturgiche ed al desiderio di esaltare mediante la luminosità esterna Io scintillio dell’oro del mosaico e a grandiosità della concezione architettonica.

Il presbiterio liberato dalle strutture bizantine apparve in contatto diretto con la grande navata, ma l’originaria struttura e l’originaria decorazione non hanno mai subìto sostanziali mutamenti, a riprova appunto di quel possente fascino che il monumento esercita. Gli interventi si sono limitati a infiltrazioni di lieve entità, come le decorazioni barocche delle due absidi laterali, alla fine del ‘600, in occasione della costruzione della cappella del Crocifisso. Nel 1773, ad opera del grande arcivescovo Francesco Testa, viene collocato un nuovo altare maggiore, splendida opera in argento eseguita a Roma da Luigi Valadier. Malgrado l’appartenenza al tardo barocco romano essa, per le sue linee semplici e per il colore, si inserisce assai bene nella cornice medievale dell’abside.

Dopo questa brevissima sintesi sulle vicende del tempio, occorre fare ancora alcune altre considerazioni sulla evoluzione nei secoli del complesso monumentale voluto da Guglielmo Il e sull’influsso che il Duomo ed il Chiostro hanno avuto nella vita deila città di Monreale, nella cultura e nell’arte.

Questo complesso infatti non può certo chiamarsi una cattedrale nel deserto, ma è stato la sede di varie istituzioni, non sempre vissute in armonia fra loro, ma che lo hanno considerato la sede propria e hanno in- fluito sulla sua struttura. La prematura morte di Guglielmo Il, avvenuta il 18 novembre 1189 quando egli aveva appena 36 anni, non interrompe totalmente il suo sogno politico e culturale, ma certamente ne rende più difficile l’attuazione. L’Abbazia dei benedettini infatti perde notevole parte della sua vitalità e non appare più quel centro di diffusione della civiltà latino occidentale quale Guglielmo l’aveva sognata. Il caos politico in cui piomba la Sicilia nella seconda metà del ‘200 e in tutto il ‘300 oscura anche l’Arcivescovado, che rimane nella sua funzione d’appannaggio delle famiglie più nobili italiane e spagnole. Il Duomo risente gli effetti della trascuratezza e cade nel degrado. Solo nel ‘500 le sue sorti sono prese in considerazione. Si risveglia la coscienza del suo valore: l’ammirazione, mai spenta per un così importante monumento alza la sua voce per attirare l’attenzione sulla necessità dei restauri: nel 1498 il viceré Giovanni de La Muta, per conto di Re Ferdinando II scrive al Vicario Generale dell’Arcivescovo Cardinale Giovanni Borgia intendendo Sua Altezza la ecclesia di dicto archiepiscopatu di Morreali opera sumptuosissima quasi singulari in tutti li parti di lu mundu…

E stato certamente questa meraviglia e questo stupore che hanno conservato intatta la struttura e la decorazione del Duomo, mentre le altre parti del complesso monumentale sono state travolte e trasformate dalle esigenze del quotidiano. Ne hanno subìto l’effetto il Palazzo Reale ed il Monastero dei benedettini. Verso la metà del ‘500, l’Arcivescovo card. Alessandro Farnese destina una parte d’esso alla costruzione della casa comunale, dove ancor oggi esiste e che ha subito molte trasformazioni ed interventi da allora in poi. Nel 1590, l’Arcivescovo card. Ludovico Il Torres destina la parte rimanente dello stesso palazzo, già adibita a magazzino arcivescovile ed a banca, all’istituzione del Seminario dei chierici, dove ancor oggi si vede. Quello ed i successivi interventi cancellarono i resti dell’antico Palazzo Reale, di cui però alcune tracce sono tornate alla luce nel 1923.

L’Abbazia dei benedettini, non sempre in armonia con l’Arcivescovato, dopo un lungo periodo di decadenza, rifiorisce dal sec. XVI in poi. L’antica costruzione, eccetto il chiostro ed il muro del dormitorio che ancor oggi si ammirano, viene trasformata e riedificata quasi interamente nel ‘700. Del contrasto tra le due istituzioni sono effetto la Cappella di s. Castrense nel Duomo, volute dal card. Ludovico Il Torres, e la Cappella di s. Benedetto, voluta dai benedettini.

Lo stupore e la meraviglia ha riempito gli occhi ed il cuore delle migliaia e migliaia di viaggiatori che incessantemente, dalle origini, hanno visitato il Duomo ed il Chiostro, specie dal ‘700 in poi, quando il neoclassicismo ed il romanticismo spingono archeologi, scienziati e ricercatori sulle impervie strade della Sicilia, alla ricerca dei monumenti dell’antichità. Il barone tedesco Von Riedesel, nel 1 767, il medico inglese Patrick Brydone, nel 1773, il dotto inglese Hanry Swinburne nel 1777, il grande viaggiatore tedesco Friedrich Munter, nel 1784, il francese Dominique Vivant De Non, alla fine dello stesso secolo, comunicano ai propri connazionali le loro espressioni d’entusiastica ammirazione per la visita del Duomo e del Chiostro. E un coro che continua ancora nell’800 con altri famosi viaggiatori: il conte Luigi de Forbin, Maior Light, Gonzalve de Nervo, il De La Salle, il Francis, il De Sivry, il Bartlett, il Baedeker, il Lambelin, il Vuillier, lo Sladen, il Paton e gli italiani, come il Chiesi.

E l’influsso del Duomo è vivo e operante nella vita della popolazione di Monreale, che ha chiamato il Duomo la Matrice e che l’ha sempre considerato il bene più prezioso da essa posseduto. Gli artisti che nei secoli passati costruivano o rifacevano le chiese di cui Monreale è costellata, specie nel ‘600 e nel ‘700, si ispiravano alla Matrice di cui quelle chiese erano figlie, e così pure nell’eseguire quadri o palliotti per gli altari o gonfaloni per le Confraternite. L’influsso del Duomo e della solenne lezione della decorazione musiva è leggibile nei temi scelti dagli artisti, nelle loro movenze, nei colori, nello stile. Non per caso a Monreale hanno avuto maggiore sviluppo l’architettura, la pittura, il mosaico, la ceramica, anziché la scultura.

L’evento più disastroso nella storia del Duomo è certamente l’incendio del 1811 sviluppatosi da un ambiente sottostante all’antico organo, a sinistra del presbiterio, e propagatosi ben presto al tetto del presbiterio ed a quello della protesi e del diaconico, ai lati, e che provocarono la distruzione del coro e altri gravissimi danni. Pochi anni dopo nel 1817, il re Ferdinando Borbone istituì una Deputazione per i restauri, per gestire i fondi straordinari destinati all’eccezionale restauro. La Deputazione rifece interamente tetti del Duomo e restaurò tutti danni subiti dai mosaici nella zona superiore delle pareti del presbiterio e gli altri danni ai pavimenti, all’altare maggiore, alle tombe reali e rifece interamente il coro. Della Deputazione fecero parte studiosi architetti e artisti famosi, come Antonio Salinas e Giuseppe Patricolo e in essa si confrontarono anche vivamente le varie teorie del restauro.

Ma pur in mezzo alle polemiche e malgrado la vastità degli interventi della Deputazione, il Duomo ha conservato integra la sua identità. Dopo la soppressione della Deputazione avvenuta nel 1925, l’antica Fabbriceria o maramma ha continuato a curarne la manutenzione, avvalendosi di fondi statali e regionali. Recentemente leggi speciali, varate dal Parlamento nazionale, e provvedimenti regionali hanno consentito importanti restauri nei mosaici. Altre opere più impegnative sono state eseguite per salvare le strutture lignee dall’invasione delle termiti, scoperte nel 1978 e che hanno fatto temere prossimo il crollo di tutta la copertura. Ma anche in queste opere è stato usato il massimo rispetto delle strutture e delle decorazioni, attuando un complessivo sforzo intelligente e articolato per conservare un monumento di così grande significato.(Testo del Prof.Giuseppe Schirò)

Guglielmo II consegna il Duomo alla Vergine Maria.

GIAMPIERO TRE RE:TERRA DI NESSUNO.Bioetica dei diritti dell’embrione umano.

Man mano che ci si inoltra nel dibattito e nelle questioni che si agitano attorno ai diritti dell’embrione sembra di addentrarsi in un territorio deserto, una specie di Terra di nessuno, senza padrini e senza legge. L’embrione è l’essere umano più piccolo che si possa immaginare. Esso può presentarsi nella forma più elementare sotto la quale è possibile pensare la vita umana: quella di un organismo unicellulare. Tuttavia esso è anche l’ente al mondo più carico di potenzialità. Sotto la luce polarizzata del microscopio questo territorio sembra farsi vastissimo e quasi privo di confini, uno scacchiere enorme sul quale si fronteggiano eserciti e si consumano contrapposte politiche. Il presente lavoro cerca di contenere il proprio oggetto entro gli argini contrassegnati, da un lato, dal raggio d’azione consentito dagli strumenti dell’indagine filosofica e, dall’altro, dall’impatto culturale prodotto dall’applicazione delle biotecnologie alla riproduzione umana.

Giampiero Tre Re (Palermo 1959) è dottore di ricerca in Diritti dell’uomo presso l’Università di Palermo e licenziato in Teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Collabora alle riviste Segno e Labor ed ha pubblicato numerosi articoli scientifici in materia di etica sociale, (Mafia: struttura di peccato? in S. Di- prima (a cura di), Per un discorso cristiano di reCvtenza alla mafia, Caltanissetta-Roma, 1995); morale teologica (L’enciclica Veritas Splendor: genesi letteraria e contenuti, analivi quantitativa eformale, in Bioetica e Cultura III (1994)5,45-76) e bioetica, tra cui le voci “ingegneria genetica” e “legge della gradualità” in AA.VV., Dizionario diBioetica, EDB-ISB, Bologna-Acireale, 1994; Il non cognitivismo in bioetica e alcune questioni circa l’aborto eugenetico, in Segno XX (1994) nn. 158-159, 33-40; L’uomo automanipolatore: tecnologie della riproduzione umana e rvpetto delle origini parentali personali, in Bioetica e Cultura, IV (1995) 7, 73-79: L’embrione in vitro ed il dibattito parlamentare sulla legge procreatica, in Labor, 1999/1, 10-16.

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IL CULTO DEI MORTI A VALLELUNGA PRATAMENO (CL).

Il Giudizio Finale,Cappella Sistina.

Il termine nichilismo (dal latino nihil, nulla, da cui nihilismo, secondo una dizione desueta e dal latino medioevale nichil dello stesso significato) designa in senso generico l’atteggiamento o la dottrina volti a negare in modo definitivo e radicale l’esistenza di qualsiasi valore in sé e l’esistenza di una qualsiasi verità oggettiva. Nella sua versione più estrema, il nichilismo considera la realtà stessa come radicalmente inconoscibile.
Con le parole del filosofo Pier Paolo Ottonello,possiamo affermare:« Il nichilismo come negazione radicale o metafisica, è dunque negazione del senso dell’essere e degli enti in quanto significato e realtà sostanziali e valorativi, che possono essere tali solo in quanto fondati nell’assolutezza dell’essere. Nichilismo è dunque, essenzialmente, l’assoluta negazione di ogni assolutezza, che percorre le strade o dell’indeterminazione dell’essere e degli enti o dell’univocità radicale essere nulla. »

In un significato più comune, il nichilismo è una concezione delle cose, in base alla quale la realtà sarebbe inesorabilmente destinata a declinare nel nulla, ovvero, dal punto di vista etico, sarebbe indeterminabile o assente una finalità ultima che orienti il corso delle cose e la vita dell’uomo. Siccome l’uomo è limitato e sperimenta ogni giorno questo limite nella morte e nelle sue dolorose anticipazioni, allora egli può essere spinto a considerare – al di là di quanto se ne sia cosciente – che il niente sia il vero senso dell’essere. L’affermazione nichilista nega pertanto, in questo senso, vera consistenza alla realtà e di conseguenza esclude che l’uomo possa fare esperienza della verità in quanto tale, considerata come oggettiva e universale.

Questa visione della vita spinge Sergio Givone ad affermare che il”mondo non ha senso perché la morte è l’orrore che tutto annienta”.

A tutto ciò si contrappone la visione cristiana,e più in generale religiosa,che professa la certezza di una vita dopo la morte.

L’escatologia (dal greco antico σχατος, éskatos=ultimo) è, nelle dottrine filosofiche e religiose, il settore che prende in considerazione il destino ultimo dell’essere umano e dell’universo. L’escatologia non è una disciplina del tutto astratta, perché tali aspettative ultime dell’uomo (di solito legate alla vita oltre la morte) possono influenzare in modo significativo la sua visione del mondo e il suo comportamento quotidiano.

In pratica l’escatologia è strettamente correlata con la visione della morte e dell’aldilà nelle varie civiltà. Fin dall’antichità è infatti presente la ricerca di un fine ultimo al di là della morte, con diversi miti e culti dell’oltretomba, rintracciabili già negli antichi egizi o negli etruschi. Tali raffigurazioni rituali tendevano a vedere in modo abbastanza cupo la vita oltre la vita.

L’escatologia, nel senso più comune, è correlata alle grandi religioni monoteistiche.

L’escatologia, già presente nell’A.T. e quindi nel pensiero ebraico, viene reinterpretata nel N.T.

Nel pensiero cristiano l’escatologia – trattata in vario modo in più libri biblici – è stata lungamente dibattuta. In termini semplificati, l’escatologia cristiana ha a che vedere con la resurrezione dei morti e con la vita eterna susseguente. È quindi strettamente legata al concetto di paradiso ed inferno. La (prima) venuta di Cristo (il Redentore) viene vista come un fondamentale evento escatologico, che ridà la speranza ai cristiani. Una seconda venuta di Cristo dovrebbe significare l’instaurazione definitiva del Regno di Dio. Alcuni cristiani del I secolo erano convinti che la fine del mondo sarebbe venuta durante le loro vite, dal momento che Gesù (nelle parabole delle 10 vergini e delle lampade) aveva insegnato ai suoi seguaci, di state allerta, mantenersi nella giustizia divina e vegliare ad ogni momento della propria vita. Quando i convertiti di S.Paolo a Tessalonica vennero perseguitati dall’Impero romano, essi pensarono che la fine dei tempi fosse arrivata (vedi II Tessalonicesi capitolo 2). Questa convinzione si era dissipata molto attorno all’anno 90 d.C., quando i cristiani commentavano tra di loro: “Abbiamo sentito queste cose riguardo alla [fine del mondo] sin dai giorni dei nostri padri, e guardate, siamo cresciuti fino a diventare anziani e nulla di questo ci è successo”.

I cattolici fanno riferimento al 25° capitolo del Vg di Matteo, nel versetto dove Gesù Cristo afferma che “nessuno conosce l’ora o il giorno,” eccetto il Padre. Mentre alcuni credono che la predizione delle date o dei tempi sia futile, altri credono che Gesù abbia anticipato i segni che indicherebbero che “la fine dei giorni” si avvicina. Alcuni di questi segni includono disastri naturali, rivolte civili, ed ogni genere di inconsueta catastrofe della massima entità. Del tempo preciso, comunque, Gesù accenna soltanto che verrà come un “ladro nella notte.”

Secondo il CCC(Catechismo della Chiesa Cattolica), le credenze cattoliche attorno al “tempo della fine” vengono espresse nella Professione di Fede, il Credo.

La sintesi della visione cristiana della vita,della morte e della vita dopo la morte è espressa con la dicitura situata all’ingresso del cimitero di Vallelunga Pratameno:

QUESTA SOGLIA DIVIDE DUE MONDI,LA PIETA’ LI UNISCE.

La soglia del cimitero,termine di origine greca che significa dormitoio,separa la vita dei vivi da quella dei morti. Si,poiché i morti,cioè i dormienti,hanno cessato di porre in essere tutto ciò che è legato alla vita biologica,intellettiva,volitiva , ma non a quello che è legato alla loro anima che rimane viva in attesa di ricongiungersi al corpo nel giorno della resurrezione dei morti. Tutti risorgeremo,alla fine della storia,cioè tutti i nostri corpi ritorneranno in vita così come il corpo di Cristo risuscitato dai morti,primizia della resurrezione di tutti gli esseri umani. Con la risurrezione di Cristo la morte è stata già vinta e definitivamente. Dunque la soglia del cimitero non divide i vivi dai morti in modo assoluto,ma solamente in senso fisico e li unisce in un rapporto di profonda comunione spirituale e metafisica. Nella consapevolezza che i morti non hanno più bisogno dei vivi,ma esattamente il contrario:i vivi necessitano dell’intercessione dei morti o per meglio dire “dei fedeli defunti”.Coloro,cioè che hanno vissuto con grande e si sono addormentati nella fede del Signore Morto e Risorto. Dunque la Pietas,cioè questa reciproca relazione affettiva-spirituale,scaturente dalla potenza salvifica del Kirios Morto e Risorto che diventa intercessione per noi viventi, rapporto metafisico tra i vivi nel corpo e i viventi,anche se dormienti,nel Signore. La Pietas unisce i due mondi,rendendoli comunicanti.

In una lapide del cimitero di Vallelunga così stà scritto:

hic iacent qui surrecturi sunt,

qui riposano coloro i quali sono sul punto di risorgere. Tutto ciò testimonia il profondo imprinting che il cattolicesimo ha lasciato nella vita plurisecolare dei vallelunghesi.

La pietà è anche ricordare e venerare il corpo dei dormienti. Infatti,come scrive Sergio Quinzio,rifiuto della morte è la MEMORIA. Da qui l’antichissimo culto dei morti che tutte le popolazioni hanno avuto a testimonianza del rifiuto della morte.

La morte,allora, è esattamente PASQUA,cioè passaggio ad una vita diversa,ma pur sempre vita. I morti,dunque,continuano a vivere!

Un sorta di denuncia contro il grado avvilente a cui è stata ridotta la morte, e i morti, i morenti, i vecchi, dalle nuove ideologie e prassi post-cristiane: a qualcosa che non ci dev’essere e che quindi non si deve vedere, né sapere, che non ha, non deve avere nessun valore entro le nuove presunte scale dei valori. L’ignobile ragione è che ormai l’uomo individuo concreto, l’unico a essere reale, è stato fagocitato a semplice funzione effimera del Politico, del Progresso e degli altri Miti collettivi, veri Moloch delle religioni dell’immanenza, del tutto irreali senza gli individui. Il che non elimina comunque la disperazione dei morituri, immediati e mediati, cioè di tutti i viventi. Disperazione che è, insieme, protesta di una dignità personale alienata nelle utopie e irreprimibile horror mortis, ossia sete di vita oltre questa vita mortale. Per ogni altra sete si postula un oggetto, solo per questa no?
La scommessa sul finito o l’infinito, su Dio o il caso,sulla vita dopo la morte o il nulla è legittima e necessaria come diceva Pascal, già non scommettere è scommettere per il puro finito. Ed è una scommessa tra due fedi:quella nella vita eterna e quella nel nulla eterno. La complessiva argomentazione consiste anzitutto nell’invitare a scommettere per un Aldilà come il cristianesimo cattolico lo annuncia, scartando gli aldilà che altri si immaginano (predestinazione protestante, paradisi islamici, reincarnazioni indù e buddiste, ecc.) o quei surrogati di aldilà intrastorici trascendentali che gli atei hanno poi insinuato, questi davvero i più ingenui e alienanti. La fede cattolica sarebbe tra l’altro la sola a non essere esclusivista quanto a nessun uomo di buona volontà.
Continua è inoltre,ai nostri giorni, l’insinuazione, esattamente pascaliana anch’essa,che scommettendo per l’infinito e vivendo in conformità, anche per il finito « ci guadagnerai a, non potendo questa vita finita illuminarsi di un significato se non di riverbero da quella Cosa che dà senso a ogni altra cosa…contro quegli abatini moderni, ingenui. pericolosi » che, incantati dai nutrimenti terrestri di prestigiose ideologie di moda specie di sinistra, tendono a piegare le verticali della fede nelle orizzontali intrastoriche. Sono i “ teologi della liberazione” (socioeconomico-politica).
Da almeno due secoli non c’è bersaglio più agevole della Chiesa cattolica. Diffamarla non costa niente . Palinodia? Si dà avvio alle retractationes? Sì, è finalmente arrivano disquisizioni poco persuasive in cui si distingue tra alto e basso clero, tra cardinali, gesuiti « astuti confessori dei despoti;altri ricordano i domenicani inquisitori, si irride a monsignori e cardinali e a poveri parroci in povere parrocchie a ed eroici missionari popolari. Ma questo non è riesumare categorie liberai-marxiste e prendere senz’altro per buone le informazioni, deformazioni e disprezzi della loro storiografia? La vera storia dei confessori regali, dell’inquisizione e delle banche vaticane (eccetera) è ancora da scrivere.

A tal proposito segnalo l’interessante ricerca per il conseguimento della laurea in lettere moderne della Dottoressa ROSALIA LA TONA,vallelunghese,che ha portato avanti un’indagine dal seguente titolo:Un ponte fra terra e cielo.L’ideologia della morte nella cultura popolare di Valleunga Pratameno.

Un contributo per meglio comprendere l’identità vallelunghese e il rapporto che gli stessi hanno intrattenuto nei confronti dell’evento morte.

«Alla fine dei secoli, quando / mi chiamerà un’altra voce / e proverò per la seconda volta / l’impeto di risurrezione / prego che come questa volta, /quando sei stato tu a chiamarmi, /alzandomi stupito dalla fossa /con le ossa che sentono la carne /stendersi nuovamente su di loro, /con la carne che sente/in sé di nuovo penetrare l’anima / io possa, in quel tremendo campo / dove avrà inizio l’eterno, /fissare il primo sguardo su dite, / ritrovarti al mio fianco» (Margherita Guidacci).

LA MAFIA NEL CINEMA SICILIANO di VITTORIO ALBANO.

Un percorso storico-critico attraverso cinquant’anni di cinema siciliano sul tema della mafia. Intendendo per cinema siciliano non solo quello prodotto in Sicilia, che è di ben esiguo numero, ma tutto quello che ha riguardato la Sicilia: dunque ambientato, anche solo in parte, nell’isola; eventualmente ambientato altrove per necessità produttive ma con preciso riferimento all’isola, e realizzato pure (e soprattutto, finora) da autori non siciliani, poiché solo negli ultimi quindici anni hanno cominciato ad esprimersi, e in parte si sono affermati, diversi autori siciliani. Un percorso lungo un centinaio di film, compresi una ventina di (inevitabili) prodotti televisivi, con particolare attenzione per i titoli più importanti o in qualche modo significativi.

VITTORIO ALBANO (1935-2003), critico cinematografico, ha collaborato con numerosi quotidiani e riviste specializzate, oltre che con Raitre in trasmissioni radiofoniche e televisive, e scrivendo soggetti e sceneggiature originali per tv-movie. Ha collaborato alla realizzazione di molte rassegne cinematografiche a Palermo e ha pubblicato, tra l’altro, Resistenza e cinema (1979), La Sicilia e il cinema (in collaborazione con altri autori, 1993), Gente di cinema – Tre nt’anni di interviste (2000) e Le perdute amanti – Passioni e trasgressioni femminili in cento annidi cinema (2001).