BUON ANNO 2008…

Per dire, in maniera non convenzionale:
BUON ANNO 2008…

MONTELEPRE:RIVIVE “U VIAGGIU DULURUSU…”

A Montelepre (PA),nei nove giorni precedenti il Natale,grazie ad un gruppo di giovani,rivive la novena di Natale di Binidittu Annuleru,U VIAGGIU DULURUSU….,cantata per le vie e le contrade della piccola cittadina dell’entroterra palermitano.

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Foto di GIULIA TERRANOVA

VORREI UN NATALE CHE DURI TUTTO L’ANNO.

S’avvicina Natale e le vie della città s’ammantano di luci”. Ma nel mio cuore l’incredulità e poi quasi la ribellione: questo mondo ricco si è “accalappiato” il Natale e tutto il suo contorno, e ha sloggiato Gesù!”.(Chiara Lubich)


VORREI….

Un Natale dove non ci sia più, la fame,07.jpg08.jpg

lo sfruttamento, le ingiustizie, gli squilibri dei paesi poveri nei confronti dei paesi ricchi, ma ci sia più giustizia sociale.solidar3.jpg

Un Natale dove l’accoglienza, coltivata sentita e praticata, e siano eliminate nella gente tutte le barriere mentali, e ci sia quella apertura per fare si che i nostri cuori e il nostro amore siano globalizzati.03.jpg

Vorrei un Natale dove ci sia una società, onesta, sincera, trasparente, rispettosa delle regole, una società libera dalla mafia e dai mafiosi,porci.jpg

dalla malavita organizzata, dalla corruzione, veramente una società libera.

Un Natale dove l’ambiente, non sia inquinato, e ci sia più rispetto da parte di tutti, più curato, per poterci vivere tutti meglio, e lasciare ai nostri figli e alle future generazioni un belambiente.

Un Natale dove non ci siano più stragi sulle strade, meno incidenti, e non ci sia più l’abuso di alcool e droghe, e il codice stradale sia veramente rispettato da tutti, per fare in modo che al posto di tanti feriti e morti, ci siano tante vite salvate, e tante famiglie più serene.

Un Natale dove nel gioco, del calcio, non circoli più odio e violenza, ma sia vissuto come un gioco bello, uno sport socializzante, creativo, che unisce, e allo stadio si possa andare con tranquillità con la famiglia, e con i bambini per divertirsi.

Un Natale dove ci sia una società più giusta per tutti i cittadini, l’uguaglianza, la giustizia sociale sia realizzata, una società piena di valori veri, e di diritti, e di solidarietàsolidar1.jpg

Un Natale dove l’indifferenza e la passività verso i problemi, sia superata con l’impegno e la partecipazione, con responsabilità, con il protagonismo, per risolvere i problemi del nostro mondo, per sconfiggere tutte le guerre sulla terra, e per contribuire con i colori dell’arcobaleno, a costruire la vera pace.solidar2.jpg

Un Natale da sogno, di desideri, di aspirazioni, ma se tutti insieme ci mettessimo a sognare e a realizzare un mondo più giusto, migliore, sarà un vero Natale tutto l’anno per tutti.

A NATALE MENO REGALI E PIU’ SOLIDARITA’…

C’è un Natale consumista (la sagra di fine anno) e c’è il Natale di Gesù
(Dio che si fa uomo).

C’è un Natale scintillante di luci (che ha il suo fascino, ma dura solo
qualche giorno) e c’è il Natale di Gesù che nasce povero nella notte del
mondo e nell’umiltà della sua carne rivela la Gloria di Dio.

C’è un Natale pieno di cose (tutte per me: il culmine dell’egoismo) e c’è il
Natale di Gesù (che entra nel mondo per mostrare agli uomini la via bella ed
esigente dell’amore).

C’è un Natale che risuona di musiche dolci che invitano a chiudersi nella
cerchia sicura delle persone amate e c’è il Natale di Gesù che è posto al
centro delle disarmonie del mondo (povertà, solitudine, violenze, morte…)
e da questo sfondo orribile fa emergere il canto nuovo dell’amore di Dio,
che dà speranza.

C’è un Natale meritocratico che premia i buoni (se fai il bravo, riceverai
tanti doni) e c’è il Natale di Gesù che rivela il volto misericordioso di
Dio, che perdona i malfattori e offre una nuova possibilità a chi ha
imboccato strade sbagliate.

C’è un Natale che mette da parte i problemi perché si possa essere felici
almeno per qualche ora e c’è il Natale di Gesù che invita a uscire allo
scoperto per riconoscere il messia in situazioni sconcertanti, assolutamente
non messianiche.

Il Natale di Gesù è sorprendente, portatore di un messaggio inaudito,
addirittura pericoloso. E’ la prima scintilla di una logica nuova che mette
upside down il mondo.

Scegli Tu che Natale vuoi trascorrere e,comunque,

Buon Natale!

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GRAZIE

Rino Martinez

Cantautore e Messaggero di Pace nel mondo

www.rinomartinez.com

Quello che noi facciamo è solo una goccia nell’oceano ma se non lo facessimo l’oceano avrebbe una goccia in meno

Madre Teresa di Calcutta

RACCONTI,POESIE,FAVOLE DI NATALE

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RACCONTI, POESIE, FAVOLE DI NATALE

tutto il pianeta nel mese di dicembre celebra feste di pace,

di fratellanza, di gioia e di prosperità, ciascuno secondo

la propria cultura e le proprie tradizioni.

Di Maria De Falco Marotta

“Avendo un Figlio unigenito Dio l’ha fatto figlio dell’uomo, e così viceversa ha reso il figlio dell’uomo figlio di Dio. Cerca il merito, la causa, la giustizia di questo e vedi se trovi mai altro che Grazia”(s. Agostino).

La Natività ispira un’impressionante esperienza ascetica e mistica evangelica, anche oggi in questo mondo caotico e disumano. Francesco d’Assisi nella notte di Natale del 1223, quando allestì per la prima volta il presepe a Greccio disse “Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato”.

Anche noi cristiani contempliamo Gesù che nasce nelle periferie dimenticate del mondo, come a Betlemme duemila anni fa, e- per quanto possiamo- gli lasciamo un posto nella nostra vita. Non lo allontaniamo, come fecero allora gli albergatori, i potenti.

Per me il “Bambino” questo Natale sarà Raza, anni 17 che attualmente vive nella comunità protetta Don Milani (ex Forte Rossarol di Mestre) diretta con pazienza, maestria e amore da quel prete, don Franco De Pieri, piuttosto ruvido, ma che si impegna davvero per i poveri. Il ragazzo afgano, senza i genitori, uccisi dai talebani, ha percorso a piedi o con mezzi di fortuna circa 7000mila Km. per arrivare a Trieste e da qui a Venezia. Ha una intelligenza brillante e conosce cinque lingue. Spera e noi con lui, di poter studiare per diventare biologo, con l’aiuto dei misericordiosi, visto che è senza mezzi, proprio come il bambino ignudo che noi metteremo nella sua cuna di paglia la notte di Natale e che – solo per un attimo- ci farà tornare piccoli, senza gli angosciosi assilli dell’oggi.

E’ pur vero che il Natale si festeggia su tutto il pianeta: in ogni paese, i popoli, cristiani, ebrei, musulmani, induisti, buddhisti, universisti… nel mese di dicembre celebrano feste di pace, di fratellanza, di gioia e di prosperità, ciascuno secondo la propria cultura e le proprie tradizioni. E questo accade fin dai tempi più antichi.
In concomitanza con il solstizio d’inverno, un lungo periodo di festeggiamenti onorava il “rinascere” del sole: le giornate cominciavano ad allungarsi, segnando il lento percorso verso la primavera, con l’augurio e la speranza di raccolti copiosi e di cibo per tutti. Così gli antichi Egizi festeggiavano la nascita del dio Horus, i Greci quella del dio Dioniso, gli Scandinavi quella del dio Frey. I Romani celebravano Saturno, dio dell’agricoltura, con grandi solennità in cui amici e parenti si scambiavano doni.
I Cristiani sostituirono i riti pagani con la festa della nascita di Gesù, figlio di Dio, portatore di pace e di salvezza per l’umanità, conservando le antiche tradizioni, lo spirito di gioia e di speranza che la luce divina porta in ogni cuore.
Per questo nel mondo Natale è augurio di bontà, serenità e felicità da condividere con “tutti gli uomini di buona volontà”.

IL NATALE DI MARTIN( Leone Tolstoj)

In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.

Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
– Non ho più desiderio di vivere – gli confessò. – Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati… Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi».
Martin rifletté. – Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? – Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All’improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c’era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: – Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L’indomani mattina Martin si alzò prima dell’alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.

Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. – Entra, disse – vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
– Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
– Non è niente – gli disse Martin. – Siediti e prendi un po’ di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all’ospite. Stepanic bevve d’un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po’. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
– Stai aspettando qualcuno? – gli chiese il visitatore.
– Ieri sera- rispose Martin – stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: “Guarda in strada domani, perché io verrò”.

Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. – Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l’anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po’ di pane e della zuppa. – Mangia, mia cara, e riscaldati – le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: – Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. – Ecco – disse. È un po’ liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. – Che il Signore ti benedica.
– Prendi – disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un’ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po’, vide una donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all’altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. – Lascialo andare, nonnina – disse Martin. – Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. – Chiedi perdono alla nonnina – gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: – Te la pagherò io, nonnina.
– Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato – disse la vecchia.
– Oh, nonnina – fece Martin – se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
– Sarà anche vero – disse la vecchia – ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. – Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.

La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l’ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si aprì invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all’orecchio: – Martin, non mi riconosci?
– Chi sei? – chiese Martin.
– Sono io – disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
– Sono io – disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
– Sono io – ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.

PRESEPE( Salvatore Quasimodo)

Natale. Guardo il presepe scolpito
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.

Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.

Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure in legno ed ecco i vecchi
del villaggio e la stalla che risplende
e l’asinello di colore azzurro.

LA NOTTE SANTA(Guido Gozzano)

– Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca
lentamente le sei.

– Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto per me e per Giuseppe?
– Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

Il campanile scocca
lentamente le sette.

– Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
– Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.

Il campanile scocca
lentamente le otto.

O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
– S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.

Il campanile scocca
lentamente le nove.

– Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
– Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…

Il campanile scocca
lentamente le dieci.

– Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell’alta e bassa gente.

Il campanile scocca
le undici lentamente.

La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due?
– Che freddo! – Siamo a sosta – Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…
Maria già trascolora, divinamente affranta…

Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaie
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!

Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill’anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill’anni s’attese
quest’ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d’un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

Perché(Hirokazu Ogura)

dappertutto ci sono così tanti recinti?
In fondo tutto il mondo e un grande recinto.

Perché
la gente parla lingue diverse?
In fondo tutti diciamo le stesse cose.

Perché
il colore della pelle non e indifferente?
In fondo siamo tutti diversi.

Perché
gli adulti fanno la guerra?
Dio certamente non lo vuole.

Perché
avvelenano la terra?
Abbiamo solo quella.

A Natale – un giorno – gli uomini andranno d’accordo in tutto il mondo.
Allora ci sarà un enorme albero di Natale con milioni di candele.
Ognuno ne terrà una in mano, e nessuno riuscirà a vedere l’enorme albero fino alla punta.

Allora tutti si diranno “Buon Natale!” a Natale, un giorno.

E come non ricordare per i più piccini alcune tra le fiabe e leggende più famose connesse all’ Incarnazione?

Fiabe e Favole di Natale: L’agrifoglio .

Quando giunse l’inverno tutti gli uccellini del bosco partirono. Soltanto un piccolo uccellino decise di rimanere nel suo nido dentro un cespuglio di agrifoglio:
voleva a tutti i costi attendere la nascita di Gesù per chiedergli qualcosa. L’inverno fu lungo e molto nevoso. Il povero uccellino era stremato dal freddo e dalla fame.

Finalmente arrivò la Notte di Natale. Quando l uccellino fu dinnanzi al Bambino appena nato, disse : “Caro Gesù, vorrei che tu dicessi al vento invernale del bosco di non spogliare l’agrifoglio. Così potrei restare nel mio nido e attendere la nuova primavera”.

Gesù sorrise, poi chiamò un angelo e gli ordinò di esaudire il desiderio di quell’uccellino. Da allora, l’agrifoglio conserva le sue verdi foglie anche d’inverno. E per riconoscerlo dalle altre piante, l’angelo vi pose , delle piccole bacche rosse e lucide.

La Stella di Natale

In un piccolo villaggio messicano viveva una bambina di nome Altea, Giunse la notte di Natale e tutti andarono in chiesa con un piccolo dono per Gesù. Solo Altea rimase a casa perché non aveva nulla da donargli. All’improvviso apparve un angelo. «Perché sei così triste?» chiese alla bambina. “Perché non ho nulla da portare a Gesù!” rispose Altea. Allora l’angelo le disse: “Tu hai una cosa molto importante da donare a Gesù: il tuo amore. Raccogli le frasche che crescono ai bordi della strada e portale in chiesa. Vedrai, il tuo dono sarà il più bello di tutti.”
Altea fece come le aveva detto l’angelo e depose un mazzo di frasche davanti all’altare. Mentre la bambina pregava le fronde si trasformarono in una pianta meravigliosa con foglie verdi e rosse: era nata la Stella di Natale.

Il Presepe.

Il primo vero presepe della storia fu creato nella chiesa di Santa Maria Maggiore, a Roma. Questa usanza divenne così popolare che presto tante altre chiese vi aderirono. Ognuna creava un presepio particolare ed unico. Le scene della natività erano spesso ornate con oro, argento, gioielli e pietre preziose( tuttora a Roma, a Napoli e in tantissimi paesi e città italiani si allestiscono dei presepi che indicano quanto questa festività cristiana stimoli la fede e la fantasia della gente, anche non credente). Anche se molto popolare tra le classi più ricche, questa opulenza era quanto di più distante dal significato della nascita di Gesù.

Dobbiamo il presepe attuale a San Francesco d’Assisi, che nel 1224 decise di creare la prima Natività come era veramente descritta nella Bibbia. Il presepe che San Francesco creò nel paese di Greccio, era fatto di figure intagliate, paglia e animali veri.
Il messaggio era diretto, e poteva essere capito e recepito da tutti, ricchi e poveri.
La popolarità del presepe di San Francesco crebbe fino ad espandersi in buona parte del pianeta.
In Francia si chiama Crèche, in Germania Krippe, in Spagna e America Latina,Nacimiento, nella Repubblica Ceca si dice Jeslicky, in Brasile si pronuncia Pesebre, e in Costa Rica, Portal.

Le Campane di Natale

I pastori si affollarono a Betlemme mentre viaggiavano per incontrare il neonato re. Un piccolo bimbo cieco sedeva sul lato della strada maestra e, sentendo l’annuncio degli angeli, pregò i passanti di condurlo da Gesù Bambino. Nessuno aveva tempo per lui.
Quando la folla fu passata e le strade tornarono silenziose, il bimbo udì in lontananza il lieve rintocco di una campana da bestiame. Pensò “Forse quella mucca si trova proprio nella stalla dove è nato Gesù bambino!” e seguì la campana fino alla stalla ove la mucca portò il bimbo cieco fino alla mangiatoia dove giaceva il neonato Gesù.

L’albero di Natale

Molte leggende narrano che l’abete è uno degli alberi dal giardino dell’Eden.
Una narra che esso è l’albero della Vita le cui foglie si avvizzirono ad aghi quando Eva colse il frutto proibito e non fiorì più fino alla notte in cui nacque Gesù Bambino. Un’altra leggenda narra che Adamo portò un ramoscello dell’albero del bene e del male con lui dall’Eden. Questo ramoscello più tardi divenne l’abete che fu usato per l’albero di Natale e per la Santa Croce.

Un’ altra storia sull’ agrifoglio(Gina Marzetti Noventa)

Il coro di Angeli sembra avvicinarsi alla terra; c’è tanta festa attorno. Come si può resistere al desiderio di correre dal Santo Bambino anche se non si ha nulla da offrire?
Ebbene, il pastorello andrà alla divina capanna; un ramo d’agrifoglio sarà il suo omaggio.
Eccolo alla grotta. Si avvicina felice e confuso al bambino sorridente che sembra aspettarlo.
Ma che cosa avviene? Le gocce di sangue delle sue mani, ferite dalle spine, si trasformano in rosse palline, che si posano sui verdi rami dell’arbusto che egli ha colto per Gesù. Al ritorno, un’altra sorpresa attende il pastorello: nel bosco, tra le lucenti foglie dell’agrifoglio, è tutto un rosseggiare di bacche vermiglie.
Da quella notte di mistero, l’agrifoglio viene offerto, in segno di augurio, alle persone care.

La leggenda delle Palle di Natale

A Betlemme c’era un artista di strada molto povero che non aveva nemmeno un dono per il Bambino Gesù, ma andò a trovarlo e fece ciò che sapeva fare meglio, il giocoliere, e lo divertì fino al riso.
Questo- si dice- è il perché ogni anno sull’albero di Natale appendiamo le Palle colorate – per ricordarci delle risate di Gesù Bambino.

La leggenda delle Ghirlande

Una vigilia di Natale, quando Gesù venne a benedire gli Alberi di Natale, notò che l’albero di una casa era coperto da ragnatele, tessute da strani ragni.
Quando benedisse l’albero, Gesù trasformò le ragnatele in bellissime ghirlande d’oro e d’argento.
Da allora noi le usiamo per decorare i nostri abeti a Natale.

La leggenda del Pettirosso.

Un piccolo uccellino marrone divideva la stalla a Betlemme con la Sacra famiglia.
La notte, mentre Giuseppe e Maria si addormentarono, notò che il fuoco si stava spegnendo.
Così volò giù verso le braci e tenne il fuoco vivo con il movimento delle ali per tutta la notte, per tenere al caldo Gesù bambino.
Al mattino, era stato premiato con un bel petto rosso brillante come simbolo del suo amore per il neonato re.

Il bastoncino di zucchero

Il bastoncino di zucchero è stato a lungo un simbolo del Natale, con il suo gusto di menta.
Perché i bastoncini di zucchero sono bianchi a strisce rosse? La tradizione vuole che fossero inventati da un dolciaio che aveva intenzione di creare un dolce che ricordasse Gesù alle persone. Ecco cosa rappresenta il bastoncino di zucchero:
E’ fatto di caramello solido perché Gesù è la solida roccia su cui sono costruite le nostre vite (Mat 16:18) (1Thess 5:24).
Al caramello diede la forma di una “J” per Jesus (Gesù in inglese) (Atti 4:12), mentre per altri è la forma di un bastone da pastore, perché Gesù è il nostro pastore (Giovanni 10:11).
I colori sono stati scelti anche per rappresentare l’importanza di Gesù: il bianco per la purezza e l’assenza di peccato in Gesù (Eb 4:15) , e la larga striscia rossa rappresenta il sangue di Cristo versato per i peccati del mondo (Giovanni 19:34-35). Le tre strisce rosse sottili rappresentano le strisce lasciate dalle frustate del soldato romano (Isaia 53:5). Il sapore del bastoncino è di menta piperita che è simile all’issopo, pianta aromatica della famiglia della menta usato nel Vecchio Testamento per purificare e sacrificare. Gesù è il puro agnello di Dio venuto a sacrificarsi per i peccati del mondo.

E, ci auguriamo di tutto cuore, che l’issopo giornaliero che siamo costretti ad ingoiare per l’orribile funzionalità della nostra società, Gesù Bambino, dono di Dio all’umanità, lo muti non in menta piperita, ma almeno in qualcosa di meno “aspro” per tutti.

E ciò non solo è cristiano, ma global.

Approfondimenti su CHIESA E MAFIA su http://terradinessuno.wordpress.com

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VALLELUNGA:DICEMBRE 2007

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U VIAGGIU DULURUSU…

La novena di Natale,in lingua siciliana,di BINIDITTU ANNULERU

in  http://gmazzarese.altervista.org

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U VURCIDDRATU DI VALLELUNGA:CIBO,CULTURA,IDENTITA’ SOCIALE E RELIGIOSA.

chiesa-madre-di-pippo-nicoletti.jpgvallepippo-nicoletti.jpg (foto Pippo Nicoletti)

Ogni comunità locale ha tracciato,nei secoli la sua storia e la sua identità,anche attraverso la creazione di determinati cibi che sono connotativi di una singola comunità.

Il cibo viene considerato cultura quando viene prodotto perché l’uomo crea (produce) il proprio cibo, il cibo è cultura quando si prepara perché l’uomo trasforma i prodotti di base mediante la sua tecnologia, il proprio fare e intervenire, il cibo è cultura quando si consuma perché l’uomo lo fa considerando non solo il suo aspetto nutrizionale ma associandolo anche a valori simbolici. Il consumo, quindi, come azione sociale dotata di senso e componente fondamentale della cultura materiale. Il consumo come elemento di interazione sociale, come incrocio di significati che contribuiscono alla creazione dell’identità collettiva ed individuale all’interno di uno spazio virtualmente oggi sempre meno definito, ma necessariamente innestato nella dialettica tra le tendenze che caratterizzano una cultura materiale planetaria e le “originarie” culture materiali locali.

Mangiare non significa semplicemente soddisfare la sensazione fisica della fame. Non si mangia solo per placare il brontolio dello stomaco, ma anche per soddisfare l’appetito e le proprie emozioni. Fin dai tempi antichi, il cibo viene usato per festeggiare, calmare, per alleviare la noia e la depressione, e come consolazione nei momenti di tristezza e angoscia. Il cibo è considerato come catalizzatore sociale infatti la consumazione di un pasto è un momento privilegiato per comunicare: a tavola ci si riconcilia o si litiga, si fanno dichiarazioni o confessioni; il cibo è espressione dei sentimenti: un piatto preparato con amore è differente da un piatto preparato con indifferenza; si può sedurre con la cucina, attraverso il potere evocativo di spezie, aromi, accostamenti audaci, colori, profumi.
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la mancanza di tempo da dedicare,oggi, all’alimentazione continuano ad aumentare il divario esistente fra cibo e cultura del cibo. La perdita della capacità di progettare l’alimentazione dei figli con i figli da parte dei genitori, fa accrescere il problema: cresceranno generazioni senza più radici cultural-alimentari, per cui la norma sarà il piatto pronto da scongelare nel micro-onde e bicchieroni di bevande ipercaloriche. Si perde nelle generazioni il significato del cibo come reale veicolo emotivo, come fattore comunicativo, oltre chè come strumento per vivere e mantenere la propria salute: raramente una famiglia mangia tutta insieme e molti bambini fanno colazione in macchina, pranzano alla mensa, cenano dai nonni e dopo cenano con i genitori prima di andare a letto.
Secondo molti antropologi attraverso il cibo, la cucina rappresenta un modo per porre in relazione diversi piani di analisi, da quello ecologico a quello tecnico, da quello sociale a quello simbolico. I gusti alimentari rappresentano quindi un effetto del contesto socio-culturale di appartenenza, per cui gusto e disgusto non dipendono dalla natura ma sono spesso determinati dalla cultura e quindi dalle abitudini. Come ha sostenuto Fishler “La variabilità delle scelte alimentari umane procede forse in gran parte dalla variabilità dei sistemi culturali: se non mangiamo tutto quello che è biologicamente commestibile, è perché non tutto ciò che si può biologicamente mangiare è culturalmente commestibile.”
Come ha osservato Mary Douglas, il cibo oltre ad essere un elemento di sostentamento del corpo, è anche un importante medium, in quanto rappresenta un mezzo di comunicazione, attraverso il quale l’individuo esprime se stesso e allo stesso tempo si differenzia dagli altri, ovvero da coloro i quali non hanno le stesse abitudini alimentari. Il cibo può rappresentare una “frontiera culturale simbolica”, così come si può osservare con i tabù alimentari. Ma allo stesso tempo il cibo segna dei confini ben precisi anche all’interno di una stessa società, come ha dimostrato Bourdieu quando ha descritto i sistemi alimentari delle classi popolari e di quelle borghesi.
Il cibo è anche strumentale nel sottolineare le differenze, tra gruppi, culture, strati sociali, e serve a rafforzare l’identità di gruppo, a separare e distinguere il “noi” dagli “altri” [Bourdieu 1983

Come sostiene Massimo Montanari,senza cibo non si vive. Ma il cibo è anche un’occasione per incontrarsi e per far festa, un simbolo di abbondanza e di benessere. Il cibo è talmente importante nella vita degli uomini che ha un ruolo fondamentale anche nella religione. Nel Nuovo Testamento, ad esempio, sono almeno quattro i momenti in cui l’insegnamento di Gesù si collega al cibo: Le nozze di Cana, quando Gesù trasforma l’acqua in vino; La moltiplicazione dei pani e dei pesci; L’ultima cena e La cena di Emmaus.
Dietro ai sapori, agli odori, si nascondono tantissimi significati; dietro al gusto di sedere a tavola, ma anche di stare dietro ai fornelli, esiste una trama fitta di simboli e linguaggi che costituiscono il variegato panorama della scienza culinaria.
Il nostro corpo, la nostra psicologia, l’educazione, la cultura, l’ambiente, la storia, sono elementi fondamentali per ripercorrere e capire l’itinerario del piacere, poiché condizionano non solo la preparazione e la presentazione del cibo, ma anche la percezione visiva, olfattiva e la scelta di alcuni sapori al posto di altri. Esistono poi elementi spesso ignorati ma non meno importanti quali il desiderio, la creatività, la voglia, l’immaginazione che trasformano i cibi e la loro preparazione in un vero e proprio linguaggio.
La storia dell’alimentazione, dunque, è una storia ricca di sorprese, di civiltà alimentari che cambiano, un mondo di gusti, sapori e profumi ancora tutti da scoprire. Un mondo che possiede naturalmente la sua storia, i suoi usi e costumi, i suoi artisti, le sue leggende, tradizioni, e perché no, i suoi eroi, scienziati, filosofi, musicisti e poeti.

Ciò che si fa assieme agli altri, infatti, assume per ciò stesso un significato sociale, un valore di comunicazione, che, nel caso del cibo, appare particolarmente forte e complesso, data l’essenzialità dell’oggetto rispetto alla sopravvivenza dell’individuo e della specie. I messaggi possono essere di varia natura ma, in ogni caso, trasmettono valori di identità. Identità economica: offrire cibi preziosi significa denotare la propria ricchezza. Identità sociale: soprattutto in passato, la quantità e la qualità del cibo erano in stretto rapporto con l’appartenenza a un certo gradino della scala gerarchica (il cibo, anzi, era il primo modo per ostentare le differenze di classe). Identità religiosa: il pane e il vino dei cristiani vanno ben oltre la loro materialità, la dieta dei monaci ha sue regole, la quaresima si segnala con l’astinenza da certi cibi; in altri contesti religiosi, certe esclusioni o tabù alimentari (il maiale e il vino dell’Islam, la complessa casistica di cibi leciti e illeciti dell’ebraismo) hanno il ruolo prevalente di segnalare un’appartenenza. Identità filosofica: le diete vegetariane legate al rispetto della natura vivente o, in passato, a sistemi più strutturati come la metempsicosi o trasmigrazione delle anime. Identità etnica: il cibo come segno di solidarietà nazionale (la pasta per gli italiani, soprattutto all’estero, non è solo un alimento ma anche un modo per recuperare e riaffermare la propria identità culturale; lo stesso vale per il cuscus degli arabi e per tutti i cibi che, in ciascuna tradizione, costituiscono un segno particolarmente forte della propria storia e della propria cultura). Tutte queste situazioni esprimono contenuti diversi, perfettamente comprensibili perché comunicati con un linguaggio codificato all’interno di ciascuna società. E appunto trattandosi di un linguaggio, interculturalità significa non solo disponibilità allo scambio tra culture diverse (come, ad esempio, sta avvenendo nei paesi europei in seguito alla forte immigrazione dai paesi islamici) ma, anche, conoscenza degli altri linguaggi, giacché è evidente che ciascun elemento può assumere, in contesti diversi, diverso significato. nel modo di affrontare le differenze all’interno di una medesima cultura: accanto alle identità nazionali vi sono quelle regionali, urbane, familiari… La “cucina della mamma” risulta sempre più gradita e, soprattutto, assicura conforto e preserva un’identità di cui non siamo sempre sicuri. Il comportamento alimentare diviene in questo senso un importante “rivelatore”: l’uomo è ciò che mangia, certo, ma è anche vero che mangia ciò che è, ossia alimenti totalmente ripieni della sua cultura.

Rientra a pieno titolo nelle caratteristiche tradizioni popolari natalizie della Sicilia anche la secolare tradizione culinaria. Per l’occasione l’estro culinario siciliano si esplica nella realizzazione di ricchi piatti che evidenziano la festa in corso e la bravura culinaria di chi la prepara e principalmente in svariati e succulenti dolci dal sapore genuino tipico degli ingredienti naturali utilizzati, tradizione che risente della concorrenza industriale degli altrettanto classici panettoni e pandori ma che non accenna ad ecclissarsi.
Tra i dolci tipici natalizi realizzati in Sicilia non si può fare a meno di citare altri tipici biscotti come i “Cosi Chini”, contenenti un ripieno di fichi secchi e mandorle, ma soprattutto il “buccellato”, dolce natalizio siciliano per eccellenza contenente un ripieno composto da fichi secchi, uva passa, mandorle, noci, pinoli, bucce d’arancia candite e zucchero ed il classico torrone.

Nel periodo in cui si svolge la novena natalizia che anticamente comprendeva nove serate dove si riunivano parenti ed amici, le donne più anziane per allietare il tempo si apprestavano a preparare diverse pietanze tra cui il dolce natalizio per antonomasia: il buccellato.

I dolci natalizi più diffusi,in Sicilia, sono i buccellati, i nucatuli a Palermo, i mustazzoli a Messina, i cuddureddi a Catania, la petrammennula a Modica, le paste di vino cotto a Cammarata.

Il Buccellato siciliano, dal tardo latino bucellatum, “sbocconcellato”, è un dolce tradizionale, diffuso in tutta l’isola, e consumato nel periodo natalizio. Si tratta di un impasto di pasta frolla, decorata e forgiata in vari modi (spesso a forma di ciambella) ripieno di fichi secchi, uva passa, mandorle, scorze d’arancia e ingredienti che variano a seconda delle zone in cui viene preparato. Cotto al forno, il buccellato si conserva a lungo e, sempre presente nelle tavole natalizie, viene consumato nell’intero periodo festivo.

Passata la commemorazione dei fedeli defunti,il vallelunghese si dedica alla raccolta delle olive. Dopodichè inizia il ciclo delle festività natalizie e la creazione del dolce tipico:I VURCIDDRATI.

Quelli della tradizione vallelunghese sono ripieni di fichi,ma soprattutto di mandorle e assumono la forma di un piccolo tozzo di pane.

La presenza di frutta secca nel ripieno e la modalità della sua preparazione fa pensare che questo dolce tradizionale possa essere pervenuto da una ricetta del periodo medievale,di derivazione toscana,probabilmente dalla città di Lucca dove ,ad oggi,questo dolce, è molto diffuso.

L’ingrediente principale,il ripieno di mandorle,è legato ad una specifica coltivazione presente a Vallelunga:i mandorleti. Ad oggi,non più consistente come una volta, ma pur sempre presenti se pur in minima quantità. Quanto basta,quando l’annata è propizia,per raccogliere quel quantitativo per fare la CUBBAITA a settembre,per i festeggiamenti della Patrona, Maria SS. Di Loreto,e i vurciddrati a Natale. Anche quelli preparati con i fichi secchi, sono legati alla raccolta in estate dei fichi. Raccolta che comunemente avviene nel mese di luglio, alcuni di essi sono destinati ad asciugare al sole, serviranno, in inverno, a confezionare i buccellati o a produrre marmellata casereccia,nel periodo estivo. Era consuetudine “incannarli”, cioè conficcarli in segmenti ricavate da arbusto di “canna” o fatti passare in lunghi fili di spago e appesi al sole perché si asciugassero ed essiccassero.

Così,mentre la natura testimonia l’arrivo dell’inverno,il Buccellato vallelunghese,assume,una sua caratterisitica che è quella di veicolare l’identità di un popolo lavoratore della terra che ha legato la sua storia alla fede cattolica. Il Buccellato,così come altri alimenti,tipici di Vallleunga,dicono la specificità dell’identità di questo popolo. La sua fraganza e la sua dolcezza,sono davvero unici:provare per credere!

Ma il buccellato diventa anche veicolo di incontro tra i residenti a Vallleunga e i suoi tanti figli emigrati in varie parti del nor-italia e dell’Europa (Germania in testa).Infatti,preoccupazione delle famiglie degli emigrati è quello di preparare in casa o comprare negli appositi forni del paese “u Vurciddratu” da far pervenire ai propri cari lontani dalla terra natia. Gli emigrati aspettano il “pacco natalizio”,contenente oltre che i Buccellati,i fichi secchi,le mandorle,le noci e altre realtà tipiche di Vallelunga,per ritrovare un forte legame affettivo ed emotivo con la loro terra e i loro cari. Se l’emigrazione li tiene lontani da Vallelunga, i dolci tipici li uniscono alla loro terra e alleviano la durezza della lontananza dalla loro terra natia.

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RESISTENZA ALLA MAFIA: CROCEVIA DI LEGALITA’ E SANTITA’

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IL PRESEPE SICILIANO:I MATERIALI

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Il Presepe Siciliano

I Materiali

 

Così come varie sono le componenti culturali, diverse le tradizioni locali, anche la tipologia della produzione presepiale siciliana presenta notevoli varietà.
Ciò si riscontra non solo nelle tipologie, nell’impostazione della scenografia, ma più direttamente ed innegabilmente nell’impiego dei materiali per la costruzione dell’apparato celebrativo del lieto evento.
Limitandosi all’osservazione di quanto prodotto negli ultimi secoli, i presepi siciliani risultano composti essenzialmente in cartapesta, cera, avorio, corallo, madreperla, terracotta e stucco.
Appare subito evidente la diversa qualità, e quindi costo, di tali materie prime: se per la cartapesta (o tessuto e colla) e la terracotta (o ceramica) i costi di base erano irrisori, altrettanto non si può dire per le statuine di corallo, avorio e madreperla. Da questa prima distinzione, diciamo di carattere economico, derivava quindi una diversità per quanto riguarda le dimensioni delle figure e dell’intero impianto.
In avorio esistono raffigurazioni presepiali con una decina di figure contenute in preziose teche di metallo e vetro di pochi centimetri. Ma a prescindere da questi casi di presepe miniaturizzato, normalmente modeste sono le dimensioni di tali preziosi manufatti. Il famoso presepe del Tipa, conservato nel Museo Pepoli di Trapani, che può considerarsi tra i più grandi di quel genere, pur contenendo una quantità di personaggi e di scene (superba la caccia al cinghiale) supera di poco un metro di fronte.
D’altro canto, sia per il corallo che per l’avorio vi erano degli obiettivi ed invalicabili limiti per la realizzazione dei personaggi, quindi si poteva abbondare nel numero di questi, ma non nelle loro dimensioni .
Diverso il discorso per quanto riguarda i materiali cosiddetti poveri: pietra, legno,cartapesta, gesso ed argilla. In questi casi, a prescindere dall’estrema economicità della materia prima, non vi erano limitazioni per quanto riguarda la loro misura, tanto che non è raro il caso in cui i personaggi furono realizzati a grandezza naturale. Tra gli esempi più significativi va ricordato il presepe monumentale (XVIII sec.) di S. Maria La Scala presso Acireale.
Un’attenzione particolare meritano i presepi in cera come pure i bellissimi Bambini Gesù di questo delicato materiale.
La ceroplastica siciliana ha una tradizione illustre. Documentata con certezza nelle opere della bottega di Gaetano Giulio Zummo o Zumbo (di cui non si sa ancor bene se Siracusa o Messina sia stata la patria), la produzione più nota è quella delle scene anatomiche in cui sono raffigurati corpi squartati con un iperrealismo di gran lunga più esasperato di quanto aveva fatto il Caravaggio in pittura. Significativi esempi della raccapricciante, quanto meticolosa ed affascinante, produzione di quest’artista siciliano sono i gruppi oggi esposti nelle sale del Victoria and Albert Museum di Londra, a Firenze (Museo della Specola), o a Parigi.
Più documentata l’origine e l’attività del messinese Giovanni Rossello, anche lui superlativo nel plasmare in cera figure e scene di presepe.
Ancora inesplorato il campo della ceroplastica siciliana potrà riservare piacevoli sorprese. Certo resta che già nel XVII secolo, con Zummo abbiamo opere destinate in un certo senso a rimanere insuperate per complessità e raffinatezza. Constatazione che porta a considerare
meglio le origini di questa arte che andrebbero ricercate in precedenti a noi ignoti.
Non è difficile peraltro trovare immediato collocamento tra gli artisti che così bene modellano la cera e le botteghe degli orafi che sappiamo numerosi ed apprezzati in Sicilia nei secoli XVI e XVII, quando non ancor prima.
La produzione a “cera persa” era diffusa tra orafi ed argentieri e la minuziosità di taluni manufatti preziosi propone un facile collegamento con quanto giuntoci come creazione dei raffinati ceroplasti siciliani.
La nostra terra sin dall’antichità era nota per la grande quantità di gustoso miele dato dalle sue arnie, cui era relativa, come sottoprodotto, la cera. La familiarità con questa materia estremamente plastica deve averne favorito l’impiego nell’arte, non solo presepiale, come del resto è documentato in arredi sacri e profani. A titolo esemplificativo basterà ricordare il fastoso paliotto detto di S. Gregorio, conservato nel Museo regionale di Messina, realizzato in coralli, granati, madreperla e figurine di cera policroma a rilievo, molto simili a quelle che decorano i saloni di Palazzo Biscari, a Catania e Palazzo Butera, a Palermo.
Sulla lavorazione della cera vale la pena ricordare una stretta analogia tra quanto prodotto in Sicilia e le statuette di argomento presepiale che agli inizi del secolo scorso venivano fuse in Austria per essere poste sotto campana di vetro. La curiosità sta pure nel fatto che le iscrizioni contenute in un cartiglio, posto a mo’ di didascalia, alla base di queste statuette erano in lingua italiana. Questo particolare può trovare spiegazione nella destinazione commerciale del prodotto e nella mentalità aperta verso le regioni italiane dell’Impero Austro-Ungarico. L’origine di questa comune manifattura ed identità di gusto tra la Sicilia e l’Austria potrebbe essere ricollegata all’interscambio avvenuto nei primi decenni del settecento quando, entrambi i popoli ebbero, comune sovrano, Carlo VI d’Asburgo.
La presenza e l’attività di botteghe dei mastri cerai è da sottolinearsi specie nella parte orientale dell’Isola, dove oltre che nelle grandi città, nei centri minori, specie se collegati a Santuari, è documentata la produzione sia di Bambini Gesù come di candele votive intrecciate e decorate, ed ex voto anatomici in cera (Noto, Patti, S. Salvatore di Fitalia, Mistretta).
Assieme alla rappresentazione presepiale, che in alcuni casi assumerà grandi proporzioni, sia per la misura dei personaggi che per il loro numero (non rari i casi in cui questi erano alcune centinaia), l’iconografìa del Natale in Sicilia venne essenzializzata alla sola figura del principale protagonista: il Bambino Gesù. Anche in questo caso le materie impiegate furono svariate: spesso fu usato il legno scolpito e rivestito di una patina a base di stucco o gesso che con raffinato trattamento imitava i colori sfumati dell’incarnato, ma effetti ancor più morbidi ed ottimali nell’imitazione della realtà furono raggiunti con l’impiego della cera, anch’essa adeguatamente trattata e colorata, non mancarono i casi in cui fu proficuamente utilizzata l’argilla.
Relativamente frequente fu l’impiego di materiali pregiati e preziosi come il corallo, l’avorio, la madreperla, o anche l’oro e l’argento. Non era eccezionale il caso di piccoli Bambini Gesù fusi in oro conservati in apposite scatole intarsiate, usate in particolare modo durante i lunghi viaggi dall’aristocrazia siciliana a mo’ di “Pietà”, i preziosi altarini portatili in metallo inciso.
Per quanto riguarda i Bambini di cera i “Bammineddi” è opportuno osservare alcune differenze. A prescindere dalle dimensioni, la loro lavorazione può distinguersi per una fondamentale caratteristica: vi erano botteghe di “Bamminari” che offrivano il prodotto “cavo” mentre altri plastificatori realizzavano statuette piene. Queste ultime pare avessero due momenti di fusione: all’esterno veniva realizzata una consistente patina spessa diversi millimetri (anche in rapporto alle dimensioni) e dentro quest’involucro più raffinato, sia nella materia prima che nella necessaria lavorazione, veniva versata altra cera grezza conferendo così maggiore consistenza alla statuetta.
E evidente che all’interno di queste due principali categorie vi erano poi tanti altri caratteri distintivi in funzione dell’abilità e della sensibilità artistica del modellatore. Un’altra diversità essenziale stava nel modo di realizzare gli occhi del Bambino. E chiaro che l’impiego di bulbi oculari finemente lavorati in pasta vitrea comportava contatti con ambienti tecnologicamente avanzati, per non dire di carattere industriale. Quindi sarà difficile riscontrare specie nel XVIII secolo l’impiego di questo specifico accessorio nella produzione di un “Bambinaro” magari abile, ma geograficamente emarginato.
Molto lontano ci portano le figurine in terracotta che compongono la stragrande maggioranza dei presepi domestici e non. L’arte figulina, di plasmare cioè a mano o con stampi, delle statuette d’argilla, poi cotta e dipinta, risale ad epoche remote. Già nella preistoria in Sicilia, come del resto in altre regioni, venivano modellati degli idoletti con quello che rimane l’elemento più diffuso e più semplice da plasmare. Curiose figure stilizzate, riferite soprattutto al culto della dea Madre, si conservano nei nostri Musei, dove peraltro, venendo ad epoche a noi più prossime, diviene esorbitante il numero di statuette fittili raffiguranti la variegata mitologia greca o gli dei del Pantheon romano. Per non dire delle raffinate “Pinakes”.
Quindi tradizione atavica che viene ereditata dalle popolazioni del Mediterraneo, tradizione che malgrado i secoli trascorsi e la bufera iconoclasta, riaffiora nel medio evo e trova immediata applicazione nella produzione delle figure da presepe. Produzione che avrà capillare diffusione in epoche a noi vicine, tanto che anche la casa più modesta possedeva, sino a qualche decennio fa, un proprio piccolo presepe di figure in argilla con cui celebrare la venuta del Salvatore. Le dimensioni erano varie, anche se sommariamente potrebbero distinguersi due moduli: le piccole figure, che non superano i 10 centimetri d’altezza e le figure considerate grandi, che misurano circa 20 centimetri.
A questa prima distinzione ne segue una seconda: figure a tutto tondo e mezze figure. Le prime erano ovviamente più complete e costose, mentre le seconde risultano lavorate solo nella parte frontale e venivano ottenute premendo l’argilla cruda in appositi stampi.
Ancora, va ricordato che quasi sempre queste statuette erano vivacemente colorate, ma esistono casi in cui il pasturare preferiva lasciare a vista il rosato colore dell’argilla cotta.
Anche la fantasia del modellatore non aveva limiti, vi erano personaggi “canonici” tra i pastori, come per il tonto, “u maravigghiato da rutta”, o il vecchietto seduto che si scalda al fuoco,”u vecchiu cu cufularu”, o la lavandaia, il ricottaro, o il portatore di legna. Non mancavano gli smaccati anacronismi, come nel caso del cacciatore con tonante doppietta. In pratica si realizzava nella scenografia del presepe, più che una rappresentazione teatrale dell’evento sacro, una sorta di “fumettone” letto e goduto da grandi e bambini.

Tratto dal volume “Il Presepe una cultura-una tradizione in Sicilia” di Franz Riccobono.

Pena di morte: perché è giusto abolirla ovunque e per sempre

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Non uccidere (Es 20,13).
Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio”. Ma io vi dico: Chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio » (Mt 5,21-22).

DI GIAMPIERO TRE RE*

Sul piano puramente tecnico dell’argomenazione giuridica si deve convenire con eminenti studiosi di diversa tradizione filosofico-giuridica, come N. Bobbio o F. D’Agostino, i quali dimostrano che in tema di pena di morte non esiste l’argomento invincibile, il colpo del knock-out in grado di sbaragliare la tesi avversa. Non è possibile in questa sede esporre e discutere nel dettaglio le armi a disposizione nel repertorio degli uni e degli altri, semplicemente qui si ammette l’equilibrio delle ragioni pro o contro la pena di morte.

Le ragioni che faranno prevalere il no alla pena di morte vanno cercate sul piano antropologico, cioè ad un livello pre-giuridico, in quella sorta di biografia collettiva cristallizzata nei miti di fondazione delle civiltà. Tali ragioni affondano le radici nel sentimento diffuso della giustizia che solo gradualmente emerge in forme giuridicamente consapevoli seguendo le tipiche leggi di crescita insite nei processi di individuazione ed elaborazione dei valori. Torna utile qui la lezione di R. Girard, perché è appunto sul piano antropologico che vediamo sopravvivere, anche in civiltà giuridiche avanzate, residui di pensiero mitico, che contempla la possibilità di ricostituire la coesistenza umana, negata nell’attuazione del crimine, grazie all’espulsione del colpevole non solo dalla convivenza civile ma da qualsiasi relazione e dall’esistenza stessa degli esseri umani viventi. Da un punto di vista psicosociale il fenomeno può essere descritto come una prassi ritualistica per mezzo della quale le società tribali tentano di controllare e contenere la presenza del male e le tendenze autodistruttive presenti nel loro stesso seno. Detto nei termini, a noi oggi più congeniali, del linguaggio dei diritti, è la qualifica stessa di umanità che viene negata alla vita ed agli atti del colpevole nello sforzo di ristabilire la dignità dell’offeso e dell’intera collettività.

Nella nostra civiltà è il fallimento della giustizia nel processo a Socrate, ma più ancora nel processo che si conclude con la condanna a morte di Gesù, come recentemente ha dimostrato G. Zagrebelsky, all’origine non solo degli aspetti processualpenalistici e più in generale giuridici del rapporto tra stato e individuo ma anche del rapporto tra forma del potere politico e diritti umani. La lezione storica che sta alle basi della tradizione morale dell’occidente è che è meglio subire l’ingiustizia che compierla, è preferibile non punire il colpevole che colpire l’innocente. Tradizionalmente questa consapevolezza morale si è espressa nella forma di vari principi prudenziali che tengono conto della fallibilità umana e dunque del fatto che un errore giudiziario è sempre possibile. Ma ciò cui oggi assistiamo è l’emergere progressivo, sul piano antropologico, della ben più radicale consapevolezza della non eliminabilità del male dalla convivenza umana attraverso lo strumento della norma, umana o divina che sia. Emerge gradualmente e sarà sempre più evidente anche sul piano della civiltà giuridica l’idea che un passo decisivo di giustizia dev’essere compiuto non ripetendo all’infinito il tragico rituale dell’autoliberazione dal male, che alimenta se stesso attraverso l’eliminazione fisica del colpevole. Eliminare la pena di morte stessa.

*Docente di filosofia, psicologia e scienze sociali, è dottore di ricerca in Diritti dell’Uomo presso l’Università di Palermo e licenziato in Teologia morale presso l’Università Gregoriana di Roma. Specialista di bioetica è autore di vari articoli e saggi tra cui Terra di nessuno. Bioetica dei diritti dell’embrione umano, Palermo 1999.

Da:http://terradinessuno.wordpress.com

 

“SPE SALVI”:NELLA SPERANZA SIAMO STATI SALVATI.Seconda Enciclica di Benedetto XVI

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“Nella speranza siamo stati salvati”.

La scienza, la ragione, il progresso esaudiscono molte attese ma non danno la “vita eterna”. Papa Joseph Ratzinger rimette i cristiani e il mondo davanti al giudizio di Dio. E porta ad esempio due santi, tra i più umili e sconosciuti

di Sandro Magister

ROMA, 30 novembre 2007 – L’enciclica “Spe salvi” sulla speranza, che Benedetto XVI ha firmato e pubblicato oggi, festa di sant’Andrea apostolo e antivigilia dell’Avvento, muove da questa motivazione, descritta così nel paragrafo 22:

“È necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza.

“In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire.

“Bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire delle proprie radici”.

In questa doppia “autocritica” della cultura moderna e del cristianesimo, prosegue il papa, “ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione”.

* * *

Bastano queste poche righe per capire quanto l’enciclica rechi l’impronta fortissima di Joseph Ratzinger filosofo, teologo e papa.

Sbaglierebbe però chi aspettasse di leggervi solo una dotta lezione. Lo stile è vibrante, l’argomentazione ricca di immagini, il racconto animato di personaggi.

Scorre davanti agli occhi del lettore l’intera storia del mondo, dal principio fino al suo compimento. Le pagine finali su Cristo giudice, sull’inferno, sul purgatorio, sul paradiso, sono folgoranti per i temi in se stessi – quasi spariti dalla predicazione nelle chiese – e ancor più per come sono sviluppati.

La lettura intera del testo è d’obbligo, come sempre per gli scritti di Benedetto XVI, che non hanno mai la pagina clou, la frase manifesto facilmente isolabile.

Ma per mostrare come la lettura di “Spe salvi” può riservare parecchie sorprese, ecco riportati qui di seguito due brani, tratti dal paragrafo 3 e dal paragrafo 37.

Portano ad esempio della speranza cristiana due santi, e non dei più famosi.

La prima è un’africana del Darfur, il secondo è un martire del Vietnam.

Santa Giuseppina Bakhita

Giungere a conoscere Dio, il vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall’incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile. L’esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio.

Penso all’africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. All’età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all’avanzata dei mahdisti, tornò in Italia.

Qui, dopo “padroni” così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un “padrone” totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava “paron” il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo.

Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un “paron” al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona.

Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei, anzi, che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal “Paron” supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava “alla destra di Dio Padre”. Ora lei aveva “speranza”, non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e, qualunque cosa accada, io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona.

Mediante la conoscenza di questa speranza lei era “redenta”, non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo, senza speranza perché senza Dio.

Così, quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiutò; non era disposta a farsi di nuovo separare dal suo “Paron”. Il 9 gennaio 1890 fu battezzata e cresimata e ricevette la prima santa Comunione dalle mani del patriarca di Venezia. L’8 dicembre 1896, a Verona, pronunciò i voti nella congregazione delle suore Canossiane e da allora – accanto ai suoi lavori nella sagrestia e nella portineria del chiostro – cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione. La liberazione che aveva ricevuto mediante l’incontro con il Dio di Gesù Cristo sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di persone. La speranza, che era nata per lei e l’aveva “redenta”, non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.

San Paolo Le-Bao-Thin

Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l’oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine.

Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore.

Vorrei in questo contesto citare alcune frasi di una lettera del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin († 1857), nelle quali diventa evidente questa trasformazione della sofferenza mediante la forza della speranza che proviene dalla fede:

“Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna è la sua misericordia (cfr Salmo 136 [135]).

“Questo carcere è davvero un’immagine dell’inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza.

“Ma Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna è la sua misericordia. In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me […]. Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini (cfr Salmo 80 [79], 2) e i Serafini? Ecco, la tua croce è calpestata dai piedi dei pagani! Dov’è la tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell’ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore.

“Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza sia manifestata e glorificata la tua forza davanti alle genti […]. Fratelli carissimi, nell’udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna è la sua misericordia. […] Vi scrivo tutto questo, perché la vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta, getto l’àncora fino al trono di Dio: speranza viva, che è nel mio cuore…”.

Questa è una lettera dall'”inferno”. Si palesa tutto l’orrore di un campo di concentramento, in cui ai tormenti da parte dei tiranni s’aggiunge lo scatenamento del male nelle stesse vittime che, in questo modo, diventano pure esse ulteriori strumenti della crudeltà degli aguzzini.

È una lettera dall’inferno, ma in essa si avvera la parola del Salmo: “Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti […]. Se dico: “Almeno l’oscurità mi copra” […] nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce” (Salmo 139 [138] 8-12; cfr anche Salmo 23 [22],4).

Cristo è disceso nell'”inferno” e così è vicino a chi vi viene gettato, trasformando per lui le tenebre in luce. La sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili.

È sorta, tuttavia, la stella della speranza, l’àncora del cuore giunge fino al trono di Dio. Non viene scatenato il male nell’uomo, ma vince la luce: la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode.

Da: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/179661

 

 

COSA SIGNIFICA LA BELLISSIMA ENCICLICA DI BENEDETTO XVI SULLA SPERANZA

01.12.2007

 

Un testo bellissimo da leggere e meditare…

Una bomba. E’ la nuova enciclica di Benedetto XVI, “Spe salvi” dove non c’è neanche una citazione del Concilio (scelta di enorme significato), dove finalmente si torna a parlare dell’Inferno, del Paradiso e del Purgatorio (perfino dell’Anticristo, sia pure in una citazione di Kant), dove si chiamano gli orrori col loro nome (per esempio “comunismo”, parola che al Concilio fu proibito pronunciare e condannare), dove invece di ammiccare ai potenti di questo mondo si riporta la struggente testimonianza dei martiri cristiani, le vittime, dove si spazza via la retorica delle “religioni” affermando che uno solo è il Salvatore, dove si indica Maria come “stella di speranza” e dove si mostra che la fiducia cieca nel (solo) progresso e nella (sola) scienza porta al disastro e alla disperazione.

Benedetto XVI, del Concilio, non cita neanche la “Gaudium et spes”, che pure aveva nel titolo la parola “speranza”, ma spazza via proprio l’equivoco disastrosamente introdotto nel mondo cattolico da questa che fu la principale costituzione conciliare, “La Chiesa nel mondo contemporaneo”. Il Papa invita infatti, al n. 22, a “un’autocritica del cristianesimo moderno”. Specialmente sul concetto di “progresso”. Per dirla con Charles Péguy, “il cristianesimo non è la religione del progresso, ma della salvezza”. Non che il “progresso” sia cosa negativa, tutt’altro e moltissimo esso deve al cristianesimo come dimostrano anche libri recenti (penso a quelli di Rodney Stark, “La vittoria della Ragione” e di Thomas Woods, “Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale”). Il problema è l’ “ideologia del progresso”, la sua trasformazione in utopia.

Il guaio grave della “Gaudium et spes” e del Concilio fu quello di mutare la virtù teologale della “speranza” nella nozione mondanizzata di ”ottimismo”. Due cose radicalmente antitetiche, perché, come scriveva Ratzinger, da cardinale, nel libro “Guardare Cristo”: “lo scopo dell’ottimismo è l’utopia”, mentre la speranza è “un dono che ci è già stato dato e che attendiamo da colui che solo può davvero regalare: da quel Dio che ha già costruito la sua tenda nella storia con Gesù”.

Nella Chiesa del post-Concilio l’ “ottimismo” divenne un obbligo e un nuovo superdogma. Il peggior peccato diventò quello di “pessimismo”. A dare il là fu anche l’ “ingenuo” discorso di apertura del Concilio fatto da Giovanni XXIII, il quale, nel secolo del più grande macello di cristiani della storia, vedeva rosa e se la prendeva con i cosiddetti “profeti di sventura”: “Nelle attuali condizioni della società umana” disse “essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia… A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo”.

Roncalli fu ritenuto, dall’apologertica progressista, depositario di un vero “spirito profetico”, cosa che si negò – per esempio – alla Madonna di Fatima la quale invece, nel 1917, metteva in guardia da orribili sciagure, annunciando la gravità del momento e il pericolo mortale rappresentato dal comunismo in arrivo (dopo tre mesi) in Russia. Si verificò infatti un oceano di orrore e di sangue. Ma 40 anni dopo, nel 1962, allegramente – mentre il Vaticano assicurava Mosca che al Concilio non sarebbe stato condannato esplicitamente il comunismo e mentre si “condannavano” a mille vessazioni santi come padre Pio – Giovanni XXIII annunciò pubblicamente che la Chiesa del Concilio preferiva evitare “condanne” perché anche se “non mancano dottrine fallaci… ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”.

E infatti di lì a poco si ebbe il massimo dell’espansione comunista nel mondo, non solo con regimi che andavano da Trieste alla Cina e poi Cuba e l’Indocina, ma con l’esplosione del ’68 nei Paesi occidentali che per decenni furono devastati dalle ideologie dell’odio. Pochi anni dopo la fine del Concilio Paolo VI tirava il tragico bilancio, per la Chiesa, del ”profetico” ottimismo roncalliano e conciliare: “Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza…L’apertura al mondo è diventata una vera e propria invasione del pensiero secolare nella Chiesa. Siamo stati forse troppo deboli e imprudenti”, “la Chiesa è in un difficile periodo di autodemolizione”, “da qualche parte il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio”.

Per questa leale ammissione, lo stesso Paolo VI fu isolato come “pessimista” dall’establishment clericale per il quale la religione dell’ottimismo “faceva dimenticare ogni decadenza e ogni distruzione” (oltre a far dimenticare l’enormità dei pericoli che gravano sull’umanità e dogmi quali il peccato originale e l’esistenza di Satana e dell’inferno). Ratzinger, nel libro citato, ha parole di fuoco contro questa sostituzione della “speranza” con l’ “ottimismo”. Dice che “questo ottimismo metodico veniva prodotto da coloro che desideravano la distruzione della vecchia Chiesa, con il mantello di copertura della riforma”, “il pubblico ottimismo era una specie di tranquillante… allo scopo di creare il clima adatto a disfare possibilmente in pace la Chiesa e acquisire così dominio su di essa”.

Ratzinger faceva anche un esempio personale. Quando esplose il caso del suo libro intervista con Vittorio Messori, “Rapporto sulla fede”, dove si illustrava a chiare note la situazione della Chiesa e del mondo, fu accusato di aver fatto “un libro pessimistico. Da qualche parte” scriveva il cardinale “si tentò perfino di vietarne la vendita, perché un’eresia di quest’ordine di grandezza semplicemente non poteva essere tollerata. I detentori del potere d’opinione misero il libro all’indice. La nuova inquisizione fece sentire la sua forza. Venne dimostrato ancora una volta che non esiste peccato peggiore contro lo spirito dell’epoca che il diventare rei di una mancanza di ottimismo”.

Oggi Benedetto XVI, con questa enciclica dal pensiero potente (che valorizza per esempio i “francofortesi”), finalmente mette in soffitta il burroso “ottimismo” roncalliano e conciliare, quell’ideologismo facilone e conformista che ha fatto inginocchiare la Chiesa davanti al mondo e l’ha consegnata a una delle più tremende crisi della sua storia. Così la critica implicita non va più solo al post concilio, alle “cattive interpretazioni” del Concilio, ma anche ad alcune impostazioni del Concilio. Del resto già un teologo del Concilio come fu Henri De Lubac (peraltro citato nell’enciclica) scriveva a proposito della Gaudium et spes: “si parla ancora di ‘concezione cristiana’, ma ben poco di fede cristiana. Tutta una corrente, nel momento attuale, cerca di agganciare la Chiesa, per mezzo del Concilio, a una piccola mondanizzazione”. E persino Karl Rahner disse che lo “schema 13”, che sarebbe divenuto la Gaudium et spes, “riduceva la portata soprannaturale del cristianesimo”. Addirittura Rahner ! Ratzinger visse il Concilio: è l’autore del discorso con cui il cardinale Frings demolì il vecchio S. Uffizio che non pochi danni aveva fatto. E oggi il pontificato di Benedetto XVI si sta qualificando come la chiusura della stagione buia che, facendo tesoro delle cose buone del Concilio, ci ridona la bellezza bimillenaria della tradizione della Chiesa. Non a caso nell’enciclica non è citato il Concilio, ma ci sono S. Paolo e Gregorio Nazianzeno, S. Agostino e S. Ambrogio, S. Tommaso e S. Bernardo. Un’enciclica bella, bellissima. Anche poetica, che parla al cuore dell’uomo, alla sua solitudine e ai suoi desideri più profondi. E’ consigliabile leggerla e meditarla attentamente.

Antonio Socci
Da “Libero”, 1 dicembre 2007

Il testo integrale dell’enciclica, “Spe salvi” nel sito del Vaticano http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20071130_spe-salvi_it.html

IL PRESEPE “SICILIANO”

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La Storia del Presepe

La prima descrizione della Natività ci giunge dagli evangelisti Luca e Matteo. Nei loro brani, infatti, c’è già tutta la sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di praesepium ovvero recinto chiuso, mangiatoia. Proprio Luca, infatti narra dell’umile nascita di Gesù “in una mangiatoia perché non c’era per essi posto nell’albergo” (Lc 2,7) dell’angelo che annunciò l’evento ai pastori presso i loro rifugi, dei magi venuti da oriente seguendo la stella, per adorare il Bambino che i prodigi del cielo

annunciano già re.

A partire dal IV secolo la Natività diviene uno dei temi dominanti dell’arte religiosa e in questa produzione spiccano per valore artistico: la natività e l’adorazione dei magi del dittico composto da cinque parti in avorio e pietre preziose che si ammira nel Duomo

di Milano e che risale al V secolo e i mosaici della Cappella Palatina a Palermo, del Battistero di S. Maria a Venezia e delle Basiliche di S. Maria Maggiore e S. Maria in Trastevere a Roma. In queste opere dove si fa evidente l’influsso orientale, l’ambiente

descritto è la grotta, che in quei tempi si utilizzava per il ricovero degli animali, con gli angeli annuncianti mentre Maria e Giuseppe sono raffigurati in atteggiamento ieratico simili a divinità o come soggetti secondari quasi estranei all’evento rappresentato. Dal secolo XIV la Natività è affidata all’estro figurativo degli artisti più

famosi che si cimentano in affreschi, pitture, sculture, ceramiche,argenti, avori e vetrate che impreziosiscono le chiese e le dimore della nobiltà o di facoltosi committenti dell’intera Europa, valgano per tutti i nomi di Giotto, Filippo Lippi, Piero della Francesca,

il Perugino, Dürer, Rembrandt, Poussin, Zurbaran, Murillo, Correggio, Rubens e tanti altri. Il presepe come lo vediamo rappresentare ancor oggi, nasce secondo la tradizione dal desiderio di San Francesco di far rivivere in uno scenario naturale la nascita di Betlemme coinvolgendo il popolo nella rievocazione che ebbe luogo a Greccio la notte di Natale del 1223. L’episodio fu poi rappresentato magistralmente da Giotto nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi.

Primo esempio di presepe inanimato, a noi pervenuto, è quello che Arnolfo di Cambio scolpisce nel legno nel 1280 e del quale oggi si conservano le statue residue nella cripta della Cappella Sistina di S. Maria Maggiore in Roma. Da allora e fino alla metà del 1400 gli artisti modellano statue di legno o terracotta che sistemano davanti a un fondale pitturato riproducente un paesaggio che fa da sfondo alla scena della Natività; il presepe è esposto all’interno delle chiese nel periodo natalizio. Culla di tale attività artistica fu la Toscana ma ben presto il presepe si diffuse nel regno di Napoli ad opera di Carlo III di Borbone e nel resto degli Stati italiani.Nel ‘600 e ‘700 gli artisti napoletani danno alla sacra rappresentazione un’impronta naturalistica inserendo la Natività nel paesaggio campano ricostruito in scorci di vita che vedono personaggi della nobiltà, della borghesia e del popolo rappresentati nelle loro occupazioni giornaliere o nei momenti di svago: nelle taverne a banchettare o impegnati in balli e serenate. Nel ‘700 si diffonde il presepio meccanico o di movimento che ha un predecessore in quello costruito da Hans Schlottheim nel 1588 per Cristiano I di Sassonia. La diffusione a livello popolare si realizza nel ‘800 quando ogni famiglia in occasione del Natale costruisce un presepe in casa riproducendo la Natività secondo i canoni tradizionali con materiali – statuine in gesso o terracotta, carta pesta e altro – forniti da un fiorente artigianato. In questo secolo si caratterizza l’arte presepiale della Puglia, specialmente a Lecce, per l’uso innovativo della cartapesta, policroma o trattata a fuoco, drappeggiata su uno scheletro di fil di ferro e stoppa. A Roma le famiglie importanti per ricchezza gareggiavano tra loro nel farsi costruire i presepi più imponenti, ambientati in città o nella campagna romana, che permettevano di visitare ai concittadini e ai turisti. Famosi quello della famiglia Forti posto sulla sommità della Torre degli Anguillara, o della famiglia Buttarelli in via De’ Genovesi riproducente Greccio e il presepe di S. Francesco o quello di Padre Bonelli nel Portico della Chiesa dei Santi XII Apostoli, parzialmente meccanico con la ricostruzione del lago di Tiberiade solcato dalle barche e delle città di Gerusalemme e Betlemme.

IL PRESEPE IN SICILIA

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La tradizione tipicamente italiana del presepe si realizza in forme estetiche e stilistiche diverse che risentono dell’allocazione geografica e dei diversi periodi storici. Il presepe Siciliano usa particolari materiali come la cera, il corallo,l’avorio,l’osso,la madreperla,l’alabastro e materiali propri di alcune zone dell’isola. In Sicilia l’arte presepiale risente degli influssi della scuola napoletana soprattutto per ciò che riguarda l’ambientazione come la riproduzione di scene di vita quotidiana tipica delle varie zone dell’isola con personaggi tipicamente isolani. Anche la tecnica,pur rifacendosi alla tipologia del presepe partenopeo,presenta,tuttavia,caratteri di originalità in relazione alle situazioni geo-culturali dell’isola.

In Europa si festeggia il natale e l’inizio del nuovo anno tagliando alberi e addobbandoli con festoni e palline colorate e luci, nel Sud è più diffusa la tradizione del Presepe.
In Sicilia sono quattro le aree in cui si è sviluppato una tradizione di un certo rilievo riguardo al presepe con forti connotazioni isolane :Palermo,Siracusa,Trapani e Caltagirone.Nel palermitano e nel siracusano,a causa dell’apicultura molto diffusa,sin dal ‘600 si fece uso della cera per creare statuine e poi interi presepi. A Palermo,l’apicultura è molto diffusa e fin dal ‘600 si usò la cera per plasmare statuine di Gesù Bambino e poi interi presepi. In quest’arte si distinguono i cosiddetti “Bambinai” che operavano nella zona della chiesa di San Domenico tra il ‘600 e il ‘700.
Caposcuola fù Giulio Gaetano Zumbo di cui si può ammirare un presepe al Victoria and Albert Museum di Londra. Altri nomi famosi furono:Giovanni Rosselli,Anna Fortino,Giacomo Serpotta. I bambinelli cerei,creati dai predetti artisti,sono alquanto raffinati,impreziositi di accessori aurei ed argentei, con una croce in mano a voler sottolineare il forte legame, teologico-liturgico, esistente tra il Natale e la Pasqua.A Siracusa,così come a Palermo, è la cera d’api ad essere molto utilizzata per la costruzione dei presepi. Nel ‘800 sono rinomati i “cerari” siracusani che producono presepi interi o Bambinelli dall’espressione gioiosa o dormienti, recanti nelle mani un agnellino, un fiore o un frutto e immersi in un tripudio di fiori di carta e lustrini colorati dentro teche di vetro (scarabattole).
Tra gli artisti del siracusano eccellono Fra’ Ignazio Macca, del quale si conservano alcuni presepi nell’eremo di San Corrado a Noto e nel Museo Bellomo di Siracusa e Mariano Cormaci ricordato dal presepe in cera a grandezza naturale sito nella grotta di Acireale. Notevole anche il presepe conservato nel palazzo Vescovile di Noto, che rappresenta uno spaccato di vita contadina, composto da 38 figure inserite nel paesaggio dei monti iblei. Di notevole importanza anche un grande presepe,a Scicli,del 1576 ,di autore ignoto e di stile napoletano,ed un presepe a Modica, in terracotta, allestito nel 1882 dall’artista caltagironese Benedetto Papale. A Trapani,per la creazione dei presepi sono stati utilizzati materiali nobili soprattutto il corallo,come unico elemento in epoca rinascimentale,insieme all’avorio,alla madreperla,all’alabastro e alle conchiglie nel periodo barocco e rococò. Splendidi esempi sono i presepi esposti al museo Pepoli di Trapani. La “città del presepe”per antonomasia è Caltagirone.Nella città calatina i presepi sono stati realizzati in terracotta,poiché in città è stato sempre presente l’artigianato della terracotta e delle ceramiche,e rappresentano scene di vita contadina e pastorale animate da personaggi come il pastore dormiente,lo zampognaro,il venditore di ricotta,il cacciatore. Il periodo “d’oro”dell’arte presepiale caltagironese si ebbe tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’ ‘800 con la creazione di presepi in terracotta policroma Nomi di spicco furono quelli degli artisti Giuseppe e Giacomo Bongiovanni e Giuseppe Vaccaro.Categorie rinomate nel calatino furono quelle dei “Santari” e “Pasturari” che hanno reso famosa la città di Caltagirone in tutto il mondo. I presepi di Caltagirone,sul finire del ‘700 fecero il giro di tutta Europa ed alcuni di essi hanno trovato posto in musei prestigiosi come il British di Londra e quello di Monaco di Baviera. La fama degli artisti “pasturari” calatini divenne tale che era vanto delle famiglie nobili e benestanti dell’isola possedere a casa loro un presepe di Caltagirone. L’ultimo grande creatore di presepi fù padre Benedetto Papale che riusciva ad incantare i visitatori con i suoi capolavori artistici. Ciò che rende splendidi i personaggi del presepe calatino è la loro perfetta aderenza psico-antropologica alla realtà e al tempo in cui è stato creato. Infatti il presepe di Calatagirone è lo specchio di una società contadina,di “burgisi”,piccoli artigiani che non celebrano la loro condizione sociale bensì mettono il loro status al servizio della Natività. C’è negli artisti calatini una profonda aderenza ed adesione umana al mondo agro-pastorale che li circonda. Il “pasturaru”o chiunque costruisca un presepe è attento a modificare,di volta in volta,la rappresentazione adeguandola al sentire e al vivere del suo tempo cosicché quelli che possiamo considerare degli archetipi,pur rimanendo tali,si trasformano in divenire fino a raggiungere la dimensione del metafisico quale fine supremo della storia. L’umilissimo “mestiere” dei “Pasturari”,che ormai si tramanda da tre secoli,ha fatto sognare intere generazioni di artigiani calatini le cui opere continuano,ancora oggi, a riempire le case di tutti i siciliani.

Michele Vilardo