Il “diritto di morire” e i doveri della politica. Di Mario Picozzi.

 schiavo

Terry Schiavo

LA BIOETICA COME SPAZIO PER IL DONO, CONTRO LA LOGICA

SPERSONALIZZANTE DEL MERCATO: LA GRATITUDINE INVECE DEL

PRINCIPIO D’EQUIVALENZA. ANCHE LE SITUAZIONI TRAGICHE, IN CUI LA

VITA VIENE POSTA IN DISCUSSIONE FINO AL PUNTO D’ESSERE NEGATA,

POSSONO INDURCI A RAGIONARE SULLA RICCHEZZA DELLE RELAZIONI

TRA LE PERSONE. Su QUESTO FRONTE CRUCIALE IL RUOLO DELLA

POLITICA, CHIAMATAA GESTIRE L’INCERTEZZA E LA PLURALITÀ DI DIRITTI

TRA LORO IN CONTRASTO.

 

Bioetica. Il “diritto di morire”

e i doveri della politica

 

di

Mario Picozzi*

 

La prima definizione sistemica di bioetica ha ormai compiuto 30 anni Wilhelm Reich cosi la definì nel 1978 quando venne pubblicata la prima Enciclopedia di Bioetica «Lo studio sistematico della condotta umana nell’ area delle scienze della vita e della cura della salute in quanto tale condotta viene esaminata alla luce di principi e valori morali»’. Oggi la disciplina ha acquisito un suo spazio riconosciuto sia a livello accademico, in diverse facoltà, sia in ambito istituzionale (si pensi al ruolo dei Comitati di Etica nella sperimentazione clinica). Allo stesso tempo i dibattiti bioetici hanno avuto grande rilevanza anche nella discussione pubblica, comportando talvolta fratture nella società civile, soprattutto rispetto alla non procrastinabile necessità di tradurre in legge questioni riguardanti temi di inizio e fine vita.

Il presente contributo non si propone di fare un bilancio di questi primi 30 anni, né di ripercorrere le tappe più significative che hanno segnato la storia, ancorché breve, di questa

disciplina. Ci limiteremo a indicare quali sono, a nostro parere, i temi che, emersi nella riflessione di questi decenni, costituiscono aspetti cruciali su cui la bioetica sarà chiamata a interrogarsi nel prossimo futuro. Più precisamente riteniamo vi sia una questione centrale, che in modo più o meno esplicito è presente in tutti i dibattiti, e che determina le differenti posizioni e le conseguenti risposte date ai quesiti bioetici. Un’impostazione non pertinente di tale questione rischia di pregiudicare le successive riflessioni. Pur volendo mantenere uno sguardo ampio, che tenga conto della

riflessione condotta a livello internazionale, inevitabilmente avremo come sfondo di riferimento la situazione italiana, che indubbiamente ha sue specifiche peculiarità.

 

IL PUNTO CENTRALE: LA QUESTIONE DELL’AUTONOMIA DEL SOGGETTO

 

La riflessione bioetica, pur con accentuazioni diverse, è attraversata dalla questione dell’autonomia del soggetto: quale il peso da attribuire alla libera scelta degli individui? A quali condizioni il soggetto può dirsi realmente autonomo?

Basti per esemplificare riferirsi ai temi di fine vita: chi può decidere se la propria vita sia degna di essere vissuta se non il soggetto stesso? È lecito sottrargli tale possibilità? Ma un soggetto affetto da una malattia grave è in grado di decidere? Quali i possibili condizionamenti, anche di ordine economico, che possono spingerlo a richiedere di porre fine alla sua vita, passando dal diritto a morire al dovere di morire?

Detto in altri termini, è la diatriba, sorta inizialmente sul tema dell’interruzione della gravidanza e riproposta sulla questione della fecondazione medicalmente assistita, tra i “fautori della scelta” e i “sostenitori della vita”.

Siamo continuamente, soprattutto in Italia ma non solo, rinviati a due posizioni, al tempo stesso nette e inconciliabili, tra i difensori della qualità della vita da una parte e i protettori della sacralità della vita dall’altra. Inevitabilmente ciò si traduce anche nei dibattiti politici e nella conseguente difficile se non impossibile impresa di giungere a soluzioni condivise su questioni, quali il nascere e il morire, che riguardano la possibilità stessa di sussistenza del vivere insieme.

Ma realmente le due posizioni sono alternative?

«La vita apprezzata come istanza sacra e sottratta ad ogni disponibilità ad opera dei soggetti implicati, diventa criterio materiale; la qualità della vita, d’altra parte, quando sia apprezzata rimovendo l’originario suo riferimento ad un’istanza che supera la vita stessa e che è norma per la libertà del soggetto, diventa criterio solo psicologico, assegnato all’insindacabile modo di sentire del singolo. La vita sacra, nel suo profilo dunque di istanza morale, non può essere definita ignorando la coscienza che l’accompagna; e d’altra parte la qualità della vita non può essere valutata senza far riferimento ai criteri oggettivamente iscritti nelle forme dell’alleanza umana in genere, e rispettivamente nelle forme di quella che è stata chiamata alleanza terapeutica» 2.

Come dire che «il giudizio su un’azione sarebbe meno oggettivo se non considerasse il soggetto che pone o subisce tale azione; una norma morale intesa e applicata a prescindere dall’intenzione degli agenti dal contesto storico condurrebbe ad esiti materialistici e violentemente astratti. Ciò significa che la soggettività valutativa non può essere espunta, ma va istruita e preparata attraverso una metodologia decisionale prudente»3. In ogni storia un soggetto è sempre oggettivamente coinvolto.

La decisione, per esser la propria decisione, esige una scelta, dove l’identità stessa del soggetto è chiamata in causa; questa scelta non è nota al soggetto a monte di ogni relazione, ma esattamente grazie alla relazione, dentro cui emergono le buone ragioni a favore di una determinata opzione.

Il contrario di autonomia è eteronomia: ossia abdicare alla propria responsabilità. Mentre invece non vi è contrasto tra autonomia e dipendenza: anzi è solo consentendo al riconoscimento del mio debito verso l’altro e conseguentemente verso il mondo intero (la cultura, le tradizioni) che il soggetto può decidere di sé. L’autonomia non può essere punto di partenza: è approdo finale reso possibile dalla presenza dell’altro. Non si tratta quindi di rinnegare l’autonomia, ma di ripensarla a partire dalla storia e dal vissuto delle persone.

Questo percorso relazionale per un discernimento rifugge da formule predeterminate e allo stesso tempo ammette soluzioni diverse, pur partendo da condizioni e contesti simili. Analogamente non si accontenta di prendere atto della decisione altrui; nessuna decisione è buona per il semplice fatto di essere presa in autonomia: quante decisioni sono esattamente frutto di atteggiamenti di omologazione, in cui il soggetto non sceglie, ma è eterodiretto.

L’odierna riflessione bioetica, soprattutto quella che trova spazio nei mass media, tende a semplificare e banalizzare, a volere il giudizio immediato e gridato, a costruire fazioni e cercare supporter dell’una o dell’altra tesi. È una trappola da cui rifuggire.

Ma il non poter fare a meno del soggetto, che per decidere non può fare a meno dei soggetti che lo circondano, cosa comporta per le questioni bioetiche?

Con alcune esemplificazioni cerchiamo di rendere conto delle conseguenze della nostra impostazione.

 

IL BIODIRITTO O LA BIOPOLITICA

 

Oggi si tende sempre più a parlare di biodiritto, inteso come l’esigenza di tradurre le problematiche bioetiche in norme che disciplinino i comportamenti collettivi all’interno della società 4. Ma forse sarebbe più preciso parlare di biopolitica: «Oggi vita e morte non sono più propriamente concetti scientifici, ma concetti politici, che, in quanto tali, acquistano un significato preciso solo attraverso una decisione» 5.

Per legge, almeno in Italia, viene definito quando un soggetto è morto; sempre più norme di legge vengono invocate per dirimere questioni bioetiche. Il potere che la tecnologia ha obiettivamente sulla nuda vita (si pensi all’ingegneria genetica) si trasferisce nelle mani della politica.

L’esercizio del potere passa attraverso il controllo dei fenomeni biologici, in primo luogo quelli riguardanti la vita umana. Stiamo riferendoci alla nuda vita, non alla vita biografica e quindi sociale che, se può essere controllata, al tempo stesso ha sempre risorse per sfuggire a tale controllo.

E questo fenomeno appare pacificamente accolto; la cosa invece avrebbe di che preoccuparci.

Se da un lato occorre governare determinati ambiti, poiché il rischio è quello dell’arbitrio e dell’anarchia, dall’altro occorre essere avvertiti delle conseguenze in cui si può incorrere assegnando ad uno strumento, la norma di legge, l’ultima parola, definitoria, su un bene fondamentale, quale la vita umana. Né si può misconoscere il ruolo che la legge ha sulla formazione delle coscienze, comunitaria e singola.

Ma l’enfasi con cui da più parti si invocano leggi sui temi di inizio vita e fine vita appare sospetta sotto un altro versante. La norma di legge viene percepita quale strumento per definire ogni specifico caso, esautorando i soggetti dalle proprie responsabilità. Si pensi ai medici: essi diventano fedeli esecutori, meri tecnici, professionalmente preparati, ma esenti dal chiedersi il significato di quanto da loro eseguito.

Può realmente la legge dirimere senza il cimento della libertà dei soggetti, le diverse questioni bioetiche? Le infinite variabili soggettive e oggettive che di fatto intervengono nelle azioni umane comportano necessariamente l’impossibilità del diritto di contemplare tutti i singoli casi. Per cui «la singolare contingenza di taluni casi, eccedendo la possibilità della legge civile di regolarli, limita quest’ultima a valere ut in pluribus, cioè nella maggior parte dei casi» 6. Certo «il riconoscimento della competenza della coscienza nei singoli casi non esclude, ma anzi rimanda alla generale validità della legge. Singola eccezione e regola generale sono, infatti, reciproche: «Non c’è eccezione senza regola per l’eccezione alla regola» 7.

Quindi «la considerazione dei limiti strutturali di ogni legge civile invita a riconoscere la competenza della coscienza personale nelle decisioni relative ai casi-limite. Il rinvio alla coscienza non è la delega in bianco concessa all’arbitrio soggettivo perché faccia ciò che vuole, ma il riconoscimento che, nei singoli casi, la percezione sintetica delle variabili in gioco da parte della coscienza vede meglio della previsione legislativa» 8.

Riferiamoci esemplificativamente alla distinzione tra accanimento ed eutanasia: «L’inevitabile approssimazione con cui la legge generale può definire i casi di eutanasia e di accanimento terapeutico lascia sussistere tra i due divieti uno spazio intermedio in cui solo il miglior giudizio della coscienza personale può dirimere la fattispecie» 9. Uno spazio cioè dove la legge non entra (fatta salva la possibilità di verificare la sussistenza dei criteri stabiliti) in cui la relazione medico-paziente diventa il “luogo decisionale.

Ciò comporta l’ammettere giustamente che si possano dare scelte diverse a partire dalla medesima situazione clinica; ciò disegna un legittimo pluralismo delle scelte, senza che si cada nel relativismo etico. Un siffatto pluralismo non deroga al duplice divieto di eutanasia e di accanimento terapeutico; esso, piuttosto, attesta che. in talune circostanze, la rinuncia alle cure non necessariamente coincide con l’eutanasia. e nemmeno il loro mantenimento necessariamente coincide con l’accanimento terapeutico»10. È vero che il pluralismo delle scelte “non assicura certo che la vita umana sia sempre adeguatamente difesa. Non è però questo il solo pericolo. Lo è altrettanto quello di pensare che la vita umana sia sempre adeguatamente difesa anche a prescindere dal giudizio di chi. in prima persona, si trova in situazione di grave sofferenza “11.

Lo spazio da lasciare alla competenza relazionale. dove non appare subito chiaro cosa occorra fare, traduce la prospettiva da noi enunciata in cui l’autonomia è punto di arrivo di un rapporto fiduciale.

 

IL TEMA DEL DONO

 

Il dono è argomento molto presente nel dibattito bioetico. [appello al dono viene invocato su più temi: dall’atto generativo alla disponibilità ad offrire i propri organi. Ma talvolta si rischia di farne una caricatura, o di trasformarlo in atto eroico, oltre le stesse possibilità umane o di mostrarlo come unico e ultimo antidoto all’imperialismo del mercato. Diventa quindi indispensabile una più accurata analisi.

Dal punto di vista del mercato, il legame sociale ha un senso se e nella misura in cui è funzionale rispetto a ciò che circola. “ Il mercato è il complesso delle regole che permettono a degli estranei di Lare transazioni pur restando il più possibile degli estranei. È un modo di comunicare con l’estraneo quando si vuole che resti un estraneo dopo lo scambio: quando non ci si interessa a lui ma ai suoi beni, e lui ai nostri”12. Tra compratore e acquirente non si mette in gioco la propria identità: in Quella comunicazione ciascuno rimane se stesso, senza contaminazione Addirittura «l’archetipo del mercato è l’assenza completa di legame. Il mercato permette a due estranei di comunicare a proposito delle cose senza rivolgersi la parola» 13. Il prezzo è l’esempio eclatante di questa modalità: viene fissato in anticipo, al di fuori delle considerazioni personali. al di fuori anche dei soggetti, tra due estranei che non si seducono. Il mercato è regolato dal principio «dell’equivalenza tra le cose, indipendentemente dal legame tra le persone»14. Nel dono invece «ciò che circola è al servizio del legame sociale, o almeno è condizionato dal legame sociale. Il legame e il bene sono spesso indissociabili»15.

Vediamo alcuni esempi. Vi sono dei doni in cui ciò che si dona ha un’utilità relativa o nulla: ad esempio un mazzo di fiori; la loro finalità tende ad esprimere e nutrire il legame. Talvolta il valore di legame e l’utilità sono strettamente legati, quasi condizionati l’uno all’altro. Si pensi al dono di un organo da parte della madre alla propria figlia.

Infine abbiamo il dono unilaterale fatto agli sconosciuti: la donazione di sangue, il dono di un organo dopo la morte. In questi casi i legami sociali sembrerebbero completamenti assenti. Invece tali gesti acquistano senso poiché fatti in nome della solidarietà, per cui «la loro ragion d’essere è quel legame simbolico che unisce il donatore e il donatario nell’ambito di uno stesso insieme»16. Essi rappresentano l’espressione di una gratitudine verso una comunità da cui si è stati accolti, condotti sulle strade della vita, gratuitamente. «Si amano persone che in ogni caso fanno parte della nostra stessa specie umana, perciò si ama l’umanità e, in essa, anche se stessi, ben ricordando che nessuno nasce da se stesso e che ognuno è quello che è solo grazie alla civiltà dalla quale ha ricevuto le condizioni per poter essere quello che è»17.

Da ciò ne consegue che «il circolo del dono non è solo dare e ricevere, ma è altresì ricambiare o restituire. Il rapporto di scambio è attivo-passivo sui due fronti: di chi dona e di chi riceve e a sua volta ricambia»18.

Il dono ammette il debito, anzi la cifra del dono è il riconoscimento del debito verso l’altro. Non vi è gratuità senza gratitudine. Non la restituzione, ma le forme che essa assume differenziano il dono dal mercato. Nel dono la restituzione spesso è più grande del dono: non risponde al principio di equivalenza. Ammette che l’identità del donatore, insieme a quella del ricevente, possa modificarsi. Infine, ed è l’aspetto decisivo, la restituzione è fatta liberamente. Certo è desiderata, auspicata, non esigita, richiesta obbligatoriamente, come in un contratto o nella scambio mercantile. Dunque c’è sempre un rischio di non restituzione, accettato o assunto dal donatore. Di modo che «è l’assenza di garanzia di restituzione, piuttosto che l’assenza di restituzione che caratterizza il dono»19. La restituzione è sempre implicita nel dono.

Più sono convinto che l’altro non è obbligato a restituire, più lo libero da questo obbligo, più il suo gesto sarà libero, sarà fatto in forza del nostro rapporto, nutrirà il legame, custodirà la relazione, sarà fatto per me. Ed è proprio su questo scambio libero che si fonda e costituisce la coesione sociale. Il paradosso è esattamente che una società vive e muore, si rafforza o indebolisce grazie a questi milioni di gesti quotidiani, in funzione di dar fiducia o no ad un altro membro della società, di correre il rischio che il dono non sia ricambiato. Di conseguenza «lo Stato e il mercato devono fermarsi sulla soglia in cui quel che circola (beni ma soprattutto servizi) è il legame, in cui il servizio è il legame»20. Si pensi qui al tema della giusti zia in sanità e del ruolo degli aspetti economici nelle scelte cliniche.

Ma vogliamo esemplificare quanto da noi detto su un altro versante, quello della donazione di organi.

Purtroppo ancora oggi molte persone muoiono in attesa di ricevere un organo. Per rispondere a questo dramma, almeno a livello di riflessione teorica nel mondo anglosassone, si ipotizza l’utilizzo del mercato per incrementare la disponibilità di organi. Ma se il prezzo da pagare è l’esclusione di qualsiasi forma di legame, l’operazione appare rischiosa e destinata al fallimento. Al di là della difficoltà di stabilire l’equivalenza

(quanto vale un organo?), si andrà sempre più verso un’escalation delle richieste, in cui l’unico elemento di controllo sarà il rapporto tra domanda e offerta. Ma tali fluttuazioni sono compatibili con la tutela della salute e della vita dei cittadini e con la sostenibilità anche economica di una società? In più ciò concorrerà a quello sfaldamento sociale, che ha come conseguenza la solitudine di ogni cittadino, sempre più senza legami vitali, con conseguente ulteriore difficoltà a porre gesti solidali.

Poniamoci invece nella logica del dono da noi prospettata. Punto di partenza – sia per la donazione da vivente che da cadavere – è il riconoscimento della logica del dono definito nella sua circolarità di dare, ricevere, restituire. Quindi forme di restituzione sono eticamente ammissibili, stabilite alcune condizioni.

Sono accettabili quelle forme di restituzione — nel nostro caso al donatore di organi — che non si basino sul principio di equivalenza, ma in cui sia conservato il valore di legame, con il singolo e con la comunità, che moriva la donazione. Si devono perciò escludere forme di automatismo, conservando anche simbolicamente il rischio di non restituzione, ammettendo al tempo stesso forme differenziate di restituzione.

La libertà del ricevente va custodita e tutelata, consentendo al tempo stesso espressioni di gratitudine, in grado di rafforzare il legame sociale.

Nella determinazione del soggetto/dei soggetti in grado di governare e garantire l’intero processo, occorrerà prevedere la presenza — se non affidare l’intera gestione — dei rappresentati dei mondi vitali presenti in una società, in forza di quel legame sociale che permea l’intera proposta.

Tutto ciò è possibile abbandonando un’impostazione culturale che rappresenta il dono quale scelta eroica, unidirezionale, chiusa in sé stessa:

una sorta di altruismo esasperato, che rende appunto il dono impossibile 21, irreale, e quindi non promettente, non fecondo. Gratuità e gratitudine sono invece iscritte nella relazione umana, dove l’autonomia del soggetto riconosce il debito verso l’altro per potersi esprimere e realizzare.

 

GESTIRE L’INCERTEZZA

 

A fronte di quanto abbiamo fin qui sostenuto, appare chiaro che la bioetica e i suoi quesiti si proporranno sempre più dentro una scala di grigi, difficilmente inquadrabili in formule predefinite. Questo certo non rassicura, e chiama in causa la maturità e la responsabilità delle persone.

L’incertezza appare la nuova frontiera dell’agire in campo biomedico 22. Ma davvero è una nuova questione?

Fino a qualche decennio fa un ethos condiviso, l’autorità del medico, la sudditanza del cittadino, la concentrazione del sapere scientifico, hanno permesso di controllare e gestire l’incertezza: essa era implicitamente presente, accettata, mai tematizzata. L’accresciuta consapevolezza del cittadino dei suoi diritti, segnatamente nel campo medico, il vorticoso e oggettivamente poco controllabile sviluppo tecnico-scientifico, il pluralismo morale in una società multietnica, e la conseguente difficoltà a gestire situazioni sempre nuove e sempre più complesse, hanno fatto emergere quell’indeterminatezza da sempre caratterizzante la pratica biomedica.

Accettare l’incertezza significa affrontarla, se non si vuole rimanerne schiacciati. Ma allora diventa spontaneo chiedersi quale sia il grado di incertezza che può essere tollerato. È evidente la già segnalata possibile deriva, che spazia dall’anarchia dei cittadini e dei pazienti all’arbitrio dei medici e dei ricercatori. Ma questo non è un destino segnato ed inevitabile, o almeno potrebbe non esserlo. La norma è una garanzia imprescindibile, anche se non sufficiente, perché si conservi e sviluppi il dialogo sia tra coloro che esercitano la stessa professione, sia tra questi e l’intera cittadinanza. Un dialogo che presuppone chiarezza reciproca, affermazione dei diversi punti di vista, ragioni che motivino le differenti posizioni.

Cosa dunque è necessario fare? Dipende. Il fatto che non si possa decidere una volta per tutte, sulla base di una norma generale, non significa che non ci sia nulla che davvero convenga. Vuoi dire che nella possibile diversità di scelte, va tutelato e garantito quel bene che da sempre è inscritto nella relazione umana e, nella fattispecie, nella relazione terapeutica, e che grazie appunto a questa relazione può essere riconosciuto e scelto.

 

*Mario Picozzi è docente d Medicina Legale presso

L’Università degli Studi dell’ Insubria, Tra i suoi scritti, ricordiamo:

Manuale di deontologia medica (con M. Tavani e G Salvati), Giuffrè, Milano 2007.

 

Note

1W. T. Reich (a cura di), Encyclopedia of Bioethics, The Free Press, New York 1978, vol.I, XIX.

2G. Angelini, “La questione radicale: quale idea di vita”, in Aa.Vv, La bioetica. Questione civile e problemi teorici sottesi, Glossa, Milano 1998, pp. 185-186.

3P. Cattorini, “La dimensione etica nelle terapie intensive”, in L. Chiandetti, P. Drago, G. Verlato, C. Viafora, Interventi al limite. Bioetica delle terapie intensive, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 4 1-46.

4L. Palazzani, “Personalismo e biodiritto”, in Medicina e Morale, 2005, LV(1), pp.

13 1-163.

5G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Eìnaudi, Torino 2005, p. 183.

6A. Fumagalli, “Legge civile e coscienza personale”, in C. Casalone, M. Chiodi, P Fontana, A. Fumagalli, M. Picozzi, M. Reichlin, “Il caso Welby. Una rilettura a più voci”, Aggiornamenti Sociali, 2007, 5, pp. 346-357.

7lbid.

8lbid.

9lbid.

10 Ibid., p. 355.

11 Ibid.

12. J. T. Godbout, “La circolazione mediante il dono”, in Aa.Vv., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma 1994, p. 27.

13 ibid.

14 Ibid., p. 28.

15 lbid.

16 lbid.

17 F. Buzzi, Sul significato del dono, lezione tenuta la Master Internazionale in Medical Humanities, Varese, 5luglio 2003 (copia dattiloscritta).

18 Ibid.

19 J. T. Godbout, “La circolazione mediante il dono”, in Aa.Vv., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma 1994, p. 34.

20 Ibid., p. 40.

2I Cfr. J. Derrida, Donare il tempo, Cortina, Milano 1996; Id., Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.

22 Cfr. M. Tavani, M. Picozzi, G. Salvati, Manuale di deontologia medica, Giuffrè, Milano 2007, pp. 555-559.

Tratto da:Dialoghi,Anno VIII,Luglio-Settembre 2008. Numero 3, pp.6-15.