Le delizie senza glutine.Ricettario. Di Concetta Grisanti.

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Ciao Eluana….

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Il caso di Eluana,comune a circa 2000 soggetti in Italia, interpella fortemente la coscienza di tutti gli uomini di “ buona volontà”,siano essi credenti o non credenti. La vita umana,bene supremo ed inalienabile,dovrebbe essere un valore per tutti,anzi il valore numero uno! La cosa davvero grave è dettata dal fatto che un organo giudiziario,anzicchè verificare l’applicazione della legge, ne crea,sostanzialmente,una nuova. E non una legge qualsiasi, ma determina la possibilità di fermare una vita umana seppur sofferente. In uno Stato di Diritto è normale tutto ciò? In tanti hanno esultato,considerando tutto ciò una conquista civile: ma lo è davvero? Non voglio esprimere un giudizio sul caso Eluana ,capisco il dolore e la sofferenza del padre ( e il ruolo della madre?).Che triste libertà,però, è quella che dà la morte ai propri cari! Mi permetto, però, di fare una piccola considerazione:perché i telegiornali fanno vedere sempre le foto di Eluana come era prima e non come è oggi? Voi come ve la immaginate adesso? Scommetto che ognuno di voi se la immagina con gli occhi sempre chiusi e “super-intubata”. Bene, invece – se fate una ricerca su internet –potrete verificare che Eluana certo ha bisogno di un sondino per alimentarsi, ma

1) non è in coma

2) il suo cuore batte e lei respira senza aiuto di macchine

3) dorme e si sveglia,

4) e soprattutto APRE E CHIUDE GLI OCCHI  !!!

 Per avere conferma provate a fare una ricerca su Google con le parole

“Eluana occhi aperti”

Cosa significa questo, che il suo caso è simile a quello dell’americana Terry Schiavo (vedi foto sopra), che è morta di fame e di sete dopo un’agonia di 14 giorni.

Ora, io vi chiedo solo una cosa: visto che chissà perché le foto di Eluana com’è oggi non ci sono (?),guardate bene la foto di Terry Schiavo  ed immaginate Eluana così, che magari non sorride ma comunque HA GLI OCCHI APERTI.

Secondo voi può qualcuno decidere di far morire una persona, solo perché è così gravemente ammalata?

Ascesa e affermazione del cristianesimo….di Rodney Stark.

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Come un movimento oscuro e marginale è diventato in pochi secoli la religione dominante dell’Occidente

L’opinione comune vuole che il cristianesimo sia stato in origine un movimento clandestino diffuso soprattutto fra i più poveri. Ma questa idea, storicamente poco fondata, non riesce a spiegare come un movimento messianico, oscuro e marginale, sia diventato la principale religione dell’Occidente.
In questo saggio appassionante, che si occupa tanto di religione quanto di storia, Rodney Stark indaga sul mistero del successo del cristianesimo, assumendo un punto di vista inedito. Attraverso la rigorosa applicazione di metodi e strumenti sociologici, analizza le ragioni che conducono le persone ad abbracciare una religione e i modi in cui i nuovi gruppi religiosi raccolgono adepti.
Scavando nelle testimonianze storiche, Stark affronta diversi problemi – l’ambiente sociale dei primi convertiti, la cristianizzazione degli ebrei, lo status delle donne nelle comunità cristiane, il ruolo del martirio – e offre al lettore un’immagine viva e anticonformista del cristianesimo delle origini.
L’autore traccia una curva che mostra l’aumento del numero dei cristiani dall’anno 40 al 300. All’epoca di Costantino il cristianesimo costituiva già una forza notevole e si era affermato secondo schemi molto simili ai movimenti religiosi di successo della nostra epoca. Un numero considerevole di cristiani proveniva ad esempio dalle classi istruite e cosmopolite. Il cristianesimo primitivo presentava un nuovo concetto di famiglia e non era legato all’etnicità, per cui esercitò un forte richiamo su chi cercava di assimilarsi alla cultura dominante, principalmente gli ebrei del mondo ellenistico. La prevalenza numerica delle donne nelle prime comunità cristiane, dovuta in parte al rispetto e alla protezione che esse ricevevano, portò spesso a matrimoni misti con pagani da cui risultarono nuove conversioni, e garantì un alto tasso di fecondità.
Stark sottolinea l’importanza dell’aspetto dottrinale e il ruolo cruciale svolto dall’altruismo e dalla fede. Nelle realtà urbane dell’antichità classica devastate da epidemie, incendi e altri disastri naturali, le comunità cristiane fornivano una rete di solidarietà che consentì tassi di sopravvivenza maggiori rispetto ai pagani. Il martirio volontario, in particolare nella generazione successiva alla morte di Cristo, rafforzò poi l’impegno e la coesione del popolo dei fedeli cristiani.
Il complesso e suggestivo quadro che emerge dall’analisi di Stark, lontano da qualsiasi riduzionismo superficiale, ci permette insomma di individuare molti degli elementi che hanno costituito la forza della predicazione cristiana.

La vittoria della Ragione. Di Rodney Stark.

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Molto è stato scritto sui motivi per i quali, a partire dal Medioevo, l’Occidente ha sopravanzato il resto del mondo. Le spiegazioni più comuni hanno riguardato la felice configurazione geografica, l’espansione dei commerci, il progresso della tecnologia. Ma è stato completamente trascurato un fatto: nessuno sviluppo sarebbe stato possibile senza una profonda fiducia nella ragione, che affonda le proprie radici nella religione cristiana.
In La vittoria della ragione, Rodney Stark propone quest’idea rivoluzionaria: le più significative innovazioni intellettuali, politiche, scientifiche ed economiche introdotte nello scorso millennio sono riconducibili al cristianesimo e alle istituzioni a esso collegate. Secondo Stark, non sono state la contrapposizione tra la società laica e quella religiosa, né la competizione tra scienza e fede a farci progredire. Al contrario, è alla teologia cristiana che dobbiamo attribuire la vera origine della ragione. Mentre infatti le altre grandi religioni hanno posto l’accento sul mistero, sull’obbedienza e sulla meditazione, il cristianesimo ha abbracciato la logica e il pensiero deduttivo aprendo la strada alla libertà e al progresso.
Nella sua analisi della supremazia occidentale, Stark ridimensiona in modo convincente «verità» ormai accettate da tempo. Dimostra, ad esempio, che il capitalismo prosperò secoli prima che esistesse un’etica protestante del lavoro, ovvero ben prima della Riforma, confutando l’idea che sia stata essa a favorirne la nascita. Nel V secolo, osserva Stark, sant’Agostino lodava sia il progresso teologico sia quello materiale, mentre, parecchio tempo prima di lui, Aristotele aveva condannato l’attività commerciale come «incompatibile con la virtù umana». Ciò rafforza l’idea che il Medioevo non sia stato un periodo di decadenza o di stasi (i famigerati «Secoli Bui»), ma al contrario la culla delle future glorie dell’Occidente.
La vittoria della ragione è un’analisi di ampio respiro che accompagna il lettore dal Vecchio al Nuovo Mondo, dal passato al presente, ribaltando in questo percorso non solo secoli di pregiudizi accademici, ma anche la radicata tendenza antireligiosa della nostra epoca. Quest’opera dimostra che ciò che più ammiriamo della realtà che ci circonda – il progresso scientifico, la democrazia, il libero commercio – è in larga misura dovuto al cristianesimo, e che noi oggi siamo gli eredi di questa grande tradizione.

La Scoperta di Dio. Di Rodney Stark.

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È stato Dio a creare l’uomo o è stato l’uomo a creare Dio? Dio è soltanto il prodotto di un desiderio universale, o l’uomo ne ha intuito la reale presenza? Perché alcune religioni si somigliano? Perché molte rivelazioni avvennero nello stesso periodo? Perché uno stesso Dio avrebbe parlato in modo differente a popoli diversi? Qual è, in tutto ciò, il posto del cristianesimo? È con questi grandi interrogativi che Rodney Stark – il più illustre sociologo delle religioni – si confronta in questo libro. La storia delle religioni dimostra che c’è stata una evoluzione nella concezione di Dio: gli uomini sembrano adottare quelle immagini di Dio (o degli Dei) che forniscono loro di volta in volta maggiore appagamento, sia spirituale che materiale. Attraverso un’analisi di ampio respiro – dalla fede degli uomini primitivi alle religioni delle prime civiltà (sumeri, egizi, greci, popoli mesoamericani), dal “mercato” religioso relativamente aperto di Roma ai primi monoteismi (zoroastrismo, ebraismo e cristianesimo), fino alla spiritualità “atea” dell’Estremo Oriente e all’Islam – Stark ha raccolto una ricchissima messe di dati e propone una serie di riflessioni che sfatano ancora una volta il pregiudizio antireligioso della nostra epoca.

A lungo l’Italia ha avuto un grave ritardo nella traduzione dei prodotti più importanti della sociologia delle religioni statunitense, soprattutto di quelli che adottano un punto di vista favorevole alla religione, all’Occidente e agli Stati Uniti, considerati poco «politicamente corretti». Era stato così censurato dai nostri editori quello che è probabilmente il più importante sociologo delle religioni vivente, Rodney Stark. Questo avveniva fino a ieri. Oggi – grazie in particolare all’editore Lindau di Torino – le opere fondamentali di Stark cominciano a essere tradotte in italiano, e con buona tempestività giunge in libreria anche La scoperta di Dio. L’origine delle grandi religioni e l’evoluzione della fede (Lindau, Torino 2008, 624 pagine, Euro 28), che il sociologo americano considera una sorta di summa di tutta la sua attività scientifica.

S’immagini qualcuno che odi gli aerei, che non abbia mai preso un aereo e che consideri quelli che viaggiano in aereo come dei pazzi scriteriati. Se lo ritroviamo a scrivere manuali sugli aerei o a occupare cattedre universitarie di aeronautica c’è evidentemente qualche cosa che non va. È la parabola che Stark mi raccontava qualche tempo fa annunciandomi questo volume con cui voleva chiudere i conti con gli studiosi accademici delle religioni, molti dei quali – piuttosto curiosamente – non sono religiosi, odiano le religioni e considerano le persone religiose inguaribilmente arretrate, se non affette da una malattia di cui si dovrebbe cercare la cura.

La scoperta di Dio di Rodney Stark finalmente in

italiano

di Massimo Introvigne

La scoperta di Dio è un’opera monumentale destinata a fare epoca non solo per l’ambizione di portare uno sguardo sociologico sull’intera storia delle grandi religioni, dalla preistoria al fondamentalismo islamico, ma per il carattere molto politicamente scorretto delle conclusioni cui perviene. Per capire di che si tratta occorre ricordare brevemente i principi generali del metodo sociologico di Rodney Stark, ispiratori di una lunga carriera di cui quest’opera costituisce per molti versi il coronamento. La sociologia della religione è stata dominata fin dalle sue origini ottocentesche dall’idea secondo cui la presenza delle religioni è destinata a diminuire mano a mano che avanzano la modernità e la scienza, di cui i primi studiosi di questa materia si consideravano gli araldi, così che si aspettavano di poter fare da notai e stendere presto o tardi l’atto di morte della religione. Poiché le religioni tardavano a morire, le loro idee – senza cambiare nell’ispirazione generale – si sono trasformate in teorie sempre più sofisticate della «secolarizzazione». Uno dei postulati di queste teorie è che la modernità porta con sé la democrazia e la libertà religiosa, che erodono le strutture di plausibilità delle religioni. Se c’è una religione sola – ragionavano questi sociologi – è ancora possibile che qualcuno ci creda veramente. Ma se regna la libertà religiosa e ce ne sono molte, non potendo credere a tutte, si finirà per non credere a nessuna.

I fatti si sono ostinatamente rifiutati di conformarsi a queste teorie. Diffondendosi la democrazia e il pluralismo religioso le religioni non sono scomparse. Anzi, è proprio nei paesi dove ci sono più religioni – come gli Stati Uniti – che c’è anche più religione: più persone si dichiarano religiose, più numerosi sono coloro che frequentano i luoghi di culto. Sono osservazioni già disponibili per i lettori dell’Ottocento sotto la penna di Alexis de Tocqueville (1805-1859) e che, proprio citando Tocqueville, Benedetto XVI ha ripetuto nel corso del suo viaggio negli Stati Uniti del 15-21 aprile 2008.

Proprio facendo leva sul caso americano, Stark e i colleghi che lo hanno seguito – dapprima minoritari, mentre oggi rappresentano negli Stati Uniti una buona metà dei sociologi della religione, anche se incontrano forti resistenze in Europa (ma assai meno in Asia, dove le loro idee sono riprese con particolare entusiasmo in Cina) – hanno gradualmente sostituito al «vecchio paradigma» della secolarizzazione come portato necessario della modernità e del pluralismo un «nuovo paradigma», secondo cui la compresenza di più religioni giova alla religione nel suo insieme. La concorrenza stimola infatti le energie delle varie «aziende» che operano sul «mercato religioso», le spinge a fare di più e a proporre «prodotti» più graditi dal pubblico. La metafora economica può piacere o no, ma non significa affatto che Stark consideri le religioni un prodotto da supermercato, né che si disinteressi delle dottrine. È precisamente il contrario: infatti il centro del «mercato» – se si vuole, il «prodotto» che le «aziende religiose» vendono – è la dottrina, che dunque ha un ruolo centrale nel «nuovo paradigma», mentre il «vecchio» tendeva a spiegare il successo delle religioni con fattori extra-religiosi come la povertà o le crisi politiche. Secondo la nuova teoria il vecchio paradigma si poneva, sbagliando, «dal lato della domanda», andando a cercare nella storia i fattori che facevano crescere o diminuire la domanda di religione, mentre per Stark la domanda tende a rimanere costante nel tempo e per spiegare che cosa succede nel mondo delle religioni occorre porsi supply-side, «dal lato dell’offerta», perché è appunto l’offerta religiosa che cambia continuamente.

E la domanda è veramente molto costante. Ne La scoperta di Dio Stark ipotizza che sia costante fin dalla preistoria (il che equivale a dire che la religione ha qualcosa a che fare con la stessa natura umana), e che anche la distribuzione dei consumatori religiosi in «nicchie» – le quali dividono chi cerca un’esperienza religiosa molto intensa da chi la vuole più blanda – potrebbe essere rimasta costante non solo per secoli, ma per millenni. Ma come è nata l’offerta? Come sono nate le religioni? Stark svela la risposta finale che gli sembra più plausibile solo alla fine del libro, non perché scambi un testo di sociologia per un giallo ma perché è ragionevolmente persuaso che, data all’inizio, la sua risposta apparirebbe così scandalosa da indurre più di un lettore (e certamente molti suoi colleghi accademici) a non proseguire oltre.

Procedendo dunque cautamente, Stark comincia a far notare che le religioni non nascono da vasti «comitati» o dal «popolo»: «una nuova cultura non “accade” semplicemente e né le tribù né le società inventano alcunché. L’innovazione è il lavoro di individui o al massimo di piccoli gruppi». Dopo avere rifiutato come teorie alla vana ricerca di fatti che le confermino le ipotesi secondo cui i culti preistorici e protostorici erano estremamente rozzi, selvaggi e «animistici», Stark mostra come molti studi recenti riabilitino le ipotesi di Andrew Lang (1844-1912) secondo cui i «primitivi», pur non essendo tecnicamente monoteisti, credevano in un «Dio supremo» che regnava su un pantheon di divinità minori e aveva creato il mondo. Rispetto a questa fase più antica l’abbandono dell’idea di «Dio supremo» a favore di un «elaborato politeismo» appare non come un progresso, ma come una decadenza. Questo processo degenerativo porta alle «religioni del tempio», di cui Stark studia dettagliatamente le forme sumere, egizie, greche, maya ed azteche, a proposito di queste ultime ricordando, contro accostamenti «buonisti», sia la centralità del sacrificio umano, sia le sue motivazioni prevalentemente religiose – non economiche o politiche –: «senza le ragioni religiose non ci sarebbe stato nessun sacrificio».

Naturalmente sappiamo molto poco di una eventuale «economia religiosa» nella preistoria e nella protostoria, ma – nota Stark – sappiamo almeno che non c’erano Stati forti in grado di imporre una religione di Stato. Non così all’epoca delle «religioni del tempio», che erano un’appendice dello Stato, avevano un clero statale e contavano sullo Stato per sopprimere qualunque concorrenza (pur potendo presentarsi al loro interno come divise nei culti delle varie divinità politeistiche, tutte però parte di un ordine comune). La conseguenza, come Stark cerca di documentare attraverso un’ampia ricognizione, è quella tipica delle economie religiose monopolistiche. Ufficialmente tutti erano religiosi, ma questa religione si riduceva al sostegno economico (obbligatorio) dei templi, le cui cerimonie spesso erano condotte dal clero senza neppure la presenza del popolo. Nonostante le apparenze in contrario, non si trattava di una religiosità popolare e diffusa. Questo quadro della decadenza della religione precristiana come «religione di Stato» corrisponde, fin nel linguaggio, al quadro tracciato da Benedetto XVI nella prima parte dell’enciclica Spe salvi. Ma la «religione di Stato»  era esposta alla crisi appena si fosse presentata la concorrenza.

Il mercato religioso nasce, secondo Stark, a Roma, che da questo punto di vista – pur mantenendo a lungo gli stessi dei – è molto diversa dalla Grecia. Roma si limita a un modesto sostegno ai templi di Stato, e lascia ampiamente che la religione sia regolata dalla libera concorrenza. Come risultato, la religione fiorisce, benché le autorità si preoccupino di quelle religioni che rischiano di interferire eccessivamente nel normale andamento dello Stato e della politica perseguitando, già prima dei cristiani, gli ebrei – così che solo «strane militanze ideologiche» possono attribuire al cristianesimo la nascita di un antisemitismo che a Roma esisteva ben prima di Gesù Cristo – e i seguaci di culti misterici semi-monoteistici come quelli di Cibele e di Iside. Proprio il successo della religione più crudelmente perseguitata, il cristianesimo, mostrerà però che una volta aperte le porte del mercato religioso è difficile richiuderle persino con il sangue, e chi risponde alla domanda religiosa con l’offerta più persuasiva vince. Ma il successo nel mercato religioso è sempre precario. Chi vince tende a conquistare anche il potere politico e a creare forme di religione di Stato, che s’impigriscono e perdono seguaci. È un rischio, secondo una tesi che Stark ha esposto in maggiore dettaglio altrove, che diverse forme di Chiese cristiane avrebbero spesso corso nella storia.

Il monoteismo costituisce in effetti un’offerta più persuasiva del politeismo: un Dio unico appare più ragionevole e può promettere ai suoi seguaci non i benefici settoriali delle varie divinità dei pantheon politeistici ma la salvezza eterna.
La «rinascita» del monoteismo (che secondo Stark si era già lasciato intravedere all’alba della storia nei culti del «Dio Supremo», prima della fase decadente delle «religioni del tempio») è annunciata da avventure singolari come quella del faraone egiziano Akhenaton (che regna dal 1353 al 1334 a.C.) – stroncata dopo la sua morte dalla reazione della «religione del tempio» egizia – e si compie con lo zoroastrismo in Persia e la graduale vittoria (che avviene non senza difficoltà e opposizioni) della fazione monoteista all’interno del popolo d’Israele. Una discussione delle controversie su quando si sia svolta l’attività di Zoroastro – e delle ragioni che militano a favore di una datazione più o meno tra il 618 al 541 a.C. (mentre altri la collocano intorno al 1000 a.C. o anche diversi secoli prima) – permette a Stark di ritornare sulla nozione, resa popolare dal filosofo Karl Jaspers (1883-1969) ma già proposta da studiosi ottocenteschi come Ernst von Lasaulx (1805-1861) e Viktor von Strauss (1809-1899) del sesto secolo a.C. come «età assiale». In quest’epoca contemporaneamente fioriscono i rinnovatori dell’induismo che gli conferiscono la sua forma attuale, Buddha (563-483 a.C.?) e il fondatore del giainismo, Mahavira (forse morto nel 527 a.C.), in India, Zoroastro in Persia, i grandi profeti in Israele, Lao-Tze (di cui Stark rivendica la storicità, ma di cui si ignorano le date di nascita e di morte) e Confucio (551-479 a.C.?) in Cina. Questi riformatori hanno poco in comune fra loro, salvo il fatto che tutti stabiliscono un saldo collegamento fra la religione e la morale, che non era affatto scontato in epoca precedente: gli dei più antichi spesso non solo non ricompensavano il bene, ma compivano essi stessi azioni malvagie. Stark ritiene che, mentre sarebbe del tutto sbagliato pensare che le religioni nate nell’«età assiale» siano state «generate» dal sorgere di grandi Stati che avevano bisogno di rafforzare con il consenso morale il necessario «controllo sociale», questa situazione spiega «perché, quando le “risposte” sono apparse, sono risultate così popolari».

L’istituzionalizzazione religiosa propone peraltro due tipi diversi di religione: quelle per cui Dio (o il divino) è una «essenza» o un’energia impersonale e remota, e quelle dove Dio è concepito come un Essere personale che si occupa del mondo. Nonostante la preferenza personale di molti studiosi accademici delle religioni per il primo modello, questo in una situazione di libero mercato religioso ha in realtà un successo molto modesto. Nella loro forma «pura» – come «religioni dell’essenza» – il buddhismo, il giainismo, il confucianesimo e il taoismo si riducono a fenomeni elitari senza grande seguito. Quando invece adottano nei loro templi un buon numero di dei e propongono dottrine di salvezza personale, nella loro forma «popolare», si assicurano un successo che arriva fino ai giorni nostri. Il buddhismo o il confucianesimo «atei» come risultano dai libri entusiasmano solo piccoli gruppi d’intellettuali (e molti studiosi occidentali). I templi buddhisti e confuciani davvero frequentati dalle popolazioni sono, invece, letteralmente pieni di dei.

Peraltro, le religioni che si fondano sulla meditazione o sulla riflessione filosofica hanno uno svantaggio in un mercato religioso aperto rispetto a quelle che rivendicano una rivelazione divina. Se il monoteismo è persuasivo soprattutto quando ci parla di un Dio che si occupa di noi, allora appare anche logico che questo Dio non rimanga silenzioso e si riveli. Non tutte le rivelazioni, però, sono uguali. Stark propone un’analisi senza reticenze dell’islam di cui mostra l’essenza nel carattere imprevedibile del suo Dio, che non dispone il mondo secondo ragione, così che di questo mondo non si può avere una conoscenza certa, dovendo invece sottomettersi a quanto Dio rivela nel Corano e all’autorità politica che – secondo diversi percorsi – continua nella storia la missione del Profeta. Stark non cita mai Benedetto XVI né il discorso di Ratisbona, ma le conclusioni sono del tutto analoghe quanto al rischio che questa nozione di Dio spinga a risolvere le controversie con un appello non alla ragione, ma alla forza.

Il sociologo americano può così finalmente tirare le sue sorprendenti conclusioni. Da dove nasce la religione? O si tratta di un’invenzione umana o viene da un Dio che si rivela. Si è sempre detto che le scienze umane non si occupano delle prove dell’esistenza di Dio e non rispondono alla domanda se Dio esista o meno, perché questo sarebbe un «giudizio di valore» mentre il metodo scientifico è per definizione value-free, «indipendente dai valori». Stark confessa di avere condiviso questa tesi per anni, ma di non essere più così sicuro che l’affermazione secondo cui le religioni ci sono perché un Dio personale si è rivelato agli uomini sia un «giudizio di valore» rispetto al quale la sociologia non ha niente da dire. Anzitutto, i sociologi hanno a lungo barato: fingendo di proporre una scienza value-free si sono in realtà schierati in modo militante per sostenere che Dio non esiste, che le religioni sono illusioni, che al massimo sono tollerabili religioni «senza Dio» come il buddhismo o il confucianesimo (delle élite) o è simpatico l’islam perché dà noia a quell’Occidente che certi accademici amano ancora meno della religione. Stark, per così dire, rende loro la pariglia. Se tanti sociologi, a partire dai padri fondatori della disciplina, hanno tratto dalla loro scienza argomenti contro l’esistenza di Dio, la foglia di fico della neutralità è caduta. Si può dimostrare che i loro argomenti sono sbagliati. Le cause economiche e politiche che dovrebbero rendere ragione dell’ascesa delle religioni non sono sufficienti a spiegare fenomeni come la diffusione del cristianesimo o la vittoria del monoteismo nella storia dell’antico Israele. Tutto lo schema evolutivo secondo cui la religione sarebbe passata da forme più primitive e caotiche di politeismo a versioni raffinate del monoteismo è falso. Le acquisizioni archeologiche e storiche permettono al contrario di concludere che alle origini vi è il semi-monoteismo del «Dio supremo» e che il successivo fiorire del politeismo non corrisponde a uno sviluppo ma a una decadenza.

Stark fa riferimento alla polemica scientifica sul «Disegno Intelligente» – secondo cui la natura dell’universo rivelerebbe l’esistenza di un progetto e quindi di un progettista, Dio –, rilevando che la vera prova di questa tesi non è tanto offerta «dalla scienza» tramite le sue ricerche quanto «dalla stessa esistenza della scienza»: un’esistenza che è un dato sociale, e su cui il sociologo ha titolo a pronunciarsi. La scienza è fiorita in Occidente sulla base dell’idea secondo cui – prima che arrivi lo scienziato a scoprirle – esistono nel mondo leggi che non mutano: oggi sono le stesse di ieri, e saranno le stesse domani. È precisamente perché non crede che Dio abbia creato il mondo secondo ragione che l’islam – che è stato capace di produrre altissima tecnologia – è rimasto ai margini dello sviluppo della scienza moderna. «Alcuni pensatori musulmani hanno perfino negato la stessa esistenza del principio di causa e di effetto, anche riferito al solo mondo terreno, sulla base che è intrinsecamente contrario al principio dell’illimitata libertà di azione di Dio […]. Queste dottrine, che implicano l’affermazione che ogni pretesa di formulare leggi naturali è blasfema in quanto anche queste leggi limiterebbero la libertà di Allah, hanno avuto un ruolo fondamentale nel fallimento del tentativo musulmano di tenere il passo dell’Occidente».

L’esistenza nel reale di leggi naturali – che la scienza ha puntualmente scoperto – rende invece eminentemente plausibile l’esistenza di un Disegno Intelligente di Dio: in effetti, una «variazione infinitesimale» delle componenti fondamentali dell’universo, come gli scienziati hanno dimostrato, lo renderebbe caotico e inintelligibile e le possibilità che l’universo si sia disposto così per caso rasentano l’impossibilità. Se questo è l’argomento classico degli scienziati sostenitori del Disegno Intelligente, anche lo scienziato sociale trova nella storia delle società «leggi» e regolarità che vanno precisamente nella stessa direzione. Così, anche il sociologo – argomentando pure dalle «leggi» che regolano lo sviluppo e la diffusione delle religioni, che avviene nel corso dei millenni con sorprendente regolarità – può arrivare secondo un suo percorso ad affermare il Disegno Intelligente.

E può fare di più. Una volta indicata come plausibile l’esistenza di un Dio che si rivela può costruire un percorso sociale di questa divina rivelazione, che mostra come assai credibile l’antica ipotesi teologica secondo cui la rivelazione è progressiva e tiene conto delle capacità di ricevere rivelazioni che l’umanità manifesta nelle varie epoche storiche, che sono talora di sviluppo della ragione, talaltra di decadenza e di crisi. Stark torna così esplicitamente a Giambattista Vico (1668-1744) e all’idea di una «rivelazione primordiale» le cui vestigia si trovano nelle antichissime teologie del «Dio supremo», cui segue una decadenza. Dalla storia della rivelazione progressiva di Dio – e qui Stark consapevolmente si avventura su un terreno teologico, rivendicando peraltro il carattere perfettamente «scientifico» della teologia – si devono escludere i sistemi religiosi dell’Oriente, che non affermano di essere basati su una rivelazione ma sulle intuizioni di saggi (i quali, peraltro, hanno potuto scoprire qualche verità grazie alla ragione). Dopo un possibile ma dubbio prologo con il faraone Akhenaton – la cui rivelazione è sì monoteistica ma «trova una base per rifiutarla come autentica nel fallimento del suo tentativo di produrre effetti di lunga durata»– la storia della rivelazione per Stark inizia con la vittoria del monoteismo all’interno dell’ebraismo, al quale avviene peraltro non senza «una qualche interazione con lo zoroastrismo» durante la cattività babilonese degli Ebrei. Zoroastro (parzialmente), gli autori di quello che per i cristiani è l’Antico Testamento e gli scrittori neo-testamentari costituiscono per Stark – insieme alle ignote ma spesso geniali personalità religiose che conservarono e diffusero brandelli della rivelazione primordiale, resistendo a lungo al politeismo – le tappe di una storia in cui Dio progressivamente si rivela.

La domanda è inevitabile: in questa storia dove si colloca l’islam? Per i musulmani la risposta è chiara: l’islam è il vertice e la conclusione di tutte le rivelazioni. Per Stark la risposta non è meno tranchant: a prescindere dalla «sincerità di Muhammad», un problema che è estraneo al nocciolo della questione, «la fede rivelata nel Corano è moralmente e teologicamente regressiva». Rispetto ai monoteismi precedenti, la nozione musulmana di Dio – «imprevedibile e così inconoscibile che non si può neppure dare per scontato che sia ragionevole o virtuoso» – rappresenta una fase di decadenza. Pertanto nel modello di Stark «è inappropriato includere l’islam nel novero centrale delle religioni che risultano da un’autentica ispirazione di Dio», il che non esclude che – come ogni impresa umana – l’islam possa includere anche elementi umanamente degni di stima.

Ma «tutta questa discussione su un nucleo centrale di religioni davvero ispirate è basata sull’assunzione che Dio esista. Se Dio non esiste, non c’è nessuna religione ispirata», il che rende puerili certe difese dell’ufficio dell’islam da parte di accademici occidentali atei. Ma per Stark lo studio della sociologia, come di ogni scienza, permette di concludere che è eminentemente plausibile che Dio esista. Per negare quanto sembra evidente ci vuole, paradossalmente, un atto di fede (atea) e – scrive il sociologo – «non sono più sufficientemente arrogante o ingenuo per pronunciare questo atto di fede».

Naturalmente, il fatto che una religione presenti credenziali più credibili di un’altra come autentica rivelazione divina non significa necessariamente che continuerà ad affermarsi nella storia. Il sociologo fedele alla sua professione è costretto a ricordare sempre il ruolo centrale della demografia. A prescindere da qualunque esame delle rispettive rivelazioni, e contro le tesi contrarie di qualche studioso inguaribilmente ottimista, «il numero di cristiani in Europa sta declinando molto rapidamente, non tanto per le defezioni dalla fede ma perché i cristiani fanno sempre meno figli», mentre «la fertilità musulmana rimane ovunque sopra il livello di sostituzione demografica, anche fra i musulmani immigrati in Europa», così che la prospettiva di una mappa religiosa del mondo che presenti fra un secolo «un’Europa musulmana» non è irragionevole. Ma è anche vero, nota Stark, che non sempre le previsioni dei sociologi si realizzano. «Chi fra gli apostoli avrebbe potuto intravedere la Chiesa Cattolica come è oggi? Quale Papa medioevale avrebbe potuto immaginare i Battisti del Sud [la denominazione, conservatrice, di maggioranza relativa nel protestantesimo americano contemporaneo]?». Il disegno di Dio sulla storia è certamente intelligente: ma non può essere necessariamente anticipato e compreso dalle previsioni intelligenti dei sociologi.

Incontri.Di Giuseppe Mendola.

INCONTRI GIUSEPPE MENDOLA

gm

L’INSTANCABILE CRITICO D’ARTE E PROMOTORE DI TALENTI

di

Ferdinando Russo

Solo gli ultra centenari viventi, come Giuseppe Alessi e Giuseppe Cottone, per la lunga frequentazione e conoscenza possono testimoniare, in maniera eccellente, l’esemplare laboriosità di questo poeta e critico d’arte, di questo funzionario modello, lontano anni luce dai fannulloni di Brunetta.Lo ha fatto il preside Cottone nell’introduzione all’ultima fatica di Giuseppe Mendola.

E, per noi, più contemporanei, Mazzamuto, Orlando, Milone, Migliaccio, Tommaso e Nicola Romano, vale il detto “se ritrovi un amico ritrovi un tesoro“.

Un amico come Mendola ci riporta alla generazione, che lo identifica nel laico intellettuale credente, vissuto nella fede e nell’impegno civico, impareggiabile nella professione pubblica, nelle attività politiche e pedagogiche, nell’attiva partecipazione ecclesiale, cui è stato educato nell’Azione Cattolica e nella FUCI.

Giornalista e poeta, critico d’arte per vocazione ed amore per la creatività del genio siculo.

Ci ha prima trasmesso i suoi “RICORDI (Casale nella mente –Palermo nel cuore-edizioni Primosole Palermo)(1) in cui, scrive Pietro Mazzamuto, <ha messo insieme il meglio della sua ispirazione>, scoprendo una vocazione narrativa che più tardi troveremo in INCONTRI CON GLI ARTISTI (Scirocco & Koraledizioni-Terrasini) (2)

Ed è in questo volume antologico, in questo, <lavoro di molteplici ed utili istanze culturali, che serve, talaltro e soprattutto, a rilanciare l’arte, in una dimensione non più che denota un’elite, che risolve conflitti e contraddizioni tra natura e storia e tra individualità e collettività.>.Ed è proprio Mazzamuto ad affermare, nella prefazione, che: <Giuseppe Mendola ha voluto offrire ai suoi lettori ed ai suoi amici, il vasto e articolato campionario di dipinti contemporanei….indubbiamente a titolo di esemplificazione, sia della complessiva omogeneità estetica e storica della pittura d’oggi, sia dell’ovvia diversificazione tra corrente e corrente, tra autori ed autori, e aggiungiamo pure tra regione e regione, se la totalità o la parte maggiore dei pittori scelti e recensiti appartiene alla Sicilia.>

Occorre certamente leggere per intero la dotta e puntuale testimonianza di Mazzamuto su questa Galleria della pittura contemporanea di Mendola, (pagg.23-16 d’Incontri),poiché in essa .

cogliamo la fantastica creatività degli artisti della Sicilia, che, ancora per Mazzamuto, <oltre che nell’arte letteraria, nella quale vanta qualche significativo primato, sembra esprimersi bene anche nelle arti figurative, indubbiamente forte della sua esperienza antropologica, cioè storica, dunque culturale, di terra capace di accogliere, e anche patire, le più svariate esperienze etniche e nello stesso tempo di maturare ed offrire altrettanti modelli archetipici d’esperienze intellettuali e fantastiche.>

Si accresce così la attività di Mendola quale promotore artistico, scopritore di talenti ed egli costruisce, con la sua attività, una galleria di pittori ed artisti che, almeno una volta, hanno usufruito dei suoi giudizi, dei suoi stimoli, da Vincenzo.Vinciguerra a GirolamoDi Cara.

Nel libro di Mendola troviamo, infatti, tanti dei migliori maestri conosciuti: A.Bellia,A:Affronti, Pino e Totò Bonanno, G. Forte, F.Franchina, V.Gentile, G.Bruno, R.Cavallaro, Giambecchina, V. Vinciguerra, G.Marchese, V.Ribaudo, C.Nazari, C.Lala, F.Mineo, Rizzo, Vetrano, Masia, Lo Cascio, La Mantia, A.Lugaro, M.L.Riccobono, G.Novelli Traina e altri valenti artisti .

Il Nostro è un intellettuale poliedrico, poeta, scrittore, critico, promotore d’eventi, docente di diritto Pubblico ed Ordinamento Enti locali all’Istituto Superiore di Giornalismo, componente del Consiglio Ispettoriale degli ex allievi Salesiani e della Confederazione degli ex alunni delle scuole cattoliche, distintivo d’oro di Don Bosco.

Lo abbiamo conosciuto nella FUCI di Micela, Brighina, Albanese, Mignosi, Valle, Crimi, Fusco, Silvestri, Pusateri, Migliaccio, Rubino, Perollo e poi tra i collaboratori ed operatori sociali delle ACLI Don Bosco, il circolo cittadino che ha goduto dell’insegnamento di Don Gemmellaro,Don Zingali, Don Ricceri e di Don Placido Tricomi <che di nome era placido, in realtà una persona buona ma vulcanica nell’apostolato>.

Il Circolo ha visto, accanto a Mendola la partecipazione attiva di Maria Nuara, Giuseppe Salvatore Russo, Sandro Migliaccio, Giuseppe Catalano, Tanino Ingrassia.

La comunità salesiana di Palermo ed il Circolo ACLI lo hanno impegnato, per la restaurazione della biblioteca salesiana, e poi, nel CIPEA, nel teatro, nelle attività sociali e culturali. con Don Calogero Riggi, Don Luigi Alessi, con il giovanissimo Don Mario Cogliandro, promotore del primo Cine club Don Bosco e poi, nel settore artistico-teatrale con il protagonista Accursio Di Leo e con un nutrito gruppo di attori,giovani e valenti..

Mendola vive nel Circolo ACLI parte del suo tempo libero e la sua esperienza amministrativa presso l’Assessorato agli enti locali la trasferisce negli incontri con gli amministratori,con gli operai sui temi della partecipazione alla vita cittadina, dei diritti dei lavoratori, della sicurezza, della formazione politica e culturale.<Lavora con impegno>,scriverà l’attuale Arcivescovo di Catania Mons.Salvatore Gristina,<pur sapendo che saranno altri a cogliere i frutti della sua attività attuale>.

La domenica torna nella Chiesa di S.Caterina, nota negli anni della FUCI e, dopo la S.Messa, collabora con Don Tricomi ad organizzare le passeggiate turistiche-culturali degli operai alla scoperta dei beni artistici e monumentali di Palermo e dei comuni della provincia.

Scopre in tal modo la sua vocazione artistica di critico ed operatore culturale.

Sono quelle esperienze e quella formazione, che lo portano a scrivere in Ricordi: <impara /nel silenzio dell’anima/ad amare i tuoi simili/e ringraziare Dio>.

I racconti di Mendola della parziale autobiografia Ricordi sono come le pareti di un museo che raccontano la vita contadina, semplice, generosa, accogliente, nel paesaggio della Sicilia degli anni quaranta, nel corso della gran guerra, tra sfollati e bombardamenti, nel centro storico, vissuto con la sensibilità di chi sarebbe divenuto un acuto critico d’arte del patrimonio culturale, violentato dalla guerra e stimatore e promotore delle generazioni d’artisti post bellici ,che hanno avuto la fortuna di incontrarlo.

Li ritroviamo in Incontri ed ora.nel saggio dal titolo Dalle notazioni critiche ai risvolti storici dell’arte-(3),edito da Centro diffusione Arte.Edizioni e promozioni artistiche,.presentato, recentemente, da Tommaso Romano e da Nicola Romano.

Il critico mostra la sua maturità e s’inserisce tra gli storici dell’Arte ed in particolare degli artisti, nati e vissuti in Sicilia.

Mendola è buon conoscitore degli artisti siciliani, ma non pecca di provincialismo ,né della retorica della sicilianità.

Il libro si apre con una pagina su Guttuso, il pittore di Bagheria, la patria di Tornatore , di Dacia Maraini, di Ignazio Buttitta, che tanto lustro hanno dato all’arte in Sicilia.

Il giovane Mendola è colpito dall’impegno civile di Guttuso, che trapela nelle sue opere e ne ricerca il pensiero, i risvolti, la passione politica, attraverso uno studio accurato delle sue pitture, richieste dai musei più prestigiosi.

Lo troviamo al Cenacolo di Palermo ad ammirare una prima di Vincenzo Vinciguerra ed il critico Capuzzo lo ascolta e lo incoraggia alla critica ed al giornalismo culturale.

E’ ancora la Sicilia a fare da scenario a Vinciguerra <con la sua straordinaria ricchezza ambientale, artistica, culturale.

Ma al Nostro non interessa l’isola degli pseudo -famosi, la sua nascente vocazione ad incontrare gli artisti vuole essere <un reciproco arricchimento per parlare, osservare, conoscersi, facendo causa comune per l’Arte e con l’Arte migliorare >.Dall’autodidatta all’iniziato e come i grandi critici <è preso per incantamento dal mondo dell’arte>.

Il suo accostarsi, con curiosità e amore, ad una pluralità d’artisti ne ha raffinato la capacità d’analisi. Ha incoraggiato i suoi autori, li ha umilmente corretti, li ha educati al confronto, alla sincerità ed al bello. Spesso li ha resi realmente famosi e li ha salutati senza crediti, ma gioioso della loro fortuna, pago dell’esperienza di averli incontrati.

La città di Palermo, per Mendola, deve amare maggiormente il suo patrimonio ed egli mostra per i cittadini distratti i bronzi di Mario Rutelli, che ornano i suoi teatri artistici, dal Massimo al Politeama, alla Statua della Libertà.

Molto rischia Palermo se cancella o adombra i suoi monumenti, le Chiese, le ville storiche, se non continua, con mezzi ed intraprendenza amministrativa, a restaurare i palazzi storici ed i quartieri sventrati del centro storico, se non recupera attenzione, intelletti e relazioni, attorno agli artisti isolani e a quelli nazionali, nei musei cittadini e nella ormai ospitale Galleria moderna dell’ex Convento di S.Anna.

Mendola, nel suo libro ne divulga gli attuali spazi espositivi mentre, ricapitola le mostre realizzate, quella su Vincenzo Lo Jacono, su Trascendenza e profano negli artisti internazionali e cerca tra i pittori siciliani e quelli che hanno lasciato nell’isola segni degni d’ammirazione: P.Novelli, Fiume,Resta, Sciuti, Catti, Corteggiani, De Maria Bergler, Leto, Boldini, Pasqualino Noto, Barbera,.Di Giovanni, Sciuti e poi Umberto Boccioni, Emilio Greco, Giacomo Balla, Carlo Carrà, Pirandello Gino Severino, Civiletti, Migneco, De Lisi, Giorgio De Chirico e tanti altri, di cui si è occupato da critico.

Sogna di vedere,nella Galleria, tutti i nuovi artisti, che ha incontrato,i giovani delle Accademie e delle Scuole d’arte e, per essi propone di allargare gli spazi espositivi.Anche per dissotterrare, restaurare e offrire alla fruizione pubblica le opere,che attendono di venire alla luce dai depositi e dai magazzini che li conservano.

C’è invero, nella Galleria, già ora, una Sicilia, che non si puo’ cancellare, quella mitologica e paesaggistica, che si staglia come scenario impareggiabile, come miniera inesauribile di colori, sentimenti, ambienti, riferimenti universali, che dal Mediterraneo si proiettano nell’Italia del Novecento fino al XXI secolo.

E Mendola si fa storico dell’arte, severo e serio, in qualche modo educatore di un tipo d’arte non esclusivista e fazioso, partigiano e superbo, autoreferenziale, ma aperto all’accoglienza, all’accettazione di quanti emergono nella fotografia,nella pittura,nella scultura,nella grafica,nella poesia,nella musica, in un dialogo che trasforma gli incontri in reciproci accrescimenti creativi, in itinerari spirituali.

Sono gli artisti “Dall’uno all’altro mare “, che Mendola ricerca, quasi a farli incontrare per trovare nell’arte occasioni di un lavoro creativo, stimoli alla trascendenza, momenti educativi alla cittadinanza, protesi ad unire, nella competitività, gli uomini tutti, attorno al bello ed al vero del creato, per un’intellettualità del sapere diffusa, comune, universale.

Mendola ritrova nell’arte la passione, che da giovane l’ha portato a farsi guida dei lavoratori del circolo ACLI Don Bosco, per la conoscenza del patrimonio artistico depositato nelle chiese e negli edifici pubblici della città e dell’Isola.

Ora nella Palermo del terzo millennio è arrivato l’Arcivescovo Metropolita, Mons.Paolo Romeo ad incoraggiare gli artisti ed a dialogare con loro.

.Quindici prestigiosi maestri, aderendo all’invito loro rivolto dal Centro diocesano delle Confraternite,già diretto dal Prof.Clementini, stimolati da un’idea di Loreto Capizzi e Francesco Scorsone, generosamente, hanno donato alla Chiesa Palermitana, un’opera per la Via Crucis.

E l’Arcivescovo scrive loro: <L’arte, e in special modo quella sacra, in quanto linguaggio della bellezza ed espressione d’esperienza spirituale, racchiude in se una dimensione religiosa in quanto manifesta, tramite la creatività dell’artista, l’esperienza della Trascendenza che si manifesta nella percezione contemplativa nel creato, nell’ascolto della Parola e negli avvenimenti dell’anima>. (4).

Un grato riconoscente plauso, quello del Presidente della Cesi, mons.Romeo ,che ricorda il Cardinale Pappalardo, promotore di due edizioni della Rassegna nazionale del Sacro nell’Arte Contemporanea e che raggiunge la vivace UCAI (Unione Cattolica degli artisti Italiani) ,diretta da Fulvia Reyes, mentre premia quanti, come Giuseppe Mendola, hanno dedicato gran parte della loro vita alla promozione delle arti, nella città di Palermo, senza molti clamori mondani ,da Muccioli, a La Duca, a Zingales, Matta, Carbone, Capuzzo, Rossi, Gerbino, Giunta, G.Napoli, T.Romano, Quatriglio.

(1) G.Mendola, Ricordi, Casale nella mente, Palermo nel cuore-Edizioni primo Sole

(2) G.Mendola, Incontri con gli artisti, Kora Edizioni

(3) G.Mendola., Dalle notazioni critiche ai risvolti storici dell’arte –Centro Diffusione Arte

(4) S.Romeo, in “Un’opera per la Via Crucis “da un’idea di Loreto Capizzi e Francesco Scorsone

Mady in Italiy-Brunetta Docet…….!!!!!

brunietta

Presidenza del Consiglio dei Ministri

Ministero per la pubblica amministrazione e lninnovazione

lndIrizzi per il nuovo contratto dei salariati della Pubblica amministrazione
1- GIORNI DI MALATTIA
Non sarà più accettato il certificato medico come giustificazione dl malattia.
Se si riesce ad andare dal dottore si può benissimo andare anche al lavoro.
2 – GIORNI LIBERI E DI FERIE
Ogni impiegato riceverà 104 giorni liberi all’anno. Si chiamano sabati e domeniche.
3-BAGNO
La nuova normava prevede un massimo di 3 minuti per le necessità personali.
Dopo suonerà un allarme, si aprirà la porta e verrà scattata una fotografia..
Dopo il secondo ritardo in bagno, La foto verrà esposta in bacheca.
4 PAUSA PRANZO
4.1 – Gli impiegati magri riceveranno 30 minuti, perché hanno bisogno di mangiare di più per ingrassare.
4.2 – Quelli normali riceveranno 15 minuti, per fare un pasto equibrato e rimanere in forma.
43 – Quelli in sovrappeso riceveranno 5 minuti, che sono più che sufficienti per uno slim-fast
5-AUMENTI
Gli aumenti di stipendio vengono correlati all’ abbigliamerito del lavoratore:
5.1 – Se si veste con scarpe Prada da euro 350,00 o borsa Gucci da euro 600,00, si presume che il lavoratore stia bene economicamente e quindi non abbia bisogno di un aumento…
5.2 – Se si veste tronpo poveramente, si presume che il lavoratore debba imparare ad amministrare meglio le sue finanze e quindi non sarà concesso l’aumento.
5.3 — Se si veste normalmente vuoI dire che il lavoratore ha una retribuzione sufficiente e quindi non sarà concesso l’aumento.
6-PAUSA CAFFE’
Le macchine erogatrici di caffè/the saranno abolite.
Ai lavoratori che lo richiederanno, all’lnizio dell’orario di lavoro sarà messa sulla scrivania una tazzine piena di buon caffè/the caldo che potranno bere durante la pausa comodamente seduti sulle loro sedie senza alzarsi e perdere tempo a raggiungere il distributore.
Per chi volesse anche uno snack (ingordi) vi preghiamo tomere al punto 4.
7- STRAORDINARI
Gli straordinari non saranno piu’ pagati…, se decidete dl restare in ufficio oltre l’orario dl lavoro significa che non avete altro da fare a casa quindi dovreste solo ringraziarci, se non ci fossimo noi vi annocereste fuori di qui.
Vi ringraziamo per I’attenzione e Buon lavoro
P.S.: Per aver letto questa e-mail in orario di lavoro vi verranno trattenuti 4 minuti dl stipendio.

Gli Insabbiati.Storie di giornalisti uccisi….Di Luciano Mirone.

 

gli-insaLuciano Mirone ricostruisce le vicende di chi, facendo il mestiere di giornalista. ha pagato con la vita la sfida alla mafia, ai poteri occulti, agli accordi perversi tra Stato e Antistato. Otto storie siciliane di giornalisti assassinati. sequestrati o addirittura «suicidati». Otto storie ambientate nell’Italia dei delitti impuniti e della democrazia dimezzata. Un’indagine avvincente. condotta attraverso cronache del tempo. atti processuali, testimonianze dirette. Emergono così strane distrazioni, dimenticanze. omissioni. reticenze, depistaggi che hanno quasi sempre «insabbiato» i casi giudiziari, e con essi la ricerca della verità.

Cosimo Cristina, cc Giovanni Spampinato,gs

Giuseppe Impastato, iMauro De Mauro,mdm

Beppe Alfano, a Mauro Rostagno,mr

Mario Francese, mf Giuseppe Fava, f

 

storie diverse, accomunate da un unico destino: prima gli avvertimenti velati, poi le minacce, poi la “terra bruciata”, l’esecuzione senza appello, infine la delegittimazione della vittima. E la memoria di quegli otto cronisti continua ad essere un riferimento fondamentale per tutti coloro che credono in una Sicilia libera da Cosa Nostra. Nella convinzione che il mestiere di giornalista, come ricorda Rita Borsellino nella sua prefazione, «se svolto bene, riesce a costruire il cambiamento».

 

La sabbia dell’indifferenza

di Rita Borsellino

Sono felice che Gli insabbiati venga ristampato. E che sia ristampato oggi, a cento anni dalla nascita della Federazione Nazionale della Stampa e in un momento tanto delicato per l’informazione siciliana. Delicato per due motivi: non solo perché, nel nuovo processo di ribellione sociale alla mafia e al suo controllo che è in corso in Sicilia, l’informazione è chiamata ad avere un ruolo importante; ma anche perché negli ultimi anni, e ancora di più negli ultimi mesi, le intimidazioni a giornalisti impegnati sul fronte della denuncia sono tornate a farsi sentire con insistenza, anche in quei casi in cui il giornalista si è limitato a pubblicare atti processuali, dunque a svelare qualcosa che era già stato svelato, anche se solo dentro le aule del tribunale. Cosa significa tutto questo? Significa che la parola e l’informazione restano una delle armi più temute dalla criminalità. Più temute persino del sistema della giustizia, le cui falle la mafia ha imparato a conoscere e sfruttare a pieno. E significa anche che senza un’informazione libera e attenta è difficile costruire, ottenere, avere una coscienza sociale altrettanto libera e attenta. Raccogliere le storie di otto cronisti siciliani, metterle in sequenza una dietro l’altra, seguendo un percorso ideale nel tempo e nello spazio di quest’isola, serve a trovare un filo conduttore e a sottolineare con forza dirompente la potenza di uno strumento come la stampa, e l’importanza della professione del giornalista che ha il compito di mediare, filtrare, leggere ciò che accade. E il dovere di farlo bene, cercando la verità e non accontentandosi di quella che gli viene servita.

Ma non è solo questo il merito de Gli insabbiati, perché ripercorrendo la vita di Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Mauro Rostagno, Cosimo Cristina, Peppino Impastato, Giovanni Spampinato e Beppe Alfano, Luciano Mirone ripercorre la storia di quest’isola e sottopone al lettore un interrogativo inquietante, lo stesso che mi insegue e a cui cerco risposta da anni:

cosa si nasconde dietro le morti eccellenti siciliane?

E perché in molti di questi casi non si riesce mai a individuare i mandanti? Nelle pagine di questo libro non c’è solo cronaca e neppure solo storia. C’è la ricerca appassionata della verità. C’è la voglia di spalare via, lontano, la sabbia dell’indifferenza che per troppo tempo ha coperto queste morti. La ricerca di Mirone abbraccia oltre quarant’anni anni di Sicilia, compresi quelli della Guerra Fredda, in cui, dice bene l’autore, «l’isola diventa terra di intrighi sotterranei e di accordi perversi fra Stato e Antistato su cui non si è ancora scritta tutta la verità». Un’indagine, la sua, che parte dagli anni Sessanta, quando viene ucciso Cosimo Cristina e la sua morte viene «travestita» da suicidio, e arriva ai giorni nostri.

Ma per me rileggere questo libro a distanza di tanti anni ha anche un significato in più. E ritrovare le ragioni di una scelta di impegno e ripercorrere tanti momenti della mia vita. Rileggere le parole di Giulio Francese quando racconta del padre e della sua sensazione di essere in pericolo, di avere ormai poco tempo, è tornare  indietro al 1992 quando Paolo mi diceva, ci diceva «devo fare presto» e usava espressioni come «quando mi uccideranno…”.

Rileggere alcuni racconti di Felicia Impastato, che oggi non c’è più e che con il suo amore di madre è riuscita a fare aprire un processo sull’uccisione di Peppino, significa ritrovare il sorriso forte e la passione di una donna straordinaria con cui tante volte ho condiviso sensazioni e speranze.

E così è per Claudio Fava che di Giuseppe ha raccolto l’eredità e la capacità di comunicare.

C’è in questo libro, oltre alla vita di questi straordinari cronisti, la Sicilia che non si vuole rassegnare. La Sicilia che in questi anni, dalle macerie degli omicidi eccellenti e delle stragi, è nata e ha costruito speranza. C’è lo spirito delle testate giornalistiche che hanno fatto la storia dell’informazione palermitana, come «L’Ora». E c’è Luciario Mirone, cronista siciliano innamorato della sua terra e della sua professione che, se svolta bene, riesce a costruire il cambiamento. E non sulla sabbia.

 

Rita Borsellino

maggio 2008

 Luciano Mirone

Ha iniziato la sua carriera collaborando con il “Giornale di Sicilia”, per poi passare a «I Siciliani» di Giuseppe Fava. Quindi ha scritto per una serie di testate nazionali come «il Venerdì di Repubblica», «Oggi», e “Marie Claire”. Fondatore e direttore dei periodici «Lo Scarabeo» e «Liberidea», oggi dirige il periodico «L’informazione», e collabora con la redazione palermitana de «la Repubblica», con il settimanale «Left-Avvenimenti» e con il mensile «Nuova ecologia».

Oltre a Gli insabbiati ha pubblicato Un paese (Tringale, 1988, Premio Nazionale «Nino Martoglio»), Michele Abruzzo racconta… li Teatro siciliano (Greco, 1992), Le città della luna (Rubbettino, 1997), Un sogno in biancoverde (A&B, 2006), L’antiquario di Greta Garbo (A&B, 2008).

A…Rivederci.Appunti fotografici. A cura di Ino Cardinale.

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Un libro museo. Ci sono decenni del passato di Terrasini. La memoria di carta, affidata a poco più che una risma di fogli. Che raccontano fatti memorabili, scampagnate domestiche, piccole cronache, eventi sfuggenti. Con fotografie ufficiali, fotografie da soffitta: quelle imprigionate in album coi ghirigori liberty o nelle latte dei Mellin con le delicate “figure” scorticate dal riuso di generazioni.

Ricordi personali sì, fotoricordo, cartoline care, lettere con le macchie dei fiori secchi, fragili cianfrusaglie delicatamente inutili — sottratti con fatica ai “repulisti” della modernità, alla feroce cultura dell’usa e getta che ci vuole smemorati, senza qualcosa dietro, velocemente sospinti verso l’incertezza che, una volta, si preparava con scelte pensate e ripensate, per scansare l’errore irreparabile: quello che rovinava una casa, una parentela bella, un’amicizia indelebile, un pezzo di società, una vita incominciata col sorriso.

Memoria individuale e dispersa, inseguita da mo Cardinale e i “suoi”, per farla giungere, con il meno possibile di vuoti, in un bel ricordo collettivo.

Hanno “forzato” solai e riservatezze, spazzato polvere e riottosità, con pazienza e determinazione. E con quell’imponderabile fluido — lo stesso che fa scintillare gli occhi e la pelle quando si ama qualcuno, qualcosa — che è nel destino di chiunque vuole realizzare un pensiero, un’idea, un’intuizione. Anche incredibili per chi il mondo lo vede come un “montarozzo” senza bellezza.

Emozionarsi davanti al “marinaretto” di una foto sdrucita — dall’epoca dei trisavoli, agli anni dei nonni, ai giorni dei padri, come scrive il curatore del volume — non è difficile. Ci vuole sensibilità a distrarsi dalle baruffe familiari intorno alle “griffe” più televisionate, ed evocare le mani sicure di una antica nonna — o madre, sorella grande, ziana — che ricama, taglia, merletta per assicurare decoro dove non è raggiungibile l’eleganza.

Forse questa è una corda esile e struggente, ma Ino Cardinale e il comitato “Terrasini Giubileo 2000 — i 100 del 2000” l’hanno pizzicata con leggerezza e amore, riuscendo a riapparentare i terrasinesi di oggi a quelli passati in più di un secolo. Dei quali, oltre a qualche rara fotografia, è rimasta la indimenticabile leggenda orale. Come accade in qualsiasi forma sociale nella quale il ricordo non è un’attitudine perduta. La “diceria” di “Jacuzzu”, elettricista e viveur degli Anni Venti; quella del “Conte della spugna”, gagà spendareccio. O l’episodica di “Sciusciamilla”, fez siciliano e baffi alla Vittorio Emanuele, dell’antonomastico “Cartafausa”, dello “Sceriffo” di un incredibile West portuale e tirrenico.

E i mestieri perduti. Dal “mago dell’acqua” al “mastrurascia” costruttore di scafi, ai bottai, carbonai, carradori. Poi spunta la balilla, preceduta dai tricicli di ferro dei figli di famiglia che avevano anche cavalli a dondolo e trenini da lasciarci gli occhi —, la bicicletta, cioè la Fiat degli Anni ‘30, ‘40, ‘50 ma si chiamava Bianchi, Ganna, Olympia, Bottecchia: nomi da leccarsi le lacrime. Sino alle Parilla, Guzzi, Lambretta, MV Gilera, alle donne in pantaloni come nei film di Hollywood. E sino a tutto il resto della vita sudata di quei decenni, che forse un rimorso freudiano spinge nell’oblio, anche di chi scrive.

Un librone dolce e lancinante. Si è capito. Che vale sfogliare, non solo da chi è terrasinese. Perché suscita memorie, ricordi abbandonati, episodica che fa il giro di Sicilia e, coi nomi cambiati, si ritrova dovunque nell’universo Trinacria.

Fa riflettere sull’ultima nostra storia, fatta di fatiche improbe, lampi di sorriso, e rassegnazione cristiana o siciliana.

Ci sono i luoghi simbolici — e chiunque può pensare ai suoi — i personaggi indimenticabili del bene e del male, il lavoro, le disuguaglianze sociali, piccole ed abissali, i drammi soffusi sotto l’emulsione fotografica: della povertà brutale e della guerra, anzi, delle guerre.

Ino Cardinale e i suoi amici erano partiti da una mostra di piccoli archivi famigliari. E si sono ritrovati un libro museo, un volume di storia patria, un secolo strappato alla dimenticanza.

Nino Giaramidaro

giornalista, fotografo

SAHARAWI DONNA.Di Stefano Alemanno e Rodolfo Chiostrini.

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Le donne saharawi svolgono un ruolo importante nella lotta per l’autodeterminazione del popolo saharawi e per il diritto di decidere il futuro della loro Nazione.
La donna saharawi è tra le più “liberate” del mondo musulmano: è questa la caratteristiche di una società egualitaria che si è sviluppata negli ultimi tre decenni nei campi profughi. Sono state proprio le donne che, all’epoca dell’occupazione marocchina del 1975, hanno dovuto allestire i campi nel deserto, hanno creato centri di assistenza, ambulatori e scuole. Hanno aiutato a consolidare il ruolo fondamentale che ha l’educazione nella loro società, portando il livello di alfabetizzazione al 95%, il più alto in tutta l’Africa.
Il libro e il dvd raccontano le gravi violazioni dei diritti umani e i tentativi di sconfiggere l’isolamento che le donne saharawi affrontano nei territori occupati: sono due documenti importanti che testimoniano l’impegno di queste donne nella lotta per la libertà e per una società favorevole al progresso.

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“La diceria immortale”. Di Robert Spaemann.

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È uscito in questi giorni in Italia, dopo che era già uscito in Germania, un libro davvero importante. Ha per autore un filosofo cristiano di prima grandezza, Robert Spaemann . Ha per titolo “La diceria immortale”, nell’originale tedesco “Das unsterbliche Gerücht”. Un titolo che l’autore spiega così:

“Che esista un essere che nella nostra lingua si chiama ‘Dio’ è una vecchia diceria che non si riesce a mettere a tacere. Questo essere non fa parte di ciò che esiste nel mondo. Dovrebbe essere piuttosto la causa e l’origine dell’universo. Fa parte della diceria, però, che nel mondo stesso ci siano tracce di quest’origine e riferimenti ad essa. E questa è la sola ragione per cui su Dio si possono fare affermazioni tanto diverse”.

Il libro, edito in Italia da Cantagalli, è il primo di una collana che si intitola, non a caso: “Come se Dio fosse”.

 

Vivere “come se Dio fosse” – si creda o no in Lui – è la proposta paradossale lanciata da Benedetto XVI alla cultura e agli uomini d’oggi.

Questa proposta Joseph Ratzinger la formulò per la prima volta, da filosofo oltre che da teologo, nel memorabile discorso da lui pronunciato a Subiaco il 1 aprile 2005, ultima sua conferenza pubblica prima d’essere eletto papa.

Ratzinger la espose così:

“Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide ‘etsi Deus non daretur’, anche nel caso che Dio non esistesse. Nella contrapposizione delle confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità. A quell’epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili. Ma non è più così. La ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata al di là di tutte le differenze, è fallita. Neppure lo sforzo, davvero grandioso, di Kant è stato in grado di creare la necessaria certezza condivisa. Kant aveva negato che Dio possa essere conoscibile nell’ambito della pura ragione, ma nello stesso tempo aveva rappresentato Dio, la libertà e l’immortalità come postulati della ragione pratica, senza la quale, coerentemente, per lui non era possibile alcun agire morale. La situazione odierna del mondo non ci fa forse pensare di nuovo che egli possa aver ragione? Vorrei dirlo con altre parole: il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Dovremmo allora capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita ‘veluti si Deus daretur’, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno”.

Letto su questo sfondo, il libro di Spaemann riesce ancor più avvincente.

 

Qui di seguito ne è riportato un assaggio, per frammenti tra loro concatenati, ripresi dalle pagine 24-42 dell’edizione italiana:Il testo integrale della conferenza tenuta da Joseph Ratzinger a Subiaco il 1 aprile 2005:

“Con il venir meno dell’idea di Dio viene meno anche quella di un mondo vero”

di Robert Spaemann

La storia degli argomenti in favore dell’esistenza di Dio è enorme. Ci sono sempre stati uomini che hanno cercato di assicurarsi della ragionevolezza della loro fede. […] Le classiche prove dell’esistenza di Dio cercavano di mostrare che è vero che Dio c’è. Presupponevano che la verità c’è e che il mondo possiede delle strutture comprensibili, accessibili al pensiero. Queste trovano il loro fondamento nell’origine divina del mondo. Sono direttamente accessibili a noi e per questo sono atte a condurci a questo fondamento.

Questo presupposto è contestato a partire da Hume e soprattutto da Nietzsche. […] L’intera opera di Nietzsche può essere letta come una parafrasi della lapidaria espressione di Hume: “We never really advance a step beyond ourselves”, noi davvero non avanziamo di un gradino oltre noi stessi […] Nietzsche scrive che “anche noi illuministi, noi spiriti liberi del XIX secolo, prendiamo ancora il nostro fuoco dalla fede cristiana – che era anche la fede di Platone – secondo cui Dio è la verità, e la verità è divina”. Ma proprio questo pensiero per Nietzsche è una auto-illusione. Non c’è verità. Ci sono soltanto reazioni utili o dannose. “Non dobbiamo illuderci che il mondo ci mostri un volto leggibile”, dicono Michel Foucault e Richard Rorty. […] Con il venir meno dell’idea di Dio viene meno anche quella di un mondo vero. […]

Il neopragmatista Rorty sostituisce la conoscenza con la speranza in un mondo migliore, dove non si può neanche più dire in che cosa questa speranza dovrebbe consistere. […] Non è che una conseguenza se Rorty non recepisce come un’accusa nemmeno più quella di parlare in modo oscuro e contradditorio. Infatti, nell’ambito di un pensiero che non si sente più obbligato alla verità ma al successo, nemmeno può più essere detto chiaramente in che cosa quel successo dovrebbe consistere. Pensieri oscuri possono essere più efficaci di pensieri chiari. La nuova situazione è caratterizzata dal fatto che noi decidiamo “uno actu”, di nostra pura volontà, se pensare un assoluto, se pensare questo assoluto come Dio, se riconoscere qualcosa come una verità non relativa a noi, e infine se considerarci autorizzati a ritenere noi stessi esseri capaci di verità, ovvero persone. […]

In Nietzsche viene a compimento e a compiuta coscienza di sé la “via moderna”, cioè il nominalismo. […] In questa situazione, perciò, gli argomenti per pensare l’assoluto come Dio possono essere soltanto argomenti “ad hominem”. […] Se non lo vogliamo, non c’è alcun argomento che possa convincerci dell’esistenza di Dio. […]

Con il venir meno del pensiero della verità viene meno anche il pensiero della realtà. Il nostro dire e pensare ciò che è, è strutturato in forma inevitabilmente temporale. Non possiamo pensare qualcosa come reale senza pensarla nel presente, cioè come reale “adesso”. Qualcosa che sia sempre stata soltanto passato, o che sarà soltanto futuro, mai c’è stata e mai ci sarà. Ciò che è adesso, un tempo era futuro e sarà a suo tempo passato. Il “futurum exactum”, il futuro anteriore, è inseparabile dal presente. Dire di un evento del presente che in futuro non sarà più stato, significa dire che in realtà non è neppure ora. In questo senso tutto il reale è eterno. Non potrà esserci un momento in cui non sarà più vero che qualcuno ha provato un dolore o una gioia che prova adesso. E questa realtà passata prescinde assolutamente dal fatto che ce la ricordiamo.

Ma qual è lo statuto ontologico di questo diventare passato se tutte le tracce saranno cancellate, se l’universo non ci sarà più? Il passato è sempre il passato di un presente; che ne sarà del passato se non ci sarà più alcun presente? L’inevitabilità del “futurum exactum” implica quindi l’inevitabilità di pensare un “luogo” dove tutto ciò che accade è custodito per sempre. Altrimenti dovremmo accettare l’assurdo pensiero che ciò che ora è, un giorno non sarà più stato; e di conseguenza non è reale neppure adesso: un pensiero che solo il buddismo tende a sostenere. La conseguenza del buddismo è la denegazione della vita.

Nietzsche ha riflettuto, come nessun altro prima di lui, sulle conseguenze dell’ateismo, con l’intento di percorrere la strada non della denegazione della vita, ma dell’affermazione della vita. […] La conseguenza più catastrofica gli sembrò che l’uomo perdesse ciò a cui tende la sua autotrascendenza. Infatti, Nietzsche considerò come il più grande acquisto del cristianesimo l’aver esso insegnato ad amare l’uomo per amore di Dio: “il sentimento finora più nobile e alto raggiunto fra gli uomini”. Il superuomo e l’idea di un eterno ritorno dovevano fungere da sostituto per l’idea di Dio. Infatti, Nietzsche vedeva chiaramente chi avrebbe determinato altrimenti in futuro il volto della terra: gli “ultimi uomini”, che credono di aver inventato la felicità e si fanno beffe dell’”amore”, della “creazione”, della “nostalgia” e della “stella”. Occupati soltanto a manipolare la propria lussuria, ritengono pazzo ogni dissidente che tenga seriamente a qualcosa, come ad esempio la “verità”.

L’eroico nichilismo di Nietzsche si è dimostrato, come egli stesso temeva, impotente di fronte agli “ultimi uomini”. […] Il banale nichilismo dell’ultimo uomo viene propagato oggi, tra gli altri, da Richard Rorty. L’uomo che, insieme all’idea di Dio, ha accantonato anche la verità, ora conosce soltanto i propri stati soggettivi. Il suo rapporto con la realtà non è rappresentativo, ma solo causale. Vuole concepire se stesso come una bestia astuta. Per una bestia del genere non si dà conoscenza di Dio. […]

Ma se vogliamo pensare il reale come reale dobbiamo pensare Dio. “Temo che non ci libereremo di Dio fintantoché crederemo alla grammatica”, scrive Nietzsche. Avrebbe potuto anche aggiungere: “… fintantoché continueremo a pensarci come reali”. Un argomento “ad hominem”.

Robert Spaemann, “La diceria immortale”, Cantagalli, Siena, 2008, pp. 200, euro 20,00.

 

> L’Europa nella crisi delle culture

 

 

http://www.rivistadireligione.it/rivista/articolo.aspx?search=zzBLC6hYYY356Cvaqbkrpd8psXuarjDa

La vittoria di Obama, i diritti civili e la religione.

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di MASSIMO INTROVIGNE

Chiedo scusa se parto da una fotografia, ma – per la coincidenza di un convegno – mi sono trovato a Chicago, più o meno di fronte al Grant Park, in occasione del rally convocato da Barack Obama per la sua vittoria annunciata. Quando si passa accanto alla storia, tanto vale dare un’occhiata. Riguardando la fotografia, mi accorgo di non apparire sorridente. In effetti, se fossi stato un elettore statunitense avrei votato per McCain, anzitutto per le ragioni esposte in un annuncio a tutta pagna pubblicato a pagamento sui maggiori quotidiani americani e firmato da diverse organizzazioni cattoliche: perché il magistero invita a tenere conto anzitutto dei valori non negoziabili (vita, famiglia, libertà di educazione), e su questi temi – con particolare chiarezza, sull’aborto – le posizioni di Obama (per non parlare di quelle del suo partito) sono molto più lontane dalla dottrina sociale naturale e cristiana rispetto a quanto proposto dal ticket McCain – Palin. Tra le varie magliette della festa di Obama quella con cui ho scelto di farmi fotografare mi sembra però la più significativa. Vi si legge: “Comandante in capo. Barack Obama, primo afro-americano presidente degli Stati Uniti”. Alla fine della giornata, e di una festa con molti bianchi ma con un numero maggiore di neri, questa considerazione in un certo senso prevale su ogni altra.

Mi spiego. Fioccano commenti (e si è cominciato a urne aperte, con editoriali su tutti i grandi giornali) sul fatto che per la prima volta il voto di quel quaranta per cento di americani che si dichiara religioso e praticante non è andato prevalentemente ai repubblicani, ma ai democratici. I primi sondaggi mostrano che – se tra i protestanti evangelical, cioè conservatori, ha vinto McCain (ma non con i margini bulgari che ebbe Bush nel 2004) – tra gli ebrei e tra i cattolici (praticanti) ha prevalso Obama. Le spiegazioni di questo evento decisivo per le elezioni sono sostanzialmente quattro. La prima è che le persone religiose non votano tutte e solo in base alla religione, e che le crisi economiche gravissime portano sempre a votare contro i partiti di governo, considerati in prima battuta – non importa se spesso a torto – responsabili delle crisi (“Piove, governo ladro”). La seconda è che il battista McCain, come la stampa ha spesso notato, benché schierato in modo gradito alla maggioranza delle persone religiose sui valori non negoziabili, non viene dal mondo dell’attivismo religioso e ha qualche imbarazzo a parlare di religione in pubblico. Al contrario il riformato (calvinista) Obama si presenta come l’erede di una tradizione afro-americana dove i politici – buoni, cattivi o pessimi – sono sempre venuti dal mondo delle comunità religiose, dal reverendo Martin Luther King, Jr. (1929-1968) al reverendo Jesse Jackson, e in tutti i suoi discorsi è costante il riferimento appassionato alla fede e alla preghiera.

In terzo luogo – come ha sottolineato un grande esperto di cose evangeliche, Mark Silk, al congresso appena concluso a Chicago dell’American Academy of Religion – i protestanti evangelical, componente maggioritaria della coalizione religiosa determinante per i passati successi repubblicani, hanno sbagliato nell’opporsi alla candidatura alla vice-presidenza dell’ex-governatore del Massachusetts Mitt Romney lasciando intendere piuttosto chiaramente di non volere un candidato di fede religiosa mormone (meno chiaramente – ma chi doveva capire ha capito – si sono opposti anche alla scelta come vice-presidente di Joe Lieberman, di provenienza democratica ma schierato con McCain, perché si tratta di un ebreo ortodosso e gli evangelical non volevano un candidato non cristiano, o più precisamente non protestante). A prescindere da ogni altra considerazione, questo ha trasmesso ai soci di minoranza della famosa coalizione dei quattro decisiva per le vittorie di Bush – protestanti evangelical,cattolici fedeli al Papa, ebrei ortodossi e mormoni (questi ultimi molto importanti sul piano elettorale perché concentrati in quattro o cinque Stati – non solo nello Utah – dove fanno la differenza) – il messaggio secondo cui per gli evangelical la coalizione funziona se gli altri portano i voti ma il candidato è comunque protestante. Dal punto di vista dei valori non negoziabili la pentecostale Sarah Palin era peraltro la migliore delle candidate possibili: ma questi antefatti spiegano perché i non evangelical non l’abbiano forse difesa quanto meritava di fronte a un’autentica aggressione della stampa liberal, che ha mostrato ai (numerosissimi) pentecostali statunitensi come la tolleranza verso forme religiose con un culto entusiastico e un riferimento insistito ai demoni e alle profezie sia un traguardo ancora lontano per i grandi media americani imbevuti di pregiudizi laicisti e razionalisti.

E tuttavia il quarto motivo per cui il mondo di chi va nelle chiese e nelle sinagoghe (per non parlare delle moschee, dove i parenti musulmani di Obama hanno avuto il loro ruolo) ha messo tra parentesi i valori non negoziabili e ha votato per il senatore di Chicago – a mio avviso, non meno decisivo del primo, quello legato alla crisi economica – è, molto semplicemente, che Barack è un afro-americano. Con eccezioni marginali e quasi irrilevanti, le Chiese e comunità religiose americane nel XX secolo hanno considerato una loro battaglia cruciale quella per i diritti civili della popolazione di colore degli Stati Uniti (dopo essere state in maggioranza nel XIX secolo contro la schiavitù – anche se non necessariamente a favore della Guerra Civile né della successiva criminalizzazione del Sud). I non statunitensi spesso non si rendono conto di quanto questa battaglia abbia formato gli americani che erano giovani negli anni 1960, in particolare quelli religiosi, un numero sorprendente dei quali è andato in Alabama e altrove, prendendo anche qualche manganellata, per manifestare affinché gli afro-americani potessero salire sugli stessi autobus dei bianchi e votare senza essere intimiditi. Per tutti costoro (per esempio per molti amici del sottoscritto, che nel 2004 avevano votato per Bush ma nel 2008 hanno scelto Obama) eleggere un afro-americano alla presidenza negli Stati Uniti chiude un lungo ciclo della storia del loro Paese, iniziato con la schiavitù e la lotta delle Chiese per la sua abolizione, e ha un significato insieme epico e di riconciliazione nazionale che trascende ogni altra considerazione, travolgendo anche il primato dei valori non negoziabili invano ricordato dalle autorità religiose.

A questa considerazione si rivolgono di solito due obiezioni. La prima – illustrata per esempio in Italia da un articolo di Fiamma Nirenstein su il Giornale – è che la sinistra americana (e quella internazionale) ha speculato in modo strumentale sull’etnicità di Obama, mentre non si è emozionata per la nomina a segretario di Stato prima di Colin Powell e poi di Condoleeza Rice, afro-americani anche loro. La Rice in particolare, che sarà ricordata checché se ne dica come brillante artefice di un modo nuovo di fare politica estera, è stata presa a pesci in faccia dalla sinistra nonostante fosse afro-americana. Tutto questo è vero: e tuttavia, come notava già nel XIX secolo Alexis de Tocqueville (1805-1859), gli Stati Uniti sono una monarchia che elegge il suo re ogni quattro anni. C’è una mistica della presidenza assai simile alla mistica delle monarchie. Non c’è, con tutto il rispetto, una mistica del segretario di Stato, così che solo l’elezione di un afro-americano alla presidenza (non la sua nomina a una carica ministeriale, per quanto prestigiosa) poteva essere percepita come un evento epocale e come il coronamento di due secoli di battaglie che hanno avuto anche, se non soprattutto, una dimensione religiosa.

La seconda obiezione è che Obama non è davvero un afro-americano. I suoi antenati vivevano in Kenya e non hanno conosciuto l’esperienza della schiavitù che connota in modo decisivo e profondo l’esperienza dei veri afro-americani. L’obiezione ha avuto un peso nelle prime fasi della campagna di Obama: ma alla fine ha prevalso la sua auto-identificazione (che non nasce con le elezioni, ma risale agli albori della sua carriera professionale e politica a Chicago) con la comunità afro-americana e il fatto che, comunque la si metta, non si tratta di un bianco anglo-sassone.

Nella storia culturale e sociale degli Stati Uniti – anche qualora, come i più pessimisti prevedono, la sua presidenza si riveli debole sul piano economico e della politica estera, quasi un remake dei disastri di Jimmy Carter, e mettendo in conto gli inevitabili scontri con le Chiese in materia di principi non negoziabili – la chiusura dei conti e la riconciliazione nazionale in materia di diritti civili rimarranno comunque un frutto dell’elezione di Obama. Chiuso finalmente questo antico dossier, le Chiese e comunità religiose potranno tornare alle loro priorità. Sui temi dell’aborto e della famiglia (anche se Obama si dichiara contrario al matrimonio omosessuale – ma non così il suo partito) la strada da oggi è più in salita. Ma questo non significa che non debba essere percorsa con coraggio e determinazione. L’elettorato religioso statunitense non è certamente sparito: le voci di una sua morte sono, per dire il meno, premature, anche se il suo modo di esprimersi nel 2008 è stato influenzato da una serie di fattori probabilmente irripetibili.

Una riflessione sulla SPERANZA…

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Testo della rilfessione di:Don Bernardo,monaco benedettino presso il monastero di San Miniato a Firenze.

Segnalato al blog dal Dott.Ino Cardinale di Terrasini.

 

Che cosa si può sperare?

In ascolto della Parola per addestrarci alla speranza

Ci ricorda questo tema biblico fondamentale romani 15,4

4Ora, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza.

 

«il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui, abbiamo sì l’illusione di poter difendere col potere e la tecnologia quanto le nostre culture hanno elaborato cercando di disarmare progressivamente la natura, ma quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso»

(Claude Levi Strauss )

 

Il bastone, le monete, il portachiavi,

la docile serratura, i tardivi

appunti che non leggeranno i pochi giorni

che mi restano, le carte da gioco e la scacchiera,

un libro e fra le sue pagine l’avvizzita

violetta, monumento di una sera

di certo indimenticabile e già dimenticata,

il rosso specchio occidentale dove arde

un’illusoria aurora. Quante cose,

lime, soglie, atlanti, bicchieri, chiodi,

ci servono come taciti schiavi,

cieche e stranamente silenziose!

Dureranno di là del nostro oblio;

non sapranno mai che ce ne siamo andati.

(Borges Las Cosas)

 

«nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re Cristo, giunse la fine dell’astrologia, perché ormai le stelle girano secondo l’orbita determinata da Cristo». (Gregorio  Nazianzeno)

 

«Oggi imperversa nel pianeta un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, perché essa si adopera a rendere obsoleti tanto le lezioni del passato quanto il desiderio di immaginare l’avvenire. Da uno o due decenni a questa parte il presente  è divenuto egemonico. Agli occhi dei comuni mortali, esso non è più l’esito del lento evolversi del passato, non lascia più intravedere un abbozzo del futuro possibile, ma si impone come un fatto compiuto, opprimente, il cui inopinato palesarsi fa dileguare il passato e saturare l’immaginazione dell’avvenire». (Marc Augé)

 

« In nihil ab nihilo quam cito recidimus ».Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo).(epitaffio di età paolina)

 

Testimoni di speranza:

“io non cesso di sperare, moltiplicherò le tue lodi!” salmo 70. 14

proemio di Gaudium et spes : “la comunità dei cristiani è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.”

 

Siamo però noi i primi bisognosi di una nuova esperienza di speranza: stasera a san miniato al monte con umiltà e fede vorremmo infatti dire col Signore Gesù di fronte a Lazzaro che “Questa malattia non è per la morte”, vogliamo avere la presunzione di chiedere a Dio di mostrarci anche da questa collina la mirabile e consolante visione di Ezechiele, miriadi di ossa che sotto l’azione dello spirito sono rivestite di carne e insufflate di vita, visione che avviene, è bene non dimenticarlo, quanto tutti in Israele dicevano –Ez 37,11- “la nostra speranza è svanita”.

Chi vi parla appartiene ad un piccolissima comunità monastica, qualche giovane, ma molti gli anziani, molti i malati…

La magnificenza mirabile ma anche un po’ frustrante della Basilica di San Miniato ci scoraggia ma ci rianima quella lectio divina tutta particolare che è osservare la natura: osservarla con Giobbe 14,7

 

7Poiché anche per l’albero c’è speranza:
se viene tagliato, ancora ributta
e i suoi germogli non cessano di crescere;
8se sotto terra invecchia la sua radice
e al suolo muore il suo tronco,
9al sentore dell’acqua rigermoglia
e mette rami come nuova pianta.

 

Emmaus

17Ed egli disse loro: “Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?”. Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. 19Domandò: “Che cosa?”. Gli risposero: “Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. 21Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro 23e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l’hanno visto”.

25Ed egli disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! 26Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. 27E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. 28Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino

 

La speranza: ricordo vivente (Gabriel Marcel)

 

La speranza cristiana si fonda sulla memoria e ripresentazione di Cristo. O è la speranza di Cristo o non è cristiana. Essa è speranza rammemorata, perché cerca il futuro di Cristo nel passato di cristo, e lo trova nella risurrezione da morte del Cristo crocifisso. La speranza cristiana, dunque, si lega sempre alla memoria della passione di Cristo e della sua fine sulla croce. “Crocifisso risuscitato sta a significare che che nella sua fine sulla croce va trovato il nuovo inizio, e con lui quello del mondo. ( J Moltmann)

 

Anche noi siamo abitati da passioni tristi e sconsolanti, anche noi assomigliamo ai pellegrini in Emmaus, è nostro il loro “noi speravamo”: esperienza di delusione e di sconcerto amaro per la vicenda del loro Messia…è la speranza all’imperfetto: “noi speravamo”. Anche noi come loro dobbiamo essere ridestati alla memoria, a quella particolare memoria della fede che consente una nuova narrazione della storia, una storia di speranza “Non doveva forse il Cristo patire, e così entrare nella sua gloria?”. La speranza viva si sprigiona dalla scoperta di quella necessità che Gesù aveva ripetutamente annunciato nei passi verso Gerusalemme, ma essi non avevano voluto o potuto capire. Era necessario. Quella necessitas anche noi dobbiamo tornare ad apprendere per poter tornare a narrare, con gesti e parole, l’avvenimento pasquale che guarisce dalla malinconia, perché, senza censurare niente, ma anzi includendo tutto, ovvero sofferenza, morte, sconfitta, fallimento, mostra in pienezza il senso nascosto ma più autentico del tempo

C’è dunque una fecondità nell’accogliere, quale elemento fondamentale del racconto della storia, quell’intreccio nevralgico della rivelazione di Dio che è il pathos, la passione del Cristo. A partire dalla necessità dei patimenti del Messia, su quel tragitto da Gerusalemme a Emmaus, tutto Mosè e i profeti sono narrati di nuovo. E anche della nostra storia di oggi dobbiamo dare nuova narrazione in questa chiave, perché si dissolvano le passioni “tristi”, e dalla vita reale sia annunciata la speranza pasquale , perché la vita mostri la speranza che la muove.

7Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; 8pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì 9e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, (Ebrei 5, 7-9)

È la sua obbedienza di Figlio nella prova ad averci assicurato la speranza che non delude

Sta a solo a noi in questo ritrovato deserto di crisi, annunciare una novità totalmente evangelica e affidabile perché innestata nell’antica verità di una storia non favolosa ma drammaticamente reale: l’amore di Dio si è manifestatosi nell’abbraccio di Cristo, l’abbraccio di Cristo che avendo sopportato ogni sofferenza, è diventato garanzia di speranza per tutti: l’amore che soffre ogni cosa,  crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa …I Cor 13.7

 

La speranza, un legame affidabile

“Nella Scrittura sperare non è mai un atto intransitivo. Sempre, comunque, si realizza in un contesto di relazione, di legame affidabile. Dio, un Dio personale, non l’immaginazione idolatrica, immagine ammiccante e seducente perché lucida e smaltata , ma proprio per questo incapace di accogliere in profondità. Scrive Spiq: “la speranza neotestamentaria non è solo un sentimento personale e neppure l’oggetto stesso dell’attesa: rappresenta l’intera economia della salvezza, il senso della chiamata (Ef 4,4 4Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione), di cui il cristiano è chiamato a tenere salda la professione (Eb 10,23 23Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso)”.

Finché c’è amore, donazione, obbedienza all’amore di Dio reso manifesto in Cristo (I Giov 4,9: 9In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui)  -potremmo dire- c’è speranza e dunque vita! Un amore, quello di Dio, da narrare attraverso una cordiale condivisione, ospitale e gratuita, delle sofferenze e delle inquietudini degli altri, perché nostra unica, credibile e affidabile “munizione” è il disarmante ma infinito amore di Dio, che si misura invincibile proprio nella dialettica col male: è qui che si afferma concretamente la speranza:

Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? 33Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. 34Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? 35Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 36Proprio come sta scritto:

Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno,
siamo trattati come pecore da macello
.

37Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore. (Romani 8, 31-39 )

 

“La risurrezione da morte di Cristo dice che egli non è tra i morti e che quindi l’ordine di questo mondo è stato stravolto. La forza della risurrezione si profila nelle anticipazioni attraverso cui noi già oggi intravediamo i lineamenti di quella nuova creazione del mondo che Cristo porterà a compimento quando verrà il suo giorno e nelle consolazioni che proviamo nelle nostre sofferenze che ci consentono di resistere di non lasciarsi andare. E questo lo possiamo cogliere in tre dimensioni: Vita contro la morte, giustizia contro la violenza, creazione contro la distruzione, dove il secondo termine  rappresenta la realtà, mentre il primo indica la speranza che si apre al futuro” .(J. Moltmann)

 

Necessità di un superamento di una dialettica aut –aut in forza dell’Incarnazione:

Scriveva Wittgenstein

6.41 Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore.

Se un valore che ha valore v’è, dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere-cosí. Infatti ogni avvenire ed essere-cosí è accidentale.

Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo.

Tractatus

 

Questo è vero ma non dimentichiamoci che l’evento pasquale ha avviato la trasformazione del mondo, del cuore stesso della storia

 

Populorum Progressio di Papa Paolo VI

79. Certuni giudicheranno utopistiche siffatte speranze. Potrebbe darsi che il loro realismo pecchi per difetto, e che essi non abbiano percepito il dinamismo d’un mondo che vuol vivere più fraternamente, e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori, e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le sue lunghe divagazioni fuori della via della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore. Questo cammino verso una crescita di umanità richiede sforzo e sacrificio: ma la stessa sofferenza, accettata per amore dei fratelli, è portatrice di progresso per tutta la famiglia umana. I cristiani sanno che l’unione al sacrificio del Salvatore contribuisce «all’edificazione del corpo di Cristo» (Ef 4,12) nella sua pienezza: il popolo di Dio radunato.(55)

Tutti solidali

80. In questo cammino siamo tutti solidali. A tutti perciò abbiamo voluto ricordare la vastità del dramma e l’urgenza dell’opera da compiere. L’ora dell’azione è già suonata: la sopravvivenza di tanti bambini innocenti, l’accesso a una condizione umana di tante famiglie sventurate, la pace del mondo, l’avvenire della civiltà sono in gioco. A tutti gli uomini e a tutti i popoli di assumersi le loro responsabilità.

 A livello più personale, speranza come affidamento, desiderio, attesa, ascolto, fiducia

(Cfr. Antonia Pozzi)

 

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.
Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.
Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.

LA FESTA DEI “MORTI”,A PALERMO.

I morti rallegrano la città. Sembrerà strano, ma ogni anno nell’approssimarsi della festa di “Ognisanti” e nella commemorazione dei defunti,la città di Palermo si colora a festa. Oltre ai colori vivaci dei crisantemi che creano un colpo d’occhio entrando nei cimiteri,a Palermo vige l’usanza di festeggiare i bambini regalando loro dolci e giocattoli come se li avessero portato i morti. Dunque la corsa per comprare regali . “Per i maschietti erano armi: pistole a tamburo con tanto di fodero o fucili con il tappo che era attaccato tramite un laccio, ispirati a modelli western; c’erano pure costumi da indiani  con archi e frecce. Queste ultime avevano una ventosa che non si attaccava mai, se non si inumidiva con una “liccata” della lingua. Per le bimbe: bambole ricciolute, passeggini, assi da stiro, fornelli e pentolame. I più facoltosi regalavano tricicli e biciclette fiammanti. Bisognava trovare il regalo nascosto in un punto insolito della casa, nella notte tra l’1 e il 2 novembre. La sera prima si nascondeva la grattugia perché si pensava che i defunti, a chi si fosse comportato male, sarebbero andati  a grattare i piedi  !!! “

La tradizione continua ancora oggi, anche se i regali che si comprano sono un tantino diversi rispetto a quelli di ieri. Di particolare importanza sono i dolci che si creano a Palermo e dintorni per la ricorrenza: i Pupi di zucchero, la frutta di martorana e i cosidetti “ossa dei morti”.

I pupi di zucchero

sono creazioni artigianali di zucchero scolpito e colorato che richiamano la tradizione dei paladini e dei saraceni e altri personaggi. La più diffusa e ricercata è, senza dubbio,la frutta di martorana. Un dolce a base di pasta di mandorla poi colorata,inventato dalle suore di clausura, e assumono le forme  e le sembianze di vari tipi di frutta:nespole, castagne,fichi d’india,limoni,anguria,pesche,ciliegie ecc.ecc. Insieme a vari ortaggi come le melenzane,i finocchi,l’aglio unitamente ai frutti di mare,cozze,polipi ecc.

Un vero spettacoli di odori,sapori e colori. Inoltre è tradizione vendere le mele passate in una glassa molto dolce e colorata e lo zucchero filato.

La Fiera dei Morti  a Palermo attualmente si svolge presso il rione “Medaglie d’oro,ma, originariamente, veniva svolto all’ Olivella, subito dopo Piazza Massimo, ma da circa 15 anni, anno dopo anno cambia “zona”: variopinte bancarelle offrono ai vari visitatori nonché ai genitori l’opportunità di potere acquistare giocattoli, vestiario, dolciumi di ogni genere per preparare il tradizionale “Cannistru”(Canestro).

Infine non può mancare il profumo delle castagne arrostite:

Il tutto nasce da una concezione cristiana della morte concepita come passaggio a miglior vita e dalla fede nella vita del mondo che verrà,poiché il cristianesimo ha spazzato via i culti pre-cristiani,anche quelli legati ai morti. La festa palermitana è un inno alla vita che non muore e alla consapevolezza che i defunti continuano a vivere,con modalità diverse dalla nostra, ed è possibile poter comunicare con loro. Ecco l’attenzione ai bambini,alla vita principiante ed ecco il perché di tutto uno sfavillare di colori e di sapori inneggianti alla vita che non muore e al dovere per i vivi di ricordare i defunti e di onorare e venerare i loro corpi giacenti nei cimiteri poiché essi sono “sul punto di risorgere”.

I SANTI E I FEDELI DEFUNTI.

Mentre il creato ascende in Cristo al Padre,

nell’arcana sorte

tutto è doglia del parto:

quanto morir perché la vita nasca!

pur da una Madre sola, che è divina,

alla luce si vien felicemente:

vita che l’amor produce in pianto,

e, se anela, quaggiù è poesia;

ma santità soltanto compie il canto.

CLEMENTE REBORA, Curriculum vitae (1955).

La resurrezione

(Il Vangelo secondo Jonathan)

Signore, Dio della vita,
rimuovi le pietre dei nostri egoismi,
la pietra che soffoca la speranza,
la pietra che schiaccia gli entusiasmi,
la pietra che chiude il cuore al perdono.
Risuscita in noi la gioia,
la voglia di vivere,
il desiderio di sognare.
Facci persone di resurrezione
che non si lasciano fiaccare
dalla morte, ma riservano sempre
un germe di vita in cui credere.

Rispondendo Giobbe prese a dire: «Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s’incidessero sulla roccia! Io so che il mio redentore è vivo e che, ulti-mo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro». Giobbe 19,1.23-27a

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Pa-dre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo cacce-rò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiun-que vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». Gv 6,37-40

La speranza e l’invocazione di Giobbe di una comunione con Dio dopo la morte (prima lettura) trova eco nella promessa di Gesù di risuscitare coloro che il Padre gli ha affidato (vangelo). La stessa morte di Gesù, vivificata dall’amore di Dio, è stata fattore di riconciliazione, di vittoria sul peccato, di vittoria della vita sulla morte (seconda lettura).
«Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi uomini abitiamo una città senza mura». La morte, ricorda Epicuro, pone un sigillo di precarietà e di insicurezza sulla vita umana. E l’insicurezza produce la paura, e la paura schiavizza. Gli uomini, ricorda la lettera agli Ebrei, sono schiavi tutta la vita a causa della paura della morte (Eb 2,15). E sentendoci città senza mura, cerchiamo di costruirci prote-zioni e difese che, mentre vogliono preservarci da morte in realtà ci allontanano dalla vi-ta. E tanta parte della nostra vita passa in questo inganno. Le parole di Gesù nel vangelo non invitano ad atteggiamenti difensivi e di paura, ma alla fede, ad affidarsi al Signore, a credere in lui. «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna» (Gv 6,40); e ancora: «Chi crede in me, fosse anche morto, vivrà» ( Gv 11,25); «Chi crede ha la vita eterna» ( Gv 6,47). La fe-de in Cristo è il luogo della resurrezione.
Quando la nostra persona si decide a un affidamento al Signore senza riserve, senza nulla da difendere, senza mura e baluardi, allora essa abita lo spazio della resurrezione e conosce l’amore e la speranza, l’audacia e la libertà che Gesù stesso ha vissuto. E Gesù ha vissuto le sue relazioni con gli altri sotto il segno del dono del Padre e del suo perso-nale affidamento al Padre che è divenuto la sua consegna ai fratelli: gli altri sono ciò che il Padre gli ha dato (Gv 6,37.39) e di cui lui assume la responsabilità fino in fondo (Gv 13,1). Affidandosi al Padre egli non respinge da sé chi viene a lui, non rigetta, non si di-fende dagli altri, ma accoglie. Vivendo il primato della fede nel Padre che l’ha mandato, Gesù vive non per fare la sua volontà, ma la volontà del Padre, che è volontà di vita pie-na per ogni uomo. Una vita così vissuta, è una vita che integra la morte e la trasforma in amore, che è forza di resurrezione. Se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore è la forza della resurrezione.
Non vi è solo la paura della morte che ci porta a difenderci, ma anche e soprattutto la paura della vita, delle perdite che il vivere comporta, dei confronti impietosi con gli altri che ci conducono a chiuderci in noi e a vivere nel risentimento, nel timore che gli altri ci possano sottrarre qualcosa. Aver fede in Gesù Cristo significa fare dell’amore il luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita, e anzitutto della vita degli altri. In tutto questo ci vengono in aiuto le esperienze di morte che la vita ci fa fare. L’esperienza del lutto segna lo scacco del narcisismo e rivela la vanità del perseguire la volontà propria, del costruire barriere per difenderci dalla morte che la vita ci potrebbe recare. E ci può aprire, con la sua muta lezione, all’unica cosa necessaria e vitale: credere l’amore, vivere l’amo-re, fare della vita un atto di amore.
La logica della resurrezione, espressa nei termini di non perdere nulla e nessuno di quanto il Padre ha dato al Figlio (Gv 6,39), è la logica dell’amore. Quella logica che spesso non è nostra perché noi sappiamo perdere l’altro, le relazioni, i doni ricevuti.
Una comunità cristiana è fatta anche di una memoria condivisa e le persone che sono morte e che abitano la memoria di ciascuno, e che ciascuno coglie oggettivamente nella fede nel Cristo morto e risorto e porta nell’eucaristia, chiedono di rendere sempre più armonici i rapporti tra le membra del corpo affinché sia l’agape la linfa vitale che percorre e unifica il corpo comunitario e sia la gratitudine l’alveo in cui essa vive. Allora potrà avve-nire forse anche a noi di morire nella gratitudine e nella benedizione, dando sostanza cri-stiana alla bella e antica immagine formulata dall’imperatore filosofo: «L’oliva matura cade benedicendo la terra che l’ha portata in sé e rendendo grazie all’albero che l’ha fatta crescere» (Marco Aurelio).

Scuola:Proposta di legge dell’On.Aprea.


Il decreto Gelmini era solo un aperitivo. La vera rivoluzione della scuola cova in un progetto di legge firmato Valentina Aprea. Che non piacerà affatto ai paladini della mediocrità

di Roberto Persico

Ce n’est qu’un debut. Cioè il bello deve ancora venire. Il contestatissimo decreto Gelmini, infatti, contiene solo alcune misure urgenti, necessarie per far fronte alle distorsioni più gravi del sistema d’istruzione.
Ma la vera rivoluzione si aggira silenziosa nei meandri della Camera, sotto le spoglie della proposta di legge 953, recante “Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti”, proposta dal presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, Valentina Aprea. Scuole trasformate in fondazioni, risorse distribuite secondo il principio “i soldi seguono gli studenti”, carriera per i docenti, albi regionali degli insegnanti e un contratto ad hoc per la categoria: quando la 953 sarà approvata, la scuola italiana non sarà più quella che abbiamo sempre conosciuto. Vediamo perché.

Autonomia degli istituti scolastici.
È la madre di tutte le riforme. Basta col papocchio postsessantottino dei Consigli d’istituto, parlamentini scolastici che giocano alla finta democrazia mentre le decisioni che contano rimangono saldamente nelle mani di viale Trastevere: dando piena attuazione al titolo V della Costituzione (riscritto, per chi avesse la memoria corta, dal fu governo D’Alema), le scuole verranno affidate a veri e propri consigli di amministrazione, responsabili in tutto e per tutto della gestione degli istituti e dell’amministrazione dei fondi che lo Stato affiderà loro.
Composizione dei Consigli? Una novità inaudita nel monolitismo dello Stato italiano: ciascun Consiglio, di «non più di undici membri», «delibera il regolamento relativo al proprio funzionamento, comprese le modalità di elezione, sostituzione e designazione dei suoi membri». Tradotto: non sarà il ministro a decidere se in tutte le scuole della Repubblica dovranno esserci due o tre insegnanti, due o tre genitori, due o tre bidelli, con le relative infinite discussioni che negli anni passati hanno bloccato ogni iniziativa analoga; ma ciascuna scuola valuterà la composizione del proprio Consiglio, che potrà comprendere anche «rappresentanti delle realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi».
Come a dire: siete maggiorenni, siete in grado di valutare da soli quale sia l’assetto più funzionale. E magari di cambiarlo, in tempi ragionevoli, senza attendere quelli biblici del Moloch di viale Trastevere. Accanto al Consiglio di amministrazione, il Collegio dei docenti, che si dota da sé di un regolamento che ne determini il funzionamento, e un «nucleo di valutazione dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità complessive del servizio scolastico», composto da «docenti esperti» e anche da «membri esterni». Anche qui la composizione è lasciata alle singole scuole.
Chissà se sapranno usare bene tutta questa libertà? E chissà se gli insegnanti troveranno il modo di lamentarsi anche di questa?

Le risorse seguono gli alunni.
Tanto più decisiva la riforma degli organi di governo in quanto la legge prevede che le risorse necessarie al funzionamento delle scuole – tutte, da quelle per riparare il tetto a quelle per pagare i docenti – siano conferite tramite le Regioni a ciascun istituto, «sulla base del criterio principale della “quota capitaria”, individuata in base al numero effettivo degli alunni iscritti a ogni istituzione scolastica, tenendo conto del costo medio per alunno, calcolato in relazione al contesto territoriale, alla tipologia dell’istituto, alle caratteristiche qualitative delle proposte formative, all’esigenza di garantire stabilità nel tempo ai servizi di istruzione e di formazione offerti, nonché a criteri di equità e di eccellenza». I protagonisti, cioè, sono gli istituti, lo Stato fa un passo indietro: qui ci sono le risorse, nessuno ha ricette magiche, ciascuno provi la sua ipotesi, sarà la realtà delle cose (la soddisfazione di studenti e famiglie) a indicare quali sono le migliori, e a dirottare automaticamente con la propria scelta le risorse verso le soluzioni più efficaci.

Da istituti a fondazioni.
Recita il Pdl 953: «Ogni istituzione può – a beneficio di tutti quelli che in questi giorni sbraitano che “le università diventeranno fondazioni”, sottolineiamo la parola “può”: ha la possibilità, può decidere, in base a una valutazione delle circostanze che è lasciata a ciascuna realtà – costituirsi in fondazione, con la possibilità di avere partner che ne sostengano l’attività», partecipando anche ai suoi organi di governo. È quel che nei paesi che ci sorpassano nelle classifiche Ocse-Pisa avviene abitualmente, è quel che già oggi le scuole più attente al rapporto col territorio, cioè al futuro vero dei propri studenti, cercano di fare, aggirando i mille bastoni che la normativa attuale mette tra le ruote della collaborazione col mondo reale. I soliti okkupanti abbaieranno che così si svende la scuola ai privati. Studenti, famiglie e insegnanti attenti alla realtà dei fatti sanno bene che il rapporto col mondo imprenditoriale significa miglioramento della qualità dell’offerta formativa.

Docenti in carriera.
Non c’è cosa più frustrante, oggi, per un’insegnante, di vedersi trattato allo stesso modo di tutti gli altri, qualunque sia il proprio impegno. Dovunque – negli altri settori e nelle scuole di altri paesi – chi lavora bene viene premiato. Solo nella scuola italiana questo non avviene. In omaggio a un dogma sovietico, gli insegnanti sono tutti uguali. Con la nuova legge la professione docente è articolata in tre livelli (docente iniziale, docente ordinario e docente esperto) a cui corrisponde un distinto riconoscimento giuridico ed economico della professionalità maturata. La formazione degli insegnanti avviene nei corsi di laurea magistrale e nei corsi accademici di secondo livello, con la previsione di un periodo di tirocinio e la creazione di un albo regionale da cui attingere. Sono previste valutazioni periodiche dei docenti, in base all’efficacia dell’azione didattica. Che non è certo facile da valutare, ma se altri paesi ci riescono, noi siamo forse più stupidi?

Un contratto ad hoc.
Dulcis in fundo, viene istituita un’area contrattuale della professione docente. Vale a dire: il contratto degli insegnanti sarà scorporato da quello di segretari e bidelli, mestieri indispensabili ma di natura differente. E scompariranno le attuali rappresentanze sindacali d’istituto (le famigerate Rsu) in cui sono sovente appunto degnissimi bidelli a decidere come vanno ripartite anche fra gli insegnanti le (poche) risorse aggiuntive. Forse anche l’Italia diventerà un paese moderno

http://centroculturalelugano.blogspot.com/2008/10/scuola-qualche-buona-idea-che-viene-da.html

La succubanza. I quotidiani siciliani e la mafia.

 

Di

ANTONELLO MANGANO*

 

Una “studiata strategia” di depistaggio. Un cronista “processato” per aver dato del mafioso al mafioso. Nomi che non si possono nominare. L’intervista a Nitto Santapaola, e la lettera vittimista che quattordici anni dopo manda il figlio Vincenzo, esprimendo identici concetti. Sono le vicende surreali che accompagnano la storia recente del quotidiano “La Sicilia”. Più a nord, episodi simili per la “Gazzetta del Sud”, il giornale più venduto in Sicilia nord-orientale e Calabria. Fotogramma dopo fotogramma, i pezzi di una storia che diventa ritratto impietoso della borghesia siciliana

Tutti i nodi vengono al pettine,

se c’è il pettine

(Sciascia)

 

Questa città non riesce a dimenticare

(Santapaola Jr.)

 

 

Dalla prima lettera di don Vincenzo ai catanesi: “Questa città non riesce a dimenticare pagine di cronaca e di storia ormai lontane e chiuse. […] Egregio direttore, mi trovo in un carcere di massima sicurezza, detenuto in regime di 41 bis, proprio quel regime creato per i detenuti considerati più pericolosi, capaci di dare ordini ad associazioni criminali, anche dal carcere: un regime che anche nel mio caso è assolutamente ingiustificato, come ingiustificata è la mia detenzione […]”.

E’ un passaggio della lettera che Vincenzo Santapaola, figlio del capomafia Nitto, ha inviato da un carcere del Nord Italia al quotidiano “La Sicilia”, pubblicata integralmente e senza alcun commento il 9 ottobre del 2008.

Un fatto grave, considerando che il 41 bis nasce per il massimo isolamento dei mafiosi e che la presunta autorizzazione della magistratura di Catania è stata smentita con forza dai diretti interessati. Un ingenuo errore isolato, ha detto qualcuno. Isolato?

 La colpa è dei giornalisti

“Una pausa del processo consente il faccia a faccia […]. Ed è la prima volta dal giorno della sua cattura che acconsente di parlare con un giornalista”. Siamo nell’ottobre del 1994, “La Sicilia” intervista Nitto Santapaola.

 “‘Praticamente mi hanno accusato di tutto quello che è successo in Sicilia negli ultimi 15 anni. Persino di avere partecipato a una riunione dove si è deciso di ammazzare Falcone. Eppure tutti sanno, e l’ho ripetuto migliaia di volte, che sono contrario a questo tipo di violenza. […] Il nome Santapaola fa effetto. Basta dire Santapaola per essere credibile. Voi giornalisti a volte non sbattete in prima pagina la foto di Santapaola per vendere di più?’

‘Un attacco alla stampa ?’

‘No. La stampa è importante, ma i giornalisti devono avere più coscienza quando scrivono. Voi giornalisti dovete fare gli investigatori, scoprire la verità e scriverla. Invece spesse volte riportate quello che dicono gli altri, anche se in quelle frasi ci sono molte falsità […]’

‘Esiste questo mito [Santapaola]?’

‘No, il mito l’hanno creato la stampa e i pentiti’”[1]

 Quattordici anni dopo la Sicilia è nuovamente lo strumento del vittimismo dei Santapaola:

“C’è gente che con pregiudizio mi giudica e mi considera in base a ciò che si è detto e scritto su di me, additandomi come un criminale…. C’è gente che crea leggende sul mio conto e sui miei familiari. […]

Purtroppo debbo constatare che il nome che porto è per me (come per mio fratello Francesco) una continua fonte di guai, a causa di persone, che, anche senza conoscermi, anzi nella quasi totalità senza conoscermi, usano e abusano del mio nome e di quello della mia famiglia”[2].

 

Perché è stata pubblicata questa lettera? E, soprattutto, quale il percorso seguito dalla cella di massimo isolamento alla redazione del giornale?

Le regole del 41bis prevedono una rigida censura della corrispondenza. Un’Ansa dell’11 ottobre sostiene che la lettera è stata autorizzata dal Gip del Tribunale di Catania, dopo un contorto viaggio: dalla galera alla sorella, dai legali al giornale[3].

In una lettera del giorno dopo, Rodolfo Materia, capo dell’ufficio Gip del Tribunale di Catania, smentisce decisamente: “nessun membro dell’ufficio ha autorizzato la comunicazione”.

“Lo scorso 9 ottobre è stata pubblicata sul quotidiano “La Sicilia” una lettera fatta pervenire dal detenuto Santapaola Vincenzo, sottoposto al regime carcerario speciale di cui all’art. 41 bis O.P.

La notizia che di per sé ha creato sconcerto nell’opinione pubblica è diventata ancora più inquietante quando il successivo 12 ottobre è stato pubblicato un altro articolo che spiegava come detta lettera fosse uscita dal carcere. Già il titolo anticipava: ‘Autorizzato dal Gip l’invio della lettere di Santapaola junior’, seguivano, poi, più specifiche indicazioni con ulteriori precisazioni che ‘i passaggi (erano stati) ricostruiti dal Dap’, avvalorando, in tal modo la veridicità della notizia.

Poiché questa ricostruzione dei fatti non risponde a verità, invito ai sensi dell’art. 8 della legge sulla stampa a pubblicare la presente rettifica volta a ripristinare la verità dei fatti.

Nessuno dei Magistrati del mio Ufficio, succedutisi nella trattazione del processo a carico di Santapaola Vincenzo, ha mai autorizzato l’invio di qualsiasi missiva del predetto Santapaola, destinata, seppur indirettamente, agli organi di stampa.

Pertanto, la notizia così come pubblicata risulta gravemente lesiva della dignità e professionalità dei Magistrati dell’Ufficio Gip di Catania, i quali con tanto senso di responsabilità operano quotidianamente al servizio della Giustizia”[4].

Ecco la risposta della Sicilia:

“L’articolo da noi pubblicato il 12 ottobre riproduceva un testo diffuso dall’agenzia Ansa il pomeriggio del giorno precedente”[5].

 L’appellativo

Un giorno nell’ufficio di Mario Ciancio si presenta Pippo Ercolano – padre di Aldo e cognato di Santapaola – per protestare su un pezzo del giorno precedente in cui lo si definisce ‘boss mafioso’.

L’articolo riferiva dei controlli effettuati dal Nucleo operativo ecologico dei carabinieri all’interno dell’Avimec, una ditta di trasporti riconducibile agli Ercolano.

“Sono convocati il capo cronista Vittorio Consoli e l’autore del pezzo, Concetto Mannisi.”[6] “In presenza dell’Ercolano, il direttore del giornale contestava al giornalista il tono non imparziale del suo articolo ed invitava il medesimo, per il futuro, a non attribuire l’appellativo di boss mafioso all’Ercolano e gli altri componenti della sua famiglia, anche se tali affermazioni provenissero da fonti della Polizia e dei Carabinieri”[7].

È un episodio richiamato molte volte nelle cronache de “I Siciliani”, in un rapporto dei carabinieri datato febbraio 1994 ed in diversi atti giudiziari, visto lo spessore di Aldo Ercolano,  per lunghi anni braccio destro di Santapaola. Secondo la procura di Catania, il fatto è “emblematico della succubanza[8] in cui la società civile ha vissuto e vive al cospetto della protervia della ‘famiglia’ mafiosa”[9].

 Il depistaggio

Il pentito Maurizio Avola si accusa di aver ucciso Giuseppe Fava e di aver fatto parte del commando che uccise Dalla Chiesa. La prima notizia è vera, la seconda è falsa. Secondo “La Sicilia”, Avola mente su tutto, perché all’epoca del delitto Dalla Chiesa non era uomo d’onore[10].

L’articolo è firmato da un corrispondente da Messina, mentre l’esperto di mafia del giornale, Tony Zermo, firma lo stesso giorno un identico articolo pubblicato da “Il Giorno” di Milano. Il successivo 3 giugno, “La Sicilia” insiste nella sua tesi, nonostante le autorevoli smentite  dei magistrati catanesi. La “Gazzetta del Sud” di Messina dice che Avola  è un sedicente  pentito, perché ha  dichiarato di aver ucciso Dalla  Chiesa, di conseguenza è un pentito-killer inventato da Cosa Nostra[11].

Nei giorni precedenti l’allora ministro Maroni aveva parlato di falsi pentiti infiltrati dalla mafia. Il sostituto procuratore catanese Amedeo Bertone  dichiara che Avola non si è mai  accusato dell’omicidio Dalla Chiesa. La DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) di Catania denuncia notizie “irresponsabilmente diffuse nell’ambito di una studiata strategia diretta a delegittimare il pentitismo”.  Una settimana dopo Claudio Fava invia alla Procura della Repubblica un esposto in cui si ipotizza il reato di favoreggiamento nei confronti dei mandanti dell’omicidio del padre.

 

Il necrologio

Il 28 luglio 1985 è ucciso Beppe Montana, commissario di polizia. Nell’agosto del 1986, per l’anniversario della morte, i familiari inviano alla ‘Sicilia’ un necrologio: la pubblicazione viene rifiutata, in quanto le espressioni verso “la mafia ed i suoi anonimi sostenitori” sono giudicate “troppo polemiche”.

Il 3 settembre 1982 è ucciso il generale Dalla Chiesa. Il giorno dopo “La Sicilia” è l’unico quotidiano che omette il nome di Santapaola (che peraltro sarà successivamente assolto) dalla lista degli indiziati. Qualche settimana più  tardi il giudice Giovanni Falcone spicca per lui un mandato di cattura.

“La Sicilia” si riferisce al boss con contorte perifrasi:

“Nell’ottobre del 1982, quando tutti i quotidiani italiani dedicheranno i loro titoli di testa all’emissione dei primi mandati di cattura per la strage di via Carini, l’unico giornale a non pubblicare il nome degli incriminati sarà La Sicilia. Un noto boss, scriverà il quotidiano di Ciancio. Nitto Santapaola, spiegheranno tutti gli altri giornali della nazione.

Il nome del capomafia catanese resterà assente dalle cronache della sua città per molti anni ancora: e se vi comparirà, sarà solo per dare con dovuto risalto la notizia di una sua assoluzione. O per ricordarne, con compunto trafiletto, la morte del padre. […] (Tutto questo) con risultati giornalisticamente grotteschi: i minorenni arrestati per uno scippo finivano in cronaca con nome, cognome e foto; i luogotenenti di Santapaola invece erano sempre ‘giovani incensurati’, il loro arresto maturava in ‘circostanze poco chiare’ […].”[12]

 Donne e debiti

L’8 gennaio del 1993 Beppe Alfano è ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Era insegnante, sindacalista Cisnal, tesserato Msi, collaboratore di “Telenews”[13] e soprattutto corrispondente per “La Sicilia”. Inizia un lungo e difficile procedimento giudiziario. Si indaga persino sulla vita privata di Alfano, e per alcuni la vittima deve diventare colpevole.

Solo col tempo si fanno strada ipotesi più solide: gli articoli sullo scandalo dell’AIAS di Milazzo, la micidiale vicinanza di Santapaola, latitante a Barcellona ospite delle potenti cosche locali.

Durante una fase del processo, la “Gazzetta del Sud” (il quotidiano locale più diffuso nella zona) titola, nelle pagine di cronaca: “Donne e debiti di gioco: due piste non seguite?”[14]

Un titolo a nove colonne: l’occhiello attribuisce la tesi ai legali difensori, il catenaccio aggiunge che “la mattina del delitto [Alfano] si sarebbe recato a Messina per ottenere un prestito di sei milioni”.

L’avvocato Franco Calabrò, difensore di Merlino, l’uomo accusato di essere il killer, arriva ad ipotizzare “relazioni extraconiugali con donne e con minorenni” e dichiara: “la mattina dell’omicidio Alfano andò via in tutta fretta – lo confermerà il preside – perché doveva recarsi a Messina per ottenere un prestito di 6 milioni”. La smentita è contenuta nello stesso corpo dell’articolo. Scipione De Leonardis, vice commissario a Barcellona nel periodo dell’omicidio, ribatte infatti che Alfano fu ritrovato con poco più di un milione in tasca e con un assegno, ma i debiti erano “di lievissima entità, dell’ordine di qualche centinaio di migliaia di lire. […] Non abbiamo trascurato alcuna pista, anzi le abbiamo perseguite tutte, anche quelle che riguardavano la vita privata dell’ucciso, proprio per poterle eventualmente escludere. Questa delle donne era infatti la voce più ricorrente, non si può dire se provenisse da un ambiente piuttosto che da un altro; era vox populi. […]. In ogni caso non era nulla di eclatante, per questo l’abbiamo abbandonata”.[15]

Paradiso etneo

 “Quando la città era invidiata perché cresceva, perché il benessere era sotto gli occhi di tutti, sì, allora l’economia era florida. La disoccupazione era solo quella fisiologica, non mancando il lavoro, la delinquenza era limitata agli ‘intrallazzisti’ o a pochi borsaioli. Erano anni in cui l’edilizia trainava ogni settore, gli anni dei palazzinari che edificavano in ogni angolo. Erano anni in cui i gruppi industriali come Costanzo, Rendo, Graci, Finocchiaro o Parasiliti incrementavano il loro fatturato e contestualmente reclutavano mano d’opera e professionisti. Da sempre queste aziende hanno rappresentato i datori di lavoro di questa città, riuscendo ad avere organici fino a 20mila unità.

La mafia, allora, era lontana o, se era vicina, non la si vedeva, o, se vogliamo, si faceva finta di non vederla. Comunque Catania godeva del benessere. […] Gli appalti venivano quasi sempre affidati ai ‘datori di lavoro catanesi’, ossia a quelle aziende che qui operavano. E anche tra loro c’era la pax dovuta alle eque spartizioni”.

Ma poi gli imprenditori etnei cercarono “impegni altrove”, a causa di “iniziative trasversali che a tutti i costi dovevano criminalizzare l’imprenditoria locale”. Ma ci fu “una sentenza ‘storica’ in cui, oltre ad assolvere gli imprenditori, [si] sostenne che la loro non era contiguità con la mafia ma una sorta di soccombenza obbligata al potere mafioso che, anche qui a Catania, comanda più del potere legale”[16].

Si tratta probabilmente della più entusiasta agiografia del “sistema dei cavalieri”, pubblicata dal corrispondente catanese della “Gazzetta del Sud” all’interno dello speciale che festeggiava i quarant’anni del quotidiano ed al contempo dedicava un “ritratto” ad ogni provincia siciliana. Era il 1992, e Giuseppe Fava era stato assassinato da 8 anni.

Donne sposate

Il buio della sera di gennaio, il freddo dell’inverno, pochi colpi di fucile caricato coi micidiali pallettoni usati in Aspromonte per la caccia al cinghiale. Un modo crudele di uccidere, ma anche una firma inequivocabile. Pochi momenti che diventano lo spartiacque per la borghesia di una città che da sempre si illudeva di poter facilmente controllare le “infiltrazioni”, cioè le due – tre famiglie locali, gli ndranghetisti, i mafiosi della vicina Barcellona, i catanesi e i palermitani e tutti i delinquenti che hanno scambiato la punta dello stretto per una zona franca da conquistare.

All’inizio del gennaio 1997 viene ucciso nella maniera più plateale possibile il professor Matteo Bottari, endocrinologo, genero del vecchio rettore dell’Università di Messina Stagno D’Alcontres e stretto collaboratore dell’allora “magnifico” Diego Cuzzocrea.  Una figura chiave tra cliniche private, Università e Policlinico, ovvero una “stazione appaltante” che fa gola a troppi, compresa la ‘ndrina installata dall’altra parte dello Stretto.

I gruppi criminali calabresi non vogliono soltanto imporre la propria presenza all’interno dell’Università, sostanzialmente incontrastata negli anni ’70, ma i propri metodi: sottomissione totale, definizione delle controversie a bombe e pistolettate, prima si spara poi si discute.

Una lunga serie di omicidi, attentati, minacce e deflagrazioni che scuote l’Italia ma viene ridotta a “episodi marginali” da un corpo accademico diviso tra paura ed omertà. Possiamo gestircela, tutto sotto controllo, sembra che pensino.

Poi arrivano quei colpi all’uscita della clinica, e sono il segnale più chiaro che si è andati oltre. Sono i giorni della paura, i momenti del terrore. Sono ore di confusione.

All’inizio si tenta prima di far passare l’ipotesi che si sia trattato di un “errore di persona” (espressione usata, tra gli altri, dal direttore amministrativo del Policlinico).

Nella cronaca della Gazzetta del Sud si legge tra l’altro: “I due colpi hanno spappolato una parte del volto del prof. Bottari (che piaceva anche a donne sposate)”[17].

Il giorno successivo i redattori prendono le distanze dall’autore della frase incriminata: “Purtroppo ieri, anche questo giornale, a causa della inspiegabile mancata cancellazione elettronica di un appunto (piaceva anche a donne sposate) tra quelli necessari per la sintesi di prima pagina, ha involontariamente dato credito alla voce [del delitto d’onore, nda], e nel peggiore dei modi. Per questo avvilente infortunio porgiamo le sincere scuse ai familiari e ai lettori, i quali sanno che non ci piace indulgere né allo scandalismo né allo sciacallaggio informativo. Teniamo pure a precisare che quella sintesi non è stata redatta da nessuno dei cronisti che stanno seguendo le indagini”.

Sabato 17, il Giornale di Sicilia spiega così i tanti interrogatori in Questura: “Bottari, probabilmente inconsapevolmente, aveva intrecciato una relazione sentimentale con una donna legata a qualche boss locale. Per questo motivo, i poliziotti hanno interrogato a lungo amici e colleghi del professionista, ai quali il medico aveva fatto qualche confidenza”.

Lunedì 19 gennaio arriva un invito a non frequentare la questura: “Gli interrogatori avvengono nei locali della Mobile, con cui collabora la Criminalpol”, scrive la Gazzetta. “Sicché il cittadino o la cittadina appartenente alla categoria dei “noti” corre il rischio, se vista da qualche “osservatore” a caccia di scoop di essere additato come “persona informata” dei fatti. Per cui si consiglia di non frequentare, in questi giorni, la Questura…”.

 Perché?

Catania ai tempi di Santapaola era una piccola repubblica autonoma con leggi, strumenti di informazione e tribunali propri e particolarissimi.

I mafiosi non sono tutti uguali. I famigerati corleonesi erano e sono rimasti contadini sanguinari, che riassumono il loro progetto politico in una sola frase che tramandano di padre in figlio: “rompere le corna allo Stato”. Sono stati cancellati dal loro delirio di onnipotenza, dal desiderio di determinare il destino dell’Italia, di controllare tutti gli appalti dell’isola ed il traffico internazionale degli stupefacenti pur vivendo come topi nelle masserie del palermitano, cibandosi di ricotta e cicoria.

Santapaola no. Pur nascendo a San Cristoforo, quartiere degradato ma in pieno centro, Santapaola inventa la mafia catanese, non proviene da famiglie mafiose e non ha tradizioni particolari da consolidare.

Unisce modi relativamente signorili alla ferocia del delinquente, capace di far strangolare dei ragazzini rei di aver scippato la madre. Frequenta deputati e sindaci, funzionari ed imprenditori. È imprenditore lui stesso, e non solo del crimine: gestisce una concessionaria Renault, mentre la moglie è titolare di una cartoleria del centro. Gioca a carte e scrive in corretto italiano, quanto basta per allontanarlo dal solito cliché del mafioso rozzo. Ci sono fotografie di Santapaola col sindaco e col presidente della provincia, col consigliere comunale e col deputato socialdemocratico. 

È il perno di un sistema politico-economico sanguinario ma a suo modo efficiente. Grandi palazzi e colate di cemento, viadotti e banche, televisioni ed imprese. Catania è un caso unico, un modello per alcuni, un concentrato di sangue e violenza per altri.

Storicamente, la borghesia siciliana ha concepito la mafia come quei cani ferocissimi ma utili per difendere la proprietà, intimorire i sottoposti, annientare i comunisti o aggirare le regole garantendosi un appalto. Proprio come cani da guardia nascono i mafiosi: sono i campieri del latifondo. Il film “In nome della legge” di Pietro Germi descrive bene il rapporto contorto e complesso tra classi dominanti isolane e gruppi mafiosi.

Come tutti i cani feroci, non è raro che mordano il padrone. E questo va messo in conto. Ed è accaduto spesso: dal delitto Mattarella a quello di Salvo Lima e dei fratelli Salvo. Fatte le debite proporzioni e sottolineate le notevoli differenze, il delitto Bottari a Messina.

Sono i momenti in cui la “cultura della convivenza” o la certezza di essere al posto di comando inevitabilmente vacillano. Allora entra in crisi anche la storica diffidenza nello Stato, e nella sua polizia. Meglio un’armata privata, sciolta da vincoli, efficace ed immediata. Meglio, finché non ti si rivolta contro.

Sciascia scrisse: “Cos’è il fascismo per i proprietari terrieri? E quelli rispondevano: la proibizione di fare sciopero”. Mi parve un’ottima risposta. Per essi, l’essere di destra non coincideva coi valori guerreschi o con gli eroismi, preferendo di gran lunga una vita paciosa punteggiata da mangiate di pesce e conversazioni sulla qualità della ricotta, bensì con la possibilità di sottomettere il prossimo. Per essi, il fatto di essere nati in condizione di privilegio, o peggio ancora un’arrampicata sociale coronata dal successo, coincide con la volontà di Dio, e Dio è il nome nobile che attribuiscono al caso.

Allo stesso modo, per i proprietari siciliani la mafia è stato uno strumento  – all’inizio forse estremo, poi diventa un’incrostazione culturale – che avrebbe impedito il sovvertimento dell’ordine sociale. Poi le cose presero strade diverse, come sappiamo.

Le stragi del 1992 sono una scossa che incrina una radicata convinzione, e cioè che la mafia abbia delle regole, che queste siano basate sull’onore, o che comunque esista una vecchia mafia sostanzialmente utile ma progressivamente imbastardita dall’avidità delle nuove generazioni criminali. A Palermo questa distinzione ha spesso assunto i caratteri della spocchia del cittadino: i cafoni provinciali corleonesi – piedi ‘ncritati, cioè sporchi di terra – hanno rovinato la vecchia mafia urbana dai modi civili.

“Faccio parte di un popolo tanto ricco di antiche civiltà e pure ridotto all’infamia per colpa di pochi spregiudicati che per continuare ad arricchirsi sul malaffare hanno perduto qualsiasi senso dell’onore. Sentimento che un tempo era vanto della mafia che teneva gelosamente a questa reputazione e che ora ha gettato nel fango, anzi nella fogna, anche questa antica prerogativa”[18].

 Fatte queste premesse è possibile comprendere l’articolato rapporto tra i giornali siciliani e la mafia, non riducibile alla solita indistinta mafiosità degli isolani.

Dopo la stagione della grandi stragi, parte della magistratura sembra intenzionata ad intaccare un sistema che fino a quel momento era apparso perfetto, indistruttibile. Nella prima metà degli anni ’90 si scatena una dura campagna contro giudici e pentiti, che del resto non si è mai interrotta ed ha coinvolto tanti media nazionali.

A volte sono commenti legittimi seppure opinabili, a volte forse qualcosa di più. Nel 1995 il collaboratore Vincenzo Scarantino inizia a parlare della strage di Via D’Amelio alla Procura diretta da Caselli. La moglie aveva accusato la questura di aver estorto la confessione con la tortura, le donne della famiglia sono arrivate ad incatenarsi di fronte al Palazzo di Giustizia. Puntutali arrivano altre voci, tutte smentite dai magistrati: “Alla larga dai pentiti […] A Palermo sostengono che [Scarantino] abbia voluto alzare il prezzo con lo Stato perché la famiglia ha bisogno di una nuova abitazione. Se fossimo al ministero di Grazia e Giustizia ci metteremmo dentro la famiglia Scarantino e butteremmo via la chiave. Senza pentirci”[21].

 

La libertà

I giornali siciliani sono gestiti con una mentalità che deriva direttamente dalla tradizione feudale. Un padre padrone, la successione ereditaria, casate di tradizione secolare – i Ciancio Sanfilippo a Catania, gli Ardizzone a Palermo -, direttori che dirigono ma non esercitano, cioè non scrivono, perché si sentirebbero come i latifondisti messi a zappare la terra, redazioni sotto controllo ed una isola rigidamente divisa nelle tre zone d’influenza dei monopoli.

Il direttore/editore de “La Sicilia” ribatte alle “azioni di disturbo” abbinando ad un silenzio glaciale la calma di chi sa di essere il più forte. Il direttore della “Gazzetta del Sud” di Messina persegue dal 1968, anno fatale da cui è in carica, una scientifica strategia, ovvero la querela in sede civile usata come arma contro chiunque osi criticare lui e/o il suo giornale.

Un saggio come quello che avete appena letto, pur basandosi su fatti veri ed inoppugnabili, potrebbe essere accusato di “maliziosi accostamenti”, “sintesi scorretta”, “subdole estrapolazioni”.

Un magistrato non indipendente – ce ne sono tanti – potrebbe abbozzare un atto esordendo: “Effettivamente…”. L’autore dell’articolo, oberato da spese insostenibili e dalla  prospettiva di un iter giudiziario pluridecennale, potrebbe aver voglia di scrivere “non più che le previsioni del tempo” (Giuseppe Fava). Per poi magari incontrare qualche amico del Nord che gli chiede: ma da voi perché nessuno si ribella?

[1] Sono un mito creato dalla stampa, la Sicilia,  26 ottobre 1994, pagina 3

[2] Lettera di Vincenzo Santapaola alla Sicilia, 9 ottobre 2008.

[3] Mafia: invio lettera Santapaola jr autorizzato da Gip, ANSA 11 ottobre 2008.

[4] Lettera pubblicata su “La Sicilia” il 17 ottobre 2008, pagina 33.

[5] La difesa appare ancora meno esaustiva se si considera che Mario Ciancio è consigliere d’amministrazione dell’ANSA nazionale, mentre la sede catanese dell’ANSA è in via Oderico da Pordenone 50, che è anche la sede de “La Sicilia”. Ciancio è tutt’altro che un imprenditore locale. Oltre ad essere stato presidente della FIEG, possiede o ha posseduto importanti partecipazioni azionari nei media di tutta Italia, tra cui “MTV”.

[6] Cfr. Fabio Gallina – Sebastiano Gulisano, Catania dopo Santapaola, “I Siciliani nuovi”, marzo 1996

[7] Procura di Catania, Atti dell’operazione “Orsa Maggiore”

[8] Termine originale usato dai magistrati.

[9] Ibidem.

[10] La Sicilia, 2 giugno 1994.

[11] Gazzetta del Sud, 3 giugno 1994.

[12] Claudio Fava, La mafia comanda a Catania 1960/1991, Laterza 1991

[13] Una emittente barcellonese il cui proprietario – Antonino Mazza – sarà ucciso nel luglio ’93.

[14] Cfr. Gazzetta del Sud, 13 maggio 1995, pagina 5

[15] Ibidem.

[16] 1952-1992 I nostri quarant’anni, supplemento alla “Gazzetta del Sud”, 9 giugno 1992, pagina 141

[17] Killer non messinesi. Nebuloso il movente, “Gazzetta del Sud”, 17 gennaio 1997, articolo non firmato in prima pagina

[18] “Vittima della devozione”, Gazzetta del Sud 20 giugno 1992, pagina 1

[21] Gazzetta del Sud 30 giugno 1995, pagina 95. L’editoriale è apparso in contemporanea su il Resto Del Carlino, La Nazione, Il Tempo.

*Antonello Mangano ha pubblicato ricerche, inchieste e saggi sui temi delle migrazioni, dell’antimafia, della telematica. Si occupa di formazione, software libero e di forme alternative di comunicazione e distribuzione delle informazioni

   Da: http://www.terrelibere.org/index.php?x=completa&riga=276

CARATTERISTICHE DEL BULLISMO A SCUOLA.


   
  BULLI E VITTIME
UN FENOMENO COMPLESSO
 
di Gianluca Gini
(ricercatore presso il Dipartimento di Psicologia dello sviluppo
e della socializzazione, Università degli Studi di Padova)
  

 

Il bullismo è rappresentato da un insieme di aggressioni di diverso tipo rivolte in maniera intenzionale e sistematica verso compagni più deboli. Alle tradizionali forme che esso può assumere, negli ultimi anni si è aggiunto il cyberbullying, grazie alla maggiore diffusione delle nuove tecnologie tra i giovani. Numerosi studi negli ultimi anni hanno evidenziato la natura multidimensionale del fenomeno, le cui spiegazioni vanno ricercate a più livelli, tra cui le caratteristiche individuali dei bulli e delle vittime, le relazioni familiari, con gli insegnanti e coi pari, l’organizzazione del sistema scolastico. Di particolare rilevanza si è dimostrata la dimensione di gruppo del fenomeno. Di questa complessità devono necessariamente tenere conto i progetti di prevenzione e intervento.
  

Il bullismo è una forma di comportamento aggressivo tipico delle relazioni tra coetanei caratterizzato da comportamenti violenti, pervasivi e con conseguenze durature (Fonzi, 1997; Olweus, 1993). Con una formula sintetica quanto efficace, esso può essere considerato «un abuso sistematico di potere» (Smith e Sharp, 1994, p.

2). La definizione di bullismo comunemente accettata in letteratura è costruita su tre dimensioni fondamentali: (a) l’intenzionalità che guida i comportamenti del bullo; (b) la persistenza nel tempo, vale a dire la ripetizione continuata degli episodi di prepotenza, che raramente costituiscono eventi isolati; (c) la dimensione del potere, che si manifesta, ad esempio, nello squilibrio di forza tra il bullo e la sua vittima (asimmetria relazionale). In altre parole, i bulli agiscono pubblicamente comportamenti aggressivi nel tentativo di conquistare una posizione di dominanza nel gruppo. Per aumentare la probabilità di successo di queste manifestazioni pubbliche di potere, essi scelgono come vittime i coetanei più deboli fisicamente o psicologicamente.

 

 

Le diverse tipologie

I comportamenti aggressivi che rientrano nella definizione di bullismo possono essere suddivisi in due categorie principali: prepotenze dirette e prepotenze indirette/relazionali (Crick e Grotpeter, 1995; Lagerspetz e Björkqvist, 1994). Le prime sono così chiamate perché attraverso di esse il bullo procura un danno e crea sofferenza alla vittima direttamente, ad esempio picchiandola (prepotenza di tipo fisico) oppure prendendola in giro, ridicolizzandola o minacciandola (prepotenza di tipo verbale). Questa tipologia di prepotenze, e in particolare quella verbale, è quella percentualmente più frequente tra gli alunni delle elementari e delle medie mentre, soprattutto nelle sue manifestazioni fisiche, mostra una tendenza alla diminuzione con il crescere dell’età (Fonzi, 1997). La seconda tipologia è costituita dalle prepotenze indirette/relazionali. Queste sono solitamente basate su strategie di controllo sociale, che consistono ad esempio nell’indurre altri compagni ad attaccare la vittima anziché farlo in prima persona, oppure nel manipolare le relazioni sociali per portare la vittima a un progressivo isolamento dal resto del gruppo. Altre strategie di questo tipo consistono nell’aggredire la vittima sminuendone il valore come persona, minacciandone l’autostima e impoverendo le sue relazioni di amicizia.

 

Il “cyberbullying”

Una nuova forma di bullismo è quella chiamata cyberbullying o bullismo elettronico (Smith e al., 2008). Questa modalità di prepotenza consiste nell’uso di Internet o del cellulare per inviare messaggi minacciosi o denigratori direttamente alla vittima o per diffondere messaggi o immagini dannosi e calunniosi (Ybarra e Mitchell, 2004).

La diffusione di questa particolare forma può essere spiegata dal fatto che essa garantisce spesso l’assoluto anonimato al bullo, consentendogli di essere più ingiurioso e offensivo, con una probabilità più bassa di essere scoperto e punito rispetto alle forme più tradizionali di bullismo. Proprio l’anonimato rende questa forma ancora peggiore di quella tradizionale in quanto, non essendo possibile sapere né l’identità né il numero di persone che stanno dietro questi messaggi, la paura provocata nella vittima è ancora maggiore. Di conseguenza anche il livello di ansia suscitato nella vittima e il suo desiderio di evitare la scuola e le interazioni con i coetanei possono essere particolarmente forti. In ultimo, la possibilità di diffondere la documentazione delle prepotenze sul Web o tramite cellulare consente al bullo di allargare all’infinito il suo pubblico di spettatori (vedi schede 1 e 2).

Scheda 1

Inizialmente, gli studi sul bullismo si erano concentrati sulla componente maschile del fenomeno, ritenendo che esso fosse caratteristico proprio delle relazioni tra compagni maschi. Questa configurazione era dovuta al fatto che esso veniva identificato, quasi integralmente, con l’aggressività ostile di tipo fisico, messa in atto soprattutto dai maschi.

 

Le differenze di genere

Successivamente, l’ampliamento della definizione di bullismo e la precisazione delle tipologie di comportamento aggressivo in cui tale fenomeno si può articolare hanno portato a individuare stili aggressivi diversi caratterizzanti il bullismo maschile e quello femminile. Un contributo fondamentale è stato fornito dal gruppo di ricerca guidato da Kaj Björkqvist, il quale ha avuto il merito di approfondire le diverse modalità indirette e manipolative con cui le ragazze, soprattutto dalla preadolescenza in poi, esercitano l’aggressività nei confronti di altre ragazze, dimostrando come sia troppo semplicistico e scorretto ritenere che i maschi siano più aggressivi delle femmine (es., Lagerspetz e Björkqvist, 1994). Le femmine non sarebbero meno ostili o meno portate al conflitto rispetto ai maschi ma, quando vogliono aggredire, invece di ricorrere alla violenza fisica utilizzano mezzi alternativi per ottenere risultati analoghi.

Scheda 2.

A questo proposito è interessante riflettere su quale possa essere il diverso significato che l’uso di comportamenti aggressivi può avere nei maschi e nelle femmine. I ragazzi spesso considerano le relazioni interpersonali come un modo per ottenere potere sociale all’interno di un gruppo, mentre le ragazze tendono a vedere tali relazioni come un modo per entrare in intimità con gli altri.

L’esito di questa differenza è che le ragazze attribuiscono più importanza alla formazione di legami emozionali con le persone e, di conseguenza, tendono a costruire un numero inferiore di relazioni, che sono però più forti e profonde, rispetto ai maschi. Al contrario, i ragazzi hanno più probabilità di formare più amicizie casuali e un minor numero di relazioni intime rispetto alle femmine. È proprio questa caratteristica delle relazioni amicali tra ragazze che fa sì che il bullismo femminile assuma prevalentemente la forma relazionale. In altre parole, per infliggere un danno ai compagni, i bulli scelgono le strade che più di tutte frustrano o danneggiano le priorità e gli scopi che sono valorizzati dal gruppo e che sono diversi a seconda del genere di appartenenza dei membri del gruppo.

Per tale motivo, le prepotenze tra ragazze saranno raramente finalizzate a dimostrare la propria superiorità fisica, mentre più facilmente saranno mirate a rompere i legami sociali e di amicizia delle vittime. Va precisato che questa distinzione tra aggressività maschile e femminile sulla base dello scopo dell’aggressore non deve essere interpretata in maniera troppo rigida, soprattutto in considerazione del fatto che molto spesso lo stesso comportamento ostile persegue contemporaneamente differenti obiettivi.

Il bullismo può essere considerato a tutti gli effetti un fenomeno di gruppo e la comprensione del suo significato, oltre alle caratteristiche personali di chi è coinvolto come attore delle prepotenze, non può prescindere dall’analisi del gruppo dei coetanei in cui esso si manifesta (Gini, 2005; Gini e al., 2008). Il bullismo, infatti, è influenzato dal significato sociale che assume all’interno di un determinato gruppo e dalle credenze che gli studenti stessi hanno riguardo ad esso, ad esempio quelle circa l’efficacia dei comportamenti aggressivi o gli atteggiamenti verso chi subisce. Inoltre, i bulli agiscono spesso per elevare il proprio status agli occhi dei compagni e sono influenzati dalle norme sociali del gruppo. Lo stesso gruppo, infine, può servire da rinforzo al comportamento prepotente: i compagni, infatti, possono accettare, tacitamente o in modo esplicito, il comportamento del bullo e possono persino ammirarlo e considerarlo un modello positivo da seguire (Menesini e Gini, 2000), (vedi schede 3 e 4).

Scheda 3.

 

Il ruolo dei genitori

Il ruolo della famiglia nel fenomeno del bullismo può essere declinato secondo tre aspetti principali: lo stile parentale, i legami di attaccamento e i valori familiari. L’espressione stile parentale si riferisce agli atteggiamenti dei genitori nei confronti dei figli che riflettono i valori e le credenze che questi hanno circa la loro educazione e che si ripercuotono sulle loro pratiche educative. Partendo dal modello tipologico proposto dalla Baumrind (1971), Maccoby e Martin (1983) hanno individuato quattro stili che vengono ottenuti attraverso l’incrocio di due dimensioni: demandingness (le richieste che i genitori esplicitano ai figli esercitando controllo, supervisione e garantendo il rispetto della disciplina) e responsiveness (che si manifesta attraverso espressioni di sostegno e calore affettivo e con la disponibilità a soddisfare i bisogni e le richieste dei figli). Alti livelli di entrambe le componenti definiscono lo stile “autorevole”, mentre la loro scarsità quello “negligente”. Lo stile “autoritario” caratterizza quei genitori che richiedono molto ai figli in termini di rispetto delle regole, senza compensare queste richieste con un clima emotivamente caldo in famiglia. All’opposto, quello “indulgente” è tipico dei genitori disponibili dal punto di vista affettivo e pronti a soddisfare le richieste dei figli ma che non offrono adeguato controllo e supervisione al comportamento, in casa e fuori, dei figli.

Nonostante le ricerche sulle relazioni tra stili educativi e bullismo siano ancora numericamente limitate, esse sembrano dimostrare che lo stile autorevole sia quello più adeguato per un migliore adattamento psicosociale dei figli e possa rappresentare un fattore di protezione rispetto al coinvolgimento, come attori o come vittime, in questo fenomeno (Smith e Myron-Wilson, 1998). Viceversa, la prevalenza di uno stile autoritario in famiglia sarebbe associato a un maggiore rischio di coinvolgimento nel bullismo (Baldry e Farrington, 1998). Tale associazione potrebbe essere spiegata dal fatto che uno stile autoritario tende a veicolare messaggi e valori che incoraggiano l’imposizione e la dominanza che i figli esercitano sui pari e quindi anche azioni di natura vessatoria nei confronti dei compagni di classe (Knafo, 2003). Per quel che concerne la vittimizzazione, lo stile autoritario può incoraggiare i figli a un atteggiamento di sottomissione tipico dei ragazzi che subiscono atti di bullismo a scuola (Vieno e al., 2007). Oltre all’eccesso di controllo, anche l’iperprotezione e la presenza eccessiva di ansia e paure verso il mondo esterno possono porre a rischio i ragazzi di essere vittimizzati a scuola (Menesini, Giannetti e Genta, 1999).

Finnegan e collaboratori (1998), rianalizzando il ruolo dello stile di accudimento materno, hanno trovato risultati molto interessanti. Dalla loro ricerca, infatti, è emersa una differenza tra maschi e femmine nell’associazione tra modalità di interazione madrebambino nei primi anni di vita e il rischio di vittimizzazione in età successive. L’iperprotettività materna è risultata associata con la vittimizzazione solo nel caso dei maschi, i quali hanno riportato di sentirsi intimoriti e costretti ad affidarsi alle loro madri durante i conflitti. Nel caso delle femmine, invece, la vittimizzazione è risultata significativamente predetta dal rifiuto materno e dall’uso di strategie di coping aggressive durante i conflitti madre-figlia che, secondo l’ipotesi degli autori, potrebbero creare ansia e depressione nella bambina, rendendola più facilmente bersaglio degli attacchi dei compagni. Nonostante queste differenze di genere, Finnegan e collaboratori (1998) suggeriscono che in entrambi i casi ci sia uno stesso meccanismo che associa lo stile materno alla vittimizzazione, in quanto vi sarebbe un maggior rischio nel caso in cui il comportamento materno agisse nella direzione di ostacolare lo sviluppo delle competenze specifiche del genere di appartenenza del bambino: l’autonomia nel caso dei maschi e l’intimità per le femmine.

Scheda 4.

In sintesi, questi studi evidenziano come, se la famiglia presenta uno stile educativo prevalentemente permissivo e tollerante, il bambino non riesce a sviluppare un adeguato controllo sul proprio comportamento e ciò, in interazione con altre caratteristiche personali predisponenti, può creare le condizioni per lo sviluppo di difficoltà nella gestione di sé e delle proprie azioni anche fuori del contesto familiare e, quindi, per l’assunzione di condotte aggressive a scuola. Viceversa, in una famiglia caratterizzata da uno stile educativo coercitivo, in cui il rispetto delle regole familiari viene garantito attraverso il ricorso a punizioni fisiche o a violente esplosioni emotive, il bambino può acquisire tali modalità comportamentali come modello “normale” di gestione delle situazioni conflittuali e può sentirsi autorizzato a riprodurre gli stessi comportamenti di cui ha fatto esperienza precoce anche nelle relazioni extrafamiliari, secondo la regola “violenza genera violenza” (Olweus, 1993).

Un numero ancora più limitato di ricerche si è occupato del legame tra modelli di attaccamento e bullismo. A tal proposito, alcuni autori (Smith e Myron-Wilson, 1998) hanno ipotizzato che alla base dell’incompetenza sociale che caratterizza molte vittime di bullismo ci sarebbero esperienze di attaccamento “insicuro-resistente”.

I bambini che sviluppano tale tipo di attaccamento, infatti, possono sentirsi responsabili di aver contribuito all’instaurarsi di questo legame inadeguato con i genitori e pertanto maturano un senso di inadeguatezza, perdono stima in sé stessi e fiducia nelle proprie capacità, diventando insicuri e ansiosi. Inoltre, essi mostrano un forte bisogno della presenza del genitore quando devono affrontare situazioni nuove ed esibiscono un livello di angoscia insolitamente alto quando il genitore si allontana. Poiché li rendono visibilmente incompetenti nel gestire le aggressioni da parte dei coetanei, queste condizioni rappresentano un fattore di rischio per alcuni bambini, mettendoli nelle condizioni di diventare potenziali vittime delle prepotenze dei compagni. Infine, unitamente alla variabile dello stile educativo prevalente all’interno della famiglia e ai modelli di attaccamento, merita attenzione anche il sistema dei valori che in essa vige, poiché i valori trasmessi dai genitori influenzano il figlio sia nel modo di relazionarsi agli altri sia nella risoluzione delle difficoltà della vita (Rican, 1995). In particolare, questo autore ha trovato che in molte famiglie dei bulli le strategie di coping, ossia i modi in cui vengono affrontate le difficoltà, tendono a essere fondate sull’individualismo e l’egoismo.

Un’altra testimonianza si trova nei dati di una ricerca condotta da Fonzi e collaboratori (Fonzi, Ciucci, Berti e Brighi, 1996), nella quale sono state indagate le aspettative dei bambini nei confronti dei loro genitori quando si verificano episodi di prepotenza; dai risultati è emerso che i bulli colgono una forma di approvazione-rinforzo verso il loro comportamento da parte dei genitori (vedi schede 5 e 6).

Scheda 5.

Prevenzione e intervento

Nel corso degli anni, la ricerca psicologica ha elaborato numerose proposte volte a prevenire e ridurre il fenomeno. La gran parte di queste proposte, pur nelle loro differenze specifiche, sono accomunate dall’idea che la natura multidimensionale del bullismo richieda interventi a diversi livelli, anziché interventi focalizzati solo sulla relazione disfunzionale bullo-vittima. Un’analisi dettagliata dei singoli programmi, delle loro somiglianze e differenze, dei loro punti di forza e di debolezza, va decisamente al di là degli scopi di questo contributo. È però particolarmente interessante considerare, senza la pretesa di essere esaustivi, quali variabili di un progetto antibullismo vengono ritenute importanti soprattutto da quegli studi che si sono occupati di valutarne l’efficacia.

In primo luogo, rimarchiamo la necessità di progettare interventi secondo un approccio ecologico e sistemico in grado di attivare cambiamenti nel clima generale della scuola, nelle norme e nei valori del gruppo, invece di focalizzarsi esclusivamente sui bambini bulli e vittime (Menesini, 2000). Si parla di politica scolastica antibullismo, intendendo con ciò l’elaborazione di una vera e propria politica anti-violenza e di un sistema di regole basato sul rispetto e la cooperazione (Olweus, 1993; Sharp e Smith, 1994).

Una simile prospettiva mira a integrare al proprio interno diversi livelli di intervento, dalla scuola al gruppo classe, fino ad arrivare ai singoli individui coinvolti più direttamente nel problema. Inoltre, l’assunto alla base del modello ecologico riguarda la possibilità di attivare e valorizzare le risorse interne della scuola (insegnanti, alunni, genitori, altro personale), invece di ricorrere esclusivamente a interventi specialistici dall’esterno (Gini, 2004; Menesini, 2000, 2003; Rigby, 1996; Sharp e Smith, 1994). In generale, diversi studi hanno confermato l’idea che un intervento comprensivo può migliorare sensibilmente i problemi di bullismo all’interno della scuola già nel breve periodo. Tuttavia, la variabile tempo sembra essere fondamentale per una reale efficacia di un progetto di prevenzione/intervento antibullismo e, molto spesso, è stata sottolineata la necessità che le scuole comprendano fino in fondo l’importanza di mantenere “vivo” nel tempo il programma una volta cominciato. Inoltre, è importante che variabili specifiche relative alla scuola, alle famiglie e ai singoli bambini siano progressivamente inserite in questi progetti, in modo che essi divengano via via sempre più efficaci.

Scheda 6.

A livello di gruppo-classe, ad esempio, i percorsi che vengono attivati con maggiore frequenza nelle scuole italiane possono essere riassunti in tre categorie: (a) gli interventi di conoscenza e di sensibilizzazione verso il problema del bullismo, che vedono direttamente gli insegnanti coinvolti nell’uso di strumenti e materiali curricolari (brani della letteratura, film, argomenti delle discipline storico-filosofiche e di quelle scientifiche, attività musicali e artistiche, attività motorie) come stimolo per la riflessione sul fenomeno e, più in generale, sulla convivenza pacifica; il rispetto delle diversità, la soluzione dei conflitti; (b) i percorsi di alfabetizzazione emotiva e di potenziamento delle abilità sociali, volti a “costruire” la competenza emotiva di tutti gli studenti, a educarli all’empatia, alla comunicazione assertiva e al comportamento prosociale; (c) i percorsi sulle regole, volti a ridefinire e rinegoziare le regole dello stare insieme in classe e a scuola.

Ovviamente, questi interventi necessitano, parallelamente, di un percorso di formazione per gli insegnanti che offra loro le conoscenze di base sulle caratteristiche del fenomeno, da un lato, e gli strumenti metodologici e operativi per l’attivazione di questi percorsi nelle proprie classi, dall’altro. A un livello più generale, tutte le attività di cooperative learning, benché non specificamente pensate per la prevenzione del bullismo, rappresentano un valido approccio didatticoeducativo con significative ricadute positive sul clima della classe e la capacità di gestione degli eventuali conflitti. Uno sviluppo interessante di questo approccio basato sul potenziamento e la valorizzazione delle competenze sociali positive, la cooperazione e l’aiuto è rappresentato dall’implementazione dei cosiddetti modelli di supporto tra pari, sperimentati negli ultimi anni anche in alcune scuole del nostro Paese, soprattutto grazie al lavoro pionieristico della prof.ssa Ersilia Menesini (Menesini, 2003). Si tratta di un approccio alla prevenzione del bullismo basato sulla naturale potenzialità di molti ragazzi di aiutare, consolare e dare sostegno ai propri compagni. I modelli di supporto tra pari abitualmente utilizzati sono di tre tipi: (a) l’operatore amico, caratterizzato da un approccio più informale in cui gli studenti svolgono un ruolo di sostegno per i compagni in difficoltà; (b) la consulenza dei pari, che può assumere la forma di un vero e proprio sportello o spazio di ascolto gestito dagli studenti stessi; (c) la mediazione dei conflitti tra pari, in cui, analogamente ai casi precedenti, la funzione dei mediatori viene svolta da studenti appositamente formati.

Tabella.

Un ulteriore esempio è il circolo di qualità. Si tratta di una tecnica che racchiude insieme i principi del lavoro cooperativo e le strategie di problem solving (Sharp e Smith, 1994), attraverso la quale i ragazzi possono apprendere ad affrontare le situazioni problematiche in maniera attiva e ad assumersi la responsabilità di ricercare le soluzioni più adeguate mediante un percorso strutturato.

Tabella.

 

Coinvolgere le famiglie

La maggior parte dei progetti di prevenzione/intervento sperimentati in Italia e all’estero hanno visto come focus principale e, in molti casi unico, la scuola. Più raramente, questi progetti vedono il coinvolgimento diretto delle famiglie. Sarebbe invece auspicabile una loro maggiore partecipazione lungo tutto il percorso di intervento e non, come spesso avviene, solo nella fase iniziale di informazione circa le attività che i ragazzi svolgeranno a scuola. Tra i primi progetti internazionali ad adottare un approccio integrato di comunità ci sono quelli di Randall (1996) e di Besag (1999), il cui obiettivo è stato quello di potenziare la collaborazione tra le diverse agenzie e di elaborare iniziative specifiche rivolte alle famiglie. All’interno di questi progetti, questo tipo di iniziative hanno una duplice finalità. Da un lato, esse mirano a favorire il grado di sensibilizzazione e coinvolgimento attivo delle famiglie nelle attività educative della scuola e aumentare il senso di responsabilizzazione dei genitori nei confronti dei comportamenti aggressivi dei figli. Dall’altro, attraverso percorsi di lavoro con gruppi ristretti, si mira ad aiutare i genitori a capire lo sviluppo sociale dei loro figli, fornendo loro le informazioni e gli strumenti adeguati per sostenerli soprattutto durante la fase preadolescenziale. In Italia sono ancora sporadiche le esperienze in cui si è riusciti a coinvolgere i genitori in questi percorsi educativi di prevenzione (Buccoliero e Maggi, 2006; Iannaccone, 2005) e non poche sono le difficoltà pratiche che incontra chi desideri allargare alle famiglie un progetto nato all’interno della scuola. Tuttavia, è fondamentale che l’offerta di percorsi di sensibilizzazione per i genitori diventi parte integrante della normale attività educativa della scuola, superando la regola che vede i genitori come semplici recettori passivi di informazioni. Al contrario, sarebbe opportuno creare le condizioni per cui alcuni genitori acquisiscano non solo una maggiore sensibilità circa il problema, ma anche un bagaglio di competenze tale da renderli una risorsa per altri genitori, ad esempio attraverso la costituzione di gruppi di auto-aiuto, e per la scuola stessa, favorendo gruppi di lavoro formati sia da insegnanti che da genitori (vedi tabelle sopra)

 

Principi e regole

Come si è cercato di argomentare finora, il bullismo è un fenomeno multidimensionale in cui agiscono fattori di tipo diverso, sia individuali che sociali. Da un punto di vista scientifico, sia con ricerche di base sia con ricerche-intervento sul campo, si cerca di definire sempre meglio il problema,

 

per intervenire più efficacemente a livello preventivo nelle specifiche realtà in cui i comportamenti antisociali propri del bullismo si manifestano.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  • Baldry A.C. e Farrington D.P., “Parenting influences on bullying and victimization”, Legal and Criminological Psychology, 3/1998, pp. 237-254.
  • Baumrind D., “Current patterns of parental authority”, Developmental Psychology Monographs, 4/1971, p. 2.
  • Besag V., Coping with bullying, Ashington: The Rotary Coping with life series: Programme 1, 1999.
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Legge 137(Gelmini):testo definitivo approvato in Senato.

Il testo integrale del decreto legge 137/2008 (decreto “Gelmini”) approvato da Camera e Senato (in grassetto le modifiche apportate in corso di conversione)

 

DECRETO LEGGE 137 dell’1 settembre 2008

Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università

Articolo 1.

(Cittadinanza e Costituzione)

1. A decorrere dall’inizio dell’anno scolastico 2008/2009, oltre ad una sperimentazione nazionale, ai sensi dell’articolo 11 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275, sono attivate azioni di sensibilizzazione e di formazione del personale finalizzate all’acquisizione nel primo e nel secondo ciclo di istruzione delle conoscenze e delle competenze relative a «Cittadinanza e Costituzione», nell’ambito delle aree storico-geografica e storico-sociale e del monte ore complessivo previsto per le stesse. Iniziative analoghe sono avviate nella scuola dell’infanzia.

1-bis. Al fine di promuovere la conoscenza del pluralismo istituzionale, definito dalla Carta costituzionale, sono altresì attivate iniziative per lo studio degli statuti regionali delle regioni ad autonomia ordinaria e speciale.

2. All’attuazione del presente articolo si provvede entro i limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Articolo 2.

(Valutazione del comportamento degli studenti)

1. Fermo restando quanto previsto dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 24 giugno 1998, n. 249, e successive modificazioni, in materia di diritti, doveri e sistema disciplinare degli studenti nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado, in sede di scrutinio intermedio e finale viene valutato il comportamento di ogni studente durante tutto il periodo di permanenza nella sede scolastica, anche in relazione alla partecipazione alle attività ed agli interventi educativi realizzati dalle istituzioni scolastiche anche fuori della propria sede.

1-bis. Le somme iscritte nel conto dei residui del bilancio dello Stato per l’anno 2008, a seguito di quanto disposto dall’articolo 1, commi 28 e 29, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni, non utilizzate alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere destinate al finanziamento di interventi per l’edilizia scolastica e la messa in sicurezza degli istituti scolastici ovvero di impianti e strutture sportive dei medesimi. Al riparto delle risorse, con l’individuazione degli interventi e degli enti destinatari, si provvede con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in coerenza con apposito atto di indirizzo delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari.

2. A decorrere dall’anno scolastico 2008/2009, la valutazione del comportamento è effettuata mediante l’attribuzione di un voto numerico espresso in decimi.

3. La votazione sul comportamento degli studenti, attribuita collegialmente dal consiglio di classe, concorre alla valutazione complessiva dello studente e determina, se inferiore a sei decimi, la non ammissione al successivo anno di corso o all’esame conclusivo del ciclo. Ferma l’applicazione della presente disposizione dall’inizio dell’anno scolastico di cui al comma 2, con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca sono specificati i criteri per correlare la particolare e oggettiva gravità del comportamento al voto inferiore a sei decimi, nonché eventuali modalità applicative del presente articolo.

Articolo 3.

(Valutazione sul rendimento scolastico degli studenti)

1. Dall’anno scolastico 2008/2009, nella scuola primaria la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite sono effettuate mediante l’attribuzione di voti numerici espressi in decimi e illustrate con giudizio analitico sul livello globale di maturazione raggiunto dall’alunno.

1-bis. Nella scuola primaria, i docenti, con decisione assunta all’unanimità, possono non ammettere l’alunno alla classe successiva solo in casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione.

2. Dall’anno scolastico 2008/2009, nella scuola secondaria di primo grado la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite nonché la valutazione dell’esame finale del ciclo sono effettuate mediante l’attribuzione di voti numerici espressi in decimi.

3. Nella scuola secondaria di primo grado, sono ammessi alla classe successiva, ovvero all’esame di Stato a conclusione del ciclo, gli studenti che hanno ottenuto, con decisione assunta a maggioranza dal consiglio di classe, un voto non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline.

3-bis. Il comma 4 dell’articolo 185 del testo unico di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, è sostituito dal seguente:

«4. L’esito dell’esame conclusivo del primo ciclo è espresso con valutazione complessiva in decimi e illustrato con una certificazione analitica dei traguardi di competenza e del livello globale di maturazione raggiunti dall’alunno; conseguono il diploma gli studenti che ottengono una valutazione non inferiore a sei decimi».

4. Il comma 3 dell’articolo 13 del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226, è abrogato.

5. Con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, si provvede al coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli studenti, tenendo conto anche dei disturbi specifici di apprendimento e della disabilità degli alunni, e sono stabilite eventuali ulteriori modalità applicative del presente articolo.

Articolo 4.

(Insegnante unico nella scuola primaria)

1. Nell’ambito degli obiettivi di razionalizzazione di cui all’articolo 64 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nei regolamenti previsti dal comma 4 del medesimo articolo 64 è ulteriormente previsto che le istituzioni scolastiche della scuola primaria costituiscono classi affidate ad un unico insegnante e funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali. Nei regolamenti si tiene comunque conto delle esigenze, correlate alla domanda delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo-scuola.

2. Con apposita sequenza contrattuale è definito il trattamento economico dovuto all’insegnante unico della scuola primaria, per le ore di insegnamento aggiuntive rispetto all’orario d’obbligo di insegnamento stabilito dalle vigenti disposizioni contrattuali.

2-bis. Per la realizzazione delle finalità previste dal presente articolo, il Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, ferme restando le attribuzioni del comitato di cui all’articolo 64, comma 7, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, provvede alla verifica degli specifici effetti finanziari determinati dall’applicazione del comma 1 del presente articolo, a decorrere dal 1º settembre 2009. A seguito della predetta verifica, per le finalità di cui alla sequenza contrattuale prevista dal comma 2 del presente articolo, si provvede, per l’anno 2009, ove occorra e in via transitoria, a valere sulle risorse del fondo d’istituto delle istituzioni scolastiche, da reintegrare con quota parte delle risorse rese disponibili ai sensi del comma 9 dell’articolo 64 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nei limiti dei risparmi di spesa conseguenti all’applicazione del comma 1, resi disponibili per le finalità di cui al comma 2 del presente articolo, e in ogni caso senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

2-ter. La disciplina prevista dai presente articolo entra in vigore a partire dall’anno scolastico 2009/2010, relativamente alle prime classi del ciclo scolastico.

Articolo 5.

(Adozione dei libri di testo)

1. Fermo restando quanto disposto dall’articolo 15 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i competenti organi scolastici adottano libri di testo in relazione ai quali l’editore si è impegnato a mantenere invariato il contenuto nel quinquennio, salvo che per la pubblicazione di eventuali appendici di aggiornamento da rendere separatamente disponibili. Salva la ricorrenza di specifiche e motivate esigenze, l’adozione dei libri di testo avviene nella scuola primaria con cadenza quinquennale, a valere per il successivo quinquennio, e nella scuola secondaria di primo e secondo grado ogni sei anni, a valere per i successivi sei anni. Il dirigente scolastico vigila affinchè le delibere dei competenti organi scolastici concernenti l’adozione dei libri di testo siano assunte nel rispetto delle disposizioni vigenti.

Articolo 5-bis.

(Disposizioni in materia di graduatorie ad esaurimento)

1. Nei termini e con le modalità fissati nel provvedimento di aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento da disporre per il biennio 2009/2010, ai sensi dell’articolo 1, commi 605, lettera c), e 607, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e successive modificazioni, i docenti che hanno frequentato i corsi del IX ciclo presso le scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario (SSIS) o i corsi biennali abilitanti di secondo livello ad indirizzo didattico (COBASLID), attivati nell’anno accademico 2007/2008, e hanno conseguito il titolo abilitante sono iscritti, a domanda, nelle predette graduatorie, e sono collocati nella posizione spettante in base ai punteggi attribuiti ai titoli posseduti.

2. Analogamente sono iscritti, a domanda, nelle predette graduatorie e sono collocati nella posizione spettante in base ai punteggi attribuiti ai titoli posseduti i docenti che hanno frequentato il primo corso biennale di secondo livello finalizzato alla formazione dei docenti di educazione musicale delle classi di concorso 31/A e 32/A e di strumento musicale nella scuola media della classe di concorso 77/A e hanno conseguito la relativa abilitazione.

3. Possono inoltre chiedere l’iscrizione con riserva nelle suddette graduatorie coloro che si sono iscritti nell’anno accademico 2007/2008 al corso di laurea in scienze della formazione primaria e ai corsi quadriennali di didattica della musica; la riserva è sciolta all’atto del conseguimento dell’abilitazione relativa al corso di laurea e ai corsi quadriennali sopra indicati e la collocazione in graduatoria è disposta sulla base dei punteggi attribuiti ai titoli posseduti.

Articolo 6.

(Valore abilitante della laurea in scienze della formazione primaria)

1. L’esame di laurea sostenuto a conclusione dei corsi in scienze della formazione primaria istituiti a norma dell’articolo 3, comma 2, della legge 19 novembre 1990, n. 341, e successive modificazioni, comprensivo della valutazione delle attività di tirocinio previste dal relativo percorso formativo, ha valore di esame di Stato e abilita all’insegnamento nella scuola primaria o nella scuola dell’infanzia, a seconda dell’indirizzo prescelto.

2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche a coloro che hanno sostenuto l’esame di laurea conclusivo dei corsi in scienze della formazione primaria nel periodo compreso tra la data di entrata in vigore della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e la data di entrata in vigore del presente decreto.

Articolo 7.

(Modifica del comma 433 dell’articolo 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, in materia di accesso alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia)

1. Il comma 433 dell’articolo 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, è sostituito dal seguente:

«433. Al concorso per l’accesso alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, di cui al decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, e successive modificazioni, possono partecipare tutti i laureati in medicina e chirurgia. I laureati di cui al primo periodo, che superano il concorso ivi previsto, sono ammessi alle scuole di specializzazione a condizione che conseguano l’abilitazione per l’esercizio dell’attività professionale, ove non ancora posseduta, entro la data di inizio delle attività didattiche di dette scuole immediatamente successiva al concorso espletato».

Articolo 7-bis.

(Provvedimenti per la sicurezza delle scuole)

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, al piano straordinario per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, formulato ai sensi dell’articolo 80, comma 21, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni, è destinato un importo non inferiore al 5 per cento delle risorse stanziate per il programma delle infrastrutture strategiche in cui il piano stesso è ricompreso.

2. Al fine di consentire il completo utilizzo delle risorse già assegnate a sostegno delle iniziative in materia di edilizia scolastica, le economie, comunque maturate alla data di entrata in vigore del presente decreto e rivenienti dai finanziamenti attivati ai sensi dell’articolo 11 del decreto-legge 1º luglio 1986, n. 318, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 1986, n. 488, dall’articolo 1 della legge 23 dicembre 1991, n. 430 e dall’articolo 2, comma 4, della legge 8 agosto 1996, n. 431, nonché quelle relative a finanziamenti per i quali non sono state effettuate movimentazioni a decorrere dal 1º gennaio 2006, sono revocate. A tal fine le stazioni appaltanti provvedono a rescindere, ai sensi dell’articolo 134 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, i contratti stipulati, quantificano le economie e ne danno comunicazione alla regione territorialmente competente.

3. La revoca di cui al comma 2 è disposta con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentite le regioni territorialmente competenti, e le relative somme sono riassegnate, con le stesse modalità, per l’attivazione di opere di messa in sicurezza delle strutture scolastiche, finalizzate alla mitigazione del rischio sismico, da realizzare in attuazione del patto per la sicurezza delle scuole sottoscritto il 20 dicembre 2007 dal Ministro della pubblica istruzione e dai rappresentanti delle regioni e degli enti locali, ai sensi dell’articolo 1, comma 625, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. L’eventuale riassegnazione delle risorse a regione diversa è disposta sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni.

4. Nell’attuazione degli interventi disposti ai sensi dei commi 2 e 3 del presente articolo si applicano, in quanto compatibili, le prescrizioni di cui all’articolo 4, commi 5, 7 e 9, della legge 11 gennaio 1996, n. 23; i relativi finanziamenti possono, comunque, essere nuovamente revocati e riassegnati, con le medesime modalità, qualora i lavori programmati non siano avviati entro due anni dall’assegnazione ovvero gli enti beneficiari dichiarino l’impossibilità di eseguire le opere.

5. Il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, nomina un soggetto attuatore che definisce gli interventi da effettuare per assicurare l’immediata messa in sicurezza di almeno cento edifici scolastici presenti sul territorio nazionale che presentano aspetti di particolare criticità sotto il profilo della sicurezza sismica. Il soggetto attuatore e la localizzazione degli edifici interessati sono individuati d’intesa con la predetta Conferenza unificata.

6. Al fine di assicurare l’integrazione e l’ottimizzazione dei finanziamenti destinati alla sicurezza sismica delle scuole, il soggetto attuatore, di cui al comma 5, definisce il cronoprogramma dei lavori sulla base delle risorse disponibili, d’intesa con il Dipartimento della protezione civile, sentita la predetta Conferenza unificata.

7. All’attuazione dei commi da 2 a 6 si provvede con decreti del Ministro dell’economia e delle finanze su proposta del Ministro competente, previa verifica dell’assenza di effetti peggiorativi sui saldi di finanza pubblica.

Articolo 8.

(Norme finali)

1. Dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

1-bis. Sono fatte salve le competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano.

2. Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sarà presentato alle Camere per la conversione in legge.

 

 

 

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

1. Il decreto-legge 1º settembre 2008, n. 137, recante disposizioni urgenti in materia di istruzione e università, è convertito in legge con le modificazioni riportate in allegato alla presente legge.

2. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

 

 

I punti fondamentali della riforma

ROMA – Il maestro unico alle elementari, il ritorno dei voti in pagella, la valutazione della condotta nel giudizio finale sullo studente, l’aumento della durata dei libri di testo. Sono questi i punti salienti del decreto Gelmini, approvato oggi in via definitiva dal Senato, testo contestato duramente dagli studenti in questi giorni. Dopo essere stato presentato a fine agosto al consiglio dei ministri, il decreto ha avuto già il via libera dalla Camera a metà ottobre.

– MAESTRO UNICO: alle elementari, già dal prossimo anno scolastico, gradualmente (si comincia con le prime classi), ci sarà un solo docente. Il maestro unico sarà però affiancato dagli insegnanti di religione e di inglese. Per le ore di insegnamento aggiuntive rispetto all’orario d’obbligo di insegnamento, è previsto che si possa attingere, per l’anno 2009, dai bilanci dei singoli istituti scolastici.

 – VOTO CONDOTTA: si introduce la valutazione della condotta ai fini del giudizio finale sullo studente.

– VOTI IN PAGELLA: Tornano i voti in decimi nelle elementari (dove però saranno accompagnati dai giudizi) e nelle medie. Torna il voto in decimi anche per l’esame di terza media (archiviando i giudizi – sufficiente, buono, distinto, ottimo – con i quali finora si concludeva il percorso di studi).

 – LIBRI DI TESTO: i testi scolastici dovranno durare almeno cinque anni (salvo che per la pubblicazione di eventuali appendici di aggiornamento) evitando così continue riedizioni spesso inutili (soprattutto per alcune materie) e certamente onerose per le famiglie.

 – SI INSEGNA LA COSTITUZIONE: Il decreto prevede la sperimentazione dell’insegnamento di educazione civica (”Cittadinanza e Costituzione”).

 – DOCENTI SISS: è stata introdotta una norma che salvaguarda le aspettative di alcune categorie di docenti, come, ad esempio, gli abilitati Siss (Scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario) del nono ciclo, attualmente esclusi dalle graduatorie a esaurimento.

– EDILIZIA SCOLASTICA: vengono destinate risorse (una cifra che dovrebbe aggirarsi intorno ai 20 milioni di euro) all’edilizia scolastica.

Da:http://simoneaversano.wordpress.com/2008/10/29/testo-integrale-del-decreto-legge-gelmini-approvato-da-senato-e-punti-fondamentali-della-riforma/

Bioetica. Il “diritto di morire” e i doveri della politica. Di Mario Picozzi.

 

 

LA BIOETICA COME SPAZIO PER IL DONO, CONTRO LA LOGICA

SPERSONALIZZANTE DEL MERCATO: LA GRATITUDINE INVECE DEL

PRINCIPIO D’EQUIVALENZA. ANCHE LE SITUAZIONI TRAGICHE, IN CUI LA

VITA VIENE POSTA IN DISCUSSIONE FINO AL PUNTO D’ESSERE NEGATA,

POSSONO INDURCI A RAGIONARE SULLA RICCHEZZA DELLE RELAZIONI

TRA LE PERSONE. Su QUESTO FRONTE CRUCIALE IL RUOLO DELLA

POLITICA, CHIAMATAA GESTIRE L’INCERTEZZA E LA PLURALITÀ DI DIRITTI

TRA LORO IN CONTRASTO.

 

Bioetica. Il “diritto di morire”

e i doveri della politica

di

Mario Picozzi*

 

La prima definizione sistemica di bioetica ha ormai compiuto 30 anni Wilhelm Reich cosi la definì nel 1978 quando venne pubblicata la prima Enciclopedia di Bioetica «Lo studio sistematico della condotta umana nell’ area delle scienze della vita e della cura della salute in quanto tale condotta viene esaminata alla luce di principi e valori morali»’. Oggi la disciplina ha acquisito un suo spazio riconosciuto sia a livello accademico, in diverse facoltà, sia in ambito istituzionale (si pensi al ruolo dei Comitati di Etica nella sperimentazione clinica). Allo stesso tempo i dibattiti bioetici hanno avuto grande rilevanza anche nella discussione pubblica, comportando talvolta fratture nella società civile, soprattutto rispetto alla non procrastinabile necessità di tradurre in legge questioni riguardanti temi di inizio e fine vita.

Il presente contributo non si propone di fare un bilancio di questi primi 30 anni, né di ripercorrere le tappe più significative che hanno segnato la storia, ancorché breve, di questa

disciplina. Ci limiteremo a indicare quali sono, a nostro parere, i temi che, emersi nella riflessione di questi decenni, costituiscono aspetti cruciali su cui la bioetica sarà chiamata a interrogarsi nel prossimo futuro. Più precisamente riteniamo vi sia una questione centrale, che in modo più o meno esplicito è presente in tutti i dibattiti, e che determina le differenti posizioni e le conseguenti risposte date ai quesiti bioetici. Un’impostazione non pertinente di tale questione rischia di pregiudicare le successive riflessioni. Pur volendo mantenere uno sguardo ampio, che tenga conto della

riflessione condotta a livello internazionale, inevitabilmente avremo come sfondo di riferimento la situazione italiana, che indubbiamente ha sue specifiche peculiarità.

 

IL PUNTO CENTRALE: LA QUESTIONE DELL’AUTONOMIA DEL SOGGETTO

 

La riflessione bioetica, pur con accentuazioni diverse, è attraversata dalla questione dell’autonomia del soggetto: quale il peso da attribuire alla libera scelta degli individui? A quali condizioni il soggetto può dirsi realmente autonomo?

Basti per esemplificare riferirsi ai temi di fine vita: chi può decidere se la propria vita sia degna di essere vissuta se non il soggetto stesso? È lecito sottrargli tale possibilità? Ma un soggetto affetto da una malattia grave è in grado di decidere? Quali i possibili condizionamenti, anche di ordine economico, che possono spingerlo a richiedere di porre fine alla sua vita, passando dal diritto a morire al dovere di morire?

Detto in altri termini, è la diatriba, sorta inizialmente sul tema dell’interruzione della gravidanza e riproposta sulla questione della fecondazione medicalmente assistita, tra i “fautori della scelta” e i “sostenitori della vita”.

Siamo continuamente, soprattutto in Italia ma non solo, rinviati a due posizioni, al tempo stesso nette e inconciliabili, tra i difensori della qualità della vita da una parte e i protettori della sacralità della vita dall’altra. Inevitabilmente ciò si traduce anche nei dibattiti politici e nella conseguente difficile se non impossibile impresa di giungere a soluzioni condivise su questioni, quali il nascere e il morire, che riguardano la possibilità stessa di sussistenza del vivere insieme.

Ma realmente le due posizioni sono alternative?

«La vita apprezzata come istanza sacra e sottratta ad ogni disponibilità ad opera dei soggetti implicati, diventa criterio materiale; la qualità della vita, d’altra parte, quando sia apprezzata rimovendo l’originario suo riferimento ad un’istanza che supera la vita stessa e che è norma per la libertà del soggetto, diventa criterio solo psicologico, assegnato all’insindacabile modo di sentire del singolo. La vita sacra, nel suo profilo dunque di istanza morale, non può essere definita ignorando la coscienza che l’accompagna; e d’altra parte la qualità della vita non può essere valutata senza far riferimento ai criteri oggettivamente iscritti nelle forme dell’alleanza umana in genere, e rispettivamente nelle forme di quella che è stata chiamata alleanza terapeutica» 2.

Come dire che «il giudizio su un’azione sarebbe meno oggettivo se non considerasse il soggetto che pone o subisce tale azione; una norma morale intesa e applicata a prescindere dall’intenzione degli agenti dal contesto storico condurrebbe ad esiti materialistici e violentemente astratti. Ciò significa che la soggettività valutativa non può essere espunta, ma va istruita e preparata attraverso una metodologia decisionale prudente»3. In ogni storia un soggetto è sempre oggettivamente coinvolto.

La decisione, per esser la propria decisione, esige una scelta, dove l’identità stessa del soggetto è chiamata in causa; questa scelta non è nota al soggetto a monte di ogni relazione, ma esattamente grazie alla relazione, dentro cui emergono le buone ragioni a favore di una determinata opzione.

Il contrario di autonomia è eteronomia: ossia abdicare alla propria responsabilità. Mentre invece non vi è contrasto tra autonomia e dipendenza: anzi è solo consentendo al riconoscimento del mio debito verso l’altro e conseguentemente verso il mondo intero (la cultura, le tradizioni) che il soggetto può decidere di sé. L’autonomia non può essere punto di partenza: è approdo finale reso possibile dalla presenza dell’altro. Non si tratta quindi di rinnegare l’autonomia, ma di ripensarla a partire dalla storia e dal vissuto delle persone.

Questo percorso relazionale per un discernimento rifugge da formule predeterminate e allo stesso tempo ammette soluzioni diverse, pur partendo da condizioni e contesti simili. Analogamente non si accontenta di prendere atto della decisione altrui; nessuna decisione è buona per il semplice fatto di essere presa in autonomia: quante decisioni sono esattamente frutto di atteggiamenti di omologazione, in cui il soggetto non sceglie, ma è eterodiretto.

L’odierna riflessione bioetica, soprattutto quella che trova spazio nei mass media, tende a semplificare e banalizzare, a volere il giudizio immediato e gridato, a costruire fazioni e cercare supporter dell’una o dell’altra tesi. È una trappola da cui rifuggire.

Ma il non poter fare a meno del soggetto, che per decidere non può fare a meno dei soggetti che lo circondano, cosa comporta per le questioni bioetiche?

Con alcune esemplificazioni cerchiamo di rendere conto delle conseguenze della nostra impostazione.

 

IL BIODIRITTO O LA BIOPOLITICA

 

Oggi si tende sempre più a parlare di biodiritto, inteso come l’esigenza di tradurre le problematiche bioetiche in norme che disciplinino i comportamenti collettivi all’interno della società 4. Ma forse sarebbe più preciso parlare di biopolitica: «Oggi vita e morte non sono più propriamente concetti scientifici, ma concetti politici, che, in quanto tali, acquistano un significato preciso solo attraverso una decisione» 5.

Per legge, almeno in Italia, viene definito quando un soggetto è morto; sempre più norme di legge vengono invocate per dirimere questioni bioetiche. Il potere che la tecnologia ha obiettivamente sulla nuda vita (si pensi all’ingegneria genetica) si trasferisce nelle mani della politica.

L’esercizio del potere passa attraverso il controllo dei fenomeni biologici, in primo luogo quelli riguardanti la vita umana. Stiamo riferendoci alla nuda vita, non alla vita biografica e quindi sociale che, se può essere controllata, al tempo stesso ha sempre risorse per sfuggire a tale controllo.

E questo fenomeno appare pacificamente accolto; la cosa invece avrebbe di che preoccuparci.

Se da un lato occorre governare determinati ambiti, poiché il rischio è quello dell’arbitrio e dell’anarchia, dall’altro occorre essere avvertiti delle conseguenze in cui si può incorrere assegnando ad uno strumento, la norma di legge, l’ultima parola, definitoria, su un bene fondamentale, quale la vita umana. Né si può misconoscere il ruolo che la legge ha sulla formazione delle coscienze, comunitaria e singola.

Ma l’enfasi con cui da più parti si invocano leggi sui temi di inizio vita e fine vita appare sospetta sotto un altro versante. La norma di legge viene percepita quale strumento per definire ogni specifico caso, esautorando i soggetti dalle proprie responsabilità. Si pensi ai medici: essi diventano fedeli esecutori, meri tecnici, professionalmente preparati, ma esenti dal chiedersi il significato di quanto da loro eseguito.

Può realmente la legge dirimere senza il cimento della libertà dei soggetti, le diverse questioni bioetiche? Le infinite variabili soggettive e oggettive che di fatto intervengono nelle azioni umane comportano necessariamente l’impossibilità del diritto di contemplare tutti i singoli casi. Per cui «la singolare contingenza di taluni casi, eccedendo la possibilità della legge civile di regolarli, limita quest’ultima a valere ut in pluribus, cioè nella maggior parte dei casi» 6. Certo «il riconoscimento della competenza della coscienza nei singoli casi non esclude, ma anzi rimanda alla generale validità della legge. Singola eccezione e regola generale sono, infatti, reciproche: «Non c’è eccezione senza regola per l’eccezione alla regola» 7.

Quindi «la considerazione dei limiti strutturali di ogni legge civile invita a riconoscere la competenza della coscienza personale nelle decisioni relative ai casi-limite. Il rinvio alla coscienza non è la delega in bianco concessa all’arbitrio soggettivo perché faccia ciò che vuole, ma il riconoscimento che, nei singoli casi, la percezione sintetica delle variabili in gioco da parte della coscienza vede meglio della previsione legislativa» 8.

Riferiamoci esemplificativamente alla distinzione tra accanimento ed eutanasia: «L’inevitabile approssimazione con cui la legge generale può definire i casi di eutanasia e di accanimento terapeutico lascia sussistere tra i due divieti uno spazio intermedio in cui solo il miglior giudizio della coscienza personale può dirimere la fattispecie» 9. Uno spazio cioè dove la legge non entra (fatta salva la possibilità di verificare la sussistenza dei criteri stabiliti) in cui la relazione medico-paziente diventa il “luogo decisionale.

Ciò comporta l’ammettere giustamente che si possano dare scelte diverse a partire dalla medesima situazione clinica; ciò disegna un legittimo pluralismo delle scelte, senza che si cada nel relativismo etico. Un siffatto pluralismo non deroga al duplice divieto di eutanasia e di accanimento terapeutico; esso, piuttosto, attesta che. in talune circostanze, la rinuncia alle cure non necessariamente coincide con l’eutanasia. e nemmeno il loro mantenimento necessariamente coincide con l’accanimento terapeutico»10. È vero che il pluralismo delle scelte “non assicura certo che la vita umana sia sempre adeguatamente difesa. Non è però questo il solo pericolo. Lo è altrettanto quello di pensare che la vita umana sia sempre adeguatamente difesa anche a prescindere dal giudizio di chi. in prima persona, si trova in situazione di grave sofferenza “11.

Lo spazio da lasciare alla competenza relazionale. dove non appare subito chiaro cosa occorra fare, traduce la prospettiva da noi enunciata in cui l’autonomia è punto di arrivo di un rapporto fiduciale.

 

IL TEMA DEL DONO

 

Il dono è argomento molto presente nel dibattito bioetico. [appello al dono viene invocato su più temi: dall’atto generativo alla disponibilità ad offrire i propri organi. Ma talvolta si rischia di farne una caricatura, o di trasformarlo in atto eroico, oltre le stesse possibilità umane o di mostrarlo come unico e ultimo antidoto all’imperialismo del mercato. Diventa quindi indispensabile una più accurata analisi.

Dal punto di vista del mercato, il legame sociale ha un senso se e nella misura in cui è funzionale rispetto a ciò che circola. “ Il mercato è il complesso delle regole che permettono a degli estranei di Lare transazioni pur restando il più possibile degli estranei. È un modo di comunicare con l’estraneo quando si vuole che resti un estraneo dopo lo scambio: quando non ci si interessa a lui ma ai suoi beni, e lui ai nostri”12. Tra compratore e acquirente non si mette in gioco la propria identità: in Quella comunicazione ciascuno rimane se stesso, senza contaminazione Addirittura «l’archetipo del mercato è l’assenza completa di legame. Il mercato permette a due estranei di comunicare a proposito delle cose senza rivolgersi la parola» 13. Il prezzo è l’esempio eclatante di questa modalità: viene fissato in anticipo, al di fuori delle considerazioni personali. al di fuori anche dei soggetti, tra due estranei che non si seducono. Il mercato è regolato dal principio «dell’equivalenza tra le cose, indipendentemente dal legame tra le persone»14. Nel dono invece «ciò che circola è al servizio del legame sociale, o almeno è condizionato dal legame sociale. Il legame e il bene sono spesso indissociabili»15.

Vediamo alcuni esempi. Vi sono dei doni in cui ciò che si dona ha un’utilità relativa o nulla: ad esempio un mazzo di fiori; la loro finalità tende ad esprimere e nutrire il legame. Talvolta il valore di legame e l’utilità sono strettamente legati, quasi condizionati l’uno all’altro. Si pensi al dono di un organo da parte della madre alla propria figlia.

Infine abbiamo il dono unilaterale fatto agli sconosciuti: la donazione di sangue, il dono di un organo dopo la morte. In questi casi i legami sociali sembrerebbero completamenti assenti. Invece tali gesti acquistano senso poiché fatti in nome della solidarietà, per cui «la loro ragion d’essere è quel legame simbolico che unisce il donatore e il donatario nell’ambito di uno stesso insieme»16. Essi rappresentano l’espressione di una gratitudine verso una comunità da cui si è stati accolti, condotti sulle strade della vita, gratuitamente. «Si amano persone che in ogni caso fanno parte della nostra stessa specie umana, perciò si ama l’umanità e, in essa, anche se stessi, ben ricordando che nessuno nasce da se stesso e che ognuno è quello che è solo grazie alla civiltà dalla quale ha ricevuto le condizioni per poter essere quello che è»17.

Da ciò ne consegue che «il circolo del dono non è solo dare e ricevere, ma è altresì ricambiare o restituire. Il rapporto di scambio è attivo-passivo sui due fronti: di chi dona e di chi riceve e a sua volta ricambia»18.

Il dono ammette il debito, anzi la cifra del dono è il riconoscimento del debito verso l’altro. Non vi è gratuità senza gratitudine. Non la restituzione, ma le forme che essa assume differenziano il dono dal mercato. Nel dono la restituzione spesso è più grande del dono: non risponde al principio di equivalenza. Ammette che l’identità del donatore, insieme a quella del ricevente, possa modificarsi. Infine, ed è l’aspetto decisivo, la restituzione è fatta liberamente. Certo è desiderata, auspicata, non esigita, richiesta obbligatoriamente, come in un contratto o nella scambio mercantile. Dunque c’è sempre un rischio di non restituzione, accettato o assunto dal donatore. Di modo che «è l’assenza di garanzia di restituzione, piuttosto che l’assenza di restituzione che caratterizza il dono»19. La restituzione è sempre implicita nel dono.

Più sono convinto che l’altro non è obbligato a restituire, più lo libero da questo obbligo, più il suo gesto sarà libero, sarà fatto in forza del nostro rapporto, nutrirà il legame, custodirà la relazione, sarà fatto per me. Ed è proprio su questo scambio libero che si fonda e costituisce la coesione sociale. Il paradosso è esattamente che una società vive e muore, si rafforza o indebolisce grazie a questi milioni di gesti quotidiani, in funzione di dar fiducia o no ad un altro membro della società, di correre il rischio che il dono non sia ricambiato. Di conseguenza «lo Stato e il mercato devono fermarsi sulla soglia in cui quel che circola (beni ma soprattutto servizi) è il legame, in cui il servizio è il legame»20. Si pensi qui al tema della giusti zia in sanità e del ruolo degli aspetti economici nelle scelte cliniche.

Ma vogliamo esemplificare quanto da noi detto su un altro versante, quello della donazione di organi.

Purtroppo ancora oggi molte persone muoiono in attesa di ricevere un organo. Per rispondere a questo dramma, almeno a livello di riflessione teorica nel mondo anglosassone, si ipotizza l’utilizzo del mercato per incrementare la disponibilità di organi. Ma se il prezzo da pagare è l’esclusione di qualsiasi forma di legame, l’operazione appare rischiosa e destinata al fallimento. Al di là della difficoltà di stabilire l’equivalenza

(quanto vale un organo?), si andrà sempre più verso un’escalation delle richieste, in cui l’unico elemento di controllo sarà il rapporto tra domanda e offerta. Ma tali fluttuazioni sono compatibili con la tutela della salute e della vita dei cittadini e con la sostenibilità anche economica di una società? In più ciò concorrerà a quello sfaldamento sociale, che ha come conseguenza la solitudine di ogni cittadino, sempre più senza legami vitali, con conseguente ulteriore difficoltà a porre gesti solidali.

Poniamoci invece nella logica del dono da noi prospettata. Punto di partenza – sia per la donazione da vivente che da cadavere – è il riconoscimento della logica del dono definito nella sua circolarità di dare, ricevere, restituire. Quindi forme di restituzione sono eticamente ammissibili, stabilite alcune condizioni.

Sono accettabili quelle forme di restituzione — nel nostro caso al donatore di organi — che non si basino sul principio di equivalenza, ma in cui sia conservato il valore di legame, con il singolo e con la comunità, che moriva la donazione. Si devono perciò escludere forme di automatismo, conservando anche simbolicamente il rischio di non restituzione, ammettendo al tempo stesso forme differenziate di restituzione.

La libertà del ricevente va custodita e tutelata, consentendo al tempo stesso espressioni di gratitudine, in grado di rafforzare il legame sociale.

Nella determinazione del soggetto/dei soggetti in grado di governare e garantire l’intero processo, occorrerà prevedere la presenza — se non affidare l’intera gestione — dei rappresentati dei mondi vitali presenti in una società, in forza di quel legame sociale che permea l’intera proposta.

Tutto ciò è possibile abbandonando un’impostazione culturale che rappresenta il dono quale scelta eroica, unidirezionale, chiusa in sé stessa:

una sorta di altruismo esasperato, che rende appunto il dono impossibile 21, irreale, e quindi non promettente, non fecondo. Gratuità e gratitudine sono invece iscritte nella relazione umana, dove l’autonomia del soggetto riconosce il debito verso l’altro per potersi esprimere e realizzare.

 

GESTIRE L’INCERTEZZA

 

A fronte di quanto abbiamo fin qui sostenuto, appare chiaro che la bioetica e i suoi quesiti si proporranno sempre più dentro una scala di grigi, difficilmente inquadrabili in formule predefinite. Questo certo non rassicura, e chiama in causa la maturità e la responsabilità delle persone.

L’incertezza appare la nuova frontiera dell’agire in campo biomedico 22. Ma davvero è una nuova questione?

Fino a qualche decennio fa un ethos condiviso, l’autorità del medico, la sudditanza del cittadino, la concentrazione del sapere scientifico, hanno permesso di controllare e gestire l’incertezza: essa era implicitamente presente, accettata, mai tematizzata. L’accresciuta consapevolezza del cittadino dei suoi diritti, segnatamente nel campo medico, il vorticoso e oggettivamente poco controllabile sviluppo tecnico-scientifico, il pluralismo morale in una società multietnica, e la conseguente difficoltà a gestire situazioni sempre nuove e sempre più complesse, hanno fatto emergere quell’indeterminatezza da sempre caratterizzante la pratica biomedica.

Accettare l’incertezza significa affrontarla, se non si vuole rimanerne schiacciati. Ma allora diventa spontaneo chiedersi quale sia il grado di incertezza che può essere tollerato. È evidente la già segnalata possibile deriva, che spazia dall’anarchia dei cittadini e dei pazienti all’arbitrio dei medici e dei ricercatori. Ma questo non è un destino segnato ed inevitabile, o almeno potrebbe non esserlo. La norma è una garanzia imprescindibile, anche se non sufficiente, perché si conservi e sviluppi il dialogo sia tra coloro che esercitano la stessa professione, sia tra questi e l’intera cittadinanza. Un dialogo che presuppone chiarezza reciproca, affermazione dei diversi punti di vista, ragioni che motivino le differenti posizioni.

Cosa dunque è necessario fare? Dipende. Il fatto che non si possa decidere una volta per tutte, sulla base di una norma generale, non significa che non ci sia nulla che davvero convenga. Vuoi dire che nella possibile diversità di scelte, va tutelato e garantito quel bene che da sempre è inscritto nella relazione umana e, nella fattispecie, nella relazione terapeutica, e che grazie appunto a questa relazione può essere riconosciuto e scelto.

 

*Mario Picozzi è docente d Medicina Legale presso

L’Università degli Studi dell’ Insubria, Tra i suoi scritti, ricordiamo:

Manuale di deontologia medica (con M. Tavani e G Salvati), Giuffrè, Milano 2007.

 

Note

1W. T. Reich (a cura di), Encyclopedia of Bioethics, The Free Press, New York 1978, vol.I, XIX.

2G. Angelini, “La questione radicale: quale idea di vita”, in Aa.Vv, La bioetica. Questione civile e problemi teorici sottesi, Glossa, Milano 1998, pp. 185-186.

3P. Cattorini, “La dimensione etica nelle terapie intensive”, in L. Chiandetti, P. Drago, G. Verlato, C. Viafora, Interventi al limite. Bioetica delle terapie intensive, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 4 1-46.

4L. Palazzani, “Personalismo e biodiritto”, in Medicina e Morale, 2005, LV(1), pp.

13 1-163.

5G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Eìnaudi, Torino 2005, p. 183.

6A. Fumagalli, “Legge civile e coscienza personale”, in C. Casalone, M. Chiodi, P Fontana, A. Fumagalli, M. Picozzi, M. Reichlin, “Il caso Welby. Una rilettura a più voci”, Aggiornamenti Sociali, 2007, 5, pp. 346-357.

7lbid.

8lbid.

9lbid.

10 Ibid., p. 355.

11 Ibid.

12. J. T. Godbout, “La circolazione mediante il dono”, in Aa.Vv., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma 1994, p. 27.

13 ibid.

14 Ibid., p. 28.

15 lbid.

16 lbid.

17 F. Buzzi, Sul significato del dono, lezione tenuta la Master Internazionale in Medical Humanities, Varese, 5luglio 2003 (copia dattiloscritta).

18 Ibid.

19 J. T. Godbout, “La circolazione mediante il dono”, in Aa.Vv., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma 1994, p. 34.

20 Ibid., p. 40.

2I Cfr. J. Derrida, Donare il tempo, Cortina, Milano 1996; Id., Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.

22 Cfr. M. Tavani, M. Picozzi, G. Salvati, Manuale di deontologia medica, Giuffrè, Milano 2007, pp. 555-559.

Tratto da:Dialoghi,Anno VIII,Luglio-Settembre 2008. Numero 3, pp.6-15.