Più bella cosa di Eros Ramazzotti

 

Com’è cominciata io non saprei 
la storia infinita con te 
che sei diventata la mia lei 
di tutta una vita per me 
ci vuole passione con te 
e un briciolo di pazzia 
ci vuole pensiero perciò 
lavoro di fantasia 
ricordi la volta che ti cantai 
fu subito un brivido sì 
ti dico una cosa se non la sai 
per me vale ancora così 
ci vuole passione con te 
non deve mancare mai 
ci vuole mestiere perché 
lavoro di cuore lo sai 
cantare d’amore non basta mai 
ne servirà di più 
per dirtelo ancora per dirti che 
più bella cosa non c’è 
più bella cosa di te 
unica come sei 
immensa quando vuoi 
grazie di esistere… 
com’è che non passa con gli anni miei 
la voglia infinita di te 
cos’è quel mistero che ancora sei 
che porto qui dentro di me 
Saranno i momenti che ho 
quegli attimi che mi dai 
saranno parole però 
lavoro di voce lo sai 
cantare d’amore non basta mai 
ne servirà di più 
per dirtelo ancora per dirti che 
più bella cosa non c’è 
più bella cosa di te 
unica come sei 
immensa quando vuoi 
grazie di esistere… 

Perchè dobbiamo dirci cristiani.

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“I contenuti “Perché dovremmo dirci cristiani? Oggi siamo liberali, e perciò non c’è bisogno di rivolgersi al cristianesimo per giustificare i nostri diritti e libertà fondamentali. Siamo laici, e perciò possiamo considerare le fedi religiose come credenze private. Siamo moderni, e perciò crediamo che l’uomo debba farsi da sé, senza bisogno di guide che non derivino dalla sua propria ragione. Siamo figli della scienza, e perciò ci basta il sapere positivo, provato e dimostrato. Senza contare il resto. In Europa stiamo per unificarci, e dunque dobbiamo evitare di dividerci menzionando il cristianesimo fra le radici dell’identità europea. Nel mondo stanno rinascendo guerre di religione, e dunque dobbiamo evitare di accendere altri focolai. In casa nostra stiamo integrando milioni di islamici, e dunque non possiamo chiedere conversioni di massa al cristianesimo. Dentro le nostre società occidentali stiamo attraversando la fase della massima espansione dei diritti, e dunque non possiamo consentire che la Chiesa interferisca e ne ostacoli il godimento. E così via. Questo libro intende rifiutare tutti questi perciò e dunque. Non c’è dubbio che siano diffusi: li leggiamo sui libri e sui giornali, li sentiamo alla televisione e nelle aule universitarie, li ascoltiamo dalla voce di tanti intellettuali, li vediamo all’opera nell’azione di tanti politici. Ci bombarda da così tante parti, questa negazione della religione, in particolare questa apostasia del cristianesimo, che c’è solo da meravigliarsi che qualcuno ancora si opponga. Io mi oppongo. La mia posizione è quella del laico e liberale che si rivolge al cristianesimo per chiedergli le ragioni della speranza. Non si tratta di conversioni o illuminazioni o ravvedimenti, tutte cose importanti, delicate e rispettabili ma che attengono alla sfera della coscienza personale di cui qui non faccio questione e ancor meno esibizione. Si tratta di coltivare una fede (altra espressione appropriata non c’è) in valori e principi che caratterizzano la nostra civiltà, e di riaffermare i capisaldi di una tradizione della quale siamo figli, con la quale siamo cresciuti, e senza la quale saremmo tutti più poveri.”
Con una lettera di Benedetto XVI.”

MARCELLO PERA, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica, Mondadori, Milano 2008, p. 196 , € 18,00

Presentazione del Cardinale Camillo Ruini:
http://centroculturalelugano.blogspot.com/2008/12/ruini-commenta-il-libro-perch-dobbiamo.html

 

Premio Legalità 2008 alla memoria di Mons.Cataldo Naro.

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Ricevo dall’amico Dott.Ino Cardinale e pubblico con grande piacere,per l’affetto che nutro nei confronti di Mons.Cataldo Naro e per la serietà dell’evento, il testo dell’intervento di Sua Ecc.Rev.ma Mons.Vincenzo Paglia tenuto alla manifestazione di consegna del premio “Obiettivo Legalità 2008”,alla memoria di Mons.Cataldo Naro,di venerata memoria. La manifestazione è stata organizzata,egregiamente, dall’Osservatorio Sviluppo e Legalità “La Franca” di Partinico diretto dal Dott.Giuseppe Di Trapani.

Cataldo Naro: un pastore per la Chiesa di oggi
Mons. Vincenzo PagliaVescovo di Terni

Sono passati poco più di due anni dalla scomparsa di Mons. Cataldo Naro, ed è bene che si moltiplichino le iniziative e le pubblicazioni per ricordarne la memoria. E mi pare particolarmente significativo legarla anche all’obiettivo della legalità. La personalità di don Naro emerge sempre più nella sua forza ispiratrice. Si può parlare di lui come storico, come intellettuale o organizzatore di cultura, come docente e come scrittore, come credente e come educatore oltre che ovviamente come pastore. Per parte mia vorrei fermarmi a offrire qualche cenno su don Aldo proprio in questa ultima prospettiva, ossia come pastore. E’ stato vescovo di Monreale per soli quattro anni, eppure la sua azione ha segnato non solo questa arcidiocesi, ma l’intera Sicilia e l’episcopato italiano. Nei quattro anni di episcopato ho potuto vederlo più volte, soprattutto durante i lavori del Consiglio Permanente della CEI, scambiandoci opinioni e riflessioni sulla missione della Chiesa e sui compiti del vescovo oggi.
Mi pare che don Aldo negli ultimi quattro anni abbia portato a maturazione quel ricco bagaglio che aveva accumulato nel corso della sua vita. La morte ce lo ha strappato ancora giovane. E’ morto da vescovo, e anche “perché” vescovo, come ha sottolineato Andrea Riccardi: “Il logorio del servizio pastorale, vissuto in modo appassionato – continua Riccardi che di Naro è stato amico ed estimatore -, ha avuto ragione del suo fisico infragilito. AI logorio normale della vita di un pastore si sono aggiunte le tensioni proprie della sua diocesi. Un certo senso di solitudine mitigato da una profonda confidenza con alcuni amici cui chiedeva consiglio. Aldo Naro non ha vissuto un senso di critica verso nessuno, ma ha avvertito il peso della sua vicenda”(Lo studio, 19-20). Ricordo anch’io un lungo colloquio con lui durante il Congresso Eucaristico di Bari nel quale mi raccontava le difficoltà quotidiane che doveva affrontare e le sofferenze, alcune molto acute, che gli procuravano i numerosi intralci sistematicamente e caparbiamente posti alla sua azione pastorale. Eppure, in questi quattro anni, don Aldo ha donato alla Chiesa un contributo di matura sapienza. Il suo insegnamento, le sue intuizioni, le sue analisi, le sue sollecitazioni continuano ad essere attuali non solo per la sua amata arcidiocesi ma anche per la stessa Chiesa italiana.
Queste mie brevi riflessione vogliono portare un modesto contributo per presentare don Aldo come “Pastore per la Chiesa di oggi”. Sappiamo tutti che non si è “pastori” sempre allo stesso modo e in qualsiasi tempo. Ogni generazione, ogni epoca storica, infatti, ha bisogno di pastori che sappiano comunicare alla propria generazione il Vangelo di sempre in maniera che possano comprenderlo, accoglierlo e amarlo. Se fosse lui oggi a parlarci di questo tema ci farebbe scorrere davanti agli occhi la molteplicità delle figure episcopali che si sono susseguite nel tempo e ci avrebbe accennato alle caratteristiche di un vescovo per questo tempo. In effetti, sia dagli scritti sia, soprattutto, dalla sua testimonianza possiamo scorgere alcune linee in questo senso. Andrea Riccardi ne coglie in maniera sintetica alcune. Scrive che Naro “è stato un tipico pastore della generazione di Giovanni Paolo II. Si riconosce l’impronta della pastoralità wojtyliana: vescovi colti, vescovi legati alla religione popolare, attenti alle ragioni del cuore, della fede, della spiritualità, vescovi del contatto simpatetico con la gente, convinti della rilevanza sociale del cristianesimo, ma non dominati da un orizzonte politico”(Lo studio 20). Noi possiamo aggiungere che è stato un vescovo legato alla Sicilia e, per la sua forza spirituale e culturale, ha saputo essere anche un vescovo dal respiro universale; sapeva scendere in profondità nelle vicende del popolo siciliano e cogliere nello stesso tempo i movimenti della storia e degli uomini; sapeva cogliere il senso spirituale profondo delle Scritture e lo declinava nell’oggi della storia. Don Aldo ha saputo superare quel divorzio tra teologia e vita, tra devozione e santità, tra pietà e studio, tra vita spirituale e vita pastorale, che resta ancora tra le questioni più spinose che la Chiesa deve affrontare. La sintesi che don Aldo ne ha fatto nella sua vita e nella sua azione pastorale lo pongono come uno dei vescovi che hanno saputo comprendere e parlare agli uomini di questo tempo.
Queste iniziali considerazioni vorrei declinarle all’interno della cornice evangelica di Marco quando narra l’istituzione dei Dodici. Scrive l’evangelista: “Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare”(Mc 3,14-15). Marco rileva due dimensioni che debbono caratterizzare la vita dei Dodici secondo l’intenzione di Gesù: stare con il Maestro e andare a predicare il Suo Vangelo. La prima dimensione, che suona come fondamento della seconda, riguarda il discepolato: il vescovo è anzitutto un discepolo che sta alla scuola del Maestro. La seconda dimensione, invece, riguarda la missione: non si è vescovi per se stessi ma per comunicare il Vangelo agli uomini perché trovino la via della salvezza.
Don Aldo, vivendo come vescovo queste due dimensioni, è divenuto uno dei pastori più significativi della Chiesa in Italia di questo decennio.
Gli anni vissuti da don Aldo prima di essere nominato vescovo potremmo definirli, sulla scia di Gesù, come quelli della sua Nazaret: anni segnati robustamente dalla “scuola” intesa in senso ampio, ossia come ascolto di Dio e degli uomini, come ricerca, come discernimento, come passione per la verità. I decenni prima dell’episcopato sono stati una vera e propria preparazione alla missione episcopale. Tra le non poche cose che si potrebbero elencare, mi fermo a due considerazioni. La prima relativa all’ascolto della parola di Dio e l’altra alla passione per una comprensione adeguata del mondo. Don Aldo ha vissuto profondamente queste due dimensioni, ma soprattutto ha saputo raccoglierle in una effettiva unità. Il legame indissolubile tra pietà e cultura fanno di don Aldo, un vescovo che parla ancora oggi.
Il primato della dimensione spirituale è il segreto da cui sgorga l’intera azione di don Aldo. E’ quello “stare con Gesù” che venne chiesto ai Dodici al momento della loro elezione. In questo rapporto con Gesù vi è la profonda radice del suo essere un uomo discreto, umile, non gridato, attento, pacato, vigile, umile. Legge con grande attenzione la pagina di Barsotti che sottolinea l’ingresso di Gesù nel mondo come uno che non vuole affermare se stesso, anzi si presenta come uno bisognoso di un battesimo di penitenza (La speranza 229). Il primato dell’incontro con il Maestro, il primato quindi dell’ascolto della sua Parola è la ragione della coscienza della propria pochezza e di quella umiltà che qualifica il cristiano. La fede cristiana, infatti, sottolinea don Aldo, è anzitutto un dono. Ricorda con gratitudine quanto ha ricevuto da ragazzo dalla parrocchia ove la preghiera aveva il suo posto: “Ho avuto la fortuna … di poter vivere in una parrocchia in cui si pregava (la meditazione al mattino, prima della messa: la preghiera era come un’arte) … Poi attraverso la parrocchia, il seminario. Lì i maestri mi hanno insegnato ad attingere alle sorgenti. E dopo essere stato ordinato prete, per me è stato fondamentale l’incontro con Divo Barsotti … Mi ha fatto ricomprendere, riorganizzare la mia esperienza cristiana”(La speranza, 92).
Questo primato spirituale lo sintetizzo con queste sue parole: “lasciarsi guardare da Cristo”. Don Aldo ci ricorda che se vogliamo “vedere” Gesù dobbiamo anzitutto lasciarci guardare da Lui, farci incontrare dal suo sguardo. Scrive: “E’ stato osservato giustamente che nei vangeli non si descrive mai il volto di Gesù, non si parla dei suoi tratti fisionomici, mentre invece si parla più volte e variamente dello sguardo di Gesù, uno sguardo che è, insieme, la parte più interiore del volto di Gesù ed anche l’aspetto più estroverso della sua persona, più mobile, quello che dice insieme il suo animo e il suo sentimento del momento, l’apertura accogliente o anche la riprovazione più ferma. E’ questo sguardo di Gesù che sembra essersi più impresso nei suoi interlocutori e che i racconti dei vangeli hanno cercato di fissare e di trasmettere alle successive generazioni cristiane”(La speranza, 231-232). I vangeli, possiamo aggiungere noi, ci fanno “vedere” direttamente il cuore di Gesù senza fermarci ai tratti fisici del volto. La lettura dei Vangeli nella preghiera ci fa incontrare Gesù risorto che ci parla ancora.
Don Aldo ha appreso questa maniera di leggere le Scritture da don Barsotti. Lo spiega bene nel volume che lui stesso ha curato sul modo di don Barsotti di leggere le Scritture. Era una novità accostarsi con questo spirito alle Scritture. Non di rado allora prevaleva una lettura intellettualistica o politica. Don Barsotti, legandosi con evidenza alla tradizione dei Padri, mostrava la ricchezza spirituale e pastorale della Lettura spirituale delle Scritture. E’ quanto è stato affermato nel recente Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio. In alcune pagine di don Aldo risuonano quasi alla lettera alcune parole sia di Benedetto XVI che di non pochi padri sinodali. La frequentazione delle Scritture porta a cogliere dentro le parole del testo il senso spirituale profondo che coinvolge direttamente chi le ascolta. Così don Aldo si è formato come pastore.
L’abitudine all’ascolto della Parola ha reso don Aldo ascoltatore attento anche della Chiesa a partire dalla sua storia che è il farsi storia della fede dei credenti. Egli ha potuto scorgere i riflessi della Parola nella molteplice e variegata vicenda umana. Per molti anni ha ascoltato, attraverso le sue ricerche, la vicenda, ricca e complessa, ma anche fragile e talora persino contraddittoria, della Chiesa. Senza abbandona l’indispensabile metodo scientifico, don Aldo ha scavato la storia con la passione del credente. Non mi dilungo su questo e riporto solo un cenno che ci fa cogliere la ragione della sua passione storica: era profondamente legata alla sua fede. Nella relazione di apertura ad un convegno degli archivisti ecclesiastici ricordava a tutti la cura che dovevano avere per le tracce del “transitus Domini”, del passaggio del Signore nella storia della Chiesa, perché nulla andasse perduto. Ma questo non per una semplice responsabilità umana, pur importante. Essi dovevano aver cura nello stesso tempo che queste tracce riuscissero a parlare, a dire appunto agli altri questa storia del passaggio del Signore. E la via da seguire era “la capacità di calarsi nel passato, di assumerlo nella propria comprensione per essere non solo in grado di dirlo, di assumerlo nella propria comprensione per essere in grado di dirlo, anche se questo può comportare un certo prezzo, un qualche doloroso impegno di rilettura”(La speranza 316). Don Naro aveva compreso l’importanza della “memoria storica”, perché attraverso di essa si poteva sostenere quella memoria collettiva che sostanzia il cattolicesimo di popolo. La passione storica, che lo ha accompagnato in gran parte della sua esistenza, lo ha plasmato come pastore permettendogli di comprendere la complessità delle vicende umane, allontanandolo da facili messianismi o da scontati pessimismi. La consuetudine della ricerca lo ha reso paziente e attento alla complessità della vita degli uomini.
L’amore per la Chiesa, per quella del passato, del presente e di domani, è stata preoccupazione costante di don Aldo. Davanti ai suoi occhi, assieme al volto di Cristo, vi era legata quella della Chiesa che egli amava e ammirava. Non a caso ha scritto ai fedeli della Chiesa di Monreale la seconda lettera pastorale intitolata “Amiamo la nostra Chiesa”. In essa scriveva: “Non si può amare la Chiesa senza ammirarla”(p. 19). E ripeteva quelle splendide parole di Romano Guardini : “Oggi ho visto qualcosa di grandioso: Monreale”. Guardini, e don Aldo con lui, si riferiva certo a quella straordinaria opera d’arte che è l’intera struttura architettonica, ma poi, Guardini e don Aldo assieme, con qualche comprensibile orgoglio, affermano: “La cosa più bella però era il popolo. Le donne con i loro fazzoletti, gli uomini con i loro scialli sulle spalle. Ovunque volti marcati e un comportamento sereno. Quasi nessuno leggeva, quasi nessuno chino a pregare da solo. Tutti guardavano”. Ricordo l’ammirazione con cui mi fece leggere queste parole. Nella citata Lettera nota ancora: “Guardini scrive di aver ammirato la basilica e di essersi sentito attratto, nello stesso tempo, dal fascino del popolo che nella basilica pregava. Per la sua sensibilità di credente la bellezza del nostro duomo non era disgiungibile dalla bellezza del popolo orante. Anzi egli dice che la cosa più bella era il popolo”. Si capisce l’amore e la passione di Don Naro per quello che lui chiamerà il “cattolicesimo di popolo”. Il popolo credente raccolto assieme che guarda perché è guardato da Cristo, racchiude quella straordinaria passione religiosa e umana che negli anni di episcopato è esplosa in don Naro.
Sarebbe utile approfondire l’opera episcopale di don Naro nell’arcidiocesi di Monreale a partire dalle due lettere pastorali che mostrano una lungimiranza radicata nella storia della diocesi ma assieme proiettata verso il futuro. Faccio un solo cenno a partire da quel piccolo libretto da lui curato: “Preghiere”. Mi ha colpito la raccolta delle preghiere alle immagini di Maria sparse nel territorio dell’arcidiocesi da lui stesso composte: si tratta di una sorta di “mappa dei santuari mariani della nostra Chiesa locale”, che ha egli arricchito con preghiere per aiutare i fedeli a cogliere almeno un poco il mistero che li attendeva davanti alle diverse immagini di Maria. E’ singolare altresì la lunga litania dei santi della diocesi e le altre preghiere prese dalla tradizione cristiana: “Sono convinto – nota don Aldo – che farsi condurre dalla preghiera delle grandi figure di santità e dei grandi testimoni della fede, ed entrare, per questa via, nel loro rapporto con Dio e, in tal modo, partecipare alla stessa esperienza spirituale possa essere di grande e vero sostegno alla nostra preghiera”. La concezione della Chiesa che don Aldo vuole trasmettere è quella di un popolo grande che traversa la storia: tutti ne facciamo parte e di questa dobbiamo nutrirci.
Lo “stare con Gesù” non ha mai significato per don Aldo il cedimento ad un cristianesimo individualistico, privatistico o autoreferenziale. Per lui “stare con Gesù” significa immediatamente comunicarlo anche agli altri, quindi uscire per una urgenza che partiva dal di dentro, dal cuore, ma senza cedere al grido o al rumore assordante. Questa attitudine richiedeva, e lo richiede ancor più oggi, una pensosità nuova che coinvolga tutti gli ambiti della vita della Chiesa compreso quello pastorale. Don Aldo per questo parlava di “conversione” e “conversione missionaria”. Sostenne che era necessario superare la vecchia dizione di “conversione pastorale”, in uso negli anni Novanta, e preferire una duplice “conversione”: “missionaria” e “culturale”, due termini che delineano in maniera singolare la figura e l’opera di Don Naro. Non si tratta di una semplice questione di vocabolario. Don Naro lo spiega con singolare chiarezza quando deve presentare la Traccia di riflessione per Verona: ” … nei quaranta anni del dopo Concilio … si è cercato di superare la separazione tra coscienza cristiana e cultura moderna, favorendo un più stretto rapporto tra evangelizzazione e promozione umana, praticando il discernimento comunitario e accogliendo le istanze del Progetto culturale orientato in senso cristiano in connessione con l’urgenza della nuova evangelizzazione”(La speranza 338). Don Naro coglie con acutezza che la “separazione tra coscienza cristiana e cultura moderna” resta la ferita ancora aperta nelle nostre comunità. E’ un problema che la Chiesa italiana ha avvertito con acuta sofferenza e in maniera larga e diffusa da almeno due secoli, e coi cui non ha mancato di confrontarsi con un impegno culturale e organizzativo non indifferente. Ma, rispetto al passato, continua don Naro, oggi è mutato il quadro culturale. Insomma, quel che oggi è mutato non è più solo e primariamente l’ordinata convivenza nella società, ma la stessa concezione dell’uomo.
La questione sociale si è evoluta e radicalizzata in quella antropologica. Continua: “E perciò il discorso pubblico della chiesa – che, giova ripeterlo, non è altra cosa dall’evangelizzazione -, prima centrato sulle questioni sociali, non può ora non interessarsi delle problematiche morali” (La speranza 41). Si tratta quindi di far prendere coscienza all’intera Chiesa, in tutte le sue articolazioni, che “il vangelo va ri-annunciato affinché ogni generazione lo ricomprenda e lo riviva, e lo faccia proprio”(La speranza 41). Ricordo la passione di don Aldo quando presentò all’assemblea generale dei vescovi italiani il noto documento “il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”. E fu in quella occasione che sviluppò con efficacia il tema della “conversione” missionaria delle parrocchie. Non solo ne parò ai vescovi; lui stesso, nelle due lettere pastorali citate, cercò di tradurne le indicazioni pastorali nella arcidiocesi di Monreale. Si era peraltro espresso in maniera decisa sul valore autorevole che quel testo doveva rappresentare per tutti i vescovi italiani, nonostante le situazioni diversificate che l’Italia manifesta.
Don Aldo non si è sottratto alle responsabilità pastorali anche verso la Sicilia, la sua terra che ha amato con straordinaria passione. Era un profondo conoscitore di questa terra e del suo popolo e pochi come lui sapevano coglierne lo spessore umano e spirituale. Avete fatto bene a legare a lui questo Premio Obiettivo Legalità”. Credo che dal cielo ne sia fiero. Le sue parole che avete ricordato nella pagina di presentazione della manifestazione sono di straordinaria efficacia: “La Chiesa ha a cuore la giustizia e il bene comune. Se in un territorio ci sono problemi di legalità, la Chiesa, nel suo compito educativo, non può non farsi carico di questi temi. Se si mettesse da parte, questo suo appartarsi o defilarsi sarebbe la spia di un grave problema ecclesiale”. Ma – e dobbiamo porvi attenzione – don Naro aggiunge una prospettiva propria della Chiesa. Scrive che questa battaglia la Chiesa deve farIa “mettendo un di più: la Charitas, l’agape, cioè lo Spirito Santo, l’amore di Dio”. Questo di più è la forza dell’amore, è la forza dell’impegno per gli altri come Gesù ha fatto, è la forza del martirio, ossia di spendere la propria vita per il bene del prossimo. Questa prospettiva cristiana della lotta al male la sottolinea don Naro anche ricordando le parole di Giovanni Paolo II in Sicilia: “Tutti ricordiamo le parole che il Papa “gridò” nella Valle dei Templi … Nei confronti della mafia usò le parole antiche della tradizione cristiana: peccato, giudizio di Dio, pentimento. Parole antiche ma che fondavano un nuovo linguaggio nel “discorso” (fatto di parole e di gesti) che la Chiesa di Sicilia, sotto la guida del cardinale Pappalardo, aveva condotto lungo gli anni Settanta e Ottanta”(La speranza 47).
Molte altre cose si dovrebbero ricordare di Naro come pastore. La sua visione si è estesa dalla Sicilia all’Italia, all’Europa, ai grandi temi della convivenza, a quelli del dialogo, in particolare con l’Islam, alle nuove prospettive culturali, al confronto con il mondo moderno. Don Aldo ha sentito l’ansia per queste sfide ma il suo cuore di pastore non lo ha portato nei progetti di riforme ideali e teoriche, è restato radicato in quella visione di Chiesa di popolo che colpì anche Guardini a Monreale: “La cosa più bella era però il popolo”.
E’ questa la Chiesa che don Naro ha amato. Per questo popolo ha dedicato la sua vita e la sua opera. Ha cercato di aprire il cuore di questo popolo alla Parola di Dio, a comunicare lo spirito autentico della liturgia che porta all’incontro e alla comunione con il Risorto, ad esortarlo alla testimonianza nei propri ambienti di vita. Questo cattolicesimo popolare, che in Italia trova una sua peculiare realizzazione, è da sostenere. In tale orizzonte va riconosciuta la straordinaria rete della devozione a Maria e ai santi, un tesoro preziosissimo da rivitalizzare perché non ceda alla deriva di un devozionismo individualista. Con felice espressione diceva: dobbiamo passare “dalla devozione ai santi alla vocazione alla santità”. E’ una delle sfide più urgenti da raccogliere. Un esempio lo vede in don Pino Puglisi il cui martirio, seppure nato da una vicenda personale coraggiosa e sofferta, si radica nella ricca vita pastorale della Chiesa siciliana. Ricordando il lavoro pastorale di don Puglisi con i ragazzi e i giovani di Palermo, scrive: chi lo ha conosciuto ha visto la sua passione per raccogliere i giovani e liberarli dalla schiavitù del male facendo scoprire loro la bellezza della vocazione cristiana. Ne riporta queste parole: “costituiamo in Cristo un solo corpo e diventiamo una sola cosa in lui. Ovviamente ciascuno nella diversità dei doni ricevuti … Come in quel volto che c’è raffigurato a Monreale, ciascuno di noi è una tessera di questo grande mosaico … E quindi tutti noi dobbiamo capire qual è il posto che dobbiamo occupare perché questo volto acquisti la sua bellezza e sia, direi, attraente per tutta l’umanità”.
Don Naro, comprese che non bastava più la tradizionale azione pastorale, magari per raggiungere quei cristiani che sono “sulla soglia” per “spingerli ad entrare” (si leggeva così in qualche documento). La sfida si configurava oggi in maniera nuova: “Si tratta, più al fondo, di pensare se la Chiesa italiana – anche e specialmente in una società secolarizzata e in un quadro di moderno Stato laico – possa e debba conservare il carattere di Chiesa di popolo radicata in un diffuso e genuino senso di Dio e rivolta veramente a tutti, rifiutando ogni perfettismo spirituale e organizzativo ma senza rinunziare alla qualità evangelica e autenticamente spirituale della fede dei battezzati”(La speranza 163).

Motivazioni per l’assegnazione del premio

Mons. Cataldo Naro è stato un uomo ricco di umanità e d’intelletto, di pensiero e ampia cultura, dal sicuro carisma, lungimirante, è stato un sacerdote e un vescovo dalla moderna visione ecumenica e dal generoso impegno pastorale, di grande levatura spirituale, protagonista coraggioso ed esemplare in quel porre la Chiesa in prima linea contro ogni tipo di criminalità, e a sostegno di chi opera secondo principi etici, di civica convivenza o religiosi e spirituali lungo la via della legalità, per la crescita di un territorio ed è per questi motivi che è stato scelto per attribuirgli il premio dell'”osservatorio e legalità.

Hanno detto di lui:

“È stato un vero siciliano. Ha amato e conosciuto questa terra con sguardo di amore e al contempo con la lucidità dell’autentico studioso, storico e uomo di pensiero, oltre che figlio della Chiesa: perciò ne ha penetrato la vera ricchezza e i veri problemi…” (Card. Ruini).

“Favorito dalla sua vasta e profonda cultura e da una eccezionale capacità di leggere i segni dei tempi alla luce del Vangelo e della sana ragione, conosceva come pochi le luci e le ombre della società siciliana, alla quale offriva il prezioso apporto per promuoverne le luci e per debellarne le ombre, soprattutto quelle più oscure della mafia, esortando al rispetto della legalità e alla giustizia sociale” (Card. De Giorgi).

Fu l’incontro con i genitori del giudice Rosario Livatino, ad Agrigento, e, in particolare, furono le parole da loro pronunziate descrivendo il figlio – “ha sempre vissuto da buon cristiano e sapeva che poteva morire in quel modo, ma ciononostante ha accettato con gioia la sua missione fino alla fine” – a far dire a Giovanni Paolo II “Rosario è stato un martire!” e, dopo, in quella stessa sera, alla Valle, a lanciare ai mafiosi il monito “Convertitevi! Verrà un giorno il giudizio di Dio!”.

Livatino come Don Puglisi: “Martiri della giustizia e indirettamente della fede”. Ed uno dei primi ad essere convinto della bontà di questo concetto allargato di martirio, espresso dal Papa, e della giustezza che i due meritassero il titolo, è il giovane sacerdote Cataldo Naro: “Parlare di martirio per coloro che hanno dato la vita per testimoniare la loro fedeltà a Cristo nel campo civile della resistenza alla mafia risponde a uno sviluppo coerente dell’esistenza cristiana e può essere motivato teologicamente in fedeltà alla tradizione cattolica”.

Un aggiornamento del concetto di martirio ai nostri tempi, che “…è il segno di un interesse sempre maggiore della Chiesa a queste tematiche. Lo stesso cardinale Salvatore Pappalardo mi ha detto che questa è la strada da seguire. Di fatto personaggi come Livatino sono martiri: avevano un ideale, quello di servire la giustizia nell’interesse di tutti e sono morti per difenderlo”. Ad affermarlo è sempre Don Cataldo Naro, lo stesso che, da Arcivescovo di Monreale e da incaricato del progetto culturale in preparazione del Convegno delle Chiese di Verona, dirà in una intervista, a proposito di “testimoni” di quel progetto, “…mi fa piacere che sia stato inserito anche il giudice Rosario Livatino ucciso dalla mafia. Era di Canicattì, un paese vicino a San Cataldo dove sono nato e ho trascorso gran parte della mia vita. Ho conosciuto la sua professoressa Ida Abate che molto mi ha parlato di lui. Ha saputo vivere la fedeltà al Signore nell’esercizio del compito di giudice non arretrando neanche di fronte al rischio della morte per mano mafiosa. Per la Chiesa siciliana è anche un richiamo a confrontarsi col fenomeno mafioso proprio sul terreno dell’esperienza credente dei suoi membri. Per la Chiesa siciliana è anche un richiamo a confrontarsi col fenomeno mafioso proprio sul terreno dell’esperienza credente dei suoi membri. C’è un’incompatibilità ineliminabile tra l’esperienza credente e l’appartenenza alla mafia. Il martirio di Livatino lo mostra con chiarezza. Per i cristiani siciliani è una lezione che non può essere ‘saltata’”.

Eccezionalmente chiare e prive di ogni ambiguità, queste sue parole!

Non sono facili da dimenticare i suoi interventi, le sue prese di posizione, mostrando chiaro che non si può comprendere profondamente e pienamente una realtà, senza che si desse un nome alla radice dei mali che l’affliggono.

Dalle parole da lui pronunziate a Corleone, il 3 Settembre 2006, anniversario del sacrifico del gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa e della consorte – nel primo dei sette incontri sulla legalità tenutisi nell’ambito del Progetto “Nelle piazze dell’indipendenza con il camper dell’indipendenza” – allorquando assicurava l’attenzione con la quale la Chiesa segue il progressivo evolversi di una comunità cristiana di difficile lettura, che necessita di un forte sostegno morale e della costante testimonianza della Chiesa stessa.
Bene ha fatto la città di Corleone, l’anno scorso, ad intitolare la sala del centro internazionale di documentazione sulle mafie e del Movimento antimafia, Cidma, a Monsignor Cataldo Naro.

All’idea divenuta progetto “Santità e Legalità” – Per un discorso cristiano di resistenza alla mafia nel territorio della chiesa di Monreale”, portato avanti insieme al Consorzio Sviluppo e Legalità. Progetto, i cui intenti sono stati quelli di far conoscere alcune figure di santi, nati e vissuti in questo territorio e alcune figure di martiri di giustizia, nati e vissuti in questo stesso territorio e morti per mano mafiosa, come antidoto ad ogni forma di illegalità: tanto “i santi” quanto “i martiri di giustizia” si sono spesi per il bene delle comunità dove hanno vissuto, arrecando sollievo, aiuto, conforto tra la gente con cui sono vissuti e divenendo testimoni dei valori evangelici da tramandare, e producendo un miglioramento della vita sociale e della vita quotidiana delle nostre comunità, da tempo afflitte dal flagello della illegalità e della arroganza e violenza mafiosa.
La nostra, è terra di persone appartenenti alla società civile e personalità delle istituzioni che hanno versato il loro sangue per l’affermazione della legalità e della giustizia e del senso dello stato: Placido Rizzotto, Pasquale Almerico, sindaco di Camporeale (solo sette anni fa è stato riconosciuto dall’Assemblea regionale siciliana il suo inserimento nell’elenco dei caduti per “la libertà e la democrazia in Sicilia”) e il “nostro” Giuseppe La Franca, e il tenente colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il suo successore il capitano Mario D’Aleo, nonché (partinicese come il La Franca) il vice questore e capo della squadra mobile di Palermo Antonino Cassarà: figure nate o operanti, a vario titolo, in questo territorio, in favore dello stesso e tutti uccisi barbaramente dalla mafia, compiendo il loro dovere civico o istituzionale.

E non sono nemmeno da dimenticare gli altri strumenti privilegiati costantemente da Mons. Naro nella sua azione e nei suoi insegnamenti: la cultura e la comunicazione. Erano la sua vita. Con questi ha offerto prospettive culturali capaci di intercettare le domande dell’uomo del nostro tempo, comprese quelle che esprimono voglia di legalità e di riscatto della comunità civile di cui lui è stato interprete e guida.

Una iniziativa, la nostra, per ricordare di tener fede alla sua memoria. (Segreteria del Premio “Obiettivo legalità 2009 alla memoria di Mons. Cataldo Naro”)

Il Duomo di Monreale.Lo splendore dei mosaici.

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Testi di David Abulafia e di Massimo Naro.

Presentazione di Cataldo Naro

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David Abulafia-Massimo Naro,Il Duomo di Monreale.Lo splendore dei mosaici.Itaca libri.Marzo 2009.

Sono come tu mi vuoi di Mina

 

 

Sono 
come tu mi vuoi 
e t’amo 
come non ho amato mai 
Io sono 
la sola 
che possa 
capire 
tutto quello che c’è da capire in te. 
Forse 
se baciassi me 
forse 
capiresti meglio che 
io sono la sola 
che tu 
possa amare 
non lo vedi che sono a due passi 
da te. 
Non sai quanto bene di un anno 
e non sai quanto amore sprecato 
aspettando in 
silenzio che tu 
ti accorgessi di me 
per capire 
quello che già sai 
che io sono 
sono come tu mi vuoi 
come tu 
mi vuoi. 
Io 
sono 
la sola 
che tu 
possa amare 
non lo vedi che sono a due passi 
da te. 
Non sai quanto bene di un anno 
e non sai quanto amore sprecato 
aspettando in silenzio che tu 
ti accorgessi di me 
per capire 
quello che già sai 
che io sono 
sono come tu mi vuoi 
come tu mi vuoi 
come tu mi vuoi 
come tu mi vuoi

Avviso ai lettori.

A causa dell’ultima MINACCIA nei miei confronti,posta in essere proprio stamame, tramite la persona di mia moglie,ho deciso di togliere parecchi post che, forse,hanno dato fastidio. Ho dato mandato al mio legale di fiducia di presentare un esposto-denuncia,dettagliato e circostanziato con i relativi nomi e cognomi dei soggetti interessati, all’autorità giudiziaria a tutela mia e dei mie familiari.

Cordiali saluti.

Scenari di Resurrezione.

mario

E’ sul punto di essere pubblicato un interessante volume sulla Pasqua in Sicilia del fotografo Prof.Mario Virga.Un interessante volume fotografico,con il supporto dei testi del Prof.Michele Vilardo,per narrare,trasmettere,documentare alcuni momenti fondamentali della ricca e variegata settimana santa in Sicilia.Da sempre l’uomo ha vissuto il suo rapporto con le immagini , dalle pareti delle caverne in poi in modo sacrale. Da millenni la riproduzione delle stesse ha sviluppato nella mente dell’individuo processi antropologici complessi. L’immaginazione  è, per Platone, una delle forme di conoscenza meno elevata – trattandosi di un ambito inerente “copie di copie” – rispetto alla dialettica che si basa, invece, sulla razionalità del linguaggio (orale). Per le immagini questo comporta, inevitabilmente, una declassificazione del loro valore.

L’invenzione della fotografia, che risale alla prima metà del XIX secolo, portò una radicale innovazione nella riproduzione della realtà. Bisogna infatti pensare che, prima di questo momento, non esisteva l’idea di una riproduzione oggettiva delle sembianze di persone, cose o paesaggi.

In Sicilia,come scrive G.Cammareri  di simani santi ce ne sono davvero tante. “Se ne possono incontrare di meste,chiassose,nevrotiche,follemente amate e disprezzate,profumate dal vino che lava le notti e dall’acre odore dei ceri che le sporca dolcemente,profumate da tanti fiori e illuminate da tantissime luci. Simani gonfiate con l’elio dei palloncini,fatte di mille macchine fotografiche al collo ,di bambini vestiti da angioletti e di mamme che li accompagnano,di vecchietti piangenti ai balconi al passaggio di Cristi e Madonne….Croci,pennacchi,spade attaccate alla vita da centurioni più o meno baffuti e ancora il gesto per un altro e un altro ancora “clic” di quelle mille macchine fotografiche il cui piccolo rumore annega,miseramente,in un mare di note scandite da suonatori infiocchettati nella divisa di questa o quella banda”.   

La Pasqua in Sicilia, di Mario Virga ,è il racconto fotografico di alcuni momenti delle simani santi che si svolgono in Sicilia e si pone sulla scia del lungo cammino di affermazione progressiva della civiltà dell’immagine. Tante immagini,quelle del Virga,per documentare,narrare,appassionare,tramandare quella che gli israeliti chiamarono Pesach che significa passaggio.

Il presente volume è una preziosa raccolta fotografica scaturente dalla pazienza, certosina, del  Virga quale grande appassionato,oltre che di fotografia,soprattutto della Sicilia e della Sicilianità,terra che gli ha dato i natali e dove Egli vive. La pubblicazione delle foto, del Prof.Virga, riguardanti alcuni momenti dei riti extraliturgici della Settimana Santa e della Pasqua in alcuni comuni isolani,arriva dopo anni di passione e di impegno, profusi dall’Autore fotografo per passione, nel documentare ,attraverso la nobile e difficile arte dello scatto fotografico,alcuni momenti della Pasqua “Siciliana”.

Giorni di Mafia……di Roberta D’Aquino.

 

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Roberta D’Aquino,GIORNI DI MAFIA,Dalle origini alla morte di Michele Greco,Biesse Editore,2008.

Saperi e Sapori….

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UN ABSTRACT DEL LIBRO

Per usare la metafora della cucina, si tratta di un pasto abbondante, con tantissime portate.
A noi piace immaginare che i lettori l’abbiano gustato come i pranzi di festa di una volta.
Ci si alzava sazi, ma non appesantiti, contenti di avere condiviso non tanto il cibo ma la gioia dello stare insieme.
Oggi questa dimensione si è un po’ perduta, ma chi ha esperienza seria di convivialità sa bene che per arrivare sazi ma non appesantiti alla fine di un lauto pasto, occorre possedere alcuni semplici “segreti”.
Il primo: non iniziare il pasto buttandosi famelicamente sugli antipasti, con abbondante uso di pane. Viceversa, il  “mangiatore saggio” assaggia di tutto, ma con moderazione, assaporando i cibi e ascoltandone i sapori.
Il secondo: usare bene l’arte del conversare, che dà il giusto ritmo al pasto, e “alleggerisce”, quasi magicamente, il cibo, perché noi ci nutriamo anche di parole, e le parole “efficaci” (non le chiacchiere) a loro volta alleggeriscono la vita quotidiana.
Terzo: il saper inframmezzare il cibo e le parole con la musica. Beate quelle tavolate dove a un certo punto salta fuori una chitarra e si comincia a cantare!
Quarto: una bella passeggiata, calma e distesa, alla fine del pasto, in cui “smaltire” quello che si è mangiato…
Se vogliamo proprio esagerare, possiamo immaginarci uno di quei pranzi delle corti medievali, di quelli che prevedevano anche i balli, oltre che i canti. Certo, di fronte alla quantità dei percorsi e delle suggestioni presentate in questo volume, sembra difficile trovare una chiave di lettura unitaria: gli stimoli sono così tanti che si fa fatica a ricondurre il tutto a unità. Eppure, a noi pare che robusti fili di unità possano essere individuati e afferrati, per cogliere il disegno che ha guidato la nostra ricerca. A partire dal titolo, proviamo a indicarne qualcuno.
I saperi.
Se mi piace una bella ragazza e non la conosco, farò di tutto per creare occasioni di conoscenza e contatto: solo in questo modo riuscirò a capire se mi piace davvero, e se lei contraccambia il mio interesse. Non c’è vero amore se non è nutrito dalla conoscenza. Ed è così per ogni attività umana, che trova il suo fondamento nell’esperienza. Io esisto e conosco il mondo a partire dal quel “mondo” così particolare che sono gli altri.
Va detto con molta onestà che nel mondo delle organizzazioni (ma si potrebbe dire lo stesso della politica, dell’economia, eccetera) molto spesso le persone non sanno quello che stanno facendo. E questo, a partire dai capi! Ci raccontava un giovane informatico: il problema di molti manager è che il più delle volte non sanno quello che stanno gestendo. In questo modo, non solo non aiutano i loro collaboratori a svolgere meglio le attività, ma addirittura gliele complicano!
Questo libro, volutamente ricco di contributi anche molto diversi tra loro, ha un primo pregio: tutti gli autori, certo con i limiti di ogni esperienza, conoscono la realtà di cui raccontano. Ne hanno fatto esperienza autentica, cogliendone il senso e cercando di ricostruirne il significato. E poiché ogni esperienza umana apre a molte altre esperienze, tutti gli autori dei diversi contributi sono appassionati ricercatori della verità. E questo ci porta alla seconda chiave di lettura del testo.
I sapori.
Se è vero quindi che non c’è autentico amore senza conoscenza, è però altrettanto vero che ogni conoscenza, se non conduce all’amore, resta vuota e priva di attrattiva.
Perché? Ecco la domanda chiave di ogni esperienza umana.
Per amare ed essere amati. Che è il vero e unico bisogno di ogni donna e ogni uomo che siano minimamente sinceri con se stessi.
Il “sapore” è ciò che dà senso alla vita propria e a quella degli altri. Il gusto, il piacere di fare.
Questo spiega perché l’uomo tende naturalmente al bene, pur essendo egli una contraddizione vivente e sperimentando la sconfitta quotidiana operata dal limite, dalla sofferenza, in definitiva dalla morte. Eppure, nel profondo dell’esperienza umana, il cuore dell’uomo anela ad amare e ad essere amato. Come ha detto il papa Giovanni Paolo II nel messaggio di inizio anno 2005: «L’amore è ciò cui anela il cuore di tutti!».
Nel mondo delle organizzazioni questa evidenza si traduce in conseguenze molto semplici e chiare: non mi interessa tanto se un’organizzazione è “efficiente”, quanto se essa è “efficace”, se produce cioè il “profitto” per cui essa vive e cresce. Il “bene” di un’organizzazione è costituito dalla capacità di essere “ordinata”, cioè di essere sempre “al lavoro”, per realizzare il più possibile armoniosamente i propri scopi. In termini gastronomici: non mi interessa se la ricetta è stata eseguita alla perfezione, mi interessa che il piatto portato in tavola sia buono al gusto e facile alla digestione! Che mi nutra e mi faccia star bene!
A noi piace poi immaginare questo libro come una grande partitura musicale, in cui suonano tanti strumenti, per far “cantare” tante note… Armonia, fatta di incontro, ma anche di scontri, di tensioni, di (ri)soluzioni cercate e trovate insieme. E qui viene fuori una terza chiave di lettura.
Il cammino, la strada.
Il sottotitolo del libro è: Idee e pratiche per umanizzare le organizzazioni.
Diventare ciò che siamo è il grande segreto delle tradizioni filosofiche e religiose dell’umanità.
Siamo portatori di una vocazione e di un destino: diventare pienamente uomini.
Il segreto di ogni attività umana è riuscire a stare sempre in contatto con la propria anima. Non dobbiamo cercare modi strani di realizzare una vita buona per noi stessi, per gli altri, per l’organizzazione cui apparteniamo e in cui viviamo. Ci basta stare ancorati alla nostra umanità.
Tornando all’esempio di prima: mi piace una bella ragazza, cerco di conoscerla; la reciproca conoscenza mi/ci fa capire se la passione è autentica; iniziamo un cammino comune. L’uomo è senza dubbio faber, perché agisce sul mondo e lo trasforma, ma è allo stesso tempo viator, perché è sempre in cammino, sempre in ricerca. Nella strada, si fa esperienza di cosa è davvero necessario, e di cosa si può tranquillamente tralasciare. Sulla strada si incontrano le persone e si realizzano le migliori iniziative: la strada come luogo fondamentale del mondo. Solo per fare un esempio, si pensi a “come” e “dove” è stata fondata la città di Roma: un luogo di commercio e di scambio, sul fiume Tevere, tra le popolazioni etrusche e latine. Così è nel mondo delle organizzazioni: capire cosa serve davvero e cosa in tutta tranquillità si può lasciar perdere, sarebbe un enorme progresso per la produttività e il profitto! Tutti gli autori di questo libro sono infaticabili camminatori sulle strade del mondo e leggendo i loro contributi si avverte il peso e il valore delle esperienze fatte sulla strada…
Ma il libro resta come non finito, per due motivi. Per prima cosa, perché gli autori sono già all’opera su diversi cantieri di lavoro professionale e culturale. Il secondo, perché la loro speranza è che i lettori, cogliendo il senso di ricerca del testo, ne facciano propri, del tutto o in parte, i contenuti e li sviluppino nei diversi contesti di vita e di lavoro.
Buona strada a tutte/i!

Elio Meloni -Valerio Beretta,Saperi e Sapori,idee pratiche per umanizzare le organizzazioni,Monti Editore,2008

http://www.growingmanagement.it/growingmanagement/Saperi_e_Sapori.html

Fumo e arrosto…..di Mary Taylor Simeti*

fumo

Letteratura e cucina, parole e sapori, poetica del gusto e piatti della tradizione: un connubio inscindibile, quello tra arte letteraria e gastronomia, particolarmente per gli scrittori siciliani, da sempre affascinati dal potere evocativo e simbolico del cibo. Ecco così che l’autrice, nelle sue “escursioni nel paesaggio gastronomico della Sicilia” riapre le celebri pagine del “Gattopardo” dedicate alla descrizione sontuosa e dettagliatissima del pranzo in casa Salma e quelle, diversamente evocative e nostalgiche, di Vittorini sul mondo umile e silenzioso dei contadini e degli emigranti. O ancora quelle scritte dall’Abate Meli sotto forma di poesie dialettali in onore delle prelibatezze nate dalle abili mani delle monache dei tanti monasteri che, per secoli, hanno addolcito le tavole delle famiglie palermitane con le loro specialità dolciarie.

E, per permettere al curioso lettore di sperimentare in prima persona le squisitezze passate in rassegna ne sono puntualmente riportate le relative ricette, Un invito stuzzicante a far rivivere piatti come I “Timballo del Gattopardo”, le “Paste delle Vergini” o il “Ragù di tonno”, ormai appartenenti alla storia della gastronomia siciliana.

 

*Nata a New York, Mary Taylor Simeti vive in Sicilia dal 1962. È l’autrice di articoli apparsi sul New York Times, il Financial Times di Londra ed altri periodici, e di vari libri, fra cui On Persephone’s lsland: A Sicilian Journal; Pomp and Sustenance: 25 Centuries of Sicilian Food; e Travels with a Medieval Queen, tutti pubblicati a New York e Londra. Con Flaccovio ha pubblicato Mandorle amare.

 

Mary Taylor Simeti,Fumo e arrosto.Escursioni nel paesaggio letterario e gastronomico della Sicilia.Flaccovio Editore,2008.

Io canto di Laura Pausini

 

La nebbia che si posa la mattina
le pietre di un sentiero
di collina
il falco che s’innalzerà
il primo raggio che verra’
la neve che si sciogliera’
correndo al mare
l’impronta di una testa sul cuscino
i passi lenti e incerti
di un bambino
lo sguardo di serenita’
la mano che si tendera’
la gioia di chi aspettera’
per questo e quello che verra’
Io canto
le mani in tasca canto
la voce in festa canto
la banda in testa canto
corro nel vento
Canto
la vita intera canto
la primavera canto
la mia preghiera canto
per chi mi ascoltera’
voglio cantare
sempre cantare
l’odore del caffe’ nella cucina
la casa tutta piena di mattina
e l’ascensore che non va
l’amore per la mia citta’
la gente che sorridera’
lungo la strada
i rami che s’intrecciano nel cielo
un vecchio che cammina tutto solo
l’estate che poi passera’
il grano che maturera’
la mano che lo cogliera’
per questo e quello che sara’
io canto
le mani in tasca canto
la voce in festa canto
la banda in testa canto
corro nel vento canto
la vita intera canto
la primavera canto
la mia preghiera canto
per chi mi ascoltera’
voglio cantare
sempre cantare
cantare…
io canto
le mani in tasca e canto
la voce in festa e canto
la banda in testa e canto
la vita intera canto…

Novembre nuovo singolo di Giusy Ferreri

Ho difeso le mie scelte io ho
creduto nelle attese io ho
saputo dire spesso di no
con te non ci riuscivo.
Ho indossato le catene io ho
i segni delle pene lo so
che non volendo ricorderò
quel pugno nello stomaco.
A novembre
la città si spense in un istante
tu dicevi basta e io rimanevo inerme
il tuo ego è stato sempre più forte
di ogni mia convinzione.
A novembre
la città si accende in un istante
il mio corpo non si veste più di voglie
e tu non sembri neanche più così forte
come ti credevo un anno fa
novembre.

Ho dato fiducia al buio ma ora sto
in piena luce e in bilico tra estranei
che mi contendono la voglia di rinascere
A novembre
la città si spense in un istante
tu dicevi basta e io rimasi inerme
il tuo ego è stato sempre più forte
di ogni mia convinzione.
A novembre
la città si accende in un istante
il mio corpo non si veste più di voglie
e tu non sembri neanche più così forte
come ti credevo un anno fa
novembre.
E tu parlavi senza dire niente
cercavo invano di addolcire quel retrogusto amaro
di una preannunciata fine.

L’assoluto nelle tradizioni religiose: il divino e il cosmo

 di

Alberto Pisci

 

 

La storia dell’umanità porta in sé la traccia evidente di uomini e donne, appartenenti ai più diversi orizzonti culturali, che affermano di aver fatto un’esperienza radicale dell’Assoluto. Qualunque sia il nome attribuito a tale Assoluto, che sia stato percepito come personale o impersonale, tutti testimoniano di un’esperienza unica che ha dato senso alla loro vita. Sapienti taoisti, hindù o buddisti, filosofi greci e romani, mistici ebrei, cristiani o musulmani, toccati dalla trascendenza, hanno rifiutato una visione puramente materialista dell’uomo e del mondo. Essi hanno evocato la forza dello spirito e testimoniato la possibilità di un’esperienza interiore che conduce a una profonda trasformazione dell’essere. Attraverso differenti concetti e immagini improntati alle singole tradizioni filosofiche e religiose, essi hanno cercato di trasmettere il proprio percorso individuale, invitando i discepoli a impegnarsi lungo il cammino della ricerca spirituale.
Oggi la crisi delle ideologie e delle istituzioni (comprese quelle religiose) riporta in primo piano il bisogno degli individui di dare un senso alla propria vita. Il bisogno di spiritualità e sapienza non è mai apparso così forte in Europa come in questi decenni in cui le società appaiono fortemente secolarizzate. L’uomo occidentale, all’inizio del XXI secolo, si scopre sempre meno ancorato a certezze e risposte preconfezionate; tuttavia non ha rinunciato a interrogarsi sul senso dell’esistenza e sulle modalità di vita in armonia con se stesso, con il prossimo e con il mondo. In questo debole scenario riprende vigore la ricerca mistica dell’Assoluto sia attraverso coloro che ne hanno fatto esperienza all’interno delle religioni tradizionali, sia attraverso nuovi e differenti percorsi esterni alle istituzioni ecclesiali.

Per cercare di avvicinare alcuni di questi percorsi e, con essi, il fine ultimo proposto dalle principali tradizioni religiose si possono percorrere strade differenti quali: 
la percezione della dimensione cosmica 
il rapporto tra l’uno e il molteplice 
l’insondabilità del divino 
la divinità che si rivela 
il divino come Provvidenza 
il divino interiore e il Sé 
la percezione dell’aldilà e del fine ultimo 

Avviciniamo il primo di tali percorsi, accostando alcune esperienze religiose dell’Assoluto percepito nella sua dimensione cosmica: come viene compresa la natura e la realtà che ci circonda? Gli O.S.A. delle secondarie superiori offrono numerosi spunti per la comprensione della rivelazione cristiana in relazione al rapporto tra Dio e il mondo e per la comparazione tra questa e le altre tradizioni religiose.

Per alcune tradizioni religiose l’Assoluto è percepito proprio attraverso la natura, l’ordine del mondo. In alcuni casi presiede il cosmo, in altri si identifica con esso. Quest’ultimo è il caso della visione cinese del Tao (o Dao) dell’armonia universale; o la Concezione della Terra-Madre presente in alcune tradizioni etniche come quella degli Amerindi che offrono una comprensione “religiosa” della natura e rispettano tutti gli esseri viventi come “popoli fratelli”.
Anche se è meno presente, questa dimensione cosmica è possibile ritrovarla presso alcuni mistici delle grandi religioni monoteiste che, come Francesco d’Assisi, lodano il Creatore attraverso la bellezza della sua creazione. Non si possono poi trascurare le esperienze di alcuni mistici contemporanei al margine delle grandi tradizioni religiose, come Bernadette Roberts, che evocano un’esperienza panteista dell’Assoluto attraverso cui scoprire che “Dio è dappertutto e che Egli è tutto ciò che esiste”.

 

 Ebraismo 

“I cieli narrano la gloria di Dio” (Salmo 19)

Il Salmo 19 è un inno che loda i prodigi di Dio nella natura. L’autore, probabilmente si tratta di Davide, celebra in Jahvè il creatore del cielo e l’autore della legge: l’idea che viene perseguita è che natura e legge di Dio siano espressione della perfezione divina, identificata nel sole. Nella liturgia cristiana questo salmo è applicato, nella liturgia del Natale, al Verbo di Dio, sole di giustizia.

I cieli narrano la gloria di Dio,
e l`opera delle sue mani annunzia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il messaggio
e la notte alla notte ne trasmette notizia.
Non è linguaggio e non sono parole,
di cui non si oda il suono.
Per tutta la terra si diffonde la loro voce
e ai confini del mondo la loro parola.

Là pose una tenda per il sole
che esce come sposo dalla stanza nuziale,
esulta come prode che percorre la via.
Egli sorge da un estremo del cielo
e la sua corsa raggiunge l`altro estremo:
nulla si sottrae al suo calore.

 

Cristianesimo 

“Per mezzo di Lui tutte le cose sono state create” (Col 1,15-20)

Nella Lettera ai Colossesi San Paolo espone il primato di Cristo sia nella realtà naturale, sia in quella soprannaturale. Cristo, primogenito della creazione, Figlio di Dio fatto uomo, riflette nella sua natura umana l’immagine del Dio invisibile.

Egli è immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potestà.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose
e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa;
il principio, il primogenito di coloro
che risuscitano dai morti,
per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio
di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce,
cioè per mezzo di lui,
le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.

“Cantico delle creature” di San Francesco

giotto

Giotto, La predica agli uccelli, particolare, 1296-1298 ca.
(Assisi, Basilica Superiore di San Francesco).

 

 

 

Non è solamente per i doni della Grazia e per la sua storia personale che Francesco d’Assisi prova un sentimento di gratitudine estrema, ma anche grazie all’ineffabile spettacolo della realtà naturale, così generosamente offerta alla nostra contemplazione. Ispirato dai Salmi, egli scopre nell’universo lo specchio delle perfezioni divine e vi aggiunge quel sentimento di fraternità con tutte le opere di Dio perché sono state santificate dal Figlio nello Spirito. Il Creatore non ha dato nulla all’uomo che non sia un bene; compresa la morte. È il peccato che lo priva del bene. Animato da una passione cosmica, il poeta santo che parlava agli uccelli e predicava ai lupi ricorda che tutto nell’universo è degno di amore, e che nell’amore non si deve fare economia.

Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumeni noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si’, mi Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor Aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infirmitate et tribulatione.

Beati quelli ke ’l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’ mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.

Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.

 

Islam 

“Scrutate ciò che è nei cieli”

Il mistico del XII secolo Ibn ’Ata Allah era a capo di un’importante confraternita islamica sulle sponde del Nilo. Numerose delle sue Sentenze affermano che chi ha il cuore illuminato da una conoscenza soprannaturale vede i segni della presenza di Dio in tutta la creazione. Lui solo occorre scrutare e bramare di comprendere, non i cieli stessi ai quali bisogna guardarsi dal rendere culto.
(Ibn ’Ata Allah, Sentenze e colloquio mistico, Adelphi, 1981; Sentenza n.132)

Egli ti ha permesso di scrutare ciò che c’è nelle creature, ma non ti ha permesso di sostare con le creature. “Di’: Scrutate ciò che è nei cieli”; e dicendo “Scrutate ciò che è nei cieli” apre la porta della comprensione; e non dice “Scrutate i cieli” perché tu non ti rivolga agli astri.
(Sentenza n. 227)
Se non hai contemplato il Creatore, sei con le creature; se Lo hai contemplato, le creature sono con te.

 

Taoismo 

“L’armonia dell’universo è il Dao universale”

tao

Un monaco taoista del monastero di Wudang in preghiera.

L’Invariabile Mezzo

è un breve trattato dell’antichità cinese attribuito a Zisi, nipote di Confucio, che sarebbe vissuto nel V secolo a.C.
Il suo titolo
Zhongyong designa il Mezzo (Zhong) nel senso di equilibrio, di controllo dello spirito e dei sentimenti nell’agire quotidiano e costante (yong). Il Cielo è l’entità suprema che abbraccia la totalità dell’esperienza umana, dal cielo fisico al cielo astratto, conservando, sul piano religioso, le prerogative del Signore che governa gli esseri e la natura e determina il destino di ciascuno. Sul piano cosmico è il grande ordinatore del cosmo che si fonde con l’ordine naturale. La sua azione è sottile, ma continua e immensa.
Ciò che il Cielo destina all’uomo è la sua natura; seguire la sua natura è il Dao; coltivare il Dao è l’insegnamento. Il Dao non potrebbe essere abbandonato un solo istante; se potesse esserlo, non sarebbe più il Dao (…). Quando piacere, collera, tristezza e gioia non vengono manifestati, lì si trova il Mezzo, l’armonia. Il Mezzo è il grande fondamento dell’universo, l’armonia è il Dao universale.

 

Amerindi 

“Ogni luogo sacro contiene la sua propria rivelazione” (Vina Deloria, God is Red)

Giurista e scrittore per vocazione, Vine Deloria è uno dei più brillanti scrittori degli Stati Uniti ed è stato uno dei maestri del Red Power (Potere rosso), movimento di contestazione sociale e politica della minoranza indiana d’America che conobbe il suo apogeo negli anni 1960-70, lungo la scia del Black Power e della lotta per i diritti civili. L’opera più conosciuta di Vine Deloria è un best seller intitolato Custer died for your Sins (“Custer è morto per i vostri peccati”), pubblicato nel 1969, un pamphlet incisivo in cui denuncia i pregiudizi anti-Indiani della conquista dell’Ovest. È una riflessione personale sull’universo spirituale degli Indiani, divisi tra Cristianesimo e tradizionalismo. La sua riflessione religiosa è un’esaltazione delle religioni tradizionali degli Amerindi.

La convinzione secondo la quale gli esseri umani possono trasformarsi in uccelli o in altri animali così come le altre specie possono trasformarsi in esseri umani, è molto importante in alcune religioni tribali. Pertanto le differenti specie possono comunicare tra di loro e istruirsi a contatto gli uni con l’altri. Alcune di queste idee sono state tacciate di stregoneria per il fatto che tali fenomeni, in una prospettiva occidentale, sarebbero naturalmente percepiti come malefici e diabolici. Ma ciò che sfugge agli occidentali è che l’unicità del mondo ne è una conseguenza logica. In effetti, se tutti gli esseri viventi condividono lo stesso creatore e la stessa creazione, non è logico supporre che tutti hanno la capacità di essere uniti a tutte le creature viventi. Chi ascolterà l’insieme dell’universo? (…) Ogni luogo sacro contiene la sua propria rivelazione. L’avvenire dell’umanità dipende da coloro che giungeranno a comprendere il senso della loro esistenza ed assumersi la loro responsabilità di fronte a tutte le creature viventi. Chi ascolterà gli alberi, gli uccelli e gli altri animali, chi ascolterà le voci dei siti naturali? Quando i popoli a lungo dimenticati sui loro rispettivi continenti si solleveranno e cominceranno a rivendicare la antica eredità, essi comprenderanno il significato dei territori dei loro avi. Sarà allora che gli invasori del continente nord-americano scopriranno che su quel continente Dio è indiano.

 

New Age 

“Dio è dappertutto” (Bernadette Roberts, L’esperienza del non-sé, Astrolabio-Ubaldini)

L’americana Bernadette Roberts (1931) è stata per nove anni suora carmelitana e dice di sé, non senza humour, di essere “madre di famiglia di professione e contemplativa per grazia di Dio”. Sostiene di aver praticato un viaggio “aldilà dell’unione” in seguito alla quale avrebbe annullato il suo “io”. Desiderosa di trasmettere la sua esperienza, Roberts si rifà a figure di mistici cristiani quali Giovanni della Croce, Maestro Eckhart, Thomas Merton, ma sostiene di aver iniziato lì dove questi ultimi si sarebbero fermati: sulla soglia cioè della dissoluzione completa e definitiva del proprio “io” e dunque di ogni possibilità di unione con un Dio troppo personale per non essere oggetto di illusorie proiezioni e identificazioni.

Dopo aver scoperto che Dio è dappertutto io fui ricompensata del centuplo per la perdita sconcertante di un Dio personale interiore. Sembra che io sia dovuta passare attraverso il personale, poi l’impersonale, prima di realizzare che Dio era più vicino dell’uno e dell’altro e trascendeva queste due forme. Le nozioni e le esperienze di un Dio personale e interiore, o impersonale ed esterno, sono di ordine puramente relativo, poiché appartengono all’io e alla coscienza individuale. Dio, tuttavia, è aldilà della relatività della nostra mente e delle nostre esperienze percettive; in effetti Egli è così vicino che non può mai essere localizzato. Ma comprendere veramente questa intimità, vederla, vuol dire scoprire che Dio è dappertutto e nello stesso tempo vedere che Egli è tutto ciò che esiste.

Induismo 

“Dall’Immutabile emana l’universo dove siamo” (Mundaka Upanishad I, 1,7; II, 1,1)

Dal punto di vista indiano, il mondo può essere considerato illusorio, una specie di ectoplasma energetico che può riassorbirsi nel proprio principio. In questo senso l’universo è chiamato Maya, illusione o apparenza. L’uomo fa parte della creazione e non esiste sotto alcun aspetto fisico, mentale o spirituale al di fuori di essa. Lo Shivaismo in particolare si fonda sul principio che non esiste nulla che non faccia parte del corpo divino, che non possa essere una via per raggiungere il divino. Tutti gli oggetti, tutti i fenomeni naturali, le piante, gli animali, ma anche gli aspetti dell’uomo, possono essere punti di partenza per avvicinarsi al divino. Non esistono un alto e un basso, funzioni inferiori e superiori, una sfera profana e una sacra. Se riconosciamo l’ordine divino in ogni nostra tendenza, funzione fisica e azione, siamo padroni di noi stessi, compagni del dio. Se invece ignoriamo o rifiutiamo di vedere l’ordine universale in tutto ciò che costituisce il nostro ordine fisico o mentale e i legami che ci uniscono, a ogni livello, al mondo naturale e cosmico, attiriamo su di noi la follia distruttrice che è la manifestazione della collera degli dei.

Così come il ragno secerne e riassorbe il proprio filo,
come dalla terra sorgono le piante
e all’uomo crescono capelli e peli sulla testa e sul corpo,
dall’Immutabile emana l’universo dove siamo…
Dall’Immutabile provengono le diverse specie di creature
che tornano a perdersi in lui.
“Brahman è la suprema unità” (Sankara, Le plus beau Fleuron de la discrimination, versetti 226 e segg., Paris, 1998)

 

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Brahma, il dio della creazione dalle quattro teste,
rappresentato sul suo mezzo di trasporto: un’oca;
miniatura indiana del XVIII secolo, scuola Pahari
(Himachal Pradesh, Museo di Simla).

L’asceta indiano Sankara (788-820) è all’origine del sistema filosofico fondato sulla “non-dualità” che afferma, a partire dai testi Upanishad, che esiste un unico essere, il Brahman, la sola realtà, causa prima dell’universo che non è altro che un’illusione.
Brahman è la suprema realtà,
poiché non esiste altro che il Sé (…)
Tutto questo universo che l’ignoranza ci presenta sotto l’aspetto della molteplicità,
non è altro che Brahman (…)
Questo Brahman è la totalità di tutti gli esseri e di ogni cosa,
il Sé di ogni creatura (…)
Perché niente esiste fuori di Brahman (…)

 


Stoicismo 

“Zeus, principio della natura che tutte le cose con leggi governi” (Cleante, Inno a Zeus)

Lo stoicismo è la filosofia di gran lunga più rappresentativa al momento delle origini cristiane. Iniziata da Zenone di Cizio vissuto tra il 333 e il 262 a.C. questa filosofia è sostanzialmente materialistica, nel senso però che Dio (chiamato Logos) si identifica con la natura: la divinità pur essendo corporea è immanente all’universo. Nel cosmo è presente anche un principio finalistico, fonte di armonia universale, chiamato prònoia (“provvidenza”) il quale fa sì che nel mondo vi siano i migliori presupposti per la sua conservazione e che nulla venga a mancare. L’Inno a Zeus

che segue è di Cleante (morto verso il 232 a.C.) ed è un esempio sommo della religiosità stoica.

Gloriosissimo tra gli immortali, dai molti nomi, sempre onnipossente, Zeus, principio della natura, che tutte le cose con legge governi, salve! È giusto infatti che tutti i mortali si rivolgano a te, poiché da te siamo nati (…).
A te questo cosmo tutto, che si volge attorno alla terra obbedisce ovunque tu lo conduca e di buon grado a te si sottomette (…). Nulla avviene sulla terra senza di te, o nume, né sotto la divina volta celeste, né sul mare, tranne quanto compiono i malvagi nella loro demenza.
Ma tu sai rendere perfette anche le cose smodate e ordinare le cose disordinate, poiché ciò che non è amico diventa per te amico. Tutte le cose hai congiunto in unità, buone e cattive, in modo che per tutte le cose ci fosse un unico Lògos sempre presente, lui che, fuggendo, abbandonano quanti mortali sono malvagi (…).
Ma tu Zeus, donatore di ogni cosa, dio delle oscure nubi e della folgore scintillante, libera gli uomini dalla funesta ignoranza; bandiscila, Padre, dall’anima e permetti di ottenere conoscenza, con la quale governi ogni cosa secondo sicura giustizia.
Così onorati da te possiamo noi onorarti in cambio, cantando incessante le tue opere, come spetta a un mortale: poiché non c’è altro premio maggiore né per i mortali né per gli dèi che celebrare sempre secondo giustizia la comune legge.
“O Natura tutto viene da te, tutto è in te” (Marco Aurelio, Pensieri)

L’ultimo stoicismo, proprio dell’età imperiale, raggiunge i vertici amministrativi con Marco Aurelio. L’imperatore filosofo riafferma con forza il monismo panteistico. Egli ha conosciuto i cristiani e, sebbene il suo pensiero non dipenda da loro, entrambi attingono elementi del proprio rispettivo messaggio da un ambiente culturale ormai in trasformazione.

La natura universale… è la più antica delle divinità (9,1).
Quello che giova al Tutto è sempre bello e opportuno (12,23).
Per me, o natura, è sacro tutto quello che arrecano le tue stagioni: tutto viene da te, tutto è in te, tutto torna a te (4,23; confronta la Lettera ai Romani 11,36).
Tutte le cose formano un insieme organico… Uno infatti è il mondo che risulta da esse, uno il Dio che le pervade, una la sostanza, una la legge, uno il lògos comune a tutti gli esseri pensanti, una la verità. Una sarà quindi la perfezione di tutti gli esseri che hanno un’origine uguale e che partecipano dello stesso lògos (7,9; confronta la Lettera agli Efesini 4,4-6).
La natura universale non può portarti nulla che non ti sia sopportabile (8,46; confronta la Prima Lettera ai Corinzi, 10,13).

 


SPUNTI OPERATIVI 

 

1.    Riprendi i riferimenti alle lettere di San Paolo che compaiono nel testo di Marco Aurelio e metti in evidenza gli elementi di affinità tra il pensiero stoico e la predicazione cristiana.

2. In quali tradizioni religiose qui presentate appare più evidente l’identificazione tra la divinità e la natura?

3. Cerca nel sito dell’Unione Buddista Italiana (www.buddhismo.it) degli elementi per la comprensione buddista della natura.

 

 http://www.rivistadireligione.it/rivista/articolo.aspx?search=mjPoPxlzvvfNaFF7CPHBeFXwpCa9rLVx

 

 

 

Sicilia Natura e Paesaggio.

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sa1

Francesco Alaimo,SICILIA Natura e Paesaggio. Parchi,Riserve,Siti d’interesse comunitario,Zone di protezione speciale,Aree marine protette,Siti meno noti da tutelare. Fabio Orlando Editore,2005.

Speciale Eluana Englaro….

Articoli, interviste, video e immagini sul caso della ragazza di Lecco che un tribunale ha condannato a morire di sete

specialeeluana

http://www.tempi.it/prima-linea/002258-speciale-eluana-englaro

 

“LIBERI DI VIVERE”
Appello al Presidente della Repubblica 
Giorgio Napolitano

http://www.liberidivivere.it/index.php

 

Il presidente del Css: è eutanasia

«Morirà per eutanasia Non della sua malattia»
Cuccurullo: siamo di fronte a una pericolosa deriva

http://www.tempi.it/cultura/003988-il-presidente-del-css-eutanasia

Eluana: non si uccidono così neanche i cavalli

http://www.tempi.it/evidenza/003881-eluana-non-si-uccidono-cos-neanche-i-cavalli

 

Meravigliosa creatura di Gianna Nannini

 

 

Molti mari e fiumi 
Attraverserò 
dentro la tua terra 
mi ritroverai 
turbini e tempeste 
io cavalcherò 
volerò tra i fulmini 
per averti 
Meravigliosa creatura sei sola al mondo 
meravigliosa paura d’averti accanto 
occhi di sole mi bruciano in mezzo al cuore 
amore è vita meravigliosa 
Luce dei miei occhi 
brilla su di me 
voglio mille lune 
per accarezzarti 
pendo dai tuoi sogni 
veglio su di te 
non svegliarti non svegliarti 
non svegliarti …. ancora 
Meravigliosa creatura sei sola al mondo 
meravigliosa paura d’averti accanto 
occhi di sole mi tremano le parole 
amore è vita meravigliosa 
Meravigliosa creatura un bacio lento 
meravigliosa paura d’averti accanto 
all’improvviso tu scendi nel paradiso 
muoio d’amore meraviglioso 
Meravigliosa creatura 
meravigliosa 
occhi di sole mi bruciano in mezzo al cuore 
amore è vita meravigliosa

Il “diritto di morire” e i doveri della politica. Di Mario Picozzi.

 schiavo

Terry Schiavo

LA BIOETICA COME SPAZIO PER IL DONO, CONTRO LA LOGICA

SPERSONALIZZANTE DEL MERCATO: LA GRATITUDINE INVECE DEL

PRINCIPIO D’EQUIVALENZA. ANCHE LE SITUAZIONI TRAGICHE, IN CUI LA

VITA VIENE POSTA IN DISCUSSIONE FINO AL PUNTO D’ESSERE NEGATA,

POSSONO INDURCI A RAGIONARE SULLA RICCHEZZA DELLE RELAZIONI

TRA LE PERSONE. Su QUESTO FRONTE CRUCIALE IL RUOLO DELLA

POLITICA, CHIAMATAA GESTIRE L’INCERTEZZA E LA PLURALITÀ DI DIRITTI

TRA LORO IN CONTRASTO.

 

Bioetica. Il “diritto di morire”

e i doveri della politica

 

di

Mario Picozzi*

 

La prima definizione sistemica di bioetica ha ormai compiuto 30 anni Wilhelm Reich cosi la definì nel 1978 quando venne pubblicata la prima Enciclopedia di Bioetica «Lo studio sistematico della condotta umana nell’ area delle scienze della vita e della cura della salute in quanto tale condotta viene esaminata alla luce di principi e valori morali»’. Oggi la disciplina ha acquisito un suo spazio riconosciuto sia a livello accademico, in diverse facoltà, sia in ambito istituzionale (si pensi al ruolo dei Comitati di Etica nella sperimentazione clinica). Allo stesso tempo i dibattiti bioetici hanno avuto grande rilevanza anche nella discussione pubblica, comportando talvolta fratture nella società civile, soprattutto rispetto alla non procrastinabile necessità di tradurre in legge questioni riguardanti temi di inizio e fine vita.

Il presente contributo non si propone di fare un bilancio di questi primi 30 anni, né di ripercorrere le tappe più significative che hanno segnato la storia, ancorché breve, di questa

disciplina. Ci limiteremo a indicare quali sono, a nostro parere, i temi che, emersi nella riflessione di questi decenni, costituiscono aspetti cruciali su cui la bioetica sarà chiamata a interrogarsi nel prossimo futuro. Più precisamente riteniamo vi sia una questione centrale, che in modo più o meno esplicito è presente in tutti i dibattiti, e che determina le differenti posizioni e le conseguenti risposte date ai quesiti bioetici. Un’impostazione non pertinente di tale questione rischia di pregiudicare le successive riflessioni. Pur volendo mantenere uno sguardo ampio, che tenga conto della

riflessione condotta a livello internazionale, inevitabilmente avremo come sfondo di riferimento la situazione italiana, che indubbiamente ha sue specifiche peculiarità.

 

IL PUNTO CENTRALE: LA QUESTIONE DELL’AUTONOMIA DEL SOGGETTO

 

La riflessione bioetica, pur con accentuazioni diverse, è attraversata dalla questione dell’autonomia del soggetto: quale il peso da attribuire alla libera scelta degli individui? A quali condizioni il soggetto può dirsi realmente autonomo?

Basti per esemplificare riferirsi ai temi di fine vita: chi può decidere se la propria vita sia degna di essere vissuta se non il soggetto stesso? È lecito sottrargli tale possibilità? Ma un soggetto affetto da una malattia grave è in grado di decidere? Quali i possibili condizionamenti, anche di ordine economico, che possono spingerlo a richiedere di porre fine alla sua vita, passando dal diritto a morire al dovere di morire?

Detto in altri termini, è la diatriba, sorta inizialmente sul tema dell’interruzione della gravidanza e riproposta sulla questione della fecondazione medicalmente assistita, tra i “fautori della scelta” e i “sostenitori della vita”.

Siamo continuamente, soprattutto in Italia ma non solo, rinviati a due posizioni, al tempo stesso nette e inconciliabili, tra i difensori della qualità della vita da una parte e i protettori della sacralità della vita dall’altra. Inevitabilmente ciò si traduce anche nei dibattiti politici e nella conseguente difficile se non impossibile impresa di giungere a soluzioni condivise su questioni, quali il nascere e il morire, che riguardano la possibilità stessa di sussistenza del vivere insieme.

Ma realmente le due posizioni sono alternative?

«La vita apprezzata come istanza sacra e sottratta ad ogni disponibilità ad opera dei soggetti implicati, diventa criterio materiale; la qualità della vita, d’altra parte, quando sia apprezzata rimovendo l’originario suo riferimento ad un’istanza che supera la vita stessa e che è norma per la libertà del soggetto, diventa criterio solo psicologico, assegnato all’insindacabile modo di sentire del singolo. La vita sacra, nel suo profilo dunque di istanza morale, non può essere definita ignorando la coscienza che l’accompagna; e d’altra parte la qualità della vita non può essere valutata senza far riferimento ai criteri oggettivamente iscritti nelle forme dell’alleanza umana in genere, e rispettivamente nelle forme di quella che è stata chiamata alleanza terapeutica» 2.

Come dire che «il giudizio su un’azione sarebbe meno oggettivo se non considerasse il soggetto che pone o subisce tale azione; una norma morale intesa e applicata a prescindere dall’intenzione degli agenti dal contesto storico condurrebbe ad esiti materialistici e violentemente astratti. Ciò significa che la soggettività valutativa non può essere espunta, ma va istruita e preparata attraverso una metodologia decisionale prudente»3. In ogni storia un soggetto è sempre oggettivamente coinvolto.

La decisione, per esser la propria decisione, esige una scelta, dove l’identità stessa del soggetto è chiamata in causa; questa scelta non è nota al soggetto a monte di ogni relazione, ma esattamente grazie alla relazione, dentro cui emergono le buone ragioni a favore di una determinata opzione.

Il contrario di autonomia è eteronomia: ossia abdicare alla propria responsabilità. Mentre invece non vi è contrasto tra autonomia e dipendenza: anzi è solo consentendo al riconoscimento del mio debito verso l’altro e conseguentemente verso il mondo intero (la cultura, le tradizioni) che il soggetto può decidere di sé. L’autonomia non può essere punto di partenza: è approdo finale reso possibile dalla presenza dell’altro. Non si tratta quindi di rinnegare l’autonomia, ma di ripensarla a partire dalla storia e dal vissuto delle persone.

Questo percorso relazionale per un discernimento rifugge da formule predeterminate e allo stesso tempo ammette soluzioni diverse, pur partendo da condizioni e contesti simili. Analogamente non si accontenta di prendere atto della decisione altrui; nessuna decisione è buona per il semplice fatto di essere presa in autonomia: quante decisioni sono esattamente frutto di atteggiamenti di omologazione, in cui il soggetto non sceglie, ma è eterodiretto.

L’odierna riflessione bioetica, soprattutto quella che trova spazio nei mass media, tende a semplificare e banalizzare, a volere il giudizio immediato e gridato, a costruire fazioni e cercare supporter dell’una o dell’altra tesi. È una trappola da cui rifuggire.

Ma il non poter fare a meno del soggetto, che per decidere non può fare a meno dei soggetti che lo circondano, cosa comporta per le questioni bioetiche?

Con alcune esemplificazioni cerchiamo di rendere conto delle conseguenze della nostra impostazione.

 

IL BIODIRITTO O LA BIOPOLITICA

 

Oggi si tende sempre più a parlare di biodiritto, inteso come l’esigenza di tradurre le problematiche bioetiche in norme che disciplinino i comportamenti collettivi all’interno della società 4. Ma forse sarebbe più preciso parlare di biopolitica: «Oggi vita e morte non sono più propriamente concetti scientifici, ma concetti politici, che, in quanto tali, acquistano un significato preciso solo attraverso una decisione» 5.

Per legge, almeno in Italia, viene definito quando un soggetto è morto; sempre più norme di legge vengono invocate per dirimere questioni bioetiche. Il potere che la tecnologia ha obiettivamente sulla nuda vita (si pensi all’ingegneria genetica) si trasferisce nelle mani della politica.

L’esercizio del potere passa attraverso il controllo dei fenomeni biologici, in primo luogo quelli riguardanti la vita umana. Stiamo riferendoci alla nuda vita, non alla vita biografica e quindi sociale che, se può essere controllata, al tempo stesso ha sempre risorse per sfuggire a tale controllo.

E questo fenomeno appare pacificamente accolto; la cosa invece avrebbe di che preoccuparci.

Se da un lato occorre governare determinati ambiti, poiché il rischio è quello dell’arbitrio e dell’anarchia, dall’altro occorre essere avvertiti delle conseguenze in cui si può incorrere assegnando ad uno strumento, la norma di legge, l’ultima parola, definitoria, su un bene fondamentale, quale la vita umana. Né si può misconoscere il ruolo che la legge ha sulla formazione delle coscienze, comunitaria e singola.

Ma l’enfasi con cui da più parti si invocano leggi sui temi di inizio vita e fine vita appare sospetta sotto un altro versante. La norma di legge viene percepita quale strumento per definire ogni specifico caso, esautorando i soggetti dalle proprie responsabilità. Si pensi ai medici: essi diventano fedeli esecutori, meri tecnici, professionalmente preparati, ma esenti dal chiedersi il significato di quanto da loro eseguito.

Può realmente la legge dirimere senza il cimento della libertà dei soggetti, le diverse questioni bioetiche? Le infinite variabili soggettive e oggettive che di fatto intervengono nelle azioni umane comportano necessariamente l’impossibilità del diritto di contemplare tutti i singoli casi. Per cui «la singolare contingenza di taluni casi, eccedendo la possibilità della legge civile di regolarli, limita quest’ultima a valere ut in pluribus, cioè nella maggior parte dei casi» 6. Certo «il riconoscimento della competenza della coscienza nei singoli casi non esclude, ma anzi rimanda alla generale validità della legge. Singola eccezione e regola generale sono, infatti, reciproche: «Non c’è eccezione senza regola per l’eccezione alla regola» 7.

Quindi «la considerazione dei limiti strutturali di ogni legge civile invita a riconoscere la competenza della coscienza personale nelle decisioni relative ai casi-limite. Il rinvio alla coscienza non è la delega in bianco concessa all’arbitrio soggettivo perché faccia ciò che vuole, ma il riconoscimento che, nei singoli casi, la percezione sintetica delle variabili in gioco da parte della coscienza vede meglio della previsione legislativa» 8.

Riferiamoci esemplificativamente alla distinzione tra accanimento ed eutanasia: «L’inevitabile approssimazione con cui la legge generale può definire i casi di eutanasia e di accanimento terapeutico lascia sussistere tra i due divieti uno spazio intermedio in cui solo il miglior giudizio della coscienza personale può dirimere la fattispecie» 9. Uno spazio cioè dove la legge non entra (fatta salva la possibilità di verificare la sussistenza dei criteri stabiliti) in cui la relazione medico-paziente diventa il “luogo decisionale.

Ciò comporta l’ammettere giustamente che si possano dare scelte diverse a partire dalla medesima situazione clinica; ciò disegna un legittimo pluralismo delle scelte, senza che si cada nel relativismo etico. Un siffatto pluralismo non deroga al duplice divieto di eutanasia e di accanimento terapeutico; esso, piuttosto, attesta che. in talune circostanze, la rinuncia alle cure non necessariamente coincide con l’eutanasia. e nemmeno il loro mantenimento necessariamente coincide con l’accanimento terapeutico»10. È vero che il pluralismo delle scelte “non assicura certo che la vita umana sia sempre adeguatamente difesa. Non è però questo il solo pericolo. Lo è altrettanto quello di pensare che la vita umana sia sempre adeguatamente difesa anche a prescindere dal giudizio di chi. in prima persona, si trova in situazione di grave sofferenza “11.

Lo spazio da lasciare alla competenza relazionale. dove non appare subito chiaro cosa occorra fare, traduce la prospettiva da noi enunciata in cui l’autonomia è punto di arrivo di un rapporto fiduciale.

 

IL TEMA DEL DONO

 

Il dono è argomento molto presente nel dibattito bioetico. [appello al dono viene invocato su più temi: dall’atto generativo alla disponibilità ad offrire i propri organi. Ma talvolta si rischia di farne una caricatura, o di trasformarlo in atto eroico, oltre le stesse possibilità umane o di mostrarlo come unico e ultimo antidoto all’imperialismo del mercato. Diventa quindi indispensabile una più accurata analisi.

Dal punto di vista del mercato, il legame sociale ha un senso se e nella misura in cui è funzionale rispetto a ciò che circola. “ Il mercato è il complesso delle regole che permettono a degli estranei di Lare transazioni pur restando il più possibile degli estranei. È un modo di comunicare con l’estraneo quando si vuole che resti un estraneo dopo lo scambio: quando non ci si interessa a lui ma ai suoi beni, e lui ai nostri”12. Tra compratore e acquirente non si mette in gioco la propria identità: in Quella comunicazione ciascuno rimane se stesso, senza contaminazione Addirittura «l’archetipo del mercato è l’assenza completa di legame. Il mercato permette a due estranei di comunicare a proposito delle cose senza rivolgersi la parola» 13. Il prezzo è l’esempio eclatante di questa modalità: viene fissato in anticipo, al di fuori delle considerazioni personali. al di fuori anche dei soggetti, tra due estranei che non si seducono. Il mercato è regolato dal principio «dell’equivalenza tra le cose, indipendentemente dal legame tra le persone»14. Nel dono invece «ciò che circola è al servizio del legame sociale, o almeno è condizionato dal legame sociale. Il legame e il bene sono spesso indissociabili»15.

Vediamo alcuni esempi. Vi sono dei doni in cui ciò che si dona ha un’utilità relativa o nulla: ad esempio un mazzo di fiori; la loro finalità tende ad esprimere e nutrire il legame. Talvolta il valore di legame e l’utilità sono strettamente legati, quasi condizionati l’uno all’altro. Si pensi al dono di un organo da parte della madre alla propria figlia.

Infine abbiamo il dono unilaterale fatto agli sconosciuti: la donazione di sangue, il dono di un organo dopo la morte. In questi casi i legami sociali sembrerebbero completamenti assenti. Invece tali gesti acquistano senso poiché fatti in nome della solidarietà, per cui «la loro ragion d’essere è quel legame simbolico che unisce il donatore e il donatario nell’ambito di uno stesso insieme»16. Essi rappresentano l’espressione di una gratitudine verso una comunità da cui si è stati accolti, condotti sulle strade della vita, gratuitamente. «Si amano persone che in ogni caso fanno parte della nostra stessa specie umana, perciò si ama l’umanità e, in essa, anche se stessi, ben ricordando che nessuno nasce da se stesso e che ognuno è quello che è solo grazie alla civiltà dalla quale ha ricevuto le condizioni per poter essere quello che è»17.

Da ciò ne consegue che «il circolo del dono non è solo dare e ricevere, ma è altresì ricambiare o restituire. Il rapporto di scambio è attivo-passivo sui due fronti: di chi dona e di chi riceve e a sua volta ricambia»18.

Il dono ammette il debito, anzi la cifra del dono è il riconoscimento del debito verso l’altro. Non vi è gratuità senza gratitudine. Non la restituzione, ma le forme che essa assume differenziano il dono dal mercato. Nel dono la restituzione spesso è più grande del dono: non risponde al principio di equivalenza. Ammette che l’identità del donatore, insieme a quella del ricevente, possa modificarsi. Infine, ed è l’aspetto decisivo, la restituzione è fatta liberamente. Certo è desiderata, auspicata, non esigita, richiesta obbligatoriamente, come in un contratto o nella scambio mercantile. Dunque c’è sempre un rischio di non restituzione, accettato o assunto dal donatore. Di modo che «è l’assenza di garanzia di restituzione, piuttosto che l’assenza di restituzione che caratterizza il dono»19. La restituzione è sempre implicita nel dono.

Più sono convinto che l’altro non è obbligato a restituire, più lo libero da questo obbligo, più il suo gesto sarà libero, sarà fatto in forza del nostro rapporto, nutrirà il legame, custodirà la relazione, sarà fatto per me. Ed è proprio su questo scambio libero che si fonda e costituisce la coesione sociale. Il paradosso è esattamente che una società vive e muore, si rafforza o indebolisce grazie a questi milioni di gesti quotidiani, in funzione di dar fiducia o no ad un altro membro della società, di correre il rischio che il dono non sia ricambiato. Di conseguenza «lo Stato e il mercato devono fermarsi sulla soglia in cui quel che circola (beni ma soprattutto servizi) è il legame, in cui il servizio è il legame»20. Si pensi qui al tema della giusti zia in sanità e del ruolo degli aspetti economici nelle scelte cliniche.

Ma vogliamo esemplificare quanto da noi detto su un altro versante, quello della donazione di organi.

Purtroppo ancora oggi molte persone muoiono in attesa di ricevere un organo. Per rispondere a questo dramma, almeno a livello di riflessione teorica nel mondo anglosassone, si ipotizza l’utilizzo del mercato per incrementare la disponibilità di organi. Ma se il prezzo da pagare è l’esclusione di qualsiasi forma di legame, l’operazione appare rischiosa e destinata al fallimento. Al di là della difficoltà di stabilire l’equivalenza

(quanto vale un organo?), si andrà sempre più verso un’escalation delle richieste, in cui l’unico elemento di controllo sarà il rapporto tra domanda e offerta. Ma tali fluttuazioni sono compatibili con la tutela della salute e della vita dei cittadini e con la sostenibilità anche economica di una società? In più ciò concorrerà a quello sfaldamento sociale, che ha come conseguenza la solitudine di ogni cittadino, sempre più senza legami vitali, con conseguente ulteriore difficoltà a porre gesti solidali.

Poniamoci invece nella logica del dono da noi prospettata. Punto di partenza – sia per la donazione da vivente che da cadavere – è il riconoscimento della logica del dono definito nella sua circolarità di dare, ricevere, restituire. Quindi forme di restituzione sono eticamente ammissibili, stabilite alcune condizioni.

Sono accettabili quelle forme di restituzione — nel nostro caso al donatore di organi — che non si basino sul principio di equivalenza, ma in cui sia conservato il valore di legame, con il singolo e con la comunità, che moriva la donazione. Si devono perciò escludere forme di automatismo, conservando anche simbolicamente il rischio di non restituzione, ammettendo al tempo stesso forme differenziate di restituzione.

La libertà del ricevente va custodita e tutelata, consentendo al tempo stesso espressioni di gratitudine, in grado di rafforzare il legame sociale.

Nella determinazione del soggetto/dei soggetti in grado di governare e garantire l’intero processo, occorrerà prevedere la presenza — se non affidare l’intera gestione — dei rappresentati dei mondi vitali presenti in una società, in forza di quel legame sociale che permea l’intera proposta.

Tutto ciò è possibile abbandonando un’impostazione culturale che rappresenta il dono quale scelta eroica, unidirezionale, chiusa in sé stessa:

una sorta di altruismo esasperato, che rende appunto il dono impossibile 21, irreale, e quindi non promettente, non fecondo. Gratuità e gratitudine sono invece iscritte nella relazione umana, dove l’autonomia del soggetto riconosce il debito verso l’altro per potersi esprimere e realizzare.

 

GESTIRE L’INCERTEZZA

 

A fronte di quanto abbiamo fin qui sostenuto, appare chiaro che la bioetica e i suoi quesiti si proporranno sempre più dentro una scala di grigi, difficilmente inquadrabili in formule predefinite. Questo certo non rassicura, e chiama in causa la maturità e la responsabilità delle persone.

L’incertezza appare la nuova frontiera dell’agire in campo biomedico 22. Ma davvero è una nuova questione?

Fino a qualche decennio fa un ethos condiviso, l’autorità del medico, la sudditanza del cittadino, la concentrazione del sapere scientifico, hanno permesso di controllare e gestire l’incertezza: essa era implicitamente presente, accettata, mai tematizzata. L’accresciuta consapevolezza del cittadino dei suoi diritti, segnatamente nel campo medico, il vorticoso e oggettivamente poco controllabile sviluppo tecnico-scientifico, il pluralismo morale in una società multietnica, e la conseguente difficoltà a gestire situazioni sempre nuove e sempre più complesse, hanno fatto emergere quell’indeterminatezza da sempre caratterizzante la pratica biomedica.

Accettare l’incertezza significa affrontarla, se non si vuole rimanerne schiacciati. Ma allora diventa spontaneo chiedersi quale sia il grado di incertezza che può essere tollerato. È evidente la già segnalata possibile deriva, che spazia dall’anarchia dei cittadini e dei pazienti all’arbitrio dei medici e dei ricercatori. Ma questo non è un destino segnato ed inevitabile, o almeno potrebbe non esserlo. La norma è una garanzia imprescindibile, anche se non sufficiente, perché si conservi e sviluppi il dialogo sia tra coloro che esercitano la stessa professione, sia tra questi e l’intera cittadinanza. Un dialogo che presuppone chiarezza reciproca, affermazione dei diversi punti di vista, ragioni che motivino le differenti posizioni.

Cosa dunque è necessario fare? Dipende. Il fatto che non si possa decidere una volta per tutte, sulla base di una norma generale, non significa che non ci sia nulla che davvero convenga. Vuoi dire che nella possibile diversità di scelte, va tutelato e garantito quel bene che da sempre è inscritto nella relazione umana e, nella fattispecie, nella relazione terapeutica, e che grazie appunto a questa relazione può essere riconosciuto e scelto.

 

*Mario Picozzi è docente d Medicina Legale presso

L’Università degli Studi dell’ Insubria, Tra i suoi scritti, ricordiamo:

Manuale di deontologia medica (con M. Tavani e G Salvati), Giuffrè, Milano 2007.

 

Note

1W. T. Reich (a cura di), Encyclopedia of Bioethics, The Free Press, New York 1978, vol.I, XIX.

2G. Angelini, “La questione radicale: quale idea di vita”, in Aa.Vv, La bioetica. Questione civile e problemi teorici sottesi, Glossa, Milano 1998, pp. 185-186.

3P. Cattorini, “La dimensione etica nelle terapie intensive”, in L. Chiandetti, P. Drago, G. Verlato, C. Viafora, Interventi al limite. Bioetica delle terapie intensive, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 4 1-46.

4L. Palazzani, “Personalismo e biodiritto”, in Medicina e Morale, 2005, LV(1), pp.

13 1-163.

5G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Eìnaudi, Torino 2005, p. 183.

6A. Fumagalli, “Legge civile e coscienza personale”, in C. Casalone, M. Chiodi, P Fontana, A. Fumagalli, M. Picozzi, M. Reichlin, “Il caso Welby. Una rilettura a più voci”, Aggiornamenti Sociali, 2007, 5, pp. 346-357.

7lbid.

8lbid.

9lbid.

10 Ibid., p. 355.

11 Ibid.

12. J. T. Godbout, “La circolazione mediante il dono”, in Aa.Vv., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma 1994, p. 27.

13 ibid.

14 Ibid., p. 28.

15 lbid.

16 lbid.

17 F. Buzzi, Sul significato del dono, lezione tenuta la Master Internazionale in Medical Humanities, Varese, 5luglio 2003 (copia dattiloscritta).

18 Ibid.

19 J. T. Godbout, “La circolazione mediante il dono”, in Aa.Vv., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma 1994, p. 34.

20 Ibid., p. 40.

2I Cfr. J. Derrida, Donare il tempo, Cortina, Milano 1996; Id., Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.

22 Cfr. M. Tavani, M. Picozzi, G. Salvati, Manuale di deontologia medica, Giuffrè, Milano 2007, pp. 555-559.

Tratto da:Dialoghi,Anno VIII,Luglio-Settembre 2008. Numero 3, pp.6-15.

I conti civici di Giuliana 1784-1810. Di Antonino Marchese.

giuli 

I CONTI CIVICI DI GIULIANA

1784-1810

 Di

 Ferdinando Russo

 Antonino Giuseppe Marchese,con “I Conti Civici di Giuliana “(1784-1810),pubblicato per l’Ila Palma Mazzone- Produzioni, continua, da fine storico delle comunità locali del Corleonese, la sua ricerca sulle origini dei paesi della valle del Sosio e dell’Alto Belice ,e sulla vita culturale socio-economica della sua città natale.La sua fatica storico-letteraria, mentre rende omaggio alle origini ricche di significato di Giuliana, Universitas, svolge un ruolo educativo rivolto al passato, quasi un pensiero grato agli antenati, che, con le loro virtù e con i tanti valori trasmessi, legati alla famiglia e alla vita, anche politico-amministrativa, hanno permesso a noi contemporanei di esistere.L’Amministrazione comunale, attraverso il sindaco Giuseppe Campisi, gli ha reso merito per avere portato alla luce il valore non solo dei principali monumenti, il Castello di Federico II e le chiese, ma anche le tradizioni, i culti, le sue pietre dure, il paesaggio, i suoi artisti dai Ferraro a Giacomo Santoro, a Padre Olimpio, autore del volume “Memorie antiche del Monastero di S. Maria del Bosco”,fino ai contemporanei,(la copertina de “I Conti civici” è di una giovane artista di Giuliana, Anna Iannazzo).A.G.Marchese,nei suoi scritti non ha trascurato la letteratura popolare, attenzionando uomini e figure politiche di interesse come quella di Peppe Russo, dei masnadieri  di Giuliana,degli artigiani di valore come i Colletti .Da medico poi, nelle sue ricerche, non ha dimenticato figure meritevoli di memoria: i farmacisti, i medici, le ostetriche, le mammane, i barbieri, gli aromatari. Ne ha raccontate le vite nel saggio: ”Il mortaio, la bilancia e il coccodrillo sulle botteghe degli speziali nella Corleone del settecento”. Il volume ha avuto la presentazione del presidente dell’Ordine dei medici, Salvatore Amato e del prof.Aldo Gerbino.E’ nato così “Il serpente di Esculapio” su medici, chirurghi e speziali a Chiusa Sclafani nella prima età moderna, da Giovanni Filippo Ingrassia a Francesco Di Giorgio, quasi un omaggio ai tanti stimati colleghi che hanno esercitato le professioni di medico, biologo, farmacista con spirito missionario a Giuliana e a Chiusa, quali i Russo, i Bella, i Di Giorgio, Napoli, Purrazzella, Caldarera, Scaturro, Musso, di Fede.Quest’amore per l’identità storica di Giuliana, questa cura per la memoria dei suoi figli, delle arti, della vita di relazioni sociali e culturali, è testimoniato anche dalla ricca Biblioteca personale di Marchese, inaugurata da Cataldo Naro e visitata da Vittorio Sgarbi. Raccoglie tutte le ricerche effettuate e offerte per far conoscere, al mondo degli studiosi, il paese e i suoi tesori, diventati coscienza comunitaria.E’ così accresciuta l’attenzione della locale scuola alla storia, alle vicende del passato anche recente, all’ambiente, alle colture, alle caratteristiche del territorio, sulla scia di maestri esemplari come il Maestro Pietro Bella, la maestra Francesca Bella, Vincenzo Cossentino, la preside Giuseppina di Giorgio, il prof Giuseppe Martorana, la vice Preside Maria Pia Colletti Marchese. L’attaccamento alle origini e all’identità comunitaria si è così trasferito alle presenti generazioni giovanili, attraverso i docenti e i professionisti del nostro tempo, che hanno dato esempi di nuovi studi e ricerche sulla vita religiosa e politica della città. A costoro va il nostro sincero apprezzamento. Dobbiamo evidenziare, infatti, gli apporti offerti agli approfondimenti storici su uomini e avvenimenti, studiati dal professor Giuseppe Scaturro, Vincenzo Campo, Antonietta Campisi, Maria Antonietta Russo, Di Fede, e sul piano musicale dal dott. Saro Colletti, le cui composizioni creano consensi, sempre più vasti ed ispirano i giovanissimi compositori e musici della rinata banda comunale, e nuovi Gruppi musicali.

 I giovani musicisti hanno fornito prova, nell’estate del 2008, di studio e di passione musicale, degna di un paese europeo, che nella musica trova occasione di dialogo, di socializzazione, di comunicazione universale.I Laboratori Musicali, da istituire presso i complessi scolastici, diventano  così un impegno per accogliere le proposte dei giovani  che  mostrano una rinata passione per la musica.

 Lo ricordiamo all’Amministrazione che ha inserito nel suo programma culturale integrativo alle attività scolastiche i laboratori serali per la musica, le lingue, l’informatica, le tradizioni e la fotografia, il cui interesse si è manifestato, nella recente mostra fotografica, dell’artista Vincenzo Brai sugli altari popolari d’Agosto, allestiti, lungo le vie e le piazze di Giuliana.La mostra, visitata e apprezzata dall’Arcivescovo di Monreale mons. Salvatore di Cristina, ci riporta a un’altra opera del Marchese, a “I dipinti settecenteschi del Santuario della Madonna del Balzo in Bisacquino”, ispirati dalla fede e dalla devozione.

La partecipazione popolare alle serate attorno agli altari, amorevolmente allestiti e ornati nei quartieri dagli abitanti dei luoghi, è rappresentata, nelle splendide foto di Brai, che suggeriscono una pubblicazione ad hoc. Gli altari dedicati all’Assunta mostrano quanta carica culturale e religiosa, quanta devozione alla Madonna, quale identità di gruppo possono sprigionarsi dal recupero della storia, tradizioni e manifestazioni di culto della comunità. Ed è “La festa di S. Giuseppe a Giuliana “ il titolo di un’altra opera del Nostro.

Nella prefazione, Jeanne Vibaeck scrive,: <.la festa ha sempre lo scopo di dare senso all’identità di un gruppo, confermare la solidarietà attraverso la comune partecipazione ai rituali, non importa se religiosi o laici, se di nazioni,paesi o famiglie di una o più ristretta collettività costituita da quell’unico evento>.Al ripristino di questa festa e degli altari in tutti i quartieri, è seguita la recente rappresentazione storica della Castellana, organizzata dall’amministrazione comunale, dall’impegno dell’assessore al turismo Antonella Campisi, e dalla presidente del Pro Loco Rita Purrazzella.L’evento, inserito tra gli “Itinerari turistici dei castelli di Sicilia”, ha visto il coinvolgimento di una larga ed entusiasta parte della gioventù giulianese, protagonista in assoluto della manifestazione, culminata nella partecipazione a Palermo alla festa della provincia regionale.

Ricordiamo questi avvenimenti perchè largo merito va attribuito al Dott. Marchese, tra i primi a far rivivere tradizioni, culti, canti popolari e al Pro Loco, che ha saputo alimentare l’amore alle tradizioni e recuperare momenti identitari alla comunità.

Nel libro su “I Conti Civici”, Marchese lascia da parte le tradizioni per affrontare il tema della cittadinanza politica, attraverso uno degli atti più espressivi, quello del bilancio annuale per i servizi resi dalle amministrazioni alla comunità. Il volume, presentato nei primi cento giorni della nuova amministrazione comunale, recupera il tema della partecipazione politica, partendo da lontano, con un affondo sulla situazione sociale di Giuliana, prima dell’unità d’Italia.In questa comunità, ha imparato a far politica, la generazione postbellica, accompagnata e preceduta dall’esperienza d’illustri concittadini sindaci e vice sindaci: il farmacista Ignazio Russo, il Dott.Ernesto Bella, il sig. Mariano Cicchirillo, il Cav.Luciano D’Asaro, il dott.Giuseppe Iannazzo,il sig.Franco Quartararo,Giuseppe Arcuri,il Geom.Vincenzo Martorana  ed i vice  Salvatore Cutrone, Marcianti ,Campisi,Rizzuto.

I nomi  riportati da Marchese, nel saggio  presentato dal Sindaco Giuseppe Campisi,dall’assessore alla cultura Antonella Campisi ,dal Prof.Giuseppe Bonaffini, dall’assessore alla provincia regionale Dott.Porretta, con i saluti del presidente Giovanni Avanti, dell’assessore Gigi Tomasino e dell’editore Mazzone, onorano l’opera di emersione, condotta dall’autore. Si scopre  una contabilità pubblica in cui non è mai mancata la solidarietà verso i deboli. e segna le famiglie   delle generazioni vissute  oltre due secoli fa ,con alto senso civico ,ancora oggi di insegnamento a chi partecipa alla vita politica.

I Conti Civici,studiati da Marchese, hanno i confini dal 1784 al 1810.

Un primo invito che rivolgiamo all’autore è di non fermare la sua ricerca, di riprenderla e allargarla agli anni successivi, e condurla e ultimarla fino ai nostri giorni, anche per accontentare quanti desiderano, ai nostri giorni, guardare le contabilità riferenti alla vita politica degli ultimi dieci anni. Per questo proponiamo all’autore il soggetto storico, che ha sollevato,  e che ha presentato , in prima assoluta, a Giuliana.La ricerca è propedeutica e foriera di un maggiore interesse per la realizzazione degli Archivi  storici dei comuni.Marchese, come scrive nell’introduzione, <alla storia dell’uomo vuole sostituire quella più concreta di tutti gli uomini>.

E così nel libro al nostro esame, l’autore dedica alcune interessanti pagine alle donne di Giuliana, oggi in posizione rilevante nella nuova amministrazione guidata dal sindaco Giuseppe Campisi, e che vede Anna Colletti, vice presidente del Consiglio comunale, Antonietta Altamore, e Antonietta Campisi, tra gli assessori della nuova Giunta.Marchese rileva la presenza nei secoli, presi in esame a Giuliana, di sette donne impegnate in attività sociali di solidarietà verso i bambini senza genitori e cita la presenza delle donne “cambiste”che finanziavano il comune nei momenti di bisogno con prestiti al 5-7 per cento.

I loro cognomi sono ancora presenti a Giuliana: Marino, Alduino, Principato, Calcara, ma l’attenzione primaria di Marchese è per i nomi di coloro che ci hanno amministrato-e così <Lo storico impedisce loro di morire>.Sono i Rollo, (Mastro Leonardo Rollo), i Russo, tra i tanti cognomi che ritroviamo dei concittadini odierni: Verde,Cavallino, Calcara,Cossentino (la locanda di Tommaso Cossentino), Amodei, Musso.

Marchese mostra di avere assorbito la lezione degli storici A. Goff e Marc Bloc. Il primo scrive:<Si può affermare che tutta la storia si situa nella produzione di documenti e nella decifrazione dei documenti che chiamiamo fonti. Così s’innesca un momento della storia che è raccontato, annotata e che costituisce la memoria scritta, grande necessità dell’umanità che non vuole scomparire, riporta uomini e donne vive allo storico e lo storico impedisce loro di morire>.Forse anche per questo non sono pochi i medici come Marchese che fanno gli storici, da Pitrè al vicino dott. Di Giorgio da Chiusa Sclafani, facendo sì che gli abitanti centenari, che nelle comunità sicane che hanno il record anagrafico, possano continuare a vivere nella memoria.Block, ci ricorda Marchese, aveva individuato un flusso storico bipolare tra passato e presente nell’affermazione:<il mestiere di storico è tanto quello di comprendere il passato attraverso il presente, quanto quello di comprendere il presente attraverso il passato>.

 

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Antonino Giuseppe Marchese, I conti civici di Giuliana 1784-1810,Ila Palma,2008.

Il cardinale e lo storico fanno apologia misericordiosa della promiscuità

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di Giuliano Ferrara

“La prossimità corporea delle persone prima del matrimonio è un fatto”, dice eufemisticamente il cardinal Martini. E’ vero: i ragazzi e le ragazze, anzi ragazzini e ragazzine (e poi su su con l’età le cose cambiano ma non di molto) scopano come pare a loro, e piace (non sempre piace, per la verità). Martini ne desume che la chiesa non ha riconosciuto questa realtà, le si è messa contro, ha perso autorevolezza, e quindi dovrebbe chiedere scusa per l’enciclica Humanae vitae scritta da Paolo VI nel 1968, il testo che diede scandalo e mise il Papa in una situazione di tormentosa solitudine.
Per Martini la decisione se fare o no un figlio è un atto di responsabilità individuale, di “autodeterminazione”, per riprendere la parola fatale di cui abbiamo discusso a partire dalla abiura di Roberta de Monticelli; e dunque l’uso di scopare liberamente ma con il palloncino o la pillola di tutti i giorni o del giorno dopo, ed eventualmente un veniale aborto in caso di fallimento, è parte di un complesso culturale e psicologico diffuso, un orientamento di massa da convalidare rinnegando la parola degli ultimi tre papi. Bene.
In sostegno al cardinale arriva lo storico Adriano Prosperi. Prosperi fa sempre la stessa operazione. Se qualcuno afferma che l’aborto è divenuto un gesto moralmente indifferente, che trentacinque anni dopo la sentenza americana Roe vs. Wade e trent’anni dopo le legislazioni europee l’aborto non è più depenalizzato per sanare la piaga della clandestinità ma legittimato da una oscena cultura di morte che si incarna anche in politiche pubbliche eugenetiche in tutto il mondo, lo storico insigne ti spiega che nei secoli la chiesa e la medicina repressive obbligavano le donne a partorire e martoriavano il loro corpo. Segue lezione di progressismo morale e implicita rilegittimazione dell’aborto di massa indifferente, e del martirio subito nel presente, non ad opera della chiesa ma della cultura secolare, dal corpo delle donne.
Così per il sesso in generale. In appoggio a Martini, e contro Benedetto XVI, Prosperi racconta secoli di controllo dei preti sulla riproduzione, sul matrimonio, e bolla questa lunga e complicata storia come l’epoca in cui l’amore veniva domato o addomesticato per ragioni di potere sui corpi, sulle anime, sui patrimoni, di concerto tra chiesa e autorità civile. Il magistero tradizionale della chiesa era così oscurantista che si fondava, fino al Concilio Vaticano II, sulla scomparsa dell’amore umano dall’orizzonte della fede e della carità, quando il prete si intrufolava nella camera da letto dei coniugi. Segue lezione d’amore, richiesta di scuse alla chiesa, in sintonia con il cardinale, e condanna degli ultimi tre papati che non si accorgono della libera sessualità dei fedeli neanche quando raccolgono palloncini dopo le Giornate Mondiali della Gioventù a Torvergata o a Sidney.
Penso anche io che “la prossimità corporea delle persone prima del matrimonio è un fatto”, ci mancherebbe, ma non ne deduco che l’ultima istituzione capace di ragionare d’amore, cioè la chiesa con la sua dottrina cattolica e la cultura cristiana in generale, debba rinunciare alla propria esperienza e alla parola razionale per prosternarsi in un mea culpa di fronte alla libera libido moderna. Perché mai? Può essere, e lo dico da laico, lo dico accettando senza obblighi di coscienza e di fede la diagnosi e le indicazioni di Benedetto XVI e dei suoi predecessori, può essere che la “prossimità”, la promiscuità, il divorzio, l’aborto, l’infertilità generalizzata siano testimonianze straordinarie di amore moderno, ma può essere vero il contrario. Vogliamo continuarla questa discussione, o vogliamo chiuderla con le scuse oscurantiste della chiesa cattolica, con una bella abiura, e con il trionfo del secolarismo più invadente, ideologico e saccente?

Giuliano Ferrara
il foglio.it

7/10/2008

IL SENSO DELLA VITA NASCOSTO NELLA DEPRESSIONE…

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di Antonio Socci

A proposito di Buffon e delle suore…

 

Cosa dà senso alla vita? Cosa le dà valore e gusto? Il soldi? Il successo? La salute? Per cosa vale la pena vivere? Mi ha colpito, in questi giorni, il casuale intrecciarsi sui giornali di storie apparentemente lontanissime. Tre storie.

Quella di Gigi Buffon, il portierone della Juventus e della Nazionale, quella di Eluana Englaro e quella di altre due donne, Maria Teresa Olivero e Caterina Giraudo, sequestrate cinque giorni fa in Kenia dove vivono come missionarie.

Buffon ha pubblicato un libro dove racconta la sua storia: “Numero 1”. Secondo il senso comune questo allegro giovanottone ha tutto per essere felice. Cosa gli manca? E’ il più grande portiere del mondo, ha la giovinezza, la salute, la celebrità, la prestanza fisica, il successo, i soldi, gli amori, gli amici, un lavoro che è la sua passione, perfino un carattere solare, la simpatia e il buonumore. Non gli manca niente.

Eppure proprio lui racconta come un giorno di dicembre del 2003 gli si è spalancato sotto i piedi l’abisso della depressione. Senza motivi particolari. Un velo scuro sempre più opprimente, uno smarrimento progressivo: “cosa mi succedeva?”. Racconta di momenti in cui si sentiva sprofondare: “ero impaurito… mi tremavano le gambe all’improvviso, un malessere continuo mi attraversava… come se fossi continuamente altrove”.

Quello di Buffon non è un caso strano. In forme diverse è quasi la normalità per i cosiddetti “uomini di successo”. Cesare Pavese diceva: “c’è qualcosa di peggio del fallire nei propri progetti: è riuscirci”. Perché è lì, quando sei “arrivato”, quando stringi fra le mani quello che volevi possedere, che avverti il nulla e ti scopri insoddisfatto, destabilizzato. Tanto da smarrirti.

Per superare questo senso “di paura e insicurezza” Buffon si è fatto aiutare. E comunque un giorno, d’improvviso, il sole è tornato: paradossalmente è tornato a splendere proprio con “l’orrenda partita Italia-Danimarca 0-0”, a dimostrazione che davvero il “male di vivere” non dipende da circostanze negative. Ma sta nell’anima.

L’uscita del tunnel

Oggi il celebre calciatore racconta cosa comprese all’uscita dal tunnel: “I soldi non sono tutto. In testa mi rimbalzavano queste parole. E all’improvviso capii quanto fossero vere. Mi resi conto che in certe situazioni i soldi con la tua vita non c’entrano nulla, non c’entrano coi tuoi valori, con quello che hai imparato, che impari ogni giorno e che puoi trasmettere a chi ti sta accanto”.

Quel gorgo oscuro – che sembrerebbe solo una disgrazia – in realtà gli ha lasciato un regalo prezioso, una consapevolezza più vera della vita, di ciò per cui vale la pena vivere. Tante cose possono farci capire meglio l’esistenza e renderci più umani e più saggi. Anche circostanze dolorose. Tutto può aprirci gli occhi e rivelarsi una carezza misteriosamente amica che dà una percezione più giusta della vita, che rende più autentici. Sì, perfino il dolore.

Proprio attraverso di esso alcuni hanno fatto incontri che hanno dato senso alla loro vita, sono diventati uomini eccezionali che danno speranza agli altri. Perle preziose. E’ il caso – per citare un altro campione del calcio – di Stefano Borgonovo che, a 44 anni, dopo la gloria dei prati verdi si è scoperto ammalato di Sla, una tremenda croce che gli impedisce ogni movimento, cosicché da tre anni vive su un letto, attaccato a un respiratore. La mentalità di oggi definirebbe tutto questo “un inferno”.

E invece chi ha incontrato Stefano, chi ha visto l’amore da cui è circondato dalla sua bella famiglia, chi ha potuto stupirsi dalla luce, dalla positività e dalla forza che emanano dal suo volto, come tanti amici calciatori (a partire da Roberto Baggio), commossi dalla sua umanità (due mesi fa gli hanno dedicato una partita allo stadio di Firenze, con lui a bordo campo) ebbene chi lo ha incontrato testimonia che è difficile trovare un uomo così vero, umano e appassionato alla vita. Uomini così sono la speranza del mondo.

Sembra incredibile, ma c’è un’impressionante quantità di persone così speciali che – nella malattia – vivono una vita più piena e umana di noi che magari scoppiamo di salute, ma non sappiamo perché siamo al mondo. Si può fare a meno di tutto, ma non del senso dell’esistenza. Che è la cosa essenziale e misteriosa che ti manca quando sembra non ti manchi niente. Tutto in noi lo desidera, lo cerca. Siamo come mendicanti, senza saperlo.

Non sapere chi sei e perché stai al mondo, non percepire l’utilità della tua esistenza, non sentirsi amati e non amare: questo è l’inferno. Non la mancanza di denaro o di salute.

Spettro della solitudine

Soldi, successo e salute non mettono al riparo dalla solitudine, dalla tristezza e dalla disperazione. Anzi, la nostra epoca mostra il contrario. Lo prova l’uso industriale che nelle società opulente si fa di psicofarmaci, alcol e droghe, cioè di trucchi chimici per eludere il “male di vivere”. L’uso compulsivo e congestionato del sesso, che caratterizza il nostro tempo di pornomania di massa, è un’altra droga per anestetizzare la solitudine, la sensazione d’inesistenza che ci avvolge.

Non c’è sciagura più grande, diceva Teilhard de Chardin, della perdita del gusto di vivere. Questa infelicità è un’epidemia dilagante. Nel mondo si verifica un suicidio ogni 40 secondi, un milione di morti l’anno. Secondo l’Oms dal 1950 al 1995 la percentuale dei suicidi è cresciuta del 60 per cento. In Italia se ne contano 4000 ogni anno ed è molto significativo che l’area più “colpita” sia il Nord-Est (Friuli 9,8 per cento), mentre la percentuale più bassa di suicidi si registra in Campania (2,6 per cento). Prova ulteriore che davvero non è il benessere economico, né il contesto sociale degradato, né la difficoltà materiale della vita a definire l’infelicità.

Per questo mi chiedo se la rappresentazione del presente che continuamente facciamo su giornali e televisione sia giusta. Non parliamo che di soldi, di bollette, di mutui, di sprechi, di tagli, di questioni sociali. Cose importanti – sia chiaro – ma la realtà è tutta qui? Noi siamo solo i nostri problemi sociali?

La risorsa della speranza

Siamo sicuri che il benessere che inseguiamo, come meta unica e assoluta, sia veramente la felicità? Certi ripetitivi programmi di informazione fanno pensare a una battuta di Bruce Marshall: “Oggi la gente vive nel benessere senza gioia. In fondo a una lunga sfilata di bollette della luce, del telefono e del gas, non intravede altro che il conto delle Onoranze funebri”.

Eppure ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne veda la filosofia marxisteggiante ed economicista che ci domina: le cose che rendono la vita degna di essere vissuta, per le quali si può dare tutto, di solito sono oscurate. Perché non parlarne? Perché non raccontare le tante persone che testimoniano una speranza più grande delle difficoltà e delle sofferenze?

Dal rapimento, cinque giorni fa, delle due suore italiane in Kenia, scopriamo che ci sono fra noi persone – di cui i media non si occupano – che sono capaci di scelte di vita eccezionali, di un eroismo quotidiano (così pure le suore che da anni assistono amorevolmente Eluana). Perché lo fanno? Da cosa sono mosse? Cos’hanno conosciuto loro che noi non sappiamo? Quale tesoro hanno trovato che sa trasformare il dolore in amore? Abbiamo bisogno di saperlo, perché scoprire la speranza, per un popolo, è più importante che scoprire il petrolio.

E’ la risorsa più preziosa, come dimostra la nostra storia. Come c’insegnò don Giussani all’indomani di Nassiriya, davanti alla testimonianza della moglie del brigadiere Coletta. Nel dopoguerra avevamo un paese in ginocchio, uno stato a pezzi, un popolo sconfitto. Ed eravamo già prima una terra povera, senza materie prime. Eppure la nostra gente seppe esprimere un’energia inaudita che, nel giro di pochi anni, ci ha trasformato in una grande potenza economica. Da quali radici dimenticate è venuta quell’energia morale? Da quale speranza? Quale sconosciuta gioia di vivere sa ricostruire sulle macerie?

Antonio Socci

Da Libero, 16 novembre 2008